• Le coût du travail humain reste généralement inférieur à celui de l’IA, d’après le MIT FashionNetwork.com ( Bloomberg )

    Pour le moment, employer des humains reste plus économique que de recourir à l’intelligence artificielle pour la majorité des emplois. C’est en tout cas ce qu’affirme une étude menée par le Massachusetts Institute of Technology, alors que bon nombre de secteurs se sentent menacés par les progrès faits par l’IA.

    Il s’agit de l’une des premières études approfondies réalisées à ce sujet. Les chercheurs ont établi des modèles économiques permettant de calculer l’attractivité de l’automatisation de diverses tâches aux États-Unis, en se concentrant sur des postes “digitalisables“, comme l’enseignement ou l’intermédiation immobilière.

    Source : https://fr.fashionnetwork.com/news/premiumContent,1597548.html

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  • Così l’Italia ha svuotato il diritto alla trasparenza sulle frontiere

    Il Consiglio di Stato ha ribadito la inaccessibilità “assoluta” degli atti che riguardano genericamente la “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”. Intanto le forniture milionarie del governo a Libia, Tunisia ed Egitto continuano.

    L’Italia fa un gigantesco e preoccupante passo indietro in tema di trasparenza sulle frontiere e di controllo democratico dell’esercizio del potere esecutivo. Su parte delle nostre forniture milionarie alla Libia, anche di natura militare, per bloccare le persone rischia infatti di calare un velo nero. A fine 2023 il Consiglio di Stato ha pronunciato una sentenza che riconosce come non illegittima la “assoluta” inaccessibilità di quegli atti della Pubblica amministrazione che ricadono genericamente nel settore di interesse della “gestione delle frontiere e dell’immigrazione”, svuotando così di fatto l’istituto dell’accesso civico generalizzato che è a disposizione di tutti i cittadini (e non solo dei giornalisti). Non è un passaggio banale dal momento che la conoscenza dei documenti, dei dati e delle informazioni amministrative consente, o meglio, dovrebbe consentire la partecipazione alla vita di una comunità, la vicinanza tra governanti e governati, il consapevole processo di responsabilizzazione della classe politica e dirigente del Paese. Ma la teoria traballa. E ne siamo testimoni.

    Breve riepilogo dei fatti. Il 21 ottobre 2021 l’Agenzia industrie difesa (Aid) -ente di diritto pubblico controllato dal ministero della Difesa- stipula un “Accordo di collaborazione” con la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere in seno al ministero dell’Interno. Fu il Viminale -allora guidato dalla prefetta Luciana Lamorgese, che come capo di gabinetto ebbe l’attuale ministro, Matteo Piantedosi- a rivolgersi all’Agenzia, chiedendole “la disponibilità a fornire collaborazione per iniziative a favore dei Paesi non appartenenti all’Unione europea finalizzate al rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. L’accordo dell’ottobre di tre anni fa riguardava una cooperazione “da attuarsi anche tramite la fornitura di mezzi e materiali” per dare impulso alla seconda fase del progetto “Support to integrated border and migration management in Libya”.

    Il Sibmmil è legato finanziariamente al Fondo fiduciario per l’Africa, istituito dalla Commissione europea a fine 2015 al dichiarato scopo di “affrontare le cause profonde dell’instabilità, degli spostamenti forzati e della migrazione irregolare e per contribuire a una migliore gestione della migrazione”. La prima “fase” del progetto è dotata di un budget di 46,3 milioni di euro, la seconda, quella al centro dell’accordo tra Aid e ministero dell’Interno, di 15 milioni. A beneficiare di queste forniture (navi, formazione, equipaggiamenti, tecnologie), come abbiamo ricostruito in questi anni, sono state soprattutto le milizie costiere libiche, che si sono rese responsabili di gravissime violazioni dei diritti umani. Nel 2022, pochi mesi dopo la stipula dell’accordo, abbiamo inoltrato come Altreconomia un’istanza di accesso civico alla Aid -allora guidata dall’ex senatore Nicola Latorre, sostituito dal dicembre scorso dall’accademica Fiammetta Salmoni- per avere la copia del testo e degli allegati.

    La richiesta fu negata richiamando a mo’ di “sostegno normativo” un decreto del ministero dell’Interno datato 16 marzo 2022 (ancora a guida Lamorgese). L’oggetto di quel provvedimento era l’aggiornamento della “Disciplina delle categorie di documenti sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Un’apparente formalità. Il Viminale, però, agì di sostanza, includendo tra i documenti ritenuti “inaccessibili per motivi attinenti alla sicurezza, alla difesa nazionale ed alle relazioni internazionali” anche quelli “relativi agli accordi intergovernativi di cooperazione e alle intese tecniche stipulati per la realizzazione di programmi militari di sviluppo, di approvvigionamento e/o supporto comune o di programmi per la collaborazione internazionale di polizia, nonché quelli relativi ad intese tecnico-operative per la cooperazione internazionale di polizia inclusa la gestione delle frontiere e dell’immigrazione”.

    Il 16 gennaio 2023 Roma e Ankara hanno firmato un memorandum per “procedure operative standard” per il distacco in Italia di “esperti della polizia nazionale turca”

    Non solo. In quel decreto si schermava poi un altro soggetto sensibile: Frontex. Vengono infatti classificati come inaccessibili anche i “documenti relativi alla cooperazione con l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera (appunto Frontex, ndr), per la sorveglianza delle frontiere esterne dell’Unione europea coincidenti con quelle italiane e che non siano già sottratti all’accesso dall’applicazione di classifiche di riservatezza Ue”. Così come le “relazioni, rapporti ed ogni altro documento relativo a problemi concernenti le zone di confine […] la cui conoscenza possa pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale o le relazioni internazionali”.

    È per questo motivo che lo definimmo il “decreto che azzera la trasparenza sulle frontiere”, promuovendo di lì a poco un ricorso al Tar -grazie agli avvocati Giulia Crescini, Nicola Datena, Salvatore Fachile e Ginevra Maccarone dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione e membri del progetto Sciabaca&Oruka- contro i ministeri dell’Interno, della Difesa, della Pubblicazione amministrazione, oltreché l’Agenzia industrie difesa (Aid), proprio per vedere riconosciuto il diritto all’accesso civico generalizzato. In primo grado, però, il Tar del Lazio ci ha dato torto.

    Ed eccoci arrivati al Consiglio di Stato, il cui pronunciamento, pubblicato a metà novembre 2023, ha ritenuto infondato il nostro appello, riconoscendo come “fonte di un divieto assoluto all’accesso civico generalizzato”, non sorretto perciò da alcuna motivazione, proprio quel decreto ministeriale firmato Luciana Lamorgese del marzo 2022. “All’ampliamento della platea dei soggetti che possono avvalersi dell’accesso civico generalizzato corrisponde un maggior rigore normativo nella previsione delle eccezioni poste a tutela dei contro-interessi pubblici e privati”, hanno scritto i giudici della quarta sezione.

    I legali che ci hanno accompagnato in questo percorso non la pensano allo stesso modo. “Il Consiglio di Stato ha affermato che il decreto ministeriale del 16 marzo 2022, una fonte secondaria, non legislativa, adottata in attuazione della disciplina del diverso istituto dell’accesso documentale, abbia introdotto nell’ordinamento un limite assoluto all’accesso civico, che può essere invocato dalla Pubblica amministrazione senza che questa sia tenuta a fornire alcuna motivazione in merito alla sua ricorrenza.

    Si tratta di un’evidente elusione del dettato normativo, che prevede in materia una riserva assoluta di legge”, osservano le avvocate Crescini e Maccarone. Che aggiungono: “I giudici hanno respinto anche la censura relativa all’assoluta genericità del limite introdotto con il decreto ministeriale, che non individua precisamente le categorie di atti sottratti all’accesso, ma al contrario solo il settore di interesse, cioè la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, essendo idoneo a ricomprendere qualunque tipologia di atto, documento o dato, di fatto svuotando di contenuto l’istituto”. Questa sentenza del Consiglio di Stato rischia di rappresentare un precedente preoccupante. “L’accesso civico è uno strumento moderno che avrebbe potuto garantire la trasparenza degli atti della Pubblica amministrazione secondo canoni condivisibili che rispecchiano le esigenze che si sono cristallizzate in tutta Europa nel corso degli ultimi anni -riflettono le avvocate-. Tuttavia con questa interpretazione l’istituto viene totalmente svuotato di significato, costringendoci a fare un passo indietro di notevole importanza in tema di trasparenza, che è chiamata ad assicurare l’effettivo andamento democratico di un ordinamento giuridico”.

    I mezzi guardacoste che l’Italia si appresta a cedere quest’anno alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno tunisino sono sei

    Le forniture italiane per ostacolare i transiti, intanto, continuano. Negli ultimi mesi la Direzione centrale dell’Immigrazione e della polizia delle frontiere del Viminale -retta da Claudio Galzerano, già a capo di Europol- ha ripreso con forza a bandire gare o pubblicare, a cose fatte, affidamenti diretti. Anche per trasferte o distacchi in Italia di “ufficiali” libici, tunisini, ivoriani o “esperti della polizia nazionale turca”. La delegazione della Libyan coast guard and port security, ad esempio, è stata portata dal 15 al 18 gennaio di quest’anno alla base navale della Guardia di Finanza a Capo Miseno (NA) per una “visita tecnica”. Nei mesi prima altre “autorità libiche” erano state formate alle basi di Gaeta (LT) o Capo Miseno. Gli ufficiali della Costa d’Avorio sono stati in missione dal 30 ottobre scorso al 20 gennaio 2024 “in materia di rimpatri”. Sono stati portati nei punti caldi di Lampedusa e Ventimiglia.

    Al dicembre 2023 risale invece la firma dell’accordo tra la Direzione centrale e il Comando generale della Gdf per la fornitura di navi, assistenza, manutenzione, supporto tecnico-logistico a beneficio di Libia, Tunisia ed Egitto. Obiettivo: il “rafforzamento delle capacità nella gestione delle frontiere e dell’immigrazione e in materia di ricerca e soccorso in mare”. Proprio alla Guardia nazionale del ministero dell’Interno di Tunisi finiranno sei guardacoste litoranei della classe “G.L. 1.400”, con servizi annessi del tipo “consulenza, assistenza e tutoraggio”, per un valore di 4,8 milioni di euro (i soldi li mette il Viminale, i mezzi e la competenza la Guardia di Finanza). Navi ma anche carburante. A inizio gennaio di quest’anno il direttore Galzerano, dietro presunta richiesta di non ben precisate “autorità tunisine”, ha approvato la spesa di “nove milioni di euro circa” (testualmente) per “il pagamento del carburante delle unità navali impegnate nella lotta all’immigrazione clandestina e nelle operazioni di ricerca e di soccorso” nelle acque tunisine. Dove hanno recuperato le risorse? Da un fondo ministeriale dedicato a “misure volte alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al potenziamento della sicurezza nelle strutture aeroportuali e nelle principali stazioni ferroviarie anche attraverso imprescindibili misure di cooperazione internazionale”. Chissà quale sarà la prossima fermata.

    https://altreconomia.it/cosi-litalia-ha-svuotato-il-diritto-alla-trasparenza-sulle-frontiere
    #Tunisie #Egypte #transparence #Agenzia_industrie_difesa (#Aid) #Support_to_integrated_border_and_migration_management_in_Libya (#Sibmmil) #Fonds_fiduciaire_pour_l'Afrique #gardes-côtes_libyens #Frontex

  • #Frontex, Cutro è un ricordo sbiadito: sorvegliare dall’alto resta la priorità

    Un anno dopo la strage, l’Agenzia europea della guardia di frontiera investe ancora su velivoli per sorvolare il Mediterraneo. Dal 2016 a oggi la spesa supera mezzo miliardo di euro. Una strategia dagli esiti noti: più respinti e più morti

    Frontex è pronta a investire altri 158 milioni di euro per sorvegliare dall’alto il Mediterraneo. A un anno dal naufragio di Steccato di Cutro (KR), costato la vita a 94 persone, la strategia dell’Agenzia che sorveglia le frontiere esterne europee non cambia. Anzi, si affina con “occhi” sempre più efficaci per rintracciare e osservare dall’alto le imbarcazioni in difficoltà. “Si continua a pensare che Frontex sia un’innocua gregaria degli Stati, senza responsabilità -spiega Laura Salzano, docente di diritto dell’Ue presso l’Università di Barcellona-. Ma in mare, sempre di più, le sue attività hanno conseguenze dirette sulla vita delle persone”.

    Lo racconta, in parte, anche la strage di Cutro del 26 febbraio 2023. Alle 22.26 della sera prima infatti fu l’Agenzia, attraverso il velivolo “Eagle 1”, a individuare per prima la “Summer love” e a segnalarla, quand’era a circa 40 miglia delle coste crotonesi, al Frontex coordination centre. Da Varsavia le coordinate della nave furono girate alle autorità competenti: tra queste anche l’International coordination centre (ICC) di Pratica di mare (RM) in cui, allo stesso tavolo, siedono le autorità italiane e la stessa Agenzia che ha il dovere di monitorare quello che succede. “Nonostante fosse noto che c’erano persone nella ‘pancia della nave’ e il meteo stesse peggiorando, si è deciso di attivare un’operazione di polizia e non di ‘ricerca e soccorso’ -spiega Salzano-. Questa classificazione a mio avviso errata è responsabilità anche dell’Agenzia”. Un errore che potrebbe aver inciso anche sul ritardo nei soccorsi.

    Lo stabilirà la Procura di Crotone che, a metà gennaio 2024, non ha ancora chiuso le indagini sulla strage. Qualcosa di quanto successo quella sera, però, si sa già, perché il processo contro i presunti manovratori dell’imbarcazione è già in fase di dibattimento. “La prima barca della Guardia costiera -spiega Francesco Verri, avvocato di decine di familiari delle vittime- arriva sul luogo del naufragio alle 6.50, quasi tre ore dopo il naufragio: salva due persone ma recupera anche il cadavere di un bambino morto di freddo. Perché ci hanno impiegato così tanto tempo per percorrere poche miglia nautiche? Sulla spiaggia la pattuglia è arrivata un’ora e 35 minuti dopo il naufragio. Da Crotone a Cutro ci vogliono dieci minuti di macchina”. Domande a cui dovranno rispondere le autorità italiane.

    Al di là delle responsabilità penali, però, quanto successo quella notte mostra l’inadeguatezza del sistema dei soccorsi di cui la sorveglianza aerea è un tassello fondamentale su cui Frontex continua a investire. Con importi senza precedenti.

    Quando Altreconomia va in stampa, a metà gennaio, l’Agenzia sta ancora valutando le offerte arrivate per il nuovo bando da 158 milioni di euro per due servizi di monitoraggio aereo: uno a medio raggio, entro le 151 miglia nautiche dall’aeroporto di partenza (budget di 100 milioni), l’altro a lungo raggio che può superare le 401 miglia di distanza (48 milioni).

    https://pixelfed.zoo-logique.org/i/web/post/658926323750966119

    Documenti di gara alla mano, una delle novità più rilevanti riguarda i cosiddetti “Paesi ospitanti” delle attività di monitoraggio: si prevede infatti espressamente che possano essere anche Stati non appartenenti all’Unione europea. In sostanza: il velivolo potrebbe partire da una base in Tunisia o Libia; e, addirittura, si prevede che un host country liaison officer, ovvero un agente di “contatto” delle autorità di quel Paese, possa salire a bordo dell’aeromobile. “Bisogna capire se sarà fattibile operativamente -sottolinea Salzano-. Ma non escludere questa possibilità nel bando è grave: sono Paesi che non sono tenuti a rispettare gli standard europei”.

    Mentre lavora per dispiegare la sua flotta anche sull’altra sponda del Mediterraneo, Frontex investe sulla “qualità” dei servizi richiesti. Nel bando si richiede infatti che il radar installato sopra il velivolo sia in grado di individuare (per poi poter fotografare) un oggetto di piccole dimensioni a quasi dieci chilometri di distanza e uno “medio” a quasi 19. Prendendo ad esempio il caso delle coste libiche, più la “potenza di fuoco” è elevata più il velivolo potrà essere distante dalle coste del Nordafrica ma comunque individuare le imbarcazioni appena partite.

    La distanza, in miglia nautiche, che l’ultimo bando pubblicato da Frontex nel novembre 2023 prevede tra l’aeroporto di partenza del velivolo e l’area di interesse da sorvolare è di 401 miglia. Nella prima gara riguardante questi servizi, pubblicata dall’agenzia nell’agosto 2016, la distanza massima prevista era di 200 miglia

    Frontex sa che, oltre alla componente meccanica, l’efficienza “tecnica” dei suoi droni è fondamentale. Per questo il 6 e 7 settembre 2023 ha riunito a Varsavia 16 aziende del settore per discutere delle nuove frontiere tecnologiche dei “velivoli a pilotaggio remoto”. A presentare i propri prodotti c’era anche l’italiana Leonardo Spa, leader europeo nel settore aerospaziale e militare, che già nel 2018 aveva siglato un accordo da 1,6 milioni di euro per fornire droni all’Agenzia.

    L’ex Finmeccanica è tra le 15 aziende che hanno vinto i bandi pubblicati da Frontex per la sorveglianza aerea. Se si guarda al numero di commesse aggiudicate, il trio formato da DEA Aviation (Regno Unito), CAE Aviation (Stati Uniti) ed EASP Air (Spagna) primeggia con oltre otto contratti siglati. Valutando l’importo delle singole gare, a farla da padrone sono invece due colossi del settore militare: la tedesca Airbus DS e la Elbit System, principale azienda che rifornisce l’esercito israeliano, che si sono aggiudicate in cordata due gare (2020 e 2022) per 125 milioni di euro. Dal 2016 a oggi, il totale investito per questi servizi supera i cinquecento milioni di euro.

    “La sorveglianza è una delle principali voci di spesa dell’Agenzia -spiega Ana Valdivia, professoressa all’Oxford internet institute che da anni analizza i bandi di Frontex- insieme a tutte le tecnologie che trasformano gli ‘eventi reali’ in dati”. E la cosiddetta “datificazione” ha un ruolo di primo piano anche nel Mediterraneo. “La fotografia di una barca in distress ha un duplice scopo: intercettarla ma anche avere un’evidenza digitale, una prova, che una determinata persona era a bordo -aggiunge Valdivia-. Questa è la ‘sorveglianza’: non un occhio che ci guarda giorno e notte, ma una memoria digitale capace di ricostruire in futuro la nostra vita. Anche per i migranti”. E per chi è su un’imbarcazione diretta verso l’Europa è vitale a chi finiscono le informazioni.

    Nell’ultimo bando pubblicato da Frontex, si prevede che “il contraente trasferirà i dati a sistemi situati in un Paese terzo se è garantito un livello adeguato di protezione”. “Fanno finta di non sapere che non possono farlo -aggiunge Salzano- non potendo controllare che Paesi come la Tunisia e la Libia non utilizzino quei dati, per esempio, per arrestare le persone in viaggio una volta respinte”. Quello che si sa, invece, è che quei dati -nello specifico le coordinate delle navi- vengono utilizzate per far intervenire le milizie costiere libiche. Per questo motivo i droni si avvicinano sempre di più alla Libia. Se nel 2016 l’Agenzia, nella prima gara pubblicata per questa tipologia di servizi, parlava di area operativa nelle “vicinanze” con le coste italiane e greche, fino a 200 miglia nautiche dall’aeroporto di partenza, dal 2020 in avanti questa distanza ha superato le 401 miglia.

    Lorenzo Pezzani, professore associato di Geografia all’università di Bologna, ha esaminato giorno per giorno i tracciati di “Heron”, il più importante drone della flotta di Frontex: nel 2021 l’attività di volo si è concentrata tra Zuara e Tripoli, il tratto di costa libica da cui partiva la maggior parte delle barche.

    “Il numero di respingimenti delle milizie libiche -spiega Pezzani autore dello studio “Airborne complicity” pubblicato a inizio dicembre 2022- cresce all’aumentare delle ore di volo del drone e allo stesso tempo la mortalità non diminuisce, a differenza di quanto dichiarato dall’Agenzia”. Che tramite il suo direttore Hans Leijtens, entrato in carica a pochi giorni dal naufragio di Cutro, nega di avere accordi o rapporti diretti con la Libia. “Se è così, com’è possibile che un drone voli così vicino alle coste di uno Stato sovrano?”, si chiede Salzano. Chi fornirà il “nuovo” servizio per Frontex dovrà cancellare le registrazioni video entro 72 ore. Meglio non lasciare troppe tracce in giro.

    https://altreconomia.it/frontex-cutro-e-un-ricordo-sbiadito-sorvegliare-dallalto-resta-la-prior
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  • L’autre menace pour Gaza : sols et air pollués, eau contaminée
    https://www.lemonde.fr/international/article/2024/02/01/sols-pollues-armes-au-phosphore-eau-contaminee-a-gaza-la-crise-sanitaire-pou

    L’autre menace pour Gaza : sols et air pollués, eau contaminée
    Si les attaques israéliennes ont déjà provoqué plus de 25 000 morts dans la bande de Gaza, leurs conséquences sur l’environnement des habitants les exposent à des risques tout aussi fatals.
    [...]

    Les bombardements israéliens sur Gaza, menés en représailles de l’attaque du Hamas le 7 octobre 2023, tuent des centaines de Palestiniens chaque jour. Selon le Bureau de la coordination des affaires humanitaires de l’ONU (OCHA), plus de 25 000 personnes ont été tuées par les offensives successives d’Israël depuis quatre mois, et 85 % des 2,1 millions d’habitants de l’enclave palestinienne ont été déplacés. Mais ces attaques pourraient avoir d’autres conséquences fatales pour les Gazaouis.

    « Les opérations militaires israéliennes à Gaza ont des conséquences désastreuses, notamment à cause d’une pollution carbone énorme, que ce soit dans l’air, l’eau, les sols, exposant les Palestiniens à un large panel de substances toxiques », explique au Monde le Canadien David R. Boyd, rapporteur spécial des Nations unies sur les droits humains et l’environnement. En octobre 2023, l’organisation Human Rights Watch avait révélé que du phosphore blanc, une substance toxique inflammable à l’apparence jaunâtre, pouvant brûler jusqu’à une température de 800 °C, avait été utilisé par Israël à Gaza et dans le sud du Liban.

    L’ONG a analysé des séries d’images, concluant à l’emploi de « projectiles d’artillerie au phosphore blanc de 155 mm ». Selon l’Organisation mondiale de la santé (OMS), une personne rentrant directement en contact avec du phosphore blanc risque des nausées, des vomissements et des diarrhées, des douleurs abdominales sévères, des sensations de brûlure. « La mort peut advenir sous vingt-quatre à quarante-huit heures à cause d’un collapsus cardiovasculaire », complète l’agence fédérale américaine de santé publique. L’utilisation de cette substance par Israël sur Gaza est « une grave violation du droit international », ajoute M. Boyd.

    En 2009, Israël avait admis avoir « utilisé des munitions contenant du phosphore blanc » pendant son offensive militaire contre Gaza, entre décembre 2008 et janvier 2009, précisant qu’elles « ne visaient pas directement les zones civiles ».

    Destruction de terrains agricoles
    Plus de 25 000 tonnes de bombes auraient été larguées sur la bande de Gaza entre le 7 octobre et le début du mois de novembre 2023, estime l’ONG Euromed Droits, qui accuse l’armée israélienne d’avoir utilisé des « armes à sous-munitions ». Selon le service de lutte contre les mines des Nations unies, ce sont des « munitions classiques conçues pour disperser ou libérer des sous-munitions explosives dont chacune pèse moins de 20 kilos ». L’usage de ce type d’artillerie a été déclaré illégal, car particulièrement meurtrier, par 119 Etats signataires de la convention d’Oslo de 2008, dont l’Etat hébreu n’est pas partie prenante. De plus, selon la Croix-Rouge internationale, « un grand nombre de ces sous-munitions n’éclatent pas comme prévu, leur présence rend l’agriculture dangereuse et entrave les reconstructions ». Israël a déjà utilisé ce type d’armes, notamment au Liban en 2006.

    La dégradation, voire la destruction, des terres représente un autre enjeu. « Des images satellites montrent que des terres agricoles sont détruites de manière délibérée », affirme Omar Shakir, directeur Israël-Palestine de Human Rights Watch. Il fait notamment référence à la zone de Beit Hanoun, dans le Nord, tapissée par les bombes pour, selon l’armée israélienne, atteindre des tunnels et des cibles du Hamas et où des bulldozers frayent de nouvelles routes aux véhicules militaires. « Nous avons pu constater qu’approximativement 30 % des terres agricoles ont été endommagées », explique He Yin, chercheur en géographie à l’université d’Etat de Kent (Ohio), qui a contribué à concevoir des cartes satellites permettant d’observer les destructions de terres à Gaza.

    Créé par deux universitaires américains, Jamon Van Den Hoek (université de l’Oregon) et Corey Scher (université de New York), pour visualiser, grâce à des images satellites, les dégâts provoqués par le conflit, l’outil Conflict Damage révèle que, au 17 janvier, « 49,7 % à 61,5 % des bâtiments de Gaza ont probablement été endommagés ou détruits ». Or, lorsque les édifices, infrastructures ou résidences explosent, d’énormes quantités de poussières et de débris sont rejetées dans l’environnement. En 2021, un rapport de la Banque mondiale portant sur la campagne militaire israélienne cette année-là à Gaza estimait que « 30 000 tonnes de déchets dangereux, y compris amiante, pesticides, engrais, (…) tuyaux en amiante-ciment » avaient contaminé le territoire.

    Un scénario aujourd’hui décuplé par l’ampleur de l’offensive israélienne. « Nous souffrons d’un air pollué à cause des bombes. De plus en plus de gens tombent malades », témoigne par message Adam, un jeune homme originaire de Jabaliya, dans le nord de la bande, et actuellement réfugié à Rafah, dans le Sud.

    Accès à l’eau potable préoccupant
    Auteur d’un rapport pour l’ONG néerlandaise Pax for Peace portant sur les risques environnementaux et sanitaires de la guerre à Gaza, l’expert en désarmement Wim Zwijnenburg explique que les substances contenues dans ce type de débris ont été analysées dans des conflits précédents, comme en Syrie, ou lors de catastrophes naturelles, comme le séisme de février 2023 dans le sud de la Turquie, et « peuvent provoquer de graves maladies ».

    A cet air difficilement respirable vient s’ajouter un accès à l’eau potable devenu extrêmement rare. Cette difficulté n’est pas nouvelle. Dès 2012, un rapport des Nations unies estimait que 90 % du volume disponible était impropre à la consommation. Dix jours après le début de l’offensive israélienne d’octobre 2023, les capacités de pompage des nappes phréatiques étaient tombées à 5 % par rapport à leur niveau habituel, selon l’Unicef.

    D’après le Wall Street Journal, Israël aurait commencé début décembre à inonder des tunnels de Gaza d’eau de mer afin d’en déloger le Hamas. L’armée israélienne a confirmé mardi 30 janvier avoir procédé à l’inondation de certains tunnels. « Des rapports, non corroborés, affirment que des hydrocarbures et autres substances sont présentes dans ces tunnels. Si c’est le cas, elles pourront donc affecter le sol et s’infiltrer dans l’aquifère », souligne Wim Zwijnenburg.

    L’OCHA ajoute qu’une vingtaine d’infrastructures liées à l’eau, à l’assainissement ou à l’hygiène auraient été détruites par des attaques. « Les gens passent la plus grande partie de leur journée à essayer de trouver de l’eau pour boire », affirme Omar Shakir, de Human Rights Watch.

    Zones inhabitables
    Les eaux usées se déversent dans les lieux de vie. Le 4 janvier, une vidéo diffusée sur WhatsApp et consultée par Le Monde montrait un journaliste palestinien se filmant en train d’avancer au milieu d’une inondation d’eaux usées dans l’école servant de camp de réfugiés à Jabaliya. Ces déchets liquides peuvent également être déversés dans la mer, constituant un danger pour la santé humaine et la biodiversité. Un rapport du Programme pour l’environnement de l’ONU en 2020 affirmait avoir « trouvé des preuves substantielles de changements environnementaux et d’une dégradation du territoire palestinien ». Sur les soixante-cinq stations d’épuration d’eau que compte Gaza, la plupart seraient actuellement hors service, selon l’ONG Oxfam.

    La présence de certaines bactéries dans l’eau accroît de plus la résistance aux antibiotiques. Une étude publiée dans The Lancet, le 25 novembre 2023, rappelle l’urgence de la situation. « Sans une action rapide, cette guerre menace de redéfinir l’épidémiologie de la résistance aux antimicrobiens à Gaza et au-delà », peut-on lire. Selon un rapport de l’ONU du 2 janvier 2024, on comptait à Gaza 179 000 cas d’infections respiratoires aiguës, 136 400 cas de diarrhée chez les enfants de moins de 5 ans, 55 400 cas de gale et de poux et 4 600 cas de jaunisse.

    « Nous verrons plus de gens mourir de maladies que nous n’en voyons tués par les bombardements si nous ne pouvons pas remettre en place un système de santé », alertait Margaret Harris, porte-parole de l’OMS, à Genève, le 28 novembre 2023. Pour Wim Zwijnenburg, certaines parties de la bande de Gaza peuvent déjà être considérées comme inhabitables. « Les gens ne pourront pas retourner dans ces endroits. Il n’y a rien pour espérer rebâtir une société humaine », conclut-il.

    #gaza #sols #eau #pollution #risques #maladies

  • Une vraie #souveraineté_alimentaire pour la #France

    Le mercredi 6 décembre 2023, la FNSEA sortait du bureau d’Elisabeth Borne en déclarant fièrement que l’État abandonnait son projet de taxer l’usage des pesticides et des retenues d’eau. Cela vient conclure une séquence historique. Le 16 novembre déjà, l’Europe reconduisait l’autorisation du glyphosate pour 10 ans. Et, six jours plus tard, abandonnait aussi l’objectif de réduction de 50 % de l’usage des pesticides à l’horizon 2030.

    Comment en est-on arrivé là ? La question a été récemment posée dans un rapport de l’Assemblée nationale. En plus du #lobbying habituel de la #FNSEA et de l’état de crise permanent dans laquelle vivent les agriculteurs et qui rend toute #réforme explosive, la question de la souveraineté alimentaire – qui correspond au droit d’un pays à développer ses capacités productives pour assurer la sécurité alimentaire des populations – a joué un rôle clé dans cette dynamique.

    La souveraineté alimentaire est ainsi devenue, depuis la crise du Covid et la guerre en Ukraine, l’argument d’autorité permettant de poursuivre des pratiques qui génèrent des catastrophes écologiques et humaines majeures. Il existe pourtant d’autres voies.

    Le mythe de la dépendance aux #importations

    De quelle souveraineté alimentaire parle-t-on ? Les derniers chiffres de FranceAgrimer montrent que notre « #dépendance aux importations » – comme aiment à le répéter les défenseurs d’un modèle intensif – est de 75 % pour le blé dur, 26 % pour les pommes de terre, 37 % pour les fruits tempérés ou 26 % pour les porcs.

    Mais ce que l’on passe sous silence, c’est que le taux d’#autoapprovisionnement – soit le rapport entre la production et la consommation françaises – est de 148 % pour le blé dur, 113 % pour les pommes de terre, 82 % pour les fruits tempérés et 103 % pour le porc. Le problème de souveraineté alimentaire n’en est pas un. Le vrai problème, c’est qu’on exporte ce que l’on produit, y compris ce dont on a besoin. Cherchez l’erreur.

    D’autres arguments viennent encore se greffer à celui de la souveraineté, dans un monde d’#interdépendances : la #France serait le « grenier à blé de l’Europe », il faudrait « nourrir les pays du Sud », la France serait « une puissance exportatrice », etc.

    Au-delà de l’hypocrisie de certaines de ces affirmations – en effet, les #exportations des surplus européens subventionnés ont détruit tout un tissu productif, en Afrique de l’Ouest notamment – il ne s’agit pas là d’enjeux liés à la souveraineté alimentaire, mais d’enjeux stratégiques et politiques liés à la #compétitivité de certains produits agricoles français sur les marchés internationaux.

    Comprendre : la France est la 6e puissance exportatrice de #produits_agricoles et agroalimentaires au monde et elle entend bien le rester.

    Voir la #productivité de façon multifonctionnelle

    S’il ne faut évidemment pas renoncer aux objectifs de #productivité_alimentaire nationaux, ces derniers gagneraient à être redéfinis. Car comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des besoins en #eau pour produire les aliments, de la dépendance aux #énergies_fossiles générée par les #intrants de synthèse, de l’épuisement de la #fertilité des #sols lié à la #monoculture_intensive ou encore des effets du #réchauffement_climatique ?

    Comment évoquer la souveraineté alimentaire sans parler des enjeux fonciers, de l’évolution du #travail_agricole (25 % des #agriculteurs sont en passe de partir à la retraite), du #gaspillage_alimentaire – qui avoisine les 30 % tout de même – des #besoins_nutritionnels et des #habitudes_alimentaires de la population ?

    La #productivité_alimentaire doit dorénavant se conjuguer avec d’autres formes de productivité tout aussi essentielles à notre pays :

    – la capacité de #rétention_d’eau dans les sols,

    – le renouvellement des #pollinisateurs,

    – le maintien des capacités épuratoires des milieux pour conserver une #eau_potable,

    – le renouvellement de la #fertilité_des_sols,

    – la régulation des espèces nuisibles aux cultures,

    – ou encore la séquestration du carbone dans les sols.

    Or, il est scientifiquement reconnu que les indicateurs de productivité relatifs à ces services baissent depuis plusieurs décennies. Pourtant, ce sont bien ces services qui permettront de garantir une véritable souveraineté alimentaire future.

    La #diversification pour maintenir des rendements élevés

    Une revue de littérature scientifique parue en 2020, compilant plus de 5000 études menées partout dans le monde, montrait que seules des stratégies de diversification des #pratiques_agricoles permettent de répondre à ces objectifs de #performance_plurielle pour l’agriculture, tout en maintenant des #rendements élevés.

    Les ingrédients de cette diversification sont connus :

    – augmentation de la #rotation_des_cultures et des #amendements_organiques,

    – renoncement aux #pesticides_de_synthèse et promotion de l’#agriculture_biologique à grande échelle,

    - réduction du #labour,

    - diversification des #semences et recours aux #variétés_rustiques,

    - ou encore restauration des #haies et des #talus pour limiter le ruissellement de l’#eau_de_pluie.

    Dans 63 % des cas étudiés par ces chercheurs, ces stratégies de diversification ont permis non seulement d’augmenter les #services_écosystémiques qui garantissent la souveraineté alimentaire à long terme, mais aussi les #rendements_agricoles qui permettent de garantir la souveraineté alimentaire à court terme.

    Les sérieux atouts de l’agriculture biologique

    Parmi les pratiques de diversification qui ont fait leurs preuves à grande échelle en France, on retrouve l’agriculture biologique. Se convertir au bio, ce n’est pas simplement abandonner les intrants de synthèse.

    C’est aussi recourir à des rotations de cultures impliquant des #légumineuses fixatrices d’azote dans le sol, utiliser des semences rustiques plus résilientes face aux #parasites, des amendements organiques qui nécessitent des couplages culture-élevage, et enfin parier sur la restauration d’un #paysage qui devient un allié dans la lutte contre les #aléas_naturels. La diversification fait ainsi partie de l’ADN des agriculteurs #bio.

    C’est une question de #réalisme_économique. Les exploitations bio consomment en France deux fois moins de #fertilisant et de #carburant par hectare que les exploitants conventionnels, ce qui les rend moins vulnérables à l’évolution du #prix du #pétrole. En clair, l’agriculture biologique pourrait être la garante de la future souveraineté alimentaire française, alors qu’elle est justement souvent présentée comme une menace pour cette dernière du fait de rendements plus faibles à court terme.

    Au regard des éléments mentionnés plus haut, il s’agit évidemment d’un #faux_procès. Nous sommes autosuffisants et nous avons les réserves foncières qui permettraient de déployer le bio à grande échelle en France, puisque nous sommes passé de 72 % du territoire dédié aux activités agricoles en 1950 à 50 % en 2020. Une petite partie de ces surfaces a été artificialisée tandis que la majorité a tout simplement évolué en friche, à hauteur de 1000 km2 par an en moyenne.

    Par ailleurs, le différentiel de rendement entre le bio et le #conventionnel se réduit après quelques années seulement : de 25 % en moyenne (toutes cultures confondues) au moment de la conversion, il descend à 15 % ensuite. La raison en est l’apprentissage et l’innovation dont font preuve ces agriculteurs qui doivent en permanence s’adapter aux variabilités naturelles. Et des progrès sont encore à attendre, si l’on songe que l’agriculture bio n’a pas bénéficié des 50 dernières années de recherche en #agronomie dédiées aux pratiques conventionnelles.

    Relever le niveau de vie des agriculteurs sans éroder le #pouvoir_d’achat des consommateurs

    Mais a-t-on les moyens d’opérer une telle transition sans réduire le pouvoir d’achat des Français ? Pour répondre à cette question, il faut tout d’abord évoquer le #revenu des #agriculteurs. Il est notoirement faible. Les agriculteurs travaillent beaucoup et vivent mal de leur métier.

    Or, on oublie souvent de le mentionner, mais le surcoût des produits bio est aussi lié au fait que les consommateurs souhaitent mieux rémunérer les agriculteurs : hors subventions, les revenus des agriculteurs bio sont entre 22 % et 35 % plus élevés que pour les agriculteurs conventionnels.

    Ainsi, le consommateur bio consent à payer plus parce que le bio est meilleur pour l’environnement dans son ensemble (eau, air, sol, biodiversité), mais aussi pour que les paysans puissent mieux vivre de leur métier en France sans mettre en danger leur santé.

    Par ailleurs, si le consommateur paie plus cher les produits bio c’est aussi parce qu’il valorise le #travail_agricole en France. Ainsi la production d’aliments bio nécessite plus de #main-d’oeuvre (16 % du total du travail agricole pour 10 % des surfaces) et est très majoritairement localisée en France (71 % de ce qui est consommé en bio est produit en France).

    Cette question du #travail est centrale. Moins de chimie, c’est plus de travail des communautés humaines, animales et végétales. C’est aussi plus d’incertitudes, ce qui n’est évidemment pas simple à appréhender pour un exploitant.

    Mais il faut rappeler que le discours sur le pouvoir d’achat des français, soi-disant garanti par le modèle hyper-productiviste de l’agriculture française, vise surtout à conforter les rentes de situations des acteurs dominants du secteur agricole. Car les coûts sanitaires et environnementaux de ce modèle sont payés par le contribuable.

    Rien que le #traitement_de_l’eau, lié aux pollutions agricoles, pour la rendre potable, coûte entre 500 millions d’euros et 1 milliard d’euros par an à l’État. Or, ce que le consommateur ne paie pas au supermarché, le citoyen le paie avec ses #impôts. Le rapport parlementaire évoqué plus haut ne dit pas autre chose : la socialisation des coûts et la privatisation des bénéfices liés aux #pesticides ne sont plus tolérables.

    Le bio, impensé de la politique agricole française

    Une évidence s’impose alors : il semblerait logique que l’État appuie massivement cette filière en vue de réduire les coûts pour les exploitants bio et ainsi le prix pour les consommateurs de produits bio. En effet, cette filière offre des garanties en matière de souveraineté alimentaire à court et long terme, permet de protéger l’eau et la #santé des Français, est créatrice d’emplois en France. Il n’en est pourtant rien, bien au contraire.

    L’État a promu le label #Haute_valeur_environnementale (#HVE), dont l’intérêt est très limité, comme révélé par l’Office français de la biodiversité (OFB). L’enjeu semble surtout être de permettre aux agriculteurs conventionnels de toucher les aides associés au plan de relance et à la nouvelle #PAC, au risque de créer une #concurrence_déloyale vis-à-vis des agriculteurs bio, d’autant plus que les #aides_publiques au maintien de l’agriculture biologique ont été supprimées en 2023.

    La décision récente de l’État de retirer son projet de #taxe sur l’usage des pesticides créé aussi, de facto, un avantage comparatif pour le conventionnel vis-à-vis du bio. Enfin, rappelons que la Commission européenne a pointé à plusieurs reprises que la France était le seul pays européen à donner moins de subventions par unité de travail agricole aux céréaliers bio qu’aux conventionnels.

    Ainsi, un céréalier bio français reçoit un tiers de subventions en moins par unité de travail agricole qu’un céréalier conventionnel, alors qu’en Allemagne ou en Autriche, il recevrait 50 % de #subventions supplémentaires. En France, l’État renonce aux taxes sur les pesticides tout en maintenant des #charges_sociales élevées sur le travail agricole, alors que c’est évidemment l’inverse dont aurait besoin la #transition_agroécologique.

    Que peuvent faire les citoyens au regard de ce constat déprimant ? Consommer des produits bio malgré tout, et trouver des moyens de les payer moins cher, grâce par exemple à la #vente_directe et à des dispositifs tels que les #AMAP qui permettent de réduire le coût du transport, de la transformation et de la distribution tout autant que le gâchis alimentaire, les variabilités de la production étant amorties par la variabilité du contenu du panier.

    Les agriculteurs engagés pour la #transition_écologique, de leur côté, peuvent réduire les risques associés aux variabilités naturelles et économiques en créant de nouvelles formes d’exploitations coopératives combinant plusieurs activités complémentaires : élevage, culture, transformation, conditionnement et distribution peuvent être organisés collectivement pour mutualiser les coûts et les bénéfices, mais aussi se réapproprier une part significative de la #chaîne_de_valeur laissée aujourd’hui au monde de l’agro-industrie et de la grande distribution.

    Il ne s’agit pas d’une #utopie. De nombreux acteurs essaient de faire émerger, malgré les résistances institutionnelles, ces nouvelles pratiques permettant de garantir la souveraineté alimentaire de la France à long terme.

    https://theconversation.com/une-vraie-souverainete-alimentaire-pour-la-france-220560
    #foncier #industrie_agro-alimentaire #alimentation #collectivisation
    #à_lire #ressources_pédagogiques

  • « Avec les JO, Airbnb s’impose comme un leader de l’hébergement touristique à Paris »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/28/avec-les-jo-airbnb-s-impose-comme-un-leader-de-l-hebergement-touristique-a-p

    En s’affichant comme l’un des sponsors majeurs du Comité international olympique (CIO) pendant les Jeux olympiques (#JO) et paralympiques Paris 2024, la plate-forme #Airbnb s’impose comme un leader de l’#hébergement_touristique dans une métropole mondiale qui fait pourtant beaucoup, depuis plusieurs années, pour la contraindre et l’interdire.

    Avant même les débuts du méga-événement historique pour la France, celui-ci peut d’ores et déjà être considéré, du point de vue de la multinationale, comme un succès retentissant. Le nombre de loueurs et de biens proposés a significativement augmenté, même s’il y a une part relativement importante d’hôtes occasionnels ou pragmatiques qui se désinscriront sitôt les dernières épreuves terminées, les réservations ont explosé et l’image de la marque est assurée…

    Mieux encore que les bénéfices engrangés ou la publicité réalisée pour les années à venir, l’entreprise va certainement réussir son pari d’investir massivement la capitale française pendant la durée de la compétition, alors que le conflit ouvert avec la municipalité parisienne gêne depuis longtemps ses ambitions et va l’obliger prochainement à (re) penser sa stratégie.

    Le rôle essentiel des hébergeurs

    Mais les JO sont aussi révélateurs de la place qu’occupe Airbnb dans nos sociétés contemporaines occidentales, offrant en quelque sorte l’illustration condensée de son fonctionnement et de son évolution. Alors que la firme va retrouver à l’été 2024 son cœur de métier initial, qui l’a fait naître en 2007 – la mise à disposition de milliers d’hébergements lors d’un grand événement (culturel, sportif, professionnel, scientifique, etc.) – , elle a depuis investi d’autres champs, d’autres espaces, d’autres usages, et a conquis bon gré, mal gré d’autres utilisateurs.

    Touristes, certes, mais également étudiants qui n’arrivent plus à se loger par d’autres moyens, parfois à cause d’une crise du #logement aggravée par Airbnb elle-même, travailleurs saisonniers, migrants, aidants familiaux, fêtards, etc.
    De plus, à côté des événements divers (fêtes religieuses intrafamiliales, micro-événements privés et publics, événements de tout type à l’échelle régionale, nationale et internationale…), l’entreprise s’est redéployée pour être présente « tout le temps », procédant d’une désynchronisation des pratiques d’hébergement, et « partout à la fois », dans des espaces où le degré d’urbanité est plus ou moins fort : petites, moyennes et grandes villes, villages, littoraux, montagnes, jusque dans les déserts froids et chauds.

    Cette omniprésence s’appuie majoritairement sur une ressource fondamentale, les hébergeurs, qui décident de louer une partie ou la totalité d’un logement à des inconnus et qui aident ainsi indirectement Airbnb à réaliser des profits.

    Un intermédiaire facilitateur

    En promettant et en permettant à des propriétaires ou à des locataires d’exploiter une #rente immobilière et/ou de localisation liée à la proximité avec un site olympique ou un moyen de transport pour y accéder, la firme américaine se place comme un intermédiaire facilitateur entre les touristes spectateurs qui cherchent un hébergement économique et bien situé, et les habitants loueurs qui souhaitent profiter de l’opportunité financière qui s’offre à eux.

    Dès lors, en déconcentrant la décision de s’inscrire sur la plate-forme puis la gestion de la location in situ sur le loueur, Airbnb se défausse synchroniquement de la responsabilité de tout le processus, ainsi que des conséquences liées.

    Or, la publication de milliers de nouvelles annonces dans l’ensemble des futurs sites olympiques reproduit en quelques semaines un phénomène qui se déploierait « normalement », hors contexte olympique, sur plusieurs mois, voire plusieurs années.

    Un rôle majeur de catalyseur de logiques capitalistes

    Cette augmentation rapide de l’offre pour les territoires concernés et l’apparition de nouveaux loueurs rend davantage visibles les externalités négatives de cette économie de plate-forme. Elle renforce en effet le décalage entre une population pouvant proposer un logement en mobilisant un capital immobilier plus ou moins conséquent, et la population qui ne peut pas se le permettre pour d’innombrables raisons.

    Une nouvelle lutte des places s’esquisse alors, dans laquelle Airbnb joue un rôle majeur de catalyseur de logiques capitalistes dans et sur l’habitat, devenu un bien marchand comme un autre. Cela existe depuis longtemps et a déjà été décrit et dénoncé par nombre d’auteurs, mais la plate-forme américaine a rendu ce phénomène systémique et massif.

    L’organisation des Jeux olympiques Paris 2024 a déclenché un élan locatif qui s’essoufflera vraisemblablement à la fin de l’été 2024. Ce grand jeu du basculement entre deux états, celui du logement privé non marchand vers celui du logement à louer marchand et inversement, adaptable au contexte touristico-événementiel, est facilité par la flexibilité du modèle Airbnb. Celui-ci tend à s’imposer et à devenir permanent, au grand dam des acteurs de la ville, qui peinent à anticiper et à contrer ce phénomène.

    Victor Piganiol(géographe à l’université Bordeaux Montaigne, UMR Passages – CNRS)

    #capitalisme_de_plateforme

  • Faire justice. #Moralisme_progressiste et #pratiques_punitives dans la lutte contre les violences sexistes

    Là où il est admis que le recours à la #police en cas de violence n’est pas la solution mais plutôt un problème supplémentaire, la tentation est de s’y substituer. Si l’intention est louable, son application l’est moins. Les mesures sont expéditives et les outils pour faire justice sont encore profondément empreints d’une philosophie punitive : menace, exclusion, harcèlement, dénonciation publique et discréditation politique. Comment sortir de cette impasse ? La question est d’autant plus difficile qu’elle surgit au moment où les forces réactionnaires mènent une large offensive contre le wokisme pour mieux protéger ceux qui organisent les violences dans nos sociétés.
    Écrit par une « militante gouine », ce livre propose une critique fine du moralisme progressiste et des pratiques punitives dans les luttes sociales. En se saisissant d’exemples concrets rencontrés au gré de son militantisme et en discutant précisément l’abolitionnisme pénal, elle pose les jalons d’une justice transformatrice inventive, capable de prendre soin des victimes et de transformer les individu.es comme les groupes.
    Endiguer les violences c’est aussi ne plus craindre le conflit, ne plus avoir peur de lutter.

    https://lafabrique.fr/faire-justice
    #justice #justice_transformatrice #livre #VSS #violences_sexistes

    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/1027419

    ping @_kg_

  • Boeing will not put planes in air unless 100% confident, CEO says | Reuters
    https://www.reuters.com/business/aerospace-defense/boeing-will-not-put-planes-air-unless-100-confident-ceo-says-2024-01-24

    Boeing CEO Dave Calhoun said on Wednesday the planemaker will only support the operation of its airplanes if it is “100%” confident in their safety.

    le titre fait immédiatement bondir will not, au futur donc laisse entendre que ce n’était pas le cas avant.

    La phrase qui suit immédiatement le passage ci-dessus reprend cette information mais en style direct dans la bouche dudit CEO…
    … et là, c’est bien au présent. Bravo Reuters !

    “We don’t put planes in the air that we don’t have 100% confidence in,” Calhoun told reporters in Washington before one of a series of meetings with U.S. senators on the grounding of the company’s 737 Max 9 jets in the U.S. Calhoun added that Boeing fully understands “the gravity of the situation.”

    • La perte de confiance en Boeing s’accélère$
      https://www.lemonde.fr/economie/article/2024/01/24/la-perte-de-confiance-en-boeing-s-accelere_6212776_3234.html

      Le constructeur américain accumule les déboires : un Boeing 757 a perdu une roue au décollage. Cet incident intervient alors que les autorités de régulation américaines ont renforcé la surveillance des appareils suite au détachement en vol d’une pièce du fuselage d’un #737_MAX_9.
      Par Arnaud Leparmentier (New York, correspondant)

      La confiance en #Boeing s’effondre. Selon le baromètre Morning Consult, le solde des Américains ayant confiance dans la marque a chuté de 32 à 20 points entre décembre 2023 et janvier ; celle des passagers utilisant fréquemment ses avions a reculé de 41 à 28 points. Après le détachement en vol d’une porte d’issue de secours d’un Boeing 737 MAX 9 d’Alaska Airlines, vendredi 5 janvier, le constructeur aéronautique est au plus mal. Le voici de nouveau pris dans la tourmente, incapable de faire voler ses avions de manière sûre, après la catastrophe des 737 MAX 8 de Lion Air et Ethiopian Airlines, qui firent 346 victimes en 2018 et 2019. Et mercredi 24 janvier, la Federal Aviation Administration (FAA), l’autorité américaine de régulation de l’aviation civile, a indiqué qu’une roue avant d’un Boeing 757, exploité par Delta Air Lines, s’est détachée alors que l’avion s’alignait pour décoller de l’aéroport international d’Atlanta, le week-end du 20-21 janvier.
      Même la #Bourse finit par se rendre à l’évidence : il y a quelque chose de cassé chez Boeing, qui a perdu 18 % de sa valeur depuis le début de l’année.
      L’autorité de régulation a ordonné l’immobilisation pour inspection des 737 MAX disposant de ces fermetures de portes, principalement chez United Airlines et Alaska Airlines. Elle a vivement critiqué la compagnie, qui avait déjà menti aux autorités lors de la certification des 737 MAX 8. « Cet incident n’aurait jamais dû se produire et cela ne peut pas se reproduire », déclarait la #FAA dans un communiqué. Dimanche 21 janvier, elle a étendu les exigences d’inspections aux portes des 737-900 ER, qui précédèrent le MAX 9. Depuis son vol inaugural, en 2006, la FAA a déclaré que le 737-900 ER avait enregistré plus de onze millions d’heures de fonctionnement et effectué 3,9 millions de vols, sans aucun problème lié à la fermeture des portes.

      Ses erreurs commises depuis un quart de siècle

      L’affaire conduit au procès de la compagnie et toutes ses erreurs commises depuis un quart de siècle : son incapacité à voir monter en puissance #Airbus et ses A320, qui allaient concurrencer les Boeing 737 ; la fusion avec l’avionneur militaire #McDonnell_Douglas [crasheur de civlils, ndc] et la prise de contrôle de Boeing par ses dirigeants, plus habitués à grenouiller politiquement à Washington pour obtenir des subventions qu’à travailler industriellement à la qualité des aéronefs ; une obsession de rentabilité, ayant conduit après une grande grève à Seattle, berceau historique de l’avionneur, en 2000, à délocaliser le siège à Chicago ; déplacer en Caroline du sud une partie de la production et sous traiter la construction du fuselage à une ancienne usine du Kansas, Spirit AeroSystems.
      Les clients sont furieux. « Je suis plus que frustré et déçu. Je suis en colère », a déclaré le PDG d’Alaska Airlines, Ben Minicucci, à NBC News. Selon lui, l’arrachage de la porte était « inacceptable » pour un appareil sorti d’usine. United Airlines, grand client de Boeing, envisage d’annuler ses commandes de 737 MAX 10, avion encore non certifié. « Le clouage au sol du MAX 9 est probablement la goutte d’eau qui a fait déborder le vase pour nous. Nous allons élaborer un plan qui ne contient pas le MAX 10 », a annoncé le PDG d’United, Scott Kirby.

      Les avertissements se succèdent. Pour Michael O’Leary, patron de Ryanair et grand client de Boeing, « le véritable défi pour Airbus et Boeing est qu’ils sont tous deux en retard dans leurs projets d’augmentation de production mensuelle. Cela tient en grande partie aux pressions de la chaîne d’approvisionnement. Je pense qu’Airbus et Boeing, et [plus] certainement Boeing, doivent améliorer considérablement le #contrôle_qualité », a-t-il déclaré au Financial Times.

      « Les objectifs financiers doivent passer au second plan »

      La compagnie aérienne a doublé le nombre de ses ingénieurs pour inspecter le processus de production chez Boeing et Spirit AeroSystems, qui a multiplié les défaillances de qualité depuis un an. « Compte tenu de ce qui s’est passé avec les deux accidents mortels et cet incident, les objectifs financiers doivent passer au second plan pour Boeing et sa chaîne d’approvisionnement », a renchéri dans le Financial Times Aengus Kelly, directeur général d’AerCap, la plus grande société de location d’avions au monde, avant de mettre en garde Boeing : « S’il y avait un autre problème avec la gamme de produits [737], il serait très difficile pour les clients d’acquérir des avions supplémentaires. »

      Pour contenir l’incendie, Boeing a nommé l’amiral en retraite, Kirkland Donald, conseiller spécial du PDG Dave Calhoun, pour évaluer le système de gestion de la qualité de Boeing. Avec une équipe d’experts, il doit examiner les programmes et pratiques de qualité de Boeing ainsi que la surveillance de ses sous-traitants.
      Dans la foulée de l’accident, la FAA a envisagé de priver Boeing du droit de certifier ses propres avions . « Il est temps de réexaminer la délégation d’autorité et d’évaluer les risques de sécurité associés, a déclaré l’administrateur de la FAA, Michael Whitaker. L’immobilisation du 737-9 et les multiples problèmes liés à la production identifiés ces dernières années nous obligent à examiner toutes les options pour réduire les risques. La FAA étudie la possibilité de recourir à un tiers indépendant pour superviser les inspections de Boeing et son système qualité. »
      La FAA a envoyé des dizaines d’inspecteurs sur site. « Nous passons d’une approche d’audit à une approche d’inspection directe, a déclaré le patron de la FAA à CNBC. Jusqu’à ce que nous soyons sûrs que le système [d’assurance qualité] fonctionne correctement… nous aurons des troupes sur le terrain. »

  • Pollution de l’air dans le métro : trois stations de l’Est parisien dans le rouge
    https://www.lemonde.fr/planete/article/2024/01/22/pollution-de-l-air-dans-le-metro-trois-stations-de-l-est-parisien-dans-le-ro

    Selon une étude d’Ile-de-France Mobilités, menée avec l’appui d’Airparif, trois stations affichent une concentration de particules fines PM10 dépassant le seuil maximal recommandé par l’Anses : Belleville, Jaurès et Oberkampf.

    #Paris #métro #particules_fines #air

  • Ce que coûte vraiment l’aide médicale d’État

    En décembre 2023, le projet de loi « immigration » a finalement été adopté en excluant le volet dédié à l’aide Médicale d’État (AME). Mais la première ministre d’alors, Élisabeth Borne, avait promis, dans un courrier envoyé au président du Sénat, d’engager une réforme de l’AME au premier trimestre 2024. La question est de savoir si cet engagement est toujours d’actualité avec l’arrivée à Matignon d’un nouveau premier ministre, Gabriel Attal.

    Le projet de loi « immigration » illustre combien les idées défendues par l’extrême droite trouvent aujourd’hui une nouvelle audience jusque dans la majorité présidentielle.
    Un droit non automatique et complexe à obtenir

    L’AME permet aux sans-papiers de bénéficier d’une couverture des frais médicaux pendant un an renouvelable s’ils peuvent prouver leur présence en France depuis au moins 3 mois et si leurs ressources ne sont pas supérieures à 810 euros mensuels.

    L’AME ne concerne qu’une partie des migrants, les plus précaires par leur statut administratif et les plus pauvres. Il s’agit d’un droit quérable (il faut le demander), qui plus est particulièrement complexe à obtenir du fait de la lourdeur des démarches administratives pour des personnes en difficultés financières et linguistiques qui craignent d’être signalées aux autorités et expulsées.
    Remplacer l’AME par une aide médicale d’urgence présentée comme moins onéreuse

    Dans le projet de loi « immigration » qui a finalement été adopté en décembre 2023, il n’est plus fait état de l’AME. Mais une réforme de l’AME était intégrée dans une version précédente proposée par le Sénat. Elle visait à « transformer » l’AME en aide médicale d’urgence (AMU) pour la réserver aux soins vitaux. Reste à savoir si c’est sur cette base que pourrait être modifié ce dispositif en 2024.

    Si la réforme de l’AME devait suivre les préconisations du Sénat, les soins de premier recours ne seraient plus pris en charge par l’Assurance maladie et il faudrait attendre d’être à l’article de la mort pour pouvoir être soigné à l’hôpital. L’AMU existe déjà. Il ne s’agit donc pas de transformer l’AME en AMU mais tout simplement de supprimer l’AME.
    L’AME, c’est 0,5 % des dépenses annuelles de santé

    C’est un rapport parlementaire récent qui est à l’origine du projet de remplacement de l’AME par une AMU. Selon ce rapport, l’AMU ne coûterait que 70 millions d’euros contre 1,1 milliard d’euros pour l’AME de droit commun dont bénéficiaient 350 000 patients en 2021.

    Or l’AME en tant que telle ne représente qu’une goutte d’eau dans les dépenses de santé, soit 0,468 %. Ainsi on peut se demander si c’est vraiment son coût qui pose problème, ou si ce ne sont pas plutôt les patients concernés qui sont visés, c’est-à-dire les sans-papiers.

    Pour obtenir ce pourcentage de presque 0,5 %, les dépenses de 1,1 milliard d’euros correspondants à l’AME sont comparés à l’ensemble des dépenses de santé qui s’établissaient à 235,8 milliards d’euros pour l’année 2022.

    Le montant de 1,1 milliard est jugé trop élevé pour sauver des migrants. Mais à titre de comparaison, selon certaines estimations, les assurés paient, par exemple, 3 milliards d’euros par an en dépassements d’honoraires à l’hôpital ou chez le médecin de ville (on parle de « dépassements d’honoraires » quand les soins sont facturés à des tarifs qui dépassent ceux fixés par l’Assurance maladie).

    De plus, s’il faut attendre que les patients soient gravement malades pour les prendre en charge, la dépense de santé ne sera pas seulement différée, elle sera majorée. Les malades seront soignés dans des situations plus critiques qui nécessiteront des soins plus lourds donc plus coûteux. La collectivité a toujours intérêt à prendre en charge précocement les malades à la fois au nom de la santé publique mais aussi au nom des finances publiques.
    Le risque d’aggraver la surcharge des services dédiés aux plus précaires

    Il en va particulièrement des sans-papiers dont la vie en France est particulièrement difficile du fait de la précarité des revenus et du délabrement des logements qui accroissent substantiellement la probabilité d’être malade. On ne comprend pas bien ce que la collectivité a à gagner à laisser les problèmes de santé physique et mentale s’aggraver. La santé des uns dépend aussi de celle des autres.

    La transformation de l’AME en AMU ne supprimerait pas la maladie. Elle ne ferait qu’interdire la prise en charge des frais de santé si le pronostic vital n’est pas engagé. En supprimant l’AME, on organiserait le renoncement aux soins et on planifierait le retard de soin. Le risque serait d’aggraver le marasme de l’hôpital, épuisé par la crise Covid.

    On programmerait ainsi une surcharge insoutenable des Permanences d’accès aux soins de santé dédiées aux personnes démunies (PASS) et des Services d’accueil et d’urgences (SAU) déjà saturés. Cela planifierait aussi un surcroît de mortalité chez les migrants comme le montre le cas espagnol.
    Les sans-papiers avec AME ne vont pas davantage chez le médecin

    L’hôpital, et notamment ses services d’urgence, serait impacté par une suppression de l’AME du fait de l’arrivée des personnes malades dans des situations de santé plus dégradées. Toutefois, il ne faut pas perdre de vue le fait que ce sont les soins de ville, les séances chez le généraliste, qui sont visés par cette mesure.

    l’Institut de recherche et documentation en économie de la santé IRDES a comparé la consommation de soins en médecine de ville d’un échantillon de la population bénéficiaire de l’AME avec un échantillon de la population couverte par la Couverture maladie universelle complémentaire (la CMU-C, qui s’appelle aujourd’hui la Complémentaire santé solidaire, est destinée aux personnes à faibles revenus en situation régulière).

    La comparaison est menée avec les mêmes caractéristiques d’âge et de sexe, les mêmes critères de revenus pour être éligibles (moins de 810 euros mensuels) et sur un panier de soins à couverture identique, ce qui exclue de l’étude les soins dentaires et d’optique qui sont moins bien pris en charge par l’AME que par la CMU-C.

    Il en ressort que pour les deux populations, l’assurance santé permet surtout d’accéder aux généralistes avant d’arriver à l’hôpital ou aux urgences quand les choses sont aggravées, ce que précisément le projet de loi veut supprimer.

    Il n’y a pas de surcroît de consommation de soins par les sans-papiers. En d’autres termes, les sans-papiers qui bénéficient de l’AME ne se rendent pas plus chez le médecin que les personnes en situation régulière dont la situation de vie est comparable. Ce n’est pas le titre de séjour qui dicte la consommation mais l’état de santé.
    Près d’une personne éligible sur deux n’a pas l’AME

    Le mythe de « l’appel d’air » a pourtant la vie dure. Ce serait pour séjourner à l’hôpital Avicenne de Bobigny en Seine-Saint-Denis, ou ailleurs en France, que les migrants prendraient la mer sur des canots de fortune. Ils décideraient de traverser le désert libyen, d’affronter les passeurs et de risquer leur vie pour se précipiter gaiement aux guichets de l’administration française et affronter le labyrinthe administratif décuplé par la détérioration des services publics.

    La réalité est tout autre. Comment l’AME pourrait-elle décider des migrations alors que les migrants ne la demandent pas ? Alors même qu’ils tombent malades sur le sol français ? En effet, l’une des caractéristiques essentielles de l’AME est qu’elle fait l’objet d’un non recours exceptionnel de 49 %. Même après cinq années ou plus de résidence en France, 35 % des personnes sans titre de séjour n’ont pas l’AME.
    Le mythe de « l’appel d’air » battu en brèche par les études scientifiques

    La thèse du tourisme médical ou de l’appel d’air est absurde. Selon un rapport du Comede (2019), dans la plupart des cas (70 % pour l’ensemble des pathologies), les migrants découvrent leur maladie après leur arrivée en France. Rien dans les travaux scientifiques ne vient corroborer la thèse de l’appel d’air.

    Aucune étude n’a montré que les migrants venaient en France pour des raisons de santé. Au contraire, la santé est une raison secondaire. Aucune justification médicale ne vient soutenir la suppression de l’AME. Les médecins y voient au contraire une atteinte à ce qui fait la fierté de leur métier. Le débat sur l’AME est exemplaire de l’impuissance des scientifiques à ébranler les spéculations des dogmatiques.
    Les immigrés contribuent aux budgets sociaux

    Alors qu’il n’y a pas de spécificité de la santé des migrants, la prise en charge de leurs soins est systématiquement agitée en problème politique distinctif. Tout ça parce que derrière la dénonciation de l’AME, c’est l’immigration qui est attaquée en brandissant une AME fantasmée alimentée par de nombreuses désinformations listées par Médecins du monde.

    Les immigrés sont des contributeurs nets aux budgets sociaux (ils contribuent davantage qu’ils ne reçoivent de prestations sociales). Les immigrés actifs, âgés de 25 à 54 ans et représentant environ 50 % de la population immigrée en moyenne entre 2016 et 2022, ne génèrent initialement aucun coût en matière d’éducation ou de prestations sociales à leur arrivée en France.

    En bonne santé, en raison des exigences d’entrée strictes de l’Office français de l’immigration et de l’intégration (OFII), ces travailleurs étrangers cotisent et ont un faible impact sur les dépenses des caisses de sécurité sociale. Les immigrés âgés de 55 ans et plus, représentant environ 30 % des immigrés en moyenne entre 2016 et 2022, contribuent de manière indirecte à alléger les dépenses de santé en France.
    L’AME : un problème d’intégration dans le système de santé, non d’immigration

    Les problèmes de l’AME ne sont pas ceux de l’immigration mais ceux de l’absence d’intégration. L’AME est un système administratif parallèle à la Sécurité sociale et un loupé de l’universalisation de la protection santé. Toute l’histoire de la sécurité sociale a consisté à permettre à tous les résidents de bénéficier de la même couverture de base.

    En isolant les sans-papiers des autres, il devient facile de les montrer du doigt pour laisser s’exprimer le ressentiment d’une partie de la population dont les frais de santé sont en augmentation, du fait des stratégies de privatisation de la santé.

    L’absence de régime commun permet de sortir les personnes sans titre de séjour de la société comme s’ils n’étaient pas des égaux ou des semblables. C’est au contraire la fusion de l’AME dans le régime général de Sécurité sociale qui garantira un droit inaliénable aux soins de santé, protégeant la dignité de tout être humain.

    https://www.latribune.fr/opinions/tribunes/ce-que-coute-vraiment-l-aide-medicale-d-etat-988286.html

    #France #coût #économie #aide_médicale_d'Etat (#AME) #santé #migrations #asile #réfugiés #budget #aide_médicale_d'urgence (#AMU) #sans-papiers #appel_d'air #welfare_state

    via @karine4

    –—

    ajouté à la métaliste sur le lien entre #économie (et surtout l’#Etat_providence) et la #migration :
    https://seenthis.net/messages/971875

    • Le mythe de « l’appel d’air » battu en brèche par les études scientifiques
      La thèse du tourisme médical ou de l’appel d’air est absurde. Selon un rapport du Comede (2019), dans la plupart des cas (70 % pour l’ensemble des pathologies), les migrants découvrent leur maladie après leur arrivée en France. Rien dans les travaux scientifiques ne vient corroborer la thèse de l’appel d’air.
      Aucune étude n’a montré que les migrants venaient en France pour des raisons de santé. Au contraire, la santé est une raison secondaire. Aucune justification médicale ne vient soutenir la suppression de l’AME. Les médecins y voient au contraire une atteinte à ce qui fait la fierté de leur métier. Le débat sur l’AME est exemplaire de l’impuissance des scientifiques à ébranler les spéculations des dogmatiques.

      #appel_d'air

  • La #France qui a #faim avec #Bénédicte_Bonzi et #Guillaume_Le_Blanc

    Rencontre d’une anthropologue spécialiste de la faim et d’un philosophe qui a beaucoup écrit sur la #précarité pour penser les erreurs d’un pays riche où 8 millions de Français doivent recourir à l’#aide_alimentaire tandis que 10 millions de tonnes de #nourriture sont jetées par an en France.

    Pour comprendre l’#absurdité de ce #paradoxe et la faillite de notre #agriculture_productiviste, nous recevons l’anthropologue Bénédicte Bonzi qui a mené une longue étude aux #Restos_du_coeur. Sur le terrain, elle mesure la #souffrance de #bénévoles qui constatent que leur action, loin d’aider à sortir de la #pauvreté, consiste surtout à maintenir une #paix_sociale en évitant des vols et des #émeutes_de_la_faim.

    Et si, dans une société démocratique, l’urgence consistait moins à donner de la nourriture que des #droits pleins et entiers ? Le regard du philosophe Guillaume Le Blanc nous permettra de questionner la #violence qui s’exerce contre les plus pauvres. Comment penser la #vulnérabilité au cœur de la cité ?

    https://audioblog.arteradio.com/blog/215851/podcast/219681/la-france-qui-a-faim-avec-benedicte-bonzi-et-guillaume-le-blanc

    #audio #podcast

  • Le #règlement européen sur l’IA n’interdira pas la #surveillance_biométrique de masse

    Le 8 décembre 2023, les législateurs de l’#Union_européenne se sont félicités d’être parvenus à un accord sur la proposition de #règlement tant attendue relative l’intelligence artificielle (« #règlement_IA »). Les principaux parlementaires avaient alors assuré à leurs collègues qu’ils avaient réussi à inscrire de solides protections aux #droits_humains dans le texte, notamment en excluant la #surveillance_biométrique_de_masse (#SBM).

    Pourtant, malgré les annonces des décideurs européens faites alors, le règlement IA n’interdira pas la grande majorité des pratiques dangereuses liées à la surveillance biométrique de masse. Au contraire, elle définit, pour la première fois dans l’#UE, des conditions d’utilisation licites de ces systèmes. Les eurodéputés et les ministres des États membres de l’UE se prononceront sur l’acceptation de l’accord final au printemps 2024.

    L’UE entre dans l’histoire – pour de mauvaises raisons

    La coalition #Reclaim_Your_Face soutient depuis longtemps que les pratiques des SBM sont sujettes aux erreurs et risquées de par leur conception, et qu’elles n’ont pas leur place dans une société démocratique. La police et les autorités publiques disposent déjà d’un grand nombre de données sur chacun d’entre nous ; elles n’ont pas besoin de pouvoir nous identifier et nous profiler en permanence, en objectifiant nos #visages et nos #corps sur simple pression d’un bouton.

    Pourtant, malgré une position de négociation forte de la part du Parlement européen qui demandait l’interdiction de la plupart des pratiques de SBM, très peu de choses avaient survécu aux négociations du règlement relatif à l’IA. Sous la pression des représentants des #forces_de_l’ordre, le Parlement a été contraint d’accepter des limitations particulièrement faibles autour des pratiques intrusives en matière de SBM.

    L’une des rares garanties en la matière ayant apparemment survécu aux négociations – une restriction sur l’utilisation de la #reconnaissance_faciale a posteriori [par opposition à l’utilisation en temps réel] – a depuis été vidée de sa substance lors de discussions ultérieures dites « techniques » qui se sont tenues ces dernière semaines.

    Malgré les promesses des représentants espagnols en charge des négociations, qui juraient que rien de substantiel ne changerait après le 8 décembre, cette édulcoration des protections contre la reconnaissance faciale a posteriori est une nouvelle déception dans notre lutte contre la #société_de_surveillance.

    Quel est le contenu de l’accord ?

    D’après ce que nous avons pu voir du texte final, le règlement IA est une occasion manquée de protéger les #libertés_publiques. Nos droits de participer à une #manifestation, d’accéder à des soins de #santé_reproductive ou même de nous asseoir sur un #banc pourraient ainsi être menacés par une surveillance biométrique omniprésente de l’#espace_public. Les restrictions à l’utilisation de la reconnaissance faciale en temps réel et a posteriori prévues par la loi sur l’IA apparaissent minimes et ne s’appliqueront ni aux entreprises privées ni aux autorités administratives.

    Nous sommes également déçus de voir qu’en matière de « #reconnaissance_des_émotions » et les pratiques de #catégorisation_biométrique, seuls des cas d’utilisation très limités sont interdits dans le texte final, avec d’énormes lacunes.

    Cela signifie que le règlement IA autorisera de nombreuses formes de reconnaissance des émotions – telles que l’utilisation par la police de systèmes d’IA pour évaluer qui dit ou ne dit pas la #vérité – bien que ces systèmes ne reposent sur aucune base scientifique crédible. Si elle est adoptée sous cette forme, le règlement IA légitimera une pratique qui, tout au long de l’histoire, a partie liée à l’#eugénisme.

    Le texte final prévoit également d’autoriser la police à classer les personnes filmées par les caméras de #vidéosurveillance en fonction de leur #couleur_de_peau. Il est difficile de comprendre comment cela peut être autorisé étant donné que la législation européenne interdit normalement toute #discrimination. Il semble cependant que, lorsqu’elle est pratiquée par une machine, les législateurs considèrent de telles #discriminations comme acceptables.

    Une seule chose positive était ressorti des travaux techniques menés à la suite des négociations finales du mois de décembre : l’accord entendait limiter la reconnaissance faciale publique a posteriori aux cas ayant trait à la poursuite de crimes transfrontaliers graves. Bien que la campagne « Reclaim Your Face » ait réclamé des règles encore plus strictes en la matière, cela constituait un progrès significatif par rapport à la situation actuelle, caractérisée par un recours massif à ces pratiques par les États membres de l’UE.

    Il s’agissait d’une victoire pour le Parlement européen, dans un contexte où tant de largesses sont concédées à la surveillance biométrique. Or, les négociations menées ces derniers jours, sous la pression des gouvernements des États membres, ont conduit le Parlement à accepter de supprimer cette limitation aux #crimes_transfrontaliers graves tout en affaiblissant les garanties qui subsistent. Désormais, un vague lien avec la « #menace » d’un crime pourrait suffire à justifier l’utilisation de la #reconnaissance_faciale_rétrospective dans les espaces publics.

    Il semblerait que ce soit la #France qui ait mené l’offensive visant à faire passer au rouleau compresseur notre droit à être protégés contre les abus de nos données biométriques. À l’approche des #Jeux_olympiques et paralympiques qui se tiendront à Paris cet été, la France s’est battue pour préserver ou étendre les pouvoirs de l’État afin d’éradiquer notre anonymat dans les espaces publics et pour utiliser des systèmes d’intelligence artificielle opaques et peu fiables afin de tenter de savoir ce que nous pensons. Les gouvernements des autres États membres et les principaux négociateurs du Parlement n’ont pas réussi à la contrer dans cette démarche.

    En vertu du règlement IA, nous serons donc tous coupables par défaut et mis sous #surveillance_algorithmique, l’UE ayant accordé un blanc-seing à la surveillance biométrique de masse. Les pays de l’UE auront ainsi carte blanche pour renforcer la surveillance de nos visages et de nos corps, ce qui créera un précédent mondial à faire froid dans le dos.

    https://www.laquadrature.net/2024/01/19/le-reglement-europeen-sur-lia-ninterdira-pas-la-surveillance-biometriq
    #surveillance_de_masse #surveillance #intelligence_artificielle #AI #IA #algorithme

    voir aussi :
    https://seenthis.net/messages/1037288

  • Hamas-Israël : « On va aller au bout de l’horreur et tout le monde sera perdant », Peter Harling

    [...]

    Mais comment en sortir ?

    Il n’y a aujourd’hui que quatre options possibles. Un, la solution à deux Etats. Deux, la solution à un Etat dans lequel tous les citoyens ont les mêmes droits et les mêmes devoirs dans un système juridique unifié. Trois, ce qu’on appelle aujourd’hui un système d’apartheid, donc plus exactement un système juridique qui discrimine explicitement une partie de la société. Et enfin, des solutions à caractère génocidaire, donc la destruction de l’autre, qui n’est pas une destruction intégrale. Aux Etats-Unis par exemple, il reste des populations autochtones, comme en Australie, en Afrique du Sud, en Argentine et ailleurs, mais la #dynamique_génocidaire constitue une forme de solution au sens où on détruit le tissu social, les institutions, les traditions, l’identité d’une partie de la population au point de pouvoir la soumettre indéfiniment. Ce qui est effrayant, c’est que moins on soutient la première et la deuxième options, plus on accepte, implicitement, la troisième et la quatrième. Ce virage est en train de se produire sous nos yeux.

    La retenue du monde extérieur n’est-elle pas liée aussi au fait qu’il n’y a pas d’interlocuteur valable ?

    Je pense qu’il y a un certain nombre de conflits où des interventions extérieures sont nécessaires, ne serait-ce que pour faciliter des solutions ou pour éviter le pire, pour ériger des garde-fous. Les interlocuteurs, ça se construit d’un côté comme de l’autre. Ce conflit a pu pourrir pendant des décennies, à mesure qu’on abandonnait tout effort pour faire aboutir des négociations constructives qui sont extraordinairement difficiles mais incontournables. La société israélienne est très composite, très complexe, très dynamique. Le gouvernement qui est en partie représentatif est aussi dénoncé par une partie importante de sa société, mais il est constitué de figures qui représentent certaines évolutions de fond au sein de la société israélienne qui sont très difficiles à ignorer. Encore une fois, c’est une responsabilité qu’on doit assumer et on doit travailler dur pour progressivement reconstruire le type de partenaire dont on a besoin pour, à terme, trouver une solution.

    Vous semblez faire porter toute la responsabilité sur les pays occidentaux ?

    D’abord, c’est le monde dont je fais partie et il est plus naturel pour moi de porter un jugement sur mes propres représentants au pouvoir. C’est effectivement un monde qui prétend incarner une certaine règle du jeu à l’échelle internationale mais qui aujourd’hui atteint un seuil où il abandonne toute prétention à soutenir quelque chose comme le droit de la guerre, à savoir le droit international humanitaire. On a aussi des raisons d’être un peu désabusé, par le gouvernement israélien, mais aussi les acteurs palestiniens. Le Hamas est un mouvement qui a beaucoup progressé sur le plan tactique et militaire. Mais sur le plan politique, il est complètement enkysté. Il n’a rien à offrir d’autre que ce qu’il répète depuis des années : les sacrifices. Il n’offre aucun avenir, aucune solution, aucune base de négociation. Mais il y a toutes sortes de mesures qu’on peut utiliser pour poser des limites. Ça peut être par exemple de diminuer les livraisons d’armes à Israël dans le cas des Etats-Unis, sans nécessairement y mettre fin.

    Comment comprendre l’effacement des pays arabes aujourd’hui ?

    Je pense qu’il y a une indifférence profonde à la cause palestinienne au sein de nombreux régimes arabes. Le vrai problème, c’est cette notion d’une cause palestinienne qui n’existe que dans le martyr et la souffrance. C’est ce qui fait d’ailleurs que le Hamas, d’une manière empirique, remporte une forme de victoire aujourd’hui en remettant cette souffrance sur le devant de la scène, et une souffrance encore plus intense que tout ce qu’on a pu voir par le passé. Mais on a aussi la certitude, malheureusement, que ce conflit retombera dans l’oubli. Le paradoxe, c’est que ce qui porte le plus la cause palestinienne, entre deux conflits, c’est la société civile israélienne qui, sans relâche, dénonce les abus commis par les forces d’occupation en Cisjordanie par exemple.

    Quelle est la solution pour arrêter le massacre à Gaza ?

    Aujourd’hui, tout fonctionne sur la base des règles du jeu définies par Israël, y compris l’entrée de l’#aide_humanitaire. Ça donne lieu à des formes de propagande comme celle qu’on a vue de la part de la #France, sur le largage de quelques tonnes d’aide avec des drapeaux français, diffusé dans un clip vidéo par le Président lui-même. C’est choquant du point de vue des besoins sur le terrain. L’argument israélien au niveau de l’aide humanitaire, c’est cette sensation de citadelle assiégée qui est liée au 7 octobre, l’idée que par l’aide humanitaire pourraient rentrer des vagues de nouveaux terroristes du Hamas qui se cacheraient.

    Quel peut être le moment de prise de conscience qu’on ne peut plus continuer ?

    Je crois que pour l’instant, on va aller jusqu’au bout de l’horreur. Ce qui est important de garder à l’esprit, c’est que tout le monde sera perdant. La population de Gaza évidemment, qui ne se remettra pas de ce conflit, qu’elle soit forcée au départ ou non. Israël pourra clamer une victoire superficielle, mais son image est extrêmement dégradée dans différentes parties du monde, y compris par exemple auprès de la jeunesse juive aux Etats-Unis. Je pense qu’Israël est de plus en plus en train de s’enfermer dans une impasse, de s’isoler sur la scène internationale. Et je pense que nos propres gouvernements seront perdants. En ayant abandonné toute référence crédible à un système international un tant soit peu organisé par le droit.

    https://www.liberation.fr/international/hamas-israel-on-va-aller-au-bout-de-lhorreur-et-tout-le-monde-sera-perdan

    #Israël #Gaza #Palestine

    • « Le vrai problème, c’est cette notion d’une cause palestinienne qui n’existe que dans le martyr et la souffrance. C’est ce qui fait d’ailleurs que le Hamas, d’une manière empirique, remporte une forme de victoire aujourd’hui en remettant cette souffrance sur le devant de la scène, et une souffrance encore plus intense que tout ce qu’on a pu voir par le passé. »

      Aaah ces Arabes, toujours ce goût de la souffrance !...

    • Voilà un article qui suscite des réactions de haute volée. Sa première partie pourra elle-aussi servir de hochet pour qui le souhaite.

      Ancien conseiller spécial pour le Moyen-Orient de l’International Crisis Group et du médiateur pour la Syrie Lakhdar Brahimi, fondateur et directeur du centre d’analyses et de recherches Synaps, Peter Harling estime que le 7 octobre et ses suites ont entraîné « un niveau d’engagement émotionnel » comparable à celui provoqué par l’invasion américaine de l’Irak en 2003.

      Trois mois après le 7 octobre, la situation est-elle celle que l’on pouvait prévoir ?

      Pour peu qu’on suive l’évolution de ce conflit, de la société israélienne, celle de la société palestinienne et de leurs leaderships respectifs, on ne pouvait que s’attendre à un désastre d’une telle nature. Et c’est ce qui m’a beaucoup dérangé au début du conflit, de la part des responsables politiques extérieurs qui avaient toutes les raisons, eux aussi, de savoir qu’on était face à une impasse historique dangereuse, et que l’attaque du 7 octobre était un événement particulièrement explosif.

      Vous pensez à qui ?

      A tous ceux qui ont réagi à cette nouvelle étape dans un conflit particulièrement ancien et bien documenté, comme s’il s’agissait seulement d’un attentat terroriste. En projetant sur ce conflit le paradigme de la guerre contre le terrorisme, le réflexe dominant a été une solidarité inconditionnelle immédiate avec Israël agressé. Nos prises de position rappelaient quelque chose comme Charlie Hebdo. Or, le gouvernement israélien est un gouvernement d’une extrême droite qui fait pâlir celles qu’on connaît en Europe. Cette évolution pouvait au moins inviter à la prudence, à la mesure. On peut évidemment exprimer son soutien, sa solidarité, son empathie. Mais on ne peut pas se passer de toute politique, de toute compréhension de l’ensemble des enjeux.

      Mais n’est-ce pas en même temps un conflit qui était marginalisé depuis plusieurs années ?

      Il est révélateur d’une fatigue généralisée par rapport au monde arabe et à la région dans son ensemble. On ne veut plus entendre parler du conflit israélo-palestinien, tout comme on ne veut plus entendre parler de la Syrie, de l’Irak, d’un Liban éternellement au bord de la banqueroute, d’une Libye qui ne sort pas de son propre conflit intérieur, d’une Tunisie qu’on ramène aujourd’hui exclusivement à des questions d’immigration. Une des raisons pour lesquelles on a projeté sur Gaza le prisme de la guerre contre le terrorisme, c’est précisément parce qu’on avait tourné la page sur des approches plus anciennes, comme la recherche d’une paix durable.

      Vous évoquez une nouvelle étape de ce conflit historique ?

      Dans la région, la plupart des gens le vivent comme quelque chose d’entièrement nouveau. Le conflit israélo-palestinien a toujours suscité des réactions très émotionnelles, démonstratives et intenses dans la région et au-delà, mais jamais à ce point. On a aussi le sentiment d’une vraie rupture, un niveau d’engagement émotionnel comparable à l’invasion américaine de l’Irak en 2003 et qui contient de vraies nouveautés. On perçoit le soutien [occidental] plus ou moins marqué à Israël comme l’expression d’un racisme désinhibé à l’encontre des Palestiniens, des Arabes et des musulmans. Avant, les gens s’indignaient du deux poids, deux mesures d’une certaine hypocrisie occidentale. Aujourd’hui, beaucoup dans la région découvrent des gouvernements occidentaux qui semblent accepter des formes de violence extrême qui suggèrent que la vie d’un Palestinien, d’un Arabe, d’un musulman n’a pas la même valeur que la vie d’autres êtres humains ailleurs sur la planète.

      Le soutien inconditionnel à Israël est-il si évident ?

      Je pense que beaucoup de nuances existent, mais qu’elles sont imperceptibles pour des observateurs dans le monde arabe mais aussi pour une bonne partie des observateurs dans nos propres sociétés, étant donné le niveau de violence, de souffrance qu’ils constatent jour après jour sur le terrain. Il y a une différence entre ceux qui suivent de près l’évolution du drame qui se joue à Gaza et ceux qui ont une approche un peu plus distanciée, et par conséquent abstraite, intellectuelle de la situation. Pour les premiers, c’est incompréhensible et insoutenable. Pour les seconds, c’est juste un conflit comme un autre. Le clivage se joue là.

      L’impuissance mondiale à tenter de trouver un moyen de mettre fin à la guerre n’est-elle pas surprenante ?

      Il se joue énormément de choses qui relèvent de la politique intérieure dans les pays européens, de notre rapport à Israël, à l’antisémitisme, pour des raisons historiques qui ne concernent pas les Palestiniens et les observateurs dans la région. Tout ça nous empêche de prendre des mesures, par exemple de dénoncer certains actes de la part d’Israël. Jusqu’à maintenant, la plupart des médias prennent énormément de précautions quand ils décrivent « les violences » qui ont cours à Gaza, beaucoup plus qu’ils n’en prendraient ailleurs. Cela n’a pas grand-chose à voir avec le conflit lui-même, mais je pense qu’on a un rapport naturellement très compliqué avec Israël. Historiquement, l’Europe est un continent qui n’a jamais su tirer au clair ce qu’on appelait la question juive, qui a donné lieu à un génocide d’une proportion effarante. Et le problème, au fond, a été exporté. On a beau jeu aujourd’hui d’accuser les Israéliens et les Arabes de ne pas s’entendre sans avoir jamais vraiment trouvé de solution à l’antisémitisme dans le contexte européen.

      Ce qui expliquerait que jamais en vingt-cinq ans vous n’avez constaté une telle fracture entre le monde arabe et les pays occidentaux ?

      La région a déjà dû avaler un certain nombre de couleuvres depuis vingt-cinq ans. Mais celle-ci est plus difficile encore, avec un effet d’accumulation. L’offensive américaine contre l’Irak en 2003, c’est quand même l’invasion du mauvais pays au prétexte de la guerre contre le terrorisme, sur la base de mensonges prouvés, avec un coût faramineux pour la population irakienne. Et ce n’est pas pour dire que le régime de Saddam Hussein était louable. Je pense qu’un autre tournant a été la guerre en Syrie, avec une débauche de violences allant jusqu’au retour à l’utilisation de l’arme chimique, qui constituait alors un tabou, et ce, sans réaction internationale. La différence avec Gaza, c’est que dans l’ensemble on condamnait explicitement le régime au pouvoir qui exerçait ces violences. Dans le cas de Gaza, on trouve des raisons de soutenir parfois à demi-mot des violences qui sont extrêmes elles aussi, même si elles ne sont pas toujours comparables. Il y a un certain nombre de choses qui le sont, comme le fait de cibler assez systématiquement les services de santé, les ambulances, les professionnels de la santé. On appelle à la retenue mais on ne condamne pas directement, jamais explicitement et spécifiquement.

      Pour revenir au cœur de la confrontation actuelle, le moment est-il à une négation réciproque de l’existence même de l’autre ?

      La négation de l’autre n’est pas particulièrement nouvelle dans ce conflit comme dans les conflits d’une façon générale. On est face à un problème particulièrement difficile à résoudre et qui exigerait des interventions extérieures : des responsables matures, structurés, informés. Or, c’est très précisément ce qui manque. Donc on laisse deux populations effectivement aux prises l’une avec l’autre, avec des moyens spectaculaires pour se faire du mal réciproquement.

  • The COVID-safe strategies Australian scientists are using to protect themselves from the virus - ABC News
    https://www.abc.net.au/news/2024-01-21/covid-safe-strategies-australian-scientists-virus-infection/103335466
    https://live-production.wcms.abc-cdn.net.au/ad2eada4eaabdc63ab704f3797c8a95b?impolicy=wcms_crop

    Some commentators have described this situation — the crashing of wave after wave of COVID-19, a steady drip, drip, drip of death and mounting chronic illness — as the “new normal”. But other experts insist it doesn’t have to be, and that continuing on the current trajectory is unsustainable — especially in light of data showing that COVID has decreased life expectancy, will cost the global economy an estimated $US13.8 trillion by 2024, and is decimating the lives of millions of people who have developed long COVID.

    Meanwhile, studies continue to pile up showing COVID-19 can cause serious illness affecting every organ system in the body, even in vaccinated people with seemingly mild infections. It can cause cognitive decline and dysfunction consistent with brain injury; trigger immune damage and dysfunction; impair liver, kidney and lung function; and significantly increases the risk of cardiovascular disease and diabetes. Then there’s long COVID, a debilitating disease that robs fit and high-functioning people of their ability to think, work and exercise.

    All of this is why governments must invest in long-term strategies for managing COVID-19 into the future, experts say — particularly by introducing standards for indoor air quality. But until then, they say, Australians can and should take precautions against COVID-19 to reduce transmission and protect their health. And doing so is relatively simple: it just takes a little planning, preparation and common sense.

    Here, three of Australia’s leading COVID-19 experts share their personal COVID safety strategies and reflect on what must happen if we’re to blunt the growing health crisis the pandemic is causing — and prepare for the next one.

    • When the COVID-19 pandemic hit Australia in 2020, Associate Professor Stuart Turville had been working in the Kirby Institute’s level-three physical containment (PC3) lab, researching another well-known RNA virus: HIV. His team quickly pivoted to #SARS-CoV-2, capturing the virus and characterising it very quickly. Still today when the NSW Ministry of Health’s genomic surveillance unit identifies a new variant of interest, Dr Turville, a virologist, will use a swab from a positive case and grow the virus to understand its mutations and virulence.

      Scientists working in the PC3 lab must wear robust personal protective equipment primarily for respiratory safety. Before he enters the lab Dr Turville dons several layers of gear: a full-face Powered #Air Purifying Respirator (PAPR) mask, a collar with its own HEPA filter ("it’s like being in a scuba suit"), two pairs of gloves, a disposable Tyvek suit, a generic gown that is laundered after use, booties, gumboots and little plastic socks that go over the boots. “Not only could [getting infected] impact our research colleagues and the general community,” he says, “but we could also take the virus home.”

      For Dr Turville, the risk of taking #COVID-19 home was particularly serious. In 2020 he was caring for his elderly father who had heart problems and his mother was also at risk of severe disease. If he brought the virus into his dad’s aged care facility, it would be put into lockdown and “he would be eating cold meals in his room alone”. “So for me personally it was incredibly important to maintain that protection and ensure I remained negative,” he says. “I’ve still only got it once — I got it from undergraduate teaching, which will teach me.”

      As for how he protects himself outside the lab, day to day? For starters, “As a scientist I don’t get out much,” he jokes. He drives to work, avoiding crowded public transport. If he’s going on an overseas trip, he’ll plan to get a booster vaccine four weeks before he gets on a plane. “I know from the studies that we do and other people do that if you get a new formulation vaccine you’re going to encourage the mature B cells to generate better cross-reactive antibodies,” he says, “and so you’re going to have better protection if you’re exposed to [COVID-19].”

      A man wearing a green lab gown stands against the wall in a corridor, next to a blue clinical smock
      Political support for genomic surveillance work is “shrinking”, says Stuart Turville.(Supplied: Richard Freeman, UNSW)
      If someone in his family gets sick, he says, they immediately isolate themselves. “It’s only happened once or twice where one of us has been positive but they’ve generally been isolated to one room and wearing a P2 mask” to protect the rest of the household. “Another thing we’ve been doing, which has been somewhat of a side benefit of looking after my father in aged care, is RAT testing before going into those facilities — even though we might be asymptomatic,” he says. “I think it’s really a situation of common sense in the context: if you don’t feel well, you isolate, you keep germs to yourself.”

      Still, Dr Turville is acutely aware of the vitriol frequently directed at people who promote COVID-19 safety. Strangers will circulate photographs of him in his lab kit, particularly on social media, to mock him: “They’ll say, ’Oh, this guy is an idiot, why is he using that, he shouldn’t fear [the virus] anymore’.” This both puzzles and amuses him. “It’s my job; I’m not going to bring it home when I have a sick father — pull your head in,” he says. “Unfortunately there is a lot of negativity towards people who choose to protect themselves. We never really saw that in the HIV era — there was never really a pushback on condom use.”

      Then again, the differences between how the two pandemics — HIV/AIDS and COVID-19 — were managed in Australia are probably quite instructive, says Dr Turville. With HIV, experts and health ministers collectively built a strong public health strategy that they strove to protect from politics. “When we look at COVID, it was political from the start and continues to be,” he says. We also now lack a “mid to long-term plan to navigate us through” this next phase of COVID-19: “Some argue that we are no longer in the emergency phase and need to gear down or simply stop,” he says. “But should we stop, and if not, what do we gear down to as a longer-term plan?”

      Three scientists wearing white Tyvek suits and full face PAPR masks working in a physical containment lab
      Stuart Turville and his colleagues working in the Kirby Institute’s PC3 laboratory.(Supplied: Richard Freeman, UNSW)
      Perhaps one reason Australia lacks a long-term plan for managing COVID-19 is the complexity of instigating one in light of the community’s collective trauma. The first couple of years of the pandemic were stressful and frightening and as much as border closures, lockdowns and other restrictions saved tens of thousands of lives in 2020 and 2021, they are still resented by some people whose livelihoods or mental health suffered — and who now push back against precaution. This backlash is so fierce in pockets of the community that some seem to conflate any kind of protective action with lockdowns.

      “There might have been some things we went too hard with but I think we have to look at it in perspective,” Dr Turville says. “We didn’t have those really, really dark months in Australia — we never had the mass graves like we saw in Italy or New York. We got a scare during [the] Delta [wave] and that helped get us our really high vaccination rates … But my worry now is, are we stepping away too soon?”

      Aside from much of the general public abandoning measures like masking, he says, political support for genomic surveillance work is also now “shrinking”. And without the critical data it generates, he says, there’s a risk scientists like him will miss new, more dangerous variants. “I think there’s a lot of patting on the back at the moment — job well done. And that’s nice, but I think it’s somewhat job well done, there goes the rug,” he says. “I think it’s the apathy that’s the concern. And I think it’s coming top-down, it’s coming very much from the government. I just don’t understand why, like we had with HIV, there can’t be a mid-term strategy.”

      ’Air is out of mind until it’s a problem’

      Robyn Schofield, aerosol scientist at Melbourne University

      A woman with blue eyes, short dark hair and green earrings smiles as a busy city rushes around her
      Robyn Schofield is an atmospheric chemist and aerosol scientist at Melbourne University.(ABC News: Danielle Bonica)
      Associate Professor Robyn Schofield can rattle off data on the harms and benefits of clean indoor air as breezily as if she were reciting her own phone number. We breathe in about eight litres of air a minute. We consume 14 kilograms of air a day. Our lungs have the surface area of half a tennis court. Globally, nine million people die from air quality issues every year. In Australia, she says, it’s somewhere between 3,000 and 11,000 deaths — “way more than the road toll”. But people generally don’t know any of that, she says. “They don’t appreciate how important breathing is until it’s hard to do. It’s like the air: you can’t see it, so it’s out of mind until it’s a problem.”

      In 2020, the air became a massive problem. The main way COVID-19 spreads is when an infected person breathes out droplets or aerosol particles containing the virus — think about aerosols as behaving similarly to smoke, lingering in the air potentially for hours. An atmospheric chemist and aerosol scientist at Melbourne University, Dr Schofield quickly began working with respiratory specialists to understand how to reduce the risk of viral transmission by improving the ventilation and filtration of indoor air.

      What she still finds thrilling is that indoor air quality can be assessed with a battery-powered CO2 monitor; popular devices like the Aranet cost about $300 but some companies are developing tech to allow smartphones to do the same. And the investment is worth it, many argue, because it can help you avoid catching COVID-19. It’s also good for productivity, with studies showing higher CO2 levels decrease cognitive performance. If CO2 is 800 parts per million, Dr Schofield says, 1 per cent of the air being inhaled has been breathed out by someone else — and is therefore a good proxy for infection risk.

      A woman pulls a 3M Aura respirator and an Aranet CO2 monitor out of her black handbag
      Dr Schofield’s COVID-safety kit includes an N95 respirator and a CO2 monitor.(ABC News: Danielle Bonica)
      One of the findings from the past few years she finds “most exciting”, however, is the role of relative humidity in indoor spaces. When relative humidity is below 40 per cent, Dr Schofield says, the risk of catching COVID-19 increases. (A good sign of that, for those who wear contact lenses, is dry eyes, which she says is “a really good indication that you should get out!”) “Because you are becoming the moisture source. Your mucous membranes — which are protecting you from getting COVID or the doses you acquire — are giving up that moisture, and so it’s easier to be infected.”

      Dr Schofield is particularly concerned with preventing infection in healthcare settings. She bravely spoke out last year when, while being treated for breast cancer at Peter Mac in Melbourne, the hospital decided to relax its masking policy for patients. “COVID cases were actually rising at the time, so it was a bad call,” she says. “And it was then reversed.” But she was still “disgusted” and lost respect for the hospital’s leadership, she says: she expected that staff would understand the science of COVID-19 transmission and take steps to protect vulnerable patients.

      A woman wearing a black top prepares to put on a white N95 respirator as people dine at outdoor cafe tables behind her
      Dr Schofield chooses restaurants with outdoor dining areas when eating out.(ABC News: Danielle Bonica)
      Even before she was diagnosed with cancer, Dr Schofield was taking precautions — for starters, she knows where the “most risky settings” are. Trains, planes and automobiles are big red zones: “Buses are actually the worst,” she says, because they recirculate air without filtering it. She regularly uses nasal sprays, wears an N95 respirator when she’s indoors with other people — in meetings at work, for instance — and makes sure air purifiers are switched on. “If I walk into a space, I will also open windows. I just go around and open them,” she says. “Because actually, no one’s going to tell me not to.”

      When eating out, she chooses restaurants that have outdoor dining areas: a newly revamped boathouse in the Melbourne suburb of Kew is a favourite of hers, and Korean barbecue is “always excellent”, she says, because there are generally extractor fans at each table. It’s all about good ventilation — clean air. “I always take my Aranet [CO2 monitor] along, and if you sit close enough to the kitchen, the kitchen fans are very effective.”

      All of these issues point to an urgent need for governments to develop indoor air standards, Dr Schofield says — for air quality to be regulated and monitored, just like food and water are. Before the pandemic, in 1998, the economic cost to the Australian economy of poor indoor air was $12 billion per year — $21.7 billion in 2021 money. “So why aren’t we learning from that, and moving forward?” she says. “This is not about going back to 2019, it’s about having the future we deserve in 2030.”

      ’We’re living in a public health ’Barbieland’

      Brendan Crabb, chief executive of the Burnet Institute

      professor brendan crabb
      The lack of action against COVID is fundamentally a problem of a lack of leadership, says Brendan Crabb.(Image: Supplied by Burnet institute)
      Four years into the COVID-19 pandemic we’re living in a “public health Barbieland”, says Professor Brendan Crabb, director and chief executive of the Burnet Institute. Too many of us are playing “make-believe” that life has returned to “normal”, he says, and there’s an “enormous disconnect” in the community: a failure to grasp both the true scale of COVID circulating and the impact of infections on our health and longevity.

      Australia recorded more than 28,000 excess deaths between January 2022 and July 2023, he says. “These are unheard of numbers, people who wouldn’t have otherwise died, let alone the hundreds of thousands in hospital — we don’t know exactly because no one publishes the numbers.” Then there are the hundreds of millions globally with long COVID-19, the risk of which increases with each infection. “I find what we know about COVID concerning enough to call it an elevated public health crisis,” Professor Crabb says. “And we need sustainable solutions to that now and in the longer term.”

      Long COVID will take your health, your wealth — then it will come for your marriage
      Long COVID is not just destroying people’s health. Behind closed doors, in homes across Australia and abroad, it is irreversibly changing relationships — sometimes for the better, too often for worse.

      An illustration in blue and pink colours shows a woman sitting alone in a room looking out a window
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      The lack of action against COVID-19, Professor Crabb says, is fundamentally a problem of a lack of leadership. “The most common thing said to me is, ’Brendan, I really do trust what you and others are saying. But if there was a real problem the prime minister, the government, would be telling us that,’” he says. “I don’t think people are all of a sudden profoundly individualistic and don’t care about COVID anymore — that they’re suddenly willing to take massive risks and hate the idea of vaccines and masks. I just don’t think they’re being well led on this issue.”

      A crucial factor shaping Australians’ apathy towards COVID-19 in 2024, Professor Crabb believes, was Chief Medical Officer Paul Kelly’s statement in September 2022 that the virus was no longer exceptional. “It is time to move away from COVID exceptionalism, in my view, and we should be thinking about what we do to protect people from any respiratory disease,” Professor Kelly said at a press conference. Those comments, Professor Crabb says, have never been turned around. “If I’m right — and I say that was a profoundly wrong statement — then that has to be corrected by the same people.”

      He also points a finger at two unhelpful ideas. “There is a strong belief, I think, by the chief medical officer and many others that once we got vaccinated, infection was our friend,” he says. Australia’s vaccine program was highly successful, Professor Crabb says. Most people were inoculated against COVID-19 before large numbers were infected. “If we were the US, we’d have had 80,000 deaths … [instead] we had 1,744 deaths in the first two years,” he says. But while vaccination broadly protects against severe illness and death, it does not protect against (re)infection or the risk of acute and chronic health problems.

      The other idea is hybrid immunity, which holds that vaccination and infection provides superior protection against severe outcomes compared to immunity induced by vaccination or infection alone. For Professor Crabb, the concept is flawed: first, because it encourages infection, which he believes should be avoided, and second, because it does not work — at least not with the predictable emergence of new variants like JN.1 which are capable of evading population immunity. “Immunity is good,” he says. “But it’s not good enough.”

      A panel of participants at the Clean Air Forum in Parliament House, with air purifiers and a CO2 monitor around the room
      Brendan Crabb took his portable air purifier to the Clean Air Forum at Parliament House last year, where there were also large purifiers in the room and a CO2 monitor on the desk.(Supplied: Stuart Kinner)
      In a perfect world, Professor Crabb says, political leaders would speak regularly about the pressure on health systems, about deaths, and about the potential health consequences for children, which are often overlooked. “And then underneath that they’d set a blueprint for action around the tools we currently have being properly implemented: a vaccine program, a clean air program, advice around wearing masks when you can’t breathe clean air, and testing so you can protect those around you and get treated.” But who speaks matters, too: “If it’s not [coming from] the prime minister, if it’s not the premiers — if it’s not consistent — it’s probably not going to cut through.”

      In the meantime, he says, people can and should take precautions — they can be leaders in their community, and start conversations with their employers and kids’ schools. For him, in addition to getting current booster vaccines, it means using a toolkit he built with his wife who, as a paediatrician who works in a long COVID-19 clinic in Melbourne, comes face to face with the harm the virus is doing every day. The kit includes a well-fitted N95 mask, a CO2 monitor and a portable air purifier. “It’s another line [of defence],” he says. “If you’re in a restaurant, say, and … you’ve got a few people around you, putting one of those on the table, blowing in your face, is a good idea.”

      Masks, he adds, should be worn in crowded places or spaces with poor ventilation. Of course, the topic sometimes sparks heated debate. A Cochrane review which last year suggested masks do not work was later found to be inaccurate and misleading and subject to an apology. But the damage it did was significant. Since then a vicious culture war has raged, much to the dismay of respected scientists who continue to make the point: numerous studies show high-quality, well-fitted N95 and P2 respirators prevent infection when they’re worn correctly and consistently.

      Professor Crabb’s home is also as “airborne safe” as he can make it. An “enormous amount of transmission” occurs in homes, he says. And his analysis of excess deaths from COVID-19 between January 2022 and March 2023 paints a striking picture: Moving down the east coast from Queensland, excess deaths increase, with Tasmania recording the highest proportion — last year it was more than double that of Queensland. “There’s no way Queensland has better COVID strategies than Victoria,” he says. “So very likely it’s to do with less time spent in poorly ventilated indoor spaces.”

      Ultimately, strong evidence supporting the benefits of clean air is why Professor Crabb believes the future of COVID-19 — and other pandemics to come — is regulating indoor air quality: a responsibility for governments, public institutions and workplaces. “That’s where we are really headed, and that’s where I think there’s strong interest at a government level,” he says. “Of course everyone is stressed about what that will cost, but … let’s at least have the conversation. We have to move towards an airborne future. How you do that in economically sensible ways is a separate discussion — whether we do it or not should not be up for discussion, and the gains are enormous.”

      #santé #prévention #CO2 #masque #purificateur_d'air #purificateur_d'air_portable

    • Ultimately, strong evidence supporting the benefits of clean air is why Professor Crabb believes the future of COVID-19 — and other pandemics to come — is regulating indoor air quality: a responsibility for governments, public institutions and workplaces. “That’s where we are really headed, and that’s where I think there’s strong interest at a government level,” he says.

    • Oui, d’ailleurs, à propos de la « régulation de la qualité de l’air intérieur, responsabilité des gouvernements, institutions publiques et lieux de travail », à Davos, ils montrent l’exemple pour la deuxième année consécutive. Le capitalisme, ça vous gagne.

    • Me serais-je mal fait comprendre ? Les purificateurs ne sont pas partout, hélas. Juste dans des endroits « stratégiques » où les dominants protègent leurs intérêts et pérennisent leurs privilèges. Un air pur et exempt de tout agent pathogène, ça se « mérite ».

    • Oui, c’est bien ce dont je parle. L’année dernière, on avait vu les images accablantes de tous des dispositifs de purification d’air pour Davos, pendant que les autres grenouillent dans les miasmes.

      On a vu aussi que « Stan » avait eu une maousse subvention qui avait dû manquer aux actions sociales pour entièrement refaire son système de ventilation.

      Je me demandais donc si on avait de nouveau vu Davos se protéger consciencieusement perdant que les dirigeants racontent à leurs peuples respectifs que la pandémie, faut vivre avec.

  • Chile searches for those missing from Pinochet dictatorship with the help of artificial intelligence

    At the end of August, Chilean president Gabriel Boric launched the Search Plan for more than 1,000 Chileans. Today, old judicial documents, many typewritten, have been digitized to apply cutting edge technology and cross-reference data.

    On Monday 15 January, at the inauguration of the “Congress of the Future” in Santiago, President Gabriel Boric stated that artificial intelligence, the theme of the 13th version of the conference, “will play an important role in the search for our #missing detainees.” He was referring to the #Search_Plan to find over 1,000 individuals who were victims of the Augusto Pinochet dictatorship (1973-1990), which his Administration presented on August 30, 2023, on the eve of the September 11 commemoration of the 50th anniversary of the coup d’état that ousted Salvador Allende, the socialist president.

    The plan, spearheaded by Justice Minister Luis Cordero, is an initiative that is intended to become a permanent State policy. According to Justice data, after the dictatorship in Chile there were 1,469 victims of forced disappearance and of these, 1,092 are missing detainees, while 377, who were executed, are missing as well. So far only 307 have been identified.

    To embark on this new search, which has already been initiated by the courts, Cordero tells EL PAÍS that he is working with two main sources. On the one hand, the judicial investigations, which comprise millions of pages. And on the other, the administrative records of the cases that are scattered around state agencies. These include the Human Rights Program, created in 1997, which falls under the Ministry of Justice, as well as previous investigations in military Prosecutor’s Offices (which used to close the cases) and the files that provided the basis for the 1991 National Commission for Truth and Reconciliation Report, driven by the former president, Patricio Aylwin (1990-1994), and in which an account of the victims was given for the first time.

    Typewritten documents

    Unsholster, a company specialized in data analysis, data science and software development, whose general manager is the civil engineer Antonio Díaz-Araujo, is behind the technological analysis of the information. The Human Rights Program has already digitalized the information, while the Judicial Branch is 80% digitalized. The firm was awarded the project in a bidding process in the context of the Search Plan — it is in charge of the implementation of artificial intelligence.

    Something of relevance in this investigation is that the judicial files, separated according to each case, were processed in the old Chilean justice system (changed in 2005), which implies that the judges’ inquiries are on paper — most of them have the pages sewn into a notebook by hand, written on typewriters, and there are even several handwritten parts. These are the ones containing statements, black and white photographs, photocopies of photos, forensic reports and old police reports.

    However, in addition, the judicial inquiries that have been undertaken since 2000 will provide a more up-to-date and crucial basis of information in the analysis. Since then, hundreds of cases that had been shelved during the dictatorship have been reopened by judges with exclusive dedication to cases of human rights violations with sentences.

    Cordero points out that “there is a lot of information in the hands of the State and there is no human capacity to process it, because it needs to be interconnected. For example, there are testimonies that appear in some files and not in others. And, in addition, depending on the judges, there were lines of investigation, so there may have been precedents that were useful for some and not for others.” For this reason, the justice minister says artificial intelligence can play a key role, as he believes that in these cases, the cross-referencing of information will be crucial.

    “All that information is in judicial and administrative files, and what digitization accomplishes first is to integrate them in one place. And then to work with artificial intelligence, which allows us to reduce the investigation gaps using algorithms, which are being tested, and which can read, for example, dates, names, places, for instance, in those files,” the minister adds.
    4.7 million pages and counting

    Unsholster is currently in the pre-project stage, before it starts programming, Díaz-Araujo explains to EL PAÍS. “But we have already touched on most of the file types that we will need to deal with,” he says. The documents that have been coming in, scanned sheet by sheet, are in folders, in PDF format, and therefore do not correspond to a logic that allows data to be searched because they are recorded as images. For this reason, the first step has been to start applying OCR (Optical Character Recognition) technology so that they can be transformed into data.

    They already have information — which does not yet include the thousands of files of the Judicial Branch — totaling 46,768 PDF files, which amounts to more than 4.7 million pages. “If a person were to read every one of those pages, out loud and without understanding or relating facts, they would probably spend eight hours a day reading for 27 years,” explains the civil engineer.

    Once those files are moved to pages, Díaz-Araujo says, “a big classification tree is created, which allows you to classify pages that have images, manuscripts, typewritten pages, or Word-style files. And then you start to apply, on each one of them, the best OCR” for each type of page, because the key, he adds, lies in “what material is brought to each one.”

    Another stage, he explains, is to create different types of dictionaries and entities “that can be learned with use.” For example, nicknames of people, places, streets (many have changed names since the dictatorship), ways of writing and dates.

    This implies, he says, creating a topology of entities in the reading, using technology, of each of the texts “that is capable of rapidly correlating different pages, people, places and dates in a highly flexible way.” He gives an example: “Many of the offenders may have nicknames, and several of them may be written in different ways, but that doesn’t mean that they won’t be linked. What you do is create technology that is capable of suggesting other correlations to the analyst as they occur over time.”

    Therefore, he elaborates, “there is artificial intelligence in the classification of documents; there is high intelligence in transforming documents from an image to searchable data and then, there is a lot of it, in the creation of entities that enable the connection of some documents with others. And, finally, the most necessary thing in a platform is that it should be about the possibility of competing algorithms, with artificial intelligence or without, on this data. But it should not be bound to a technology, because the biggest issue is being open to new technologies of the future. If you keep it closed, it becomes a stumbling block.”

    He continues: “Another key point of this platform is that the original data, and the transformed data, are retained. But you can continue to create other data on top of that. There is no time machine that kind of freezes the ability to produce more algorithms and more information with new platforms in the future.”
    Contreras and Krassnoff

    Five months after technology was first applied to the nearly 47,000 documents of Unsholster’s Human Rights Program, it is already possible, thanks to the implementation of the initial OCR on the identification documents, to find thousands of mentions of at least four military officers who were part of Pinochet’s secret police, the feared DINA (National Intelligence Directorate).

    Manuel Contreras, its director general, sentenced at the time of his death in 2015 to 526 years in prison for hundreds of crimes, appears 2,800 times; Pedro Espinoza and Miguel Krassnoff, both serving sentences in Punta Peuco prison, 2,079 and 2,954 mentions, respectively. And Marcelo Moren Brito, who was the torturer of Ángela Jeria, the mother of former socialist president, Michelle Bachelet, 2,284 times.

    For now they are only mentions. But from now on, names, facts, dates and places can be linked and related, says Díaz-Araujo.

    https://english.elpais.com/international/2024-01-18/chile-searches-for-those-missing-from-pinochet-dictatorship-with-the

    #Chili #intelligence_artificielle #identification #fosses_communes #dictature #AI #IA

  • Cher Raphaël Glucksmann - François Ruffin
    https://francoisruffin.fr/cher-raphael-glucksmann
    https://francoisruffin.fr/wp-content/uploads/2024/01/GDzTY65WUAARyJk.webp

    Voilà plusieurs fois que vous me tendez la main, « il faudra parler avec Monsieur Ruffin ». Il le faut, oui, ce dialogue, avec vous. Permettez-moi de démarrer cet échange ici...

    Mes meilleurs vœux, d’abord, de bonheur, politique comme personnel, de paix partout et pour tous.

    Voilà plusieurs fois que vous me tendez la main, « il faudra parler avec Monsieur Ruffin ». Il le faut, oui, ce dialogue, avec vous, dont la voix compte, et avec d’autres.

    Permettez-moi de démarrer cet échange ici.

    A l’automne 2018, à la veille d’un hiver en jaune, vous déclariez avec franchise : « Quand je vais à New-York ou à Berlin, je me sens plus chez moi, a priori, culturellement, que quand je me rends en Picardie ». Tout le monde ou presque vous était tombé dessus : « déconnexion », « gauche bobo », « nomade sans ancrage », etc. Votre propos ressort aujourd’hui, et à nouveau pour vous dénoncer comme « hors sol ».

    J’avais, pour ma part, apprécié votre lucidité. C’était en vérité une autocritique de classe, si l’on prenait soin de vous citer plus longuement : « Moi, je suis né du bon côté de la barrière socio-culturelle, je fais partie de l’élite française, j’ai fait Sciences-Po, comme la majorité des gens qui nous gouvernent. Quand je vais à New-York ou à Berlin, je me sens plus chez moi, a priori, culturellement, que quand je me rends en Picardie. Et c’est bien ça le problème. Ce qu’il faut essayer de faire, c’est sortir de soi-même… » J’avais lu et apprécié votre essai, Les Enfants du vide (2018), qui pointait lui aussi cet entre-soi des élites, qui était traversé de ce retour sur vous-même, critique.

    Comme vous le savez, la Picardie, j’en suis, j’y vis, j’y suis élu. Je la laboure depuis vingt-cinq maintenant que je suis « sorti de moi-même », d’usines en boites d’intérim, de sa ruralité à ses quartiers, du Ponthieu au Vimeu. Je sais pour qui je me bats. Mille vies, mille récits, qui m’habitent, me portent, quand, par une nuit triste à Paris, dans une Assemblée quasi-vide, je me demande : « A quoi bon ? » Ce sont des paroles, des prénoms, d’Annie, d’Ahmed, de Jacky, d’Hayat qui me regonflent pour ferrailler sur des alinéas au Palais Bourbon, pour batailler entre deux éditorialistes à la télévision.

    Je pars de là, de chez moi.

    Parce que, avec sincérité, sans agressivité, vos propos, ces derniers temps, me paraissent pour de bon hors sol, déconnectés, sans ancrage. Je n’y retrouve plus rien du « retour sur soi-même », mais au contraire tout – pardonnez ma franchise – d’une élite qui avance, avec arrogance et inconscience. C’est un chemin inquiétant pour la gauche, même pour le centre-gauche. C’est un grand bond en arrière, comme si les vingt dernières années n’avaient pas compté.

    Une phrase m’a alerté, notamment : « Le personnel politique ne prend plus le risque de l’impopularité. »

    C’est faux. Rien n’est plus faux. Depuis quarante ans, nos dirigeants ne font que ça, « prendre le risque de l’impopularité ». Fermer des maternités, vous croyez que c’est populaire ? Couper les budgets de la santé ? Geler les salaires ? Repousser l’âge de la retraite ? Imposer le libre-échange avec la Chine ? Baisser les impôts des plus riches ? etc.

    Depuis des décennies, et ils en sont fiers, eux prennent des « mesures impopulaires ». Ils appellent ça « des réformes courageuses ». Mais quel est ce « courage » ? C’est le « courage » non pas de dompter les marchés financiers déchaînés, non pas d’affronter les firmes multinationales, non pas de combattre ces nouvelles puissances, mais au contraire de plier, de se courber devant elles. De mériter leur confiance, de flexibiliser le travail pour elles, de diminuer leur fiscalité. Et, pour ça, de montrer du « courage », mais du courage face à qui ? Face aux peuples, aux peuples qui jugent ces réformes injustes, qui voient leurs conquêtes rognées, leur sécurité entamée, leur bien-être érodé… Alors, oui, le « courage » d’aller contre les caissières et les infirmières, contre les enseignants et les étudiants, contre les cheminots et les ouvriers, mais jamais contre les banquiers et les actionnaires, contre les mécènes des campagnes électorales. Le « courage » d’être faible avec les forts et fort avec les faibles : le voilà, le « courage » tant vanté. Le « courage » d’une démocratie contre le demos…

    Alors, prendre le risque d’être impopulaire, je veux bien, mais auprès de qui ? Des ouvriers écrasés par la mondialisation ou des financiers qui se sont gavés ? De la bonne société qui vous applaudit, et moi parfois aussi, ou des petits, des sans-grades, des éternels laissés pour compte qui demandent, à raison, stabilité et protection ?

    Il nous faut la démocratie, aujourd’hui, pleinement, « le gouvernement du peuple, par le peuple, pour le peuple », et non pas sans lui et contre lui. Il nous faut d’autant plus la démocratie avec le choc climatique à affronter, qui réclame un peuple rassemblé, œuvrant ensemble, comme le décrivait le commissaire au plan Jean Monnet après-guerre : « Je ne sais pas encore exactement ce qu’il faut faire, mais je suis sûr d’une chose, c’est qu’on ne pourra pas transformer l’économie française sans que le peuple français participe à cette transformation. » Et plus loin : « Toute la nation doit être associée à cet effort. »

    Enfin, dans quel esprit je vous écris tout ça ? Je ne veux pas d’un retour des « deux gauches irréconciliables ». Ce serait la certitude de la défaite, la voie ouverte au pire.

    Car, oui, je vois se dessiner le tableau. Une partition même où chacun joue son solo, se tourne le dos : une gauche radicale qui fait tout pour effrayer, et un centre-gauche tout pour désespérer. Une gauche radicale qui n’assume pas sa nouvelle centralité, qui ne s’élargit pas, qui ne grandit pas. Un centre-gauche qui revient en arrière, qui revient sur les ruptures, nécessaires, avec le triptyque concurrence-croissance-mondialisation.

    Je le fais sans agressivité, mais avec sincérité. Avec un franc désaccord.
    Mais surtout avec inquiétude pour l’avenir de notre camp celui de la gauche et du progrès humain.

    Cordialement,
    François Ruffin.

    #Politique #France #François_Ruffin

    • Une interpellation de Raphaël Glucksmann qui se pose en humaniste sans jamais faire référence au génocide en cours à Gaza dont il est complice, en dit long sur le positionnement de Ruffin !

      Il est l’heure de choisir. Soit la gauche radicale « qui effraie » (le bourgeois), soit la gauche de droite pour un désespoir mortifère.

      « La bourgeoisie exaspérée, racisme dégondé, se propose de rendre la société entière raciste avec elle, pour mieux se maintenir quand tout condamne son ordre. Et c’est Mélenchon qu’on accuse de draguer les banlieues avec cynisme »
      F. LORDON https://seenthis.net/messages/1036989

      #AileDroiteLFI

    • La différence

      S’il y a un paradoxe dans cette période spécialement sombre, c’est qu’il y surnage malgré tout quelques motifs d’espoir. Entre soutien inconditionnel, loi « immigration » et « régénération » — régénération... —, une puissante clarification est en train de s’opérer. Sur le plan idéologique au moins, la tripartition vasouillarde a volé en éclats. Il ne reste plus que deux blocs. Un bloc de droite extrême, RN-LR-Renaissance, dont l’homogénéisation s’effectue sous nos yeux et sur tous les plans : le RN confirmant son libéralisme économique foncier par ralliement à l’euro, d’un côté ; de l’autre LR devenu un parti ouvertement d’extrême-droite, rejoint par Renaissance, aspirateur de la bourgeoisie exaspérée raciste : confirmation par Attal, SNU, abaya, uniforme à l’école, autorité et réarmement à tous les étages, sous la houlette de qui la fascisation du pays s’apprête à connaître — en effet — un « nouvel élan », un « second souffle ». Hommage de l’extrême droite avant même son arrivée à Matignon : « Attal a piqué nos idées ».

      L’extrême péril de cette convergence-là ne laisse en face qu’un bloc pertinent : celui qui la reconnaît comme telle, la dénonce comme telle, et se constitue dans le projet explicite de la combattre. À l’évidence, LFI est devenu l’élément central de ce bloc-là. C’est bien pourquoi elle est l’objet hystérisé des poids et mesures. Il faut y voir un excellent signe. La domination néglige les ennemis négligeables — ou bien fait des courtoisies aux opposants récupérables, couvertures de presse avantageuses, articles fréquents et flatteurs, « lui au moins », « pas comme l’autre », etc. Être attaqué par cette presse, si possible violemment, est l’unique indice de la qualité oppositionnelle. Dans l’univers des médias bourgeois et de leurs consécrations à l’envers, il n’y en a pas d’autre. Il faut prendre celle-là comme un honneur.

      L’attaque violemment stigmatisante, trahissant elle-même ses inquiétudes par ses propres outrances, a aussi pour excellente propriété d’accuser une différence. Or la différence est devenue le capital politique le plus précieux dans une période qui n’a fait que remplacer le même par le même au travers des alternances sans alternatives, toutes euro-libérales, autoritaires, tendanciellement racistes. Ça n’est pas la fusion du bloc de droite extrême qui contredira ce mouvement : elle le porte au contraire à son comble. Si bien qu’une différence, il n’en reste plus qu’une dans le paysage de la politique institutionnelle : c’est la FI...

      ... Conditions

      Si la clarification a sa force propre, elle demeure toutefois sous deux hypothèques. La première tient à la conversion toujours problématique de la logique idéologique en logique électorale — écart de la condition nécessaire et de la condition suffisante. La résorption de l’écart tient en grande partie à la promotion de la différence comme différence sociale. Mais à condition de ne pas oublier que la différence sociale — le débat public le démontre négativement depuis des décennies — n’a aucune chance de se faire entendre tant que l’idée de la différence tout court n’est pas d’abord installée dans les esprits, et son porteur identifié comme tel dans le débat public. Se faire reconnaître comme la différence, voilà la tâche première. Après quoi il est possible de faire entendre que cette différence est principalement sociale.

      La seconde est de plus long terme. Sans doute le bloc antifascisation est-il homogène d’être antifascisation. Il l’est probablement moins au fil du dépli des conséquences. Car combattre la convergence extrême-droitière comme telle, c’est-à-dire comme l’expression qu’elle est de la domination bourgeoise devenue folle, implique de se donner pour ennemi la domination bourgeoise. À l’évidence on ne peut pas compter identiquement sur tous les éléments du bloc en cette matière. On ne parle pas ici des professionnels de la posture sans suite, des sociologues convaincues que « l’Europe sociale est la meilleure manière de rendre moins attractifs les discours de l’extrême-droite », ou de l’antifascisme bourgeois qui ne veut rien savoir ni rien toucher des causes de la fascisation. On ne parle pas davantage des partis du milieu, #PS, #EELV, #PC, satellites grotesques, prêts à toutes les compromissions, voués à finir concassés par la polarité des blocs. Le parti médiatique de la #gaucheDeDroite peut trépigner tant qu’il veut à l’idée de rechaper un #VieuxPneuHollando-Glucksmanniste à faire rouler dans l’espace supposément rouvert entre FI et macronisme extrême-droitisé : dans ses rêves (qui ne survivront pas aux insignifiantes européennes, comme d’habitude). Dans l’acuité extrême des enjeux en train de se former, tous ces débris sont heureusement condamnés à l’inanité. Non, c’est bien de la FI qu’il s’agit, composante centrale, et pourtant questionnable, du bloc...

      Clarification Frédéric Lordon Les blogs du Diplo 17 janvier 2024

    • La France est fébrile.

      Raphaël Glucksmann va répondre à François Ruffin, qui l’a qualifié de « hors-sol, déconnecté, sans ancrage » dans une note de blog.
      Info Libé : « Une élite qui avance avec arrogance et inconscience »

    • « Ruffin commence à flipper. Le garçon est embarqué dans le piège sempiternel des socdems : je racole à gauche et je gouverne à droite. De surcroît, il leur sert aujourd’hui de diviseur dans la LFI, puis se fera pulvériser à l’approche de l’échéance présidentielle. Déloyal et Naïf ! »

      https://video.twimg.com/ext_tw_video/1763988900123377664/pu/vid/avc1/540x540/g1zLem1QpK886pdH.mp4?tag=12


      Je considère comme acté qu’il y a des ruptures, à gauche, avec le libre-échange, avec la concurrence et le marché partout. Qui revient en arrière sur ces ruptures est mort, politiquement mort. Qui revient en arrière ne sera plus un camarade.

      https://twitter.com/AppiusCoockie/status/1764237069390340104

  • EU grants €87m to Egypt for migration management in 2024

    Over 2024, the EU will provide €87 million and new equipment to Egypt for a migration management project started in 2022, implemented by the UN migration agency and the French Interior Ministry operator Civipol, three sources close to the matter confirmed to Euractiv.

    The €87 million may increase up to €110 million after the next EU-Egypt Association Council meeting on 23 January, two sources confirmed to Euractiv.

    The European Commission is also conducting parallel negotiations with Cairo to make a raft of funding for other projects which regards a wide range of sectors, including migration, conditional under the International Monetary Fund requests for reforms, a source close to the negotiations told Euractiv.

    The €87 million will be dedicated to increasing the operation capacity of the Egyptian navy and border guards for border surveillance and search and rescue operations at sea.

    The EU-Egypt migration management project started in 2022 with an initial €23 million, with a further €115 million approved for 2023, one of the three sources confirmed to Euractiv.

    The funds for 2022 and 2023 were used for border management, anti-smuggling and anti-trafficking activities, voluntary returns and reintegration projects.

    “With these EU funds, IOM [the UN’s migration agency, the International Organisation of Migration] is supporting Egyptian authorities through capacity building activities which promote rights-based border management and the respect of international law and standards, also with regard to search and rescue operations,” an official source from IOM told Euractiv. IOM is involved in the training and capacity building of the Egyptian authorities.

    French operator Civipol is working on the tendering, producing and delivering the search new rescue boats for 2024, one of the three sources confirmed to Euractiv.

    However, according to the EU’s asylum agency’s (EUAA) 2023 migration report, there have been almost no irregular departures from the Egyptian coasts since 2016, with most Egyptian irregular migrants to the EU having departed from Libya.

    At the same time, there has been a significant increase in Egyptian citizens applying for visas in EU countries in recent years, the EUAA report said, mainly due to the deteriorating domestic situation in the country.
    Deepening crisis in Egypt

    Egypt, a strategic partner of the EU, is experiencing a deepening economic and political crisis, with the country’s population of 107 million facing increasing instability and a lack of human rights guarantees.

    In a letter to heads of state and EU institutions last December, the NGO Human Rights Watch asked the EU to “ensure that any recalibration of its partnership with Egypt and related macro-financial assistance provide[s] an opportunity to improve the civil, political, and economic rights of the Egyptian people”.

    “Its impact will only be long-lasting if linked to structural progress and reforms to address the government’s abuses and oppression, that have strangled people’s rights as much as the country’s economy,” the NGO wrote.

    The human rights crisis cannot be treated as separate from the economic crisis, Timothy E. Kaldas, deputy director of the Tahrir Institute for Middle East Policy, told Euractiv. “Political decisions and political practices of the regime play a central role in why Egypt’s economy is the way that it is,” he said.

    “The regime, in an exploitative manner, leverages the Egyptian state. For instance, it forces the making of contracts to regime-owned companies to do infrastructure projects that are extremely costly, and not necessarily contributing to the public good,” Kaldas argued, citing the construction of wholly new cities, or “new palaces for the president”.

    While such projects are making the Egyptian elites richer, the Egyptian people are increasingly poor, and in certain cases, forced to leave the country, Kaldas explained.

    With food and beverage inflation exceeding 70% in Egypt in 2023, the currency facing multiple shocks and collapses reducing Egyptians’ purchasing power and private investors not seeing the North African country as a good place to invest, “the situation is very bleak”, the expert said.

    The independence of the private sector was slammed in a report by Human Rights Watch in November 2018. In the case of Juhayna Owners, two Egyptian businessmen were detained for months after refusing to surrender their shares in their company to a state-owned business.

    Recent events at the Rafah crossing in Gaza, frictions in the Red Sea with Houthi rebels in Yemen and war in the border country of Sudan have compounded the instability.
    Past EU-Egypt relations

    During the last EU-Egypt Association Council in June 2022, the two partners outlined a list of partnership priorities “to promote joint interests, to guarantee long-term stability and sustainable development on both sides of the Mediterranean and to reinforce the cooperation and realise the untapped potential of the relationship”.

    The list of priorities regards a wide range of sectors that the EU is willing to help Egypt. Among others, the document which outlines the outcomes of the meeting, highlights the transition to digitalisation, sustainability and green economy, trade and investment, social development and social justice, energy, environment and climate action, the reform of the public sector, security and terrorism, and migration.

    https://www.euractiv.com/section/politics/news/eu-grants-e87m-to-egypt-for-migration-management-in-2024

    #Egypte #asile #migrations #réfugiés #externalisation #EU #aide_financière #Europe #UE #équipement #Civipol #gardes-frontières #surveillance #technologie #complexe_militaro-industriel #réintégration #retours_volontaires #IOM #OIM

    • L’UE offre à l’Egypte une aide économique contre un meilleur contrôle des migrants

      Les représentants de l’Union européenne signeront dimanche au Caire un partenariat avec le gouvernement d’Abdel Fattah Al-Sissi. Il apportera un soutien de plus de 7 milliards d’euros en échange d’une plus grande surveillance des frontières.

      Après la Tunisie, l’Egypte. Trois premiers ministres européens – Giorgia Meloni, la présidente du conseil italien, Alexander De Croo et Kyriakos Mitsotakis, les premiers ministres belge et grec – et Ursula von der Leyen, la présidente de la Commission européenne, sont attendus dimanche 17 mars au Caire. Ils doivent parapher une « #déclaration_commune » avec Abdel Fattah #Al-Sissi, le président égyptien, pour la mise en place d’un #partenariat global avec l’Union européenne (UE). A la clé pour l’Egypte un chèque de 7,4 milliards d’euros, comme l’a révélé le Financial Times le 13 mars.

      Cet accord survient après l’annonce, au début de mars, d’un #prêt de 8 milliards de dollars (plus de 7,3 milliards d’euros) du #Fonds_monétaire_international à l’Egypte et, surtout, à la mi-février d’un vaste plan d’investissements de 35 milliards de dollars des #Emirats_arabes_unis. A cette aune, l’aide européenne semble plutôt chiche.

      Pour Bruxelles, l’urgence est d’éviter un écroulement de l’économie égyptienne, très dépendante de l’extérieur. Depuis le Covid-19 et la guerre en Ukraine, elle est plongée dans le marasme et les déficits budgétaires s’enchaînent. De surcroît, le pays doit faire face aux conséquences de la guerre à Gaza et, notamment, aux attaques houthistes en mer Rouge, qui ont entraîné une réduction du nombre de cargos dans le canal de Suez et fait chuter les revenus du pays. Enfin, le tourisme, qui avait atteint des records en 2023 avec plus de quinze millions de visiteurs, pourrait pâtir de la guerre aux portes du pays.

      Crainte d’une arrivée massive de Palestiniens

      Dans le détail, la Commission européenne devrait apporter 5 milliards d’euros de soutien budgétaire à l’Egypte, dont 1 milliard déboursé d’ici au mois de juin, selon une procédure d’urgence. Les 4 autres milliards suivront à plus long terme. Le ministre des finances égyptien, Mohamed Maait, a confirmé cette somme, évoquant une aide de « 5 milliards à 6 milliards de dollars » (4,5 milliards à 5,5 milliards d’euros).

      (#paywall)
      https://www.lemonde.fr/international/article/2024/03/16/l-ue-offre-a-l-egypte-une-aide-economique-contre-un-meilleur-controle-des-mi

    • Egitto-Ue, l’accoglienza? Tocca ai Paesi di transito

      La visita di Giorgia Meloni, Ursula von der Leyen e altri leader nazionali dell’Ue in Egitto rilancia l’attenzione sulla dimensione esterna delle politiche migratorie. In ballo ci sono oltre 7 miliardi di euro di aiuti per il bilancio pubblico egiziano in affanno. Non si tratta di un’iniziativa estemporanea. Il nuovo patto Ue sull’immigrazione e l’asilo definito nel dicembre scorso dedica un capitolo all’argomento, con cinque obiettivi: sostenere i Paesi che ospitano rifugiati e comunità di accoglienza; creare opportunità economiche vicino a casa, in particolare per i giovani; lottare contro il traffico di migranti; migliorare il rimpatrio e la riammissione; sviluppare canali regolamentati per la migrazione legale.

      Le istituzioni europee adottano un linguaggio felpato, ma esprimono una linea politica molto netta: l’Ue intende far sì che i profughi vengano accolti lungo la rotta, nei Paesi di transito. Parla di sviluppo dei luoghi di provenienza, facendo mostra d’ignorare sia l’impatto di guerre e repressioni (si pensi al Sudan e all’Etiopia), sia le evidenze circa i legami tra la prima fase di un processo di sviluppo e l’aumento delle partenze. Insiste molto sui rimpatri, volontari e forzati, e sul reinserimento in patria. Rilancia la criminalizzazione dei trasportatori, assemblati sotto l’etichetta di trafficanti, nascondendo il fatto che per i profughi dal Sud del mondo non vi sono alternative: la lotta ai trafficanti è in realtà una lotta contro i rifugiati. In cambio, le istituzioni europee e i governi nazionali offrono una cauta apertura agli ingressi per lavoro, guardando a paesi amici o presunti tali, come appunto l’Egitto, non paesi in guerra o sotto regimi brutali come la Siria o l’Afghanistan.

      Non si tratta peraltro di una novità. L’Ue ha già sottoscritto numerosi accordi con vari Stati che la attorniano o che sono collocati sulle rotte delle migrazioni spontanee: dalle operazioni di Frontex nei Balcani Occidentali, alle intese con i governi dei paesi rivieraschi, dal Marocco alla Turchia, spingendosi anche all’interno dell’Africa in casi come quello del Niger, posto sulla rotta che dall’Africa occidentale arriva al Mediterraneo. Quando si discute di questi accordi, si fronteggiano due posizioni preconcette: quella pro-accoglienza, secondo cui sono inutili, perché migranti e rifugiati arriveranno comunque; dall’altra parte, quella del fronte del rifiuto, che li saluta con entusiasmo come la soluzione del problema, senza badare alle implicazioni e conseguenze. Cercando di arrecare al dibattito un po’ di chiarezza, va anzitutto notato: l’esternalizzazione delle frontiere, tramite gli accordi, (purtroppo) funziona, quando dall’altra parte i governi hanno i mezzi, una certa efficienza e la volontà politica di compiacere i partner europei. Soprattutto reprimendo i migranti in transito, una politica che non comporta sgradevoli contraccolpi in termini di consenso interno. I casi di Turchia e Marocco lo dimostrano. I viaggi della speranza non cessano, ma diventano più lunghi, costosi e pericolosi. Dunque meno praticabili.

      Occorre però considerare i costi umani e politici di questo apparente progresso. Sotto il profilo politico, l’Ue diventa più dipendente dai gendarmi di frontiera stranieri che ha ingaggiato, e la tolleranza verso Erdogan e ora verso Al-Sisi ne è un’eloquente espressione. Al Cairo solo il premier belga ha speso qualche parola in difesa dei diritti umani. Sotto il profilo umano, tra violenze, ricatti, detenzione e abbandono, i profughi pagano il conto della riaffermazione (selettiva) dei confini e della presunta sicurezza che i governi europei dichiarano di voler difendere. Solo una visione cinica e angusta può inalberare come un successo la diminuzione degli sbarchi: meno persone possono sperare in una vita migliore, molte altre sono destinate a perdere la vita nel viaggio, a languire in una terra di mezzo, a rinunciare a sognare libertà e dignità nel continente che se ne fa paladino.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/egittoue-laccoglienza-tocca-ai-paesi-di-transito

  • Blinne Ní Ghrálaigh: Lawyer’s closing statement in ICJ case against Israel praised

    This was the powerful closing statement in South Africa’s genocide case against Israel.

    Senior advocate #Blinne_Ní_Ghrálaigh addressed the International Court of Justice on day one of the hearing.

    ICJ: Blinne Ní Ghrálaigh’s powerful closing statement in South Africa case against Israel
    https://www.youtube.com/watch?v=ttrJd2aWF-Y&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.thenational.sco

    https://www.thenational.scot/news/24042943.blinne-ni-ghralaigh-lawyers-closing-statement-icj-case-israel

    #Cour_internationale_de_justice (#CIJ) #Israël #Palestine #Afrique_du_Sud #justice #génocide

    • Israël commet-il un génocide à #Gaza ? Le compte rendu d’une #audience historique

      Alors que les massacres israéliens à Gaza se poursuivent, l’Afrique du Sud a tenté de démontrer, jeudi 11 et vendredi 12 janvier devant la justice onusienne, qu’un génocide est en train d’être commis par Israël à Gaza.

      « Une #calomnie », selon l’État hébreu.

      Devant le palais de la Paix de #La_Haye (Pays-Bas), la bataille des #mots a commencé avant même l’audience. Jeudi 11 janvier au matin, devant la #Cour_de_justice_internationale_des_Nations_unies, des manifestants propalestiniens ont exigé un « cessez-le-feu immédiat » et dénoncé « l’#apartheid » en cours au Proche-Orient. Face à eux, des familles d’otages israélien·nes ont montré les photos de leurs proches kidnappés le 7 octobre par le Hamas.

      Pendant deux jours, devant 17 juges internationaux, alors que les massacres israéliens à Gaza continuent de tuer, de déplacer et de mutiler des civils palestiniens (à 70 % des femmes et des enfants, selon les agences onusiennes), le principal organe judiciaire des Nations unies a examiné la requête, précise et argumentée, de l’Afrique du Sud, destinée à imposer au gouvernement israélien des « #mesures
      _conservatoires » pour prévenir un génocide de la population palestinienne de Gaza.

      La première et plus urgente de ces demandes est l’arrêt immédiat des #opérations_militaires israéliennes à Gaza. Les autres exigent des mesures urgentes pour cesser les tueries, les déplacements de population, faciliter l’accès à l’eau et à la nourriture, et prévenir tout génocide.

      La cour a aussi entendu les arguments d’Israël, qui nie toute #intention_génocidaire et a martelé son « #droit_à_se_défendre, reconnu par le droit international ».

      L’affaire ne sera pas jugée sur le fond avant longtemps. La décision sur les « mesures conservatoires », elle, sera rendue « dès que possible », a indiqué la présidente de la cour, l’États-Unienne #Joan_Donoghue.

      Rien ne dit que les 17 juges (dont un Sud-Africain et un Israélien, Aharon Barak, ancien juge de la Cour suprême israélienne, de réputation progressiste mais qui n’a jamais critiqué la colonisation israélienne) donneront raison aux arguments de l’Afrique du Sud, soutenue dans sa requête par de nombreux États du Sud global. Et tout indique qu’une décision sanctionnant Israël serait rejetée par un ou plusieurs #vétos au sein du #Conseil_de_sécurité des Nations unies.

      Cette #audience solennelle, retransmise sur le site de l’ONU (revoir les débats du jeudi 11 et ceux du vendredi 12), et relayée par de nombreux médias internationaux, a pourtant revêtu un caractère extrêmement symbolique, où se sont affrontées deux lectures radicalement opposées de la tragédie en cours à Gaza.

      « Israël a franchi une limite »

      Premier à prendre la parole, l’ambassadeur sud-africain aux Pays-Bas, #Vusi_Madonsela, a d’emblée replacé « les actes et omissions génocidaires commis par l’État d’Israël » dans une « suite continue d’#actes_illicites perpétrés contre le peuple palestinien depuis 1948 ».

      Face aux juges internationaux, il a rappelé « la Nakba du peuple palestinien, conséquence de la #colonisation_israélienne qui a [...] entraîné la #dépossession, le #déplacement et la #fragmentation systématique et forcée du peuple palestinien ». Mais aussi une « #occupation qui perdure depuis cinquante-six ans, et le siège de seize ans imposé [par Israël] à la bande de Gaza ».

      Il a décrit un « régime institutionnalisé de lois, de politiques et de pratiques discriminatoires, mises en place [par Israël – ndlr] pour établir sa #domination et soumettre le peuple palestinien à un apartheid », dénonçant des « décennies de violations généralisées et systématiques des #droits_humains ».

      « En tendant la main aux Palestiniens, nous faisons partie d’une seule humanité », a renchéri le ministre de la justice sud-africain, #Ronald_Ozzy_Lamola, citant l’ancien président Nelson Mandela, figure de la lutte contre l’apartheid dans son pays.

      D’emblée, il a tenté de déminer le principal argument du gouvernement israélien, selon lequel la procédure devant la Cour internationale de justice est nulle et non avenue, car Israël mènerait une #guerre_défensive contre le #Hamas, au nom du #droit_à_la_légitime_défense garanti par l’article 51 de la charte des Nations unies – un droit qui, selon la Cour internationale de justice, ne s’applique pas aux #Territoires_occupés. « Gaza est occupée. Israël a gardé le contrôle de Gaza. [...] Ses actions renforcent son occupation : la légitime défense ne s’applique pas », insistera un peu plus tard l’avocat Vaughan Lowe.

      « L’Afrique du Sud, affirme le ministre sud-africain, condamne de manière catégorique la prise pour cibles de civils par le Hamas et d’autres groupes armés palestiniens le 7 octobre 2023. Cela étant dit, aucune attaque armée contre le territoire d’un État, aussi grave soit-elle, même marquée par la commission des #crimes atroces, ne saurait constituer la moindre justification ni le moindre prétexte, pour se rendre coupable d’une violation, ni sur le plan juridique ni sur le plan moral », de la #convention_des_Nations_unies_pour_la_prévention_et_la_répression_du_crime_de_génocide, dont est accusé l’État hébreu.

      « La réponse d’Israël à l’attaque du 7 octobre, a-t-il insisté, a franchi cette limite. »

      Un « génocide » au caractère « systématique »

      #Adila_Hassim, principale avocate de l’Afrique du Sud, s’est évertuée à démontrer méthodiquement comment Israël a « commis des actes relevant de la définition d’#actes_de_génocide », dont elle a martelé le caractère « systématique ».

      « Les Palestiniens sont tués, risquent la #famine, la #déshydratation, la #maladie, et ainsi la #mort, du fait du siège qu’Israël a organisé, de la #destruction des villes, d’une aide insuffisante autorisée à atteindre la population, et de l’impossibilité à distribuer cette maigre aide sous les #bombardements incessants, a-t-elle énuméré. Tout ceci rend impossible d’avoir accès aux éléments essentiels de la vie. »

      Adila Hassim s’est attelée à démontrer en quoi la #guerre israélienne cochait les cases du génocide, tel qu’il est défini à l’article 2 de la convention onusienne : « Des actes commis dans l’intention de détruire, en tout ou en partie, un groupe national, ethnique, racial ou religieux. »

      Le « meurtre des membres du groupe », premier élément du génocide ? Adila Hassim évoque le « meurtre de masse des Palestiniens », les « 23 000 victimes dont 70 % sont des femmes ou des enfants », et « les 7 000 disparus, présumés ensevelis sous les décombres ». « Il n’y a pas de lieu sûr à Gaza », dit-elle, une phrase empruntée aux responsables de l’ONU, répétée de nombreuses fois par la partie sud-africaine.

      Hasssim dénonce « une des campagnes de bombardement les plus lourdes dans l’histoire de la guerre moderne » : « 6 000 bombes par semaine dans les trois premières semaines », avec des « #bombes de 900 kilos, les plus lourdes et les plus destructrices », campagne qui vise habitations, abris, écoles, mosquées et églises, dans le nord et le sud de la bande de Gaza, camps de réfugié·es inclus.

      « Les Palestiniens sont tués quand ils cherchent à évacuer, quand ils n’ont pas évacué, quand ils ont pris la #fuite, même quand ils prennent les itinéraires présentés par Israël comme sécurisés. (...) Des centaines de familles plurigénérationelles ont été décimées, personne n’ayant survécu (...) Personne n’est épargné, pas même les nouveau-nés (...) Ces massacres ne sont rien de moins que la #destruction_de_la_vie_palestinienne, infligée de manière délibérée. » Selon l’avocate, il existe bien une #intention_de_tuer. « Israël, dit-elle, sait fort bien combien de civils perdent leur vie avec chacune de ces bombes. »

      L’« atteinte grave à l’intégrité physique ou mentale de membres du groupe », et la « soumission intentionnelle du groupe à des conditions d’existence devant entraîner sa destruction physique totale ou partielle », autres éléments constitutifs du génocide ? Adila Hassim évoque « la mort et la #mutilation de 60 000 Palestiniens », les « civils palestiniens arrêtés et emmenés dans une destination inconnue », et détaille le « #déplacement_forcé de 85 % des Palestiniens de Gaza » depuis le 13 octobre, sans retour possible pour la plupart, et qui « répète une longue #histoire de #déplacements_forcés de masse ».

      Elle accuse Israël de « vise[r] délibérément à provoquer la faim, la déshydratation et l’inanition à grande échelle » (93 % de la population souffrent d’un niveau critique de faim, selon l’Organisation mondiale de la santé), l’aide empêchée par les bombardements et qui « ne suffit tout simplement pas », l’absence « d’eau propre », le « taux d’épidémies et de maladies infectieuses qui s’envole », mais aussi « les attaques de l’armée israélienne prenant pour cible le système de santé », « déjà paralysé par des années de blocus, impuissant face au nombre de blessures ».

      Elle évoque de nombreuses « naissances entravées », un autre élément constitutif du génocide.

      « Les génocides ne sont jamais annoncés à l’avance, conclut-elle. Mais cette cour a devant elle 13 semaines de #preuves accumulées qui démontrent de manière irréfutable l’existence d’une #ligne_de_conduite, et d’#intentions qui s’y rapportent, justifiant une allégation plausible d’actes génocidaires. »

      Une « #déshumanisation_systématique » par les dirigeants israéliens

      Un autre avocat s’avance à la barre. Après avoir rappelé que « 1 % de la population palestinienne de Gaza a été systématiquement décimée, et qu’un Gazaoui sur 40 a été blessé depuis le 7 octobre », #Tembeka_Ngcukaitobi décortique les propos des autorités israéliennes.

      « Les dirigeants politiques, les commandants militaires et les représentants de l’État d’Israël ont systématiquement et explicitement exprimé cette intention génocidaire, accuse-t-il. Ces déclarations sont ensuite reprises par des soldats, sur place à Gaza, au moment où ils anéantissent la population palestinienne et l’infrastructure de Gaza. »

      « L’intention génocidaire spécifique d’Israël, résume-t-il, repose sur la conviction que l’ennemi n’est pas simplement le Hamas, mais qu’il est à rechercher au cœur même de la société palestinienne de Gaza. »

      L’avocat multiplie les exemples, encore plus détaillés dans les 84 pages de la requête sud-africaine, d’une « intention de détruire Gaza aux plus hauts rangs de l’État » : celle du premier ministre, #Benyamin_Nétanyahou, qui, à deux reprises, a fait une référence à #Amalek, ce peuple que, dans la Bible (I Samuel XV, 3), Dieu ordonne d’exterminer ; celle du ministre de la défense, qui a comparé les Palestiniens à des « #animaux_humains » ; le président israélien #Isaac_Herzog, qui a jugé « l’entièreté de la nation » palestinienne responsable ; celle du vice-président de la Knesset, qui a appelé à « l’anéantissement de la bande de Gaza » (des propos condamnés par #Nétanyahou) ; ou encore les propos de nombreux élus et députés de la Knesset appelant à la destruction de Gaza.

      Une « déshumanisation systématique », dans laquelle les « civils sont condamnés au même titre que le Hamas », selon Tembeka Ngcukaitobi.

      « L’intention génocidaire qui anime ces déclarations n’est nullement ambiguë pour les soldats israéliens sur le terrain : elle guide leurs actes et leurs objectifs », poursuit l’avocat, qui diffuse devant les juges des vidéos où des soldats font eux aussi référence à Amalek, « se filment en train de commettre des atrocités contre les civils à Gaza à la manière des snuff movies », ou écoutent un réserviste de 95 ans les exhorter à « tirer une balle » sur leur « voisin arabe » et les encourager à une « destruction totale ».

      L’avocat dénonce le « manquement délibéré de la part du gouvernement à son obligation de condamner, de prévenir et de réprimer une telle incitation au génocide ».

      Après une plaidoirie technique sur la capacité à agir de l’Afrique du Sud, #John_Dugard insiste : « Gaza est devenu un #camp_de_concentration où un génocide est en cours. »

      L’avocat sud-africain #Max_du_Plessis exhorte la cour à agir face à Israël, qui « depuis des années (...) s’estime au-delà et au-dessus de la loi », une négligence du droit rendue possible par l’#indifférence de la communauté internationale, qui a su, dans d’autres conflits (Gambie, Bosnie, Ukraine) décider qu’il était urgent d’agir.

      « Gaza est devenu inhabitable », poursuit l’avocate irlandaise #Blinne_Ni_Ghralaigh. Elle énumère d’autres chiffres : « Au rythme actuel », égrène-t-elle, « 247 Palestiniens tués en moyenne chaque jour », dont « 48 mères » et « plus de 117 enfants », et « 629 blessés ». Elle évoque ces enfants dont toute la famille a été décimée, les secouristes, les enseignants, les universitaires et les journalistes tués dans des proportions historiques.

      « Il s’agit, dit-elle, du premier génocide de l’Histoire dont les victimes diffusent leur propre destruction en temps réel, dans l’espoir vain que le monde fasse quelque chose. » L’avocate dévoile à l’écran les derniers mots du docteur #Mahmoud_Abu_Najela (Médecins sans frontières), tué le 23 novembre à l’hôpital Al-Awda, écrits au feutre sur un tableau blanc : « À ceux qui survivront. Nous avons fait ce que nous pouvons. Souvenez-vous de nous. »

      « Le monde, conclut Blinne Ni Ghralaigh, devrait avoir #honte. »

      La réponse d’Israël : une « calomnie »

      Vendredi 12 janvier, les représentants d’Israël se sont avancés à la barre. Leur argumentation a reposé sur deux éléments principaux : un, la Cour internationale de justice n’a pas à exiger de « mesures conservatoires » car son armée ne commet aucun génocide ; deux, si génocide il y a, il a été commis par le Hamas le 7 octobre 2023.

      Premier à prendre la parole, #Tal_Becker, conseiller juridique du ministère des affaires étrangères israélien, invoque l’Histoire, et le génocide infligé aux juifs pendant la Seconde Guerre mondiale, « le meurtre systématique de 6 millions de juifs dans le cadre d’une destruction totale ».

      « Israël, dit-il, a été un des premiers États à ratifier la convention contre le génocide. » « Pour Israël, insiste-t-il, “#jamais_plus” n’est pas un slogan, c’est une #obligation_morale suprême. »

      Dans « une époque où on fait bon marché des mots, à l’heure des politiques identitaires et des réseaux sociaux », il dénonce une « #instrumentalisation » de la notion de génocide contre Israël.

      Il attaque une présentation sud-africaine « totalement dénaturée des faits et du droit », « délibérément manipulée et décontextualisée du conflit actuel », qualifiée de « calomnie ».

      Alors que les avocats sud-africains avaient expliqué ne pas intégrer les massacres du Hamas dans leur requête devant la justice onusienne, car « le Hamas n’est pas un État », Tal Becker estime que l’Afrique du Sud « a pris le parti d’effacer l’histoire juive et tout acte ou responsabilité palestiniens », et que les arguments avancés « ne se distinguent guère de ceux opposés par le Hamas dans son rejet d’Israël ». « L’Afrique du Sud entretient des rapports étroits avec le Hamas » et le « soutient », accuse-t-il.

      « C’est une guerre qu’Israël n’a pas commencée », dit-il en revenant longuement, images et enregistrements à l’appui, sur les atrocités commises par le Hamas et d’autres groupes palestiniens le 7 octobre, « le plus important massacre de juifs en un jour depuis la #Shoah ».

      « S’il y a eu des actes que l’on pourrait qualifier de génocidaires, [ils ont été commis] contre Israël », dit-il, évoquant le « #programme_d’annihilation » des juifs par le Hamas. « Israël ne veut pas détruire un peuple, poursuit-il. Mais protéger un peuple : le sien. »

      Becker salue les familles d’otages israéliens présentes dans la salle d’audience, et montre certains visages des 130 personnes kidnappées dont le pays est toujours sans nouvelle. « Y a-t-il une raison de penser que les personnes que vous voyez à l’écran ne méritent pas d’être protégées ? », interroge-t-il.

      Pour ce représentant de l’État israélien, la demande sud-africaine de mesures conservatoires revient à priver le pays de son droit à se défendre.

      « Israël, poursuit-il, se défend contre le Hamas, le Djihad palestinien et d’autres organisations terroristes dont la brutalité est sans limite. Les souffrances sont tragiques, sont déchirantes. Les conséquences sont parfaitement atroces pour les civils du fait du comportement du Hamas, qui cherche à maximiser les pertes de civils alors qu’Israël cherche à les minorer. »

      Becker s’attarde sur la « #stratégie_méprisable » du Hamas, une « méthode de guerre intégrée, planifiée, de grande ampleur et odieuse ». Le Hamas, accuse-t-il, « a, de manière systématique, fondu ses opérations militaires au sein de zones civiles densément peuplées », citant écoles, mosquées et hôpitaux, des « milliers de bâtiments piégés » et « utilisés à des fins militaires ».

      Le Hamas « a fait entrer une quantité innombrable d’armes, a détourné l’aide humanitaire ». Remettant en cause le chiffre « non vérifié » de 23 000 victimes (pourtant confirmé par les Nations unies), Tal Becker estime que de nombreuses victimes palestiniennes sont des « militants » qui ont pu prendre « une part directe aux hostilités ». « Israël respecte le droit », martèle-t-il. « Si le Hamas abandonne cette stratégie, libère les otages, hostilités et violences prendront fin. »

      Ponte britannique du droit, spécialiste des questions juridiques liées aux génocides, #Malcom_Shaw embraie, toujours en défense d’Israël. Son discours, technique, est parfois interrompu. Il se perd une première fois dans ses notes, puis soupçonne un membre de son équipe d’avoir « pris [sa] #plaidoirie pour un jeu de cartes ».

      Shaw insiste : « Un conflit armé coûte des vies. » Mais Israël, dit-il, « a le droit de se défendre dans le respect du #droit_humanitaire », citant à l’audience les propos de la présidente de la Commission européenne, Ursula von der Leyen, le 19 octobre 2023. Il poursuit : « L’#usage_de_la_force ne peut constituer en soi un acte génocidaire. » « Israël, jure-t-il, ne cible que les cibles militaires, et ceci de manière proportionnée dans chacun des cas. »

      « Peu d’éléments démontrent qu’Israël a eu, ou a, l’intention de détruire tout ou partie du peuple palestinien », plaide-t-il. Shaw estime que nombre de propos tenus par des politiciens israéliens ne doivent pas être pris en compte, car ils sont « pris au hasard et sont sortis de leur contexte », parce qu’ils témoignent d’une « #détresse » face aux massacres du 7 octobre, et que ceux qui les ont prononcés n’appartiennent pas aux « autorités pertinentes » qui prennent les décisions militaires, à savoir le « comité ministériel chargé de la sécurité nationale » et le « cabinet de guerre ».

      Pour étayer son argumentation, Shaw cite des directives (non publiques) de Benyamin Nétanyahou destinées, selon lui, à « éviter un désastre humanitaire », à proposer des « solutions pour l’approvisionnement en eau », « promouvoir la construction d’hôpitaux de campagne au sud de la bande de Gaza » ; les déclarations publiques de Benyamin Nétanyahou à la veille de l’audience (« Israël n’a pas l’intention d’occuper de façon permanente la bande de Gaza ou de déplacer sa population civile ») ; d’autres citations du ministre de la défense qui assure ne pas s’attaquer au peuple palestinien dans son ensemble.

      « La requête de l’Afrique du Sud brosse un tableau affreux, mais incomplet et profondément biaisé », renchérit #Galit_Rajuan, conseillère au ministère de la justice israélien, qui revient longuement sur les #responsabilités du Hamas, sa stratégie militaire au cœur de la population palestinienne. « Dans chacun des hôpitaux que les forces armées israéliennes ont fouillés à Gaza, elles ont trouvé des preuves d’utilisation militaire par le Hamas », avance-t-elle, des allégations contestées.

      « Certes, des dommages et dégâts ont été causés par les hostilités dans les hôpitaux, parfois par les forces armées israéliennes, parfois par le Hamas, reconnaît-elle, mais il s’agit des conséquences de l’utilisation odieuse de ces hôpitaux par le Hamas. »

      Rajuan martèle enfin qu’Israël cherche à « atténuer les dommages causés aux civils » et à « faciliter l’aide humanitaire ». Des arguments connus, que de très nombreuses ONG, agences des Nations unies et journalistes gazaouis présents sur place réfutent régulièrement, et que les journalistes étrangers ne peuvent pas vérifier, faute d’accès à la bande de Gaza.

      https://www.mediapart.fr/journal/international/120124/israel-commet-il-un-genocide-gaza-le-compte-rendu-d-une-audience-historiqu

    • Gaza, l’accusa di genocidio a Israele e la credibilità del diritto internazionale

      Il Sudafrica ha chiesto l’intervento della Corte internazionale di giustizia dell’Aja per presunte violazioni di Israele della Convenzione sul genocidio del 1948. Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool, presente alla storica udienza, aiuta a comprendere il merito e le prospettive

      “Quello che sta succedendo all’Aja ha un significato che va oltre gli eventi in corso nella Striscia di Gaza. Viviamo un momento storico in cui la Corte internazionale di giustizia (Icj) ha anche la responsabilità di confermare se il diritto internazionale esiste ancora e se vale alla stessa maniera per tutti i Paesi, del Nord e del Sud del mondo”. A parlare è Triestino Mariniello, docente di Diritto penale internazionale alla John Moores University di Liverpool, già nel team legale delle vittime di Gaza di fronte alla Corte penale internazionale (Icc), che ha sede sempre all’Aja.

      Non vanno confuse: l’aula di tribunale ripresa dalle tv di tutto il mondo l’11 e il 12 gennaio scorsi, infatti, con il team legale sudafricano schierato contro quello israeliano, è quella della Corte internazionale di giustizia, il massimo organo giudiziario delle Nazioni Unite, che si esprime sulle controversie tra Stati. L’Icc, invece, è indipendente e legifera sulle responsabilità penali individuali.

      Il 29 dicembre scorso il Sudafrica ha chiesto l’intervento della prima per presunte violazioni da parte di Israele della Convenzione sul genocidio del 1948, nei confronti dei palestinesi della Striscia di Gaza. Un’udienza storica a cui Mariniello era presente.

      Professore, qual era innanzi tutto l’atmosfera?
      TM A mia memoria mai uno strumento del diritto internazionale ha avuto tanto sostegno e popolarità. C’erano centinaia, probabilmente migliaia di persone all’esterno della Corte, emittenti di tutto il mondo e apparati di sicurezza, inclusi droni ed elicotteri. Sentire anche le tv più conservatrici, come quelle statunitensi, parlare di Palestina e genocidio faceva comprendere ancora di più l’importanza storica dell’evento.

      In estrema sintesi, quali sono gli elementi più importanti della tesi sudafricana?
      TM Il Sudafrica sostiene che Israele abbia commesso atti di genocidio contro la popolazione di Gaza, ciò significa una serie di azioni previste dall’articolo 2 della Convenzione sul genocidio, effettuate con l’intento di distruggere del tutto o in parte un gruppo protetto, in questo caso i palestinesi di Gaza. Questi atti, per il Sudafrica, sono omicidi di massa, gravi lesioni fisiche o mentali e l’imposizione di condizioni di vita volte a distruggere i palestinesi, come l’evacuazione forzata di circa due milioni di loro, la distruzione di quasi tutto il sistema sanitario della Striscia, l’assedio totale all’inizio della guerra e la privazione di beni essenziali per la sopravvivenza. Ciò che caratterizza un genocidio rispetto ad altri crimini internazionali è il cosiddetto “intento speciale”, la volontà cioè di voler distruggere del tutto o in parte un gruppo protetto. È l’elemento più difficile da provare, ma credo che il Sudafrica in questo sia riuscito in maniera solida e convincente. Sia in aula sia all’interno della memoria di 84 pagine presentata, vi sono, infatti, una serie di dichiarazioni dei leader politici e militari israeliani, che proverebbero tale intento. Come quella del premier Benjamin Netanyahu che, a inizio guerra, ha invocato la citazione biblica di Amalek, che sostanzialmente significa: “Uccidete tutti gli uomini, le donne, i bambini e gli animali”. O una dichiarazione del ministro della Difesa, Yoav Gallant, che ha detto che a Gaza sono tutti “animali umani”. Queste sono classiche dichiarazioni deumanizzanti e la deumanizzazione è un passaggio caratterizzante tutti i genocidi che abbiamo visto nella storia dell’umanità.

      Qual è stata invece la linea difensiva israeliana?
      TM Diciamo che l’impianto difensivo di Israele è basato su tre pilastri: il fatto che quello di cui lo si accusa è stato eseguito da Hamas il 7 ottobre; il concetto di autodifesa, cioè che quanto fatto a Gaza è avvenuto in risposta a tale attacco e, infine, che sono state adottate una serie di precauzioni per limitare l’impatto delle ostilità sulla popolazione civile. Israele, inoltre, ha sollevato il tema della giurisdizione della Corte, mettendola in discussione, in quanto non vi sarebbe una disputa in corso col Sudafrica. Su questo la Corte si dovrà pronunciare, ma a tal proposito è stato ricordato come Israele sia stato contattato dal Sudafrica in merito all’accusa di genocidio e non abbia risposto. Questo, per l’accusa, varrebbe come disputa in corso.

      Che cosa chiede il Sudafrica?
      TM In questo momento l’accusa non deve dimostrare che sia stato commesso un genocidio, ma che sia plausibile. Questa non è un’udienza nel merito, siamo in una fase d’urgenza, ma di richiesta di misure cautelari. Innanzitutto chiede il cessate fuoco, poi la rescissione di tutti gli ordini che possono costituire atti di genocidio. Si domanda alla Corte di imporre un ordine a Israele per preservare tutte le prove che potrebbero essere utili per indagini future e di porre fine a tutti gli atti di cui il Sudafrica lo ritiene responsabile.

      Come valuta le due memorie?
      TM La deposizione del Sudafrica è molto solida e convincente, sia in merito agli atti genocidi sia all’intento genocidiario. E credo che anche alla luce dei precedenti della Corte lasci veramente poco spazio di manovra. Uno dei punti di forza è che fornisce anche una serie di prove in merito a quello che è successo e che sta accadendo a Gaza: le dichiarazioni dei politici israeliani, cioè, hanno ricevuto un’implementazione sul campo. Sono stati mostrati dei video di militari, ad esempio, che invocavano Amalek, la citazione di Netanyahu.

      In realtà il Sudafrica non si limita allo scontro in atto, ma parla di una sorta Nakba (l’esodo forzato dei palestinesi) ininterrotto.
      TM Ogni giurista dovrebbe sempre analizzare qualsiasi ostilità all’interno di un contesto e per questo il Sudafrica fa riferimento a 75 anni di Nakba, a 56 di occupazione militare israeliana e a 16 anni di assedio della Striscia.

      Come valuta la difesa israeliana?
      TM Come detto, tutto viene ricondotto all’attacco di Hamas del 7 ottobre e a una risposta di autodifesa rispetto a tale attacco. Ma esiste sempre un contesto per il diritto penale internazionale e l’autodifesa -che per uno Stato occupante non può essere invocata- non può comunque giustificare un genocidio. L’altro elemento sottolineato dal team israeliano, delle misure messe in atto per ridurre l’impatto sui civili, è sembrato più retorico che altro: quanto avvenuto negli ultimi tre mesi smentisce tali dichiarazioni. Basti pensare alla privazione di beni essenziali e a tutte le informazioni raccolte dalle organizzazioni internazionali e dagli organismi delle Nazioni Unite. A Gaza non esistono zone sicure, ci sono stati casi in cui la popolazione evacuata, rifugiatasi nelle zone indicate da Israele, è stata comunque bombardata.

      Ora che cosa pensa succederà?
      TM La mia previsione è che la Corte si pronuncerà sulle misure cautelari entro la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, quando alcuni giudici decadranno e saranno sostituiti. In alcuni casi ha impiegato anche solo otto giorni per pronunciarsi. Ora ci sono delle questioni procedurali, altri Stati stanno decidendo di costituirsi a sostegno di Israele o del Sudafrica.

      Che cosa implica tale sostegno?
      TM La possibilità di presentare delle memorie. La Germania sosterrà Israele, il Brasile, i Paesi della Lega Araba, molti Stati sudamericani, ma non solo, si stanno schierando con il Sudafrica.

      Il ministro degli Esteri italiano, Antonio Tajani, ha dichiarato che non si tratta di genocidio.
      TM L’Italia non appoggerà formalmente Israele dinnanzi all’Icj. La Francia sarà neutrale. I Paesi del Global South stanno costringendo quelli del Nord a verificare la credibilità del diritto internazionale: vale per tutti o è un diritto à la carte?

      Se la Corte decidesse per il cessate il fuoco, quali sarebbero le conseguenze, visto che non ha potere politico?
      TM Il parere della Corte è giuridicamente vincolante. Il problema è effettivamente di esecuzione: nel caso di un cessate il fuoco, se non fosse Israele ad attuarlo, dovrebbe intervenire il Consiglio di sicurezza.

      Con il rischio del veto statunitense.
      TM Siamo sul terreno delle speculazioni, ma se la Corte dovesse giungere alla conclusione che Israele è responsabile di un genocidio a Gaza, onestamente riterrei molto difficile un altro veto degli Stati Uniti. È difficile al momento prevedere gli effetti dirompenti di un’eventuale decisione positiva della Corte. Certo è che, quando si parla di Israele, la comunità internazionale, nel senso dei Paesi occidentali, ha creato uno stato di eccezione, che ha sempre posto Israele al di sopra del diritto internazionale, senza rendersi conto che le situazioni violente che viviamo in quel contesto sono il frutto di questo eccezionalismo anche a livello giuridico. Fino a quando si andrà avanti con questo contesto di impunità non finiranno le spirali di violenza.

      https://altreconomia.it/gaza-laccusa-di-genocidio-a-israele-e-la-credibilita-del-diritto-intern

    • La Cour internationale de justice ordonne à Israël d’empêcher un génocide à Gaza

      Selon la plus haute instance judiciaire internationale, « il existe un #risque réel et imminent qu’un préjudice irréparable soit causé » aux Palestiniens de Gaza. La Cour demande à Israël de « prendre toutes les mesures en son pouvoir pour prévenir la commission […] de tout acte » de génocide. Mais n’appelle pas au cessez-le-feu.

      Même si elle n’a aucune chance d’être appliquée sur le terrain, la #décision prise vendredi 26 janvier par la plus haute instance judiciaire des Nations unies marque incontestablement un tournant dans la guerre au Proche-Orient. Elle intervient après quatre mois de conflit déclenché par l’attaque du Hamas le 7 octobre 2023, qui a fait plus de 1 200 morts et des milliers de blessés, conduit à la prise en otage de 240 personnes, et entraîné l’offensive israélienne dans la bande de Gaza, dont le dernier bilan s’élève à plus de 25 000 morts.

      La Cour internationale de justice (CIJ), basée à La Haye (Pays-Bas), a expliqué, par la voix de sa présidente, la juge Joan Donoghue, « être pleinement consciente de l’ampleur de la #tragédie_humaine qui se joue dans la région et nourri[r] de fortes #inquiétudes quant aux victimes et aux #souffrances_humaines que l’on continue d’y déplorer ». Elle a ordonné à Israël de « prendre toutes les #mesures en son pouvoir pour prévenir la commission à l’encontre des Palestiniens de Gaza de tout acte » de génocide.

      « Israël doit veiller avec effet immédiat à ce que son armée ne commette aucun des actes » de génocide, affirme l’#ordonnance. Elle « considère également qu’Israël doit prendre toutes les mesures en son pouvoir pour prévenir et punir l’incitation directe et publique à commettre le génocide à l’encontre des membres du groupe des Palestiniens de la bande de Gaza ».

      La cour de La Haye, saisie à la suite d’une plainte de l’Afrique du Sud, demande « en outre » à l’État hébreu de « prendre sans délai des #mesures_effectives pour permettre la fourniture des services de base et de l’#aide_humanitaire requis de toute urgence afin de remédier aux difficiles conditions d’existence auxquelles sont soumis les Palestiniens de la bande de Gaza ».

      Enfin, l’ordonnance de la CIJ ordonne aux autorités israéliennes de « prendre des mesures effectives pour prévenir la destruction et assurer la conservation des #éléments_de_preuve relatifs aux allégations d’actes » de génocide.

      La juge #Joan_Donoghue, qui a donné lecture de la décision, a insisté sur son caractère provisoire, qui ne préjuge en rien de son futur jugement sur le fond des accusations d’actes de génocide. Celles-ci ne seront tranchées que dans plusieurs années, après instruction.

      La cour « ne peut, à ce stade, conclure de façon définitive sur les faits » et sa décision sur les #mesures_conservatoires « laisse intact le droit de chacune des parties de faire valoir à cet égard ses moyens » en vue des audiences sur le fond, a-t-elle poursuivi.

      Elle considère cependant que « les faits et circonstances » rapportés par les observateurs « suffisent pour conclure qu’au moins certains des droits » des Palestiniens sont mis en danger et qu’il existe « un risque réel et imminent qu’un préjudice irréparable soit causé ».

      Environ 70 % de #victimes_civiles

      La CIJ avait été saisie le 29 décembre 2023 par l’Afrique du Sud qui, dans sa requête, accuse notamment Israël d’avoir violé l’article 2 de la Convention de 1948 sur le génocide, laquelle interdit, outre le meurtre, « l’atteinte grave à l’intégrité physique ou mentale de membres du groupe » visé par le génocide, l’imposition de « conditions d’existence devant entraîner sa destruction physique totale ou partielle » ou encore les « mesures visant à entraver les naissances au sein du groupe ».

      Le recours décrit longuement une opération militaire israélienne qualifiée d’« exceptionnellement brutale », « tuant des Palestiniens à Gaza, incluant une large proportion de femmes et d’enfants – pour un décompte estimé à environ 70 % des plus de 21 110 morts [au moment de la rédaction du recours par l’Afrique du Sud – ndlr] –, certains d’entre eux apparaissant avoir été exécutés sommairement ».

      Il soulignait également les conséquences humanitaires du déplacement massif des populations et de la destruction massive de logements et d’équipements publics, dont des écoles et des hôpitaux.

      Lors des deux demi-journées d’audience, jeudi 11 et vendredi 12 janvier, le conseiller juridique du ministère des affaires étrangères israélien, Tal Becker, avait dénoncé une « instrumentalisation » de la notion de génocide et qualifié l’accusation sud-africaine de « calomnie ».

      « C’est une guerre qu’Israël n’a pas commencée », avait poursuivi le représentant israélien, affirmant que « s’il y a eu des actes que l’on pourrait qualifier de génocidaires, [ils ont été commis] contre Israël ». « Israël ne veut pas détruire un peuple mais protéger un peuple : le sien. »
      Gaza, « lieu de mort et de désespoir »

      La CIJ, de son côté, a fondé sa décision sur les différents rapports et constatations fournis par des organisations internationales. Elle cite notamment la lettre du 5 janvier 2024 du secrétaire général adjoint aux affaires humanitaires de l’ONU, Martin Griffiths, décrivant la bande de Gaza comme un « lieu de mort et de désespoir ».

      L’ordonnance rappelle qu’un communiqué de l’Organisation mondiale de la santé (OMS) du 21 décembre 2023 s’alarmait du fait que « 93 % de la population de Gaza, chiffre sans précédent, est confrontée à une situation de crise alimentaire ».

      Le 12 janvier 2024, c’est l’Office de secours et de travaux des Nations unies pour les réfugiés de Palestine dans le Proche-Orient (UNRWA) qui lançait un cri d’alerte. « Cela fait maintenant 100 jours que cette guerre dévastatrice a commencé, que la population de Gaza est décimée et déplacée, suite aux horribles attaques perpétrées par le Hamas et d’autres groupes contre la population en Israël », s’alarmait-il.

      L’ordonnance souligne, en miroir, les multiples déclarations de responsables israéliens assumant une répression sans pitié dans la bande de Gaza, si nécessaire au prix de vies civiles. Elle souligne que des rapporteurs spéciaux des Nations unies ont même pu s’indigner de « la rhétorique manifestement génocidaire et déshumanisante de hauts responsables du gouvernement israélien ».

      La CIJ pointe par exemple les propos du ministre de la défense Yoav Gallant du 9 octobre 2023 annonçant « un siège complet de la ville de Gaza », avant d’affirmer : « Nous combattons des animaux humains. »

      Le 12 octobre, c’est le président israélien Isaac Herzog qui affirmait : « Tous ces beaux discours sur les civils qui ne savaient rien et qui n’étaient pas impliqués, ça n’existe pas. Ils auraient pu se soulever, ils auraient pu lutter contre ce régime maléfique qui a pris le contrôle de Gaza. »

      Et, à la vue des intentions affichées par les autorités israéliennes, les opérations militaires dans la bande de Gaza ne sont pas près de s’arrêter. « La Cour considère que la situation humanitaire catastrophique dans la bande de Gaza risque fort de se détériorer encore avant qu’elle rende son arrêt définitif », affirme l’ordonnance.

      « À la lumière de ce qui précède, poursuivent les juges, la Cour considère qu’il y a urgence en ce sens qu’il existe un risque réel et imminent qu’un préjudice irréparable soit causé aux droits qu’elle a jugés plausibles avant qu’elle ne rende sa décision définitive. »

      Si la décision de la CIJ est juridiquement contraignante, la Cour n’a pas la capacité de la faire appliquer. Cependant, elle est incontestablement une défaite diplomatique pour Israël.

      Présente à La Haye, la ministre des relations internationales et de la coopération d’Afrique du Sud, Naledi Pandor, a pris la parole à la sortie de l’audience. Si elle a regretté que les juges n’aient pas appelé à un cessez-le-feu, elle s’est dite « satisfaite que les mesures provisoires » réclamées par son pays aient « fait l’objet d’une prise en compte » par la Cour, et qu’Israël doive fournir un rapport d’ici un mois. Pour l’Afrique du Sud, lancer cette plainte, a-t-elle expliqué, « était une façon de s’assurer que les organismes internationaux exercent leur responsabilité de nous protéger tous, en tant que citoyens du monde global ».

      Comme l’on pouvait s’y attendre, les autorités israéliennes ont vivement critiqué les ordonnances d’urgence réclamées par les juges de La Haye. Si le premier ministre, Benyamin Nétanyahou, s’est réjoui de ce que ces derniers n’aient pas réclamé, comme le demandait l’Afrique du Sud, de cessez-le-feu – « Comme tout pays, Israël a le droit fondamental de se défendre. La CIJ de La Haye a rejeté à juste titre la demande scandaleuse visant à nous priver de ce droit », a-t-il dit –, il a eu des mots très durs envers l’instance : « La simple affirmation selon laquelle Israël commet un génocide contre les Palestiniens n’est pas seulement fausse, elle est scandaleuse, et la volonté de la Cour d’en discuter est une honte qui ne sera pas effacée pendant des générations. »

      Il a affirmé vouloir continuer « à défendre [ses] citoyens dans le respect du droit international ». « Nous poursuivrons cette guerre jusqu’à la victoire absolue, jusqu’à ce que tous les otages soient rendus et que Gaza ne soit plus une menace pour Israël », a ajouté Nétanyahou.

      Jeudi, à la veille de la décision de la CIJ, le New York Times avait révélé que les autorités israéliennes avaient fourni aux juges de La Haye une trentaine de documents déclassifiés, censés démonter l’accusation de génocide, parmi lesquels « des résumés de discussions ministérielles datant de la fin du mois d’octobre, au cours desquelles le premier ministre Benyamin Nétanyahou a ordonné l’envoi d’aide, de carburant et d’eau à Gaza ».

      Cependant, souligne le quotidien états-unien, les documents « ne comprennent pas les ordres des dix premiers jours de la guerre, lorsqu’Israël a bloqué l’aide à Gaza et coupé l’accès à l’électricité et à l’eau qu’il fournit normalement au territoire ».

      Nul doute que cette décision de la plus haute instance judiciaire des Nations unies va renforcer les appels en faveur d’un cessez-le-feu. Après plus de quatre mois de combats et un bilan lourd parmi la population civile gazaouie, Nétanyahou n’a pas atteint son objectif d’éradiquer le mouvement islamiste. Selon les Israéliens eux-mêmes, près de 70 % des forces militaires du Hamas sont intactes. De plus, les familles d’otages toujours aux mains du Hamas ou d’autres groupes islamistes de l’enclave maintiennent leurs pressions.

      Le ministre palestinien des affaires étrangères Riyad al-Maliki s’est réjoui d’une décision de la CIJ « en faveur de l’humanité et du droit international », ajoutant que la communauté international avait désormais « l’obligation juridique claire de mettre fin à la guerre génocidaire d’Israël contre le peuple palestinien de Gaza et de s’assurer qu’elle n’en est pas complice ». Le ministre de la justice sud-africain Ronald Lamola, cité par l’agence Reuters, a salué, lui, « une victoire pour le droit international ». « Israël ne peut être exempté du respect de ses obligations internationales », a-t-il ajouté.

      De son côté, la Commission européenne a appelé Israël et le Hamas à se conformer à la décision de la CIJ. L’Union européenne « attend leur mise en œuvre intégrale, immédiate et effective », a-t-elle souligné dans un communiqué.

      La France avait fait entendre pourtant il y a quelques jours une voix discordante. Le ministre des affaires étrangères Stéphane Séjourné avait déclaré, à l’Assemblée nationale, qu’« accuser l’État juif de génocide, c’est franchir un seuil moral ». Dans un communiqué publié après la décision de la CIJ, le ministère a annoncé son intention de déposer des observations sur l’interprétation de la Convention de 1948, comme le lui permet la procédure. « [La France] indiquera notamment l’importance qu’elle attache à ce que la Cour tienne compte de la gravité exceptionnelle du crime de génocide, qui nécessite l’établissement d’une intention. Comme le ministre de l’Europe et des affaires étrangères a eu l’occasion de le noter, les mots doivent conserver leur sens », indique le texte.

      Les États-Unis ont estimé que la décision était conforme à la position états-unienne, exprimée à plusieurs reprises par Joe Biden à son allié israélien, de réduire les souffrances des civils de Gaza et d’accroître l’aide humanitaire. Cependant, a expliqué un porte-parole du département d’État, les États-Unis continuent « de penser que les allégations de génocide sont infondées » et notent « que la Cour n’a pas fait de constat de génocide, ni appelé à un cessez-le-feu dans sa décision, et qu’elle a appelé à la libération inconditionnelle et immédiate de tous les otages détenus par le Hamas ».

      C’est dans ce contexte que se déroulent des discussions pour obtenir une trêve prolongée, la deuxième après celle de novembre, qui avait duré une semaine et permis la libération de plusieurs dizaines d’otages.

      Selon les médias états-uniens, Israël a proposé une trêve de 60 jours et la libération progressive des otages encore retenu·es. Selon ce projet, a affirmé CNN, les dirigeants du Hamas pourraient quitter l’enclave. Selon la chaîne d’informations américaine, « des responsables américains et internationaux au fait des négociations ont déclaré que l’engagement récent d’Israël et du Hamas dans des pourparlers était encourageant, mais qu’un accord n’était pas imminent ».

      Le Washington Post a révélé jeudi que le président américain Joe Biden allait envoyer dans les prochains jours en Europe le directeur de la CIA, William Burns, pour tenter d’obtenir un accord. Il devrait rencontrer les chefs des services de renseignement israélien et égyptien, David Barnea et Abbas Kamel, et le premier ministre qatari Mohammed ben Abdulrahman al-Thani. Vendredi soir, l’Agence France-Presse (AFP) a affirmé qu’ils se retrouveraient « dans les tout prochains jours à Paris », citant « une source sécuritaire d’un État impliqué dans les négociations ».

      https://www.mediapart.fr/journal/international/260124/la-cour-internationale-de-justice-ordonne-israel-d-empecher-un-genocide-ga

  • Dessins de hasard : Anima Sola #30
    Récit poétique à partir d’images créées par procuration.

    https://liminaire.fr/palimpseste/article/dessins-de-hasard

    La nuit est un long chemin qui serpente dans les sous-bois, quelques flaques d’eau forment des miroirs au sol. La brume épaissit à mesure qu’on avance. Le paysage se transforme lentement. Difficile de voir à quelques pas devant soi, parfois une lumière vacille au loin, tremblante à peine, cela ressemble à un signal secret, un repère dans la nuit, on pense s’approcher du but, à destination, mais c’est une illusion passagère, lumière chavire avant de basculer dans le noir. La nuit s’obscurcit toujours un peu plus. Bleu nuit sur fond noir....

    (...) #Écriture, #Langage, #Poésie, #Lecture, #Photographie, #Littérature, #Art, #AI, #IntelligenceArtificielle, #Dalle-e, #Récit, #Nature, #Nuit, #Paysage, #Lumière, (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/anima_sola_30.mp4

  • Large Language Publishing, par Jeff Pooley
    https://doi.org/10.54900/zg929-e9595

    Analyse très intéressante sur l’Open access dans la science, ses limites notamment en termes de licence et de droit d’utilisation et de l’usage des articles scientifiques pour entrainer l’intelligence artificielle (#AI) avec la question de la captation des profits associés alors que les éditeurs scientifiques ne rémunèrent jamais, quant à eux, les producteurs de connaissance scientifique et au contraire, exploitent les universités et leurs financements publics sous forme d’abonnements des bibliothèques aux revues ou de APC (charges payées par les scientifiques pour être publiés en #open_access). Le texte soulève d’intéressants paradoxes sur ces enjeux, en faisant un parallèle avec le procès que les grands journaux comme le New York Times ont lancé contre OpenAI et autres entreprises d’intelligence artificielle pour avoir entrainé les logiciels d’AI sans autorisation et surtout sans paiement leurs archives.

    Thus the two main sources of trustworthy knowledge, science and journalism, are poised to extract protection money—to otherwise exploit their vast pools of vetted text as “training data.” But there’s a key difference between the news and science: Journalists’ salaries, and the cost of reporting, are covered by the companies. Not so for scholarly publishing: Academics, of course, write and review for free, and much of our research is funded by taxpayers. The Times suit is marinated in complaints about the costly business of journalism. The likes of Taylor & Francis and Springer Nature won’t have that argument to make. It’s hard to call out free-riding when it’s your own business model.
    [...]
    Enter Elsevier and its oligopolistic peers. They guard (with paywalled vigilance) a large share of published scholarship, much of which is unscrapable. A growing proportion of their total output is, it’s true, open access, but a large share of that material carries a non-commercial license. Standard OA agreements tend to grant publishers blanket rights, so they have a claim—albeit one contested on fair-use grounds by OpenAI and the like—to exclusive exploitation. Even the balance of OA works that permit commercial re-use are corralled with the rest, on propriety platforms like Elsevier’s ScienceDirect. Those platforms also track researcher behavior, like downloads and citations, that can be used to tune their models’ outputs.
    [...]
    As the Times lawsuit suggests, there’s a big legal question mark hovering over the big publishers’ AI prospects. The key issue, winding its way through the courts, is fair use: Can the likes of OpenAI scrape up copyrighted content into their models, without permission or compensation? The Silicon Valley tech companies think so; they’re fresh converts to fair-use maximalism, as revealed by their public comments filed with the US Copyright Office. The companies’ “overall message,“ reported The Verge in a round-up, is that they “don’t think they should have to pay to train AI models on copyrighted work.” Artists and other content creators have begged to differ, filing a handful of high-profile lawsuits.

    The publishers haven’t filed their own suits yet, but they’re certainly watching the cases carefully. Wiley, for one, told Nature that it was “closely monitoring industry reports and litigation claiming that generative AI models are harvesting protected material for training purposes while disregarding any existing restrictions on that information.” The firm has called for audits and regulatory oversight of AI models, to address the “potential for unauthorised use of restricted content as an input for model training.“ Elsevier, for its part, has banned the use of “our content and data” for training; its sister company LexisNexis, likewise, recently emailed customers to “remind” them that feeding content to “large language models and generative AI” is forbidden.
    [...]
    One near-term consequence may be a shift in the big publishers’ approach to open access. The companies are already updating their licenses and terms to forbid commercial AI training—for anyone but them, of course. The companies could also pull back from OA altogether, to keep a larger share of exclusive content to mine. Esposito made the argument explicit in a recent Scholarly Kitchen post: “The unfortunate fact of the matter is that the OA movement and the people and organizations that support it have been co-opted by the tech world as it builds content-trained AI.“ Publishers need “more copyright protection, not less,“ he added. Esposito’s consulting firm, in its latest newsletter, called the liberal Creative Commons BY license a “mechanism to transfer value from scientific and scholarly publishers to the world’s wealthiest tech companies.“ Perhaps, though I would preface the point: Commercial scholarly publishing is a mechanism to transfer value from scholars, taxpayers, universities to the world’s most profitable companies.
    [...]
    There are a hundred and one reasons to worry about Elsevier mining our scholarship to maximize its profits. I want to linger on what is, arguably, the most important: the potential effects on knowledge itself. At the core of these tools—including a predictable avalanche of as-yet-unannounced products—is a series of verbs: to surface, to rank, to summarize, and to recommend. The object of each verb is us—our scholarship and our behavior. What’s at stake is the kind of knowledge that the models surface, and whose knowledge.
    [...]
    These dynamics of cumulative advantage have, in practice, served to amplify the knowledge system’s patterned inequalities—for example, in the case of gender and twentieth-century scholarship, aptly labeled the Matilda Effect by Margaret Rossiter.

    The deployment of AI models in science, especially proprietary ones, may produce a Matthew Effect on the scale of Scopus, and with no paper trail. The problem is analogous to the well-documented bias-smuggling with existing generative models; image tools trained on, for example, mostly white and male photos reproduce the skew in their prompt-generated outputs. With our bias-laden scholarship as training data, the academic models may spit out results that, in effect, double-down on inequality. What’s worse is that we won’t really know, due to the models’ black-boxed character. Thus the tools may act as laundering machines—context-erasing abstractions that disguise their probabilistic “reasoning.” Existing biases, like male academics’ propensity for self-citation, may win a fresh coat of algorithmic legitimacy. Or consider center-periphery dynamics along North-South and native-English-speaking lines: Gaps traceable to geopolitical history, including the legacy of European colonialism, may be buried still deeper. The models, in short, could serve as privilege multipliers.
    [...]
    So it’s an urgent task to push back now, and not wait until after the models are trained and deployed. What’s needed is a full-fledged campaign, leveraging activism and legislative pressure, to challenge the commercial publishers’ extractive agenda. One crucial framing step is to treat the impending AI avalanche as continuous with—as an extension of—the publishers’ in-progress mutation into surveillance-capitalist data businesses.
    [...]
    So far the publishers’ data-hoovering hasn’t galvanized scholars to protest. The main reason is that most academics are blithely unaware of the tracking—no surprise, given scholars’ too-busy-to-care ignorance of the publishing system itself. The library community is far more attuned to the unconsented pillage, though librarians—aside from SPARC—haven’t organized on the issue. There have been scattered notes of dissent, including a Stop Tracking Science petition, and an outcry from Dutch scholars on a 2020 data-and-publish agreement with Elsevier, largely because the company had baked its prediction products into the deal. In 2022 the German national research foundation, Deutsche Forschungsgemeinschaft (DFG), released its own report-cum-warning—“industrialization of knowledge through tracking,” in the report’s words. Sharp critiques from, among others Bjorn Brembs, Leslie Chan, Renke Siems, Lai Ma, and Sarah Lamdan have appeared at regular intervals.

    None of this has translated into much, not even awareness among the larger academic public. A coordinated campaign of advocacy and consciousness-raising should be paired with high-quality, in-depth studies of publisher data harvesting—on the example of SPARC’s recent ScienceDirect report. Any effort like this should be built on the premise that another scholarly-publishing world is possible. Our prevailing joint-custody arrangement—for-profit publishers and non-profit universities—is a recent and reversible development. There are lots of good reasons to restore custody to the academy. The latest is to stop our work from fueling the publishers’ AI profits.

    #profits #Elsevier #science #commons #inégalités

  • Parution du n°1 de la revue Takakia
    https://infokiosques.net/spip.php?article2068

    Bonjour, Une nouvelle revue vient de voir le jour. Voici l’annonce, le sommaire, un article et les modalités de contact. N’hésitez pas à nous contacter pour recevoir des exemplaires (précisez une adresse postale). Sur notre site, il y a un formulaire de contact sécurisé (PGP). Bonne lecture, L’équipe de Takakia TAKAKIA. Rugissements contre la société techno-industrielle #1 (hiver 2023-204) – 74 pages – prix libre takakia@@@riseup.net https://takakia.blackblogs.org Au milieu de la tempête (...) #ailleurs

    https://takakia.blackblogs.org

  • Le #lobbying sans #frontières de #Thales
    (publié en 2021, ici pour archivage)

    Pour vendre ses systèmes de surveillance aux confins de l’Union européenne, l’entreprise use de son influence. Indirectement, discrètement, efficacement.

    Ce 23 mai 2017, au sixième étage de l’immense tour vitrée qui héberge les locaux de #Frontex à Varsovie, en Pologne, les rendez-vous sont réglés comme du papier à musique. L’agence européenne de gardes-frontières et de gardes-côtes reçoit des industriels pour des discussions consacrées à l’utilisation de la biométrie aux confins de l’Union. Leonardo, Safran, Indra… Frontex déroule le tapis rouge aux big boss de la sécurité et de la défense. Juste après la pause-déjeuner, c’est au tour de #Gemalto, qui sera racheté deux ans plus tard par Thales (lire l’épisode 5, « Thales s’immisce dans ta face »), de déballer pendant quarante-cinq minutes ses propositions. Un document PowerPoint de 14 pages sert de support visuel. L’entreprise franco-néerlandaise y développe diverses utilisations de la reconnaissance faciale aux frontières : en collectant un selfie grâce à son téléphone avant de voyager, en plein vol dans un avion ou dans un véhicule qui roule. Oubliant de s’interroger sur la légalité et le cadre juridique de cette technologie, la présentation conclut : « La reconnaissance faciale en mouvement n’a pas été testée dans les essais de “frontières intelligentes” mais devrait. » Une manière à peine voilée de dire que Frontex devrait coupler des logiciels de reconnaissance faciale aux caméras de surveillance qui lorgnent les frontières extérieures de l’Europe, afin de mieux identifier et surveiller ceux qui tentent de pénétrer dans l’UE.

    Ce document est l’un des 138 dévoilés le 5 février dernier par les « Frontex Files », enquête diligentée par la chaîne de télévision publique allemande ZDF, en collaboration avec l’ONG européenne Corporate Europe Observatory. Ce travail lève le voile sur des réunions menées par Frontex avec 125 lobbyistes, reçus entre 2018 et 2019… ainsi que sur leur opacité, puisque 72 % d’entre elles se sont tenues très discrètement, en dehors des règles de transparence édictées par l’Union européenne.

    Depuis 2016, Frontex joue un rôle dans la lutte contre la criminalité transfrontalière. Son budget atteint 544 millions en 2021

    Fondée en 2004 pour aider les pays européens à sécuriser leurs frontières, Frontex est devenue une usine à gaz de la traque des réfugiés. Depuis 2016 et un élargissement de ses fonctions, elle joue désormais un rôle dans la lutte contre la criminalité transfrontalière. Alors qu’il plafonnait à 6 millions d’euros en 2005, son budget atteint 544 millions en 2021. Pour le prochain cycle budgétaire de l’UE (2021-2027), la Commission européenne a attribué une enveloppe de 12,7 milliards d’euros à la gestion des frontières et de 9,8 milliards à la migration.

    Thales et Gemalto trônent dans le top 10 des entreprises ayant eu le plus d’entretiens avec l’agence européenne : respectivement trois et quatre réunions. Mais les deux sociétés devraient être comptées comme un tout : en rachetant la seconde, la première a logiquement profité des efforts de lobbying que celle-ci avait déployés auparavant. Pour le géant français, l’enjeu des frontières est majeur, ainsi que nous le racontions précédemment (lire l’épisode 6, « Thales police les frontières »). #Murs, #clôtures, #barbelés, #radars, #drones, systèmes de reconnaissance d’#empreintes_digitales biométriques… Chaque année, les marchés attribués se comptent en millions d’euros. L’ONG Transnational Institute parle de « business de l’édification de murs », du nom d’un de ses rapports, publié en novembre 2019. Celui-ci met la lumière sur les trois entreprises qui dévorent la plus grosse part du gâteau : l’espagnole #Leonardo (ex-#Finmeccanica), #Airbus et bien sûr Thales. Un profit fruit de plus de quinze années de lobbying agressif.

    Thales avance à couvert et s’appuie sur l’#European_Organisation_for_Security, un think tank qui regroupe ses principaux alliés et concurrents

    Flash-back en 2003. Le traumatisme des attentats du 11-Septembre est encore vif. L’Union européenne aborde l’épineuse question de la sécurisation de ses frontières. Elle constitue un « groupe de personnalités », dont la mission est de définir les axes d’un futur programme de recherche européen sur la question. Au milieu des commissaires, chercheurs et représentants des institutions s’immiscent les intérêts privés de sociétés spécialisées dans la défense : Thales, Leonardo, mais aussi l’allemande #Siemens et la suédoise #Ericsson. Un an plus tard, le rapport suggère à l’UE de calquer son budget de recherche sur la sécurité sur celui des États-Unis, soit environ quatre dollars par habitant et par an, raconte la juriste Claire Rodier dans son ouvrage Xénophobie business : à quoi servent les contrôles migratoires ? (La Découverte, 2012). En euros, la somme s’élève à 1,3 milliard par an. La machine est lancée. Les lobbyistes sont dans la place ; ils ne la quitteront pas.

    Au sein du registre de transparence de l’Union européenne, Thales publie les détails de ses actions d’influence : un lobbyiste accrédité au Parlement, entre 300 000 et 400 000 euros de dépenses en 2019 et des réunions avec des commissaires et des membres de cabinets qui concernent avant tout les transports et l’aérospatial. Rien ou presque sur la sécurité. Logique. Thales, comme souvent, avance à couvert (lire l’épisode 1, « Nice, le “little brother” de Thales ») et s’appuie pour faire valoir ses positions sur l’#European_Organisation_for_Security (EOS), un think tank qui regroupe ses principaux alliés et concurrents : #Airbus, Leonardo ou les Français d’#Idemia. Bref, un lobby. L’implication de Thales dans #EOS est tout à fait naturelle : l’entreprise en est la créatrice. Un homme a longtemps été le visage de cette filiation, #Luigi_Rebuffi. Diplômé en ingénierie nucléaire à l’université polytechnique de Milan, cet Italien au crâne dégarni et aux lunettes rectangulaires doit beaucoup au géant français. Spécialisé dans la recherche et le développement au niveau européen, il devient en 2003 directeur des affaires européennes de Thales. Quatre ans plus tard, l’homme fonde EOS. Détaché par Thales, il en assure la présidence pendant dix ans avant de rejoindre son conseil d’administration de 2017 à 2019.

    Depuis, il a fondé et est devenu le secrétaire général de l’#European_Cyber_Security_Organisation (#Ecso), représentant d’influence enregistré à Bruxelles, dont fait partie #Thales_SIX_GTS France, la filiale sécurité et #systèmes_d’information du groupe. À la tête d’Ecso, on trouve #Philippe_Vannier, également président de la division #big_data et sécurité du géant français de la sécurité #Atos… dont l’ancien PDG #Thierry_Breton est depuis 2019 commissaire européen au Marché intérieur. Un jeu de chaises musicales où des cadres du privé débattent désormais des décisions publiques.

    Entre 2012 et 2016, Luigi Rebuffi préside l’European Organisation for Security… et conseille la Commission pour ses programmes de recherche en sécurité

    Luigi Rebuffi sait se placer et se montrer utile. Entre 2012 et 2016, il occupe, en parallèle de ses fonctions à l’EOS, celle de conseiller pour les programmes de recherche en sécurité de la Commission européenne, le #Security_Advisory_Group et le #Protection_and_Security_Advisory_Group. « C’est une position privilégiée, analyse Mark Akkerman, chercheur et coauteur du rapport “Le business de l’édification de murs” de l’ONG Transnational Institute. Rebuffi faisait partie de l’organe consultatif le plus influent sur les décisions de financement par l’UE de programmes de recherche et d’innovation dans le domaine de la sécurité. »

    Ce n’est donc pas un hasard si, comme le note le site European Research Ranking, qui compile les données publiées par la Commission européenne, Thales est l’un des principaux bénéficiaires des fonds européens sur la #recherche avec 637 projets menés depuis 2007. La sécurité figure en bonne place des thématiques favorites de la société du PDG #Patrice_Caine, qui marche main dans la main avec ses compères de la défense Leonardo et Airbus, avec lesquels elle a respectivement mené 48 et 109 projets.

    Entre 2008 et 2012, l’Union européenne a, par exemple, attribué une subvention de 2,6 millions d’euros à un consortium mené par Thales, dans le cadre du projet #Aspis. Son objectif ? Identifier des systèmes de #surveillance_autonome dans les #transports_publics. Des recherches menées en collaboration avec la #RATP, qui a dévoilé à Thales les recettes de ses systèmes de sécurité et les coulisses de sa première ligne entièrement automatisée, la ligne 14 du métro parisien. Un projet dont l’un des axes a été le développement de la #vidéosurveillance.

    Thales coordonne le projet #Gambas qui vise à renforcer la #sécurité_maritime et à mieux repérer les bateaux de réfugiés tentant de rejoindre l’Europe

    À la même période, Thales s’est impliqué dans le projet #Oparus, financé à hauteur de 1,19 million d’euros par la Commission européenne. À ses côtés pour penser une stratégie européenne de la surveillance terrestre et maritime par #drones, #EADS (ancien nom d’#Airbus) ou #Dassault_Aviation. Depuis le 1er janvier dernier, l’industriel français coordonne aussi le projet Gambas (1,6 million de financement), qui vise à renforcer la sécurité maritime en améliorant le système de surveillance par #radar #Galileo, développé dans le cadre d’un précédent #projet_de_recherche européen pour mieux repérer les bateaux de réfugiés tentant de rejoindre l’Europe. Une #technologie installée depuis 2018 aux frontières européennes.

    Des subventions sont rattachées aux derniers programmes de recherche et d’innovation de l’Union européenne : #PR7 (2007-13) et #Horizon_2020 (2014-20). Leur petit frère, qui court jusqu’en 2027, s’intitule, lui, #Horizon_Europe. L’une de ses ambitions : « La sécurité civile pour la société ». Alors que ce programme s’amorce, Thales place ses pions. Le 23 novembre 2020, l’entreprise s’est entretenue avec #Jean-Éric_Paquet, directeur général pour la recherche et l’innovation de la Commission européenne. Sur quels thèmes ? Ont été évoqués les programmes Horizon 2020 et Horizon Europe, et notamment « dans quelles mesures [les] actions [de la Commission] pourraient susciter l’intérêt de Thales, en vue d’un soutien renforcé aux PME mais aussi aux écosystèmes d’innovation au sein desquels les groupes industriels ont un rôle à jouer », nous a répondu par mail Jean-Éric Paquet.

    L’European Organisation for Security s’intéresse aussi directement aux frontières européennes. Un groupe de travail, coprésidé par #Peter_Smallridge, chef des ventes de la division « #borders_and_travel » de Thales et ancien de Gemalto, poursuit notamment l’ambition « d’encourager le financement et le développement de la recherche qui aboutira à une industrie européenne de la sécurité plus forte ». Entre 2014 et 2019, EOS a organisé 226 réunions pour le compte d’Airbus, Leonardo et Thales, dépensant 2,65 millions d’euros pour la seule année 2017. Le chercheur Mark Akkerman est formel : « Toutes les actions de lobbying sur les frontières passent par l’EOS et l’#AeroSpace_and_Defence_Industries_Association_of_Europe (#ASD) », l’autre hydre de l’influence européenne.

    L’AeroSpace and Defence Industries Association of Europe a particulièrement souligné la nécessité de renforcer les liens entre les politiques de sécurité européennes et l’industrie de la sécurité.
    Sonya Gospodinova, porte-parole de la Commission chargée de l’industrie de la défense

    Dans ses derniers comptes publiés, datés de 2018, EOS déclare des dépenses de lobbying en nette baisse : entre 100 000 et 200 000 euros, un peu moins que les 200 000 à 300 000 euros de l’ASD. La liste des interlocuteurs de ces structures en dit beaucoup. Le 12 février 2020, des représentants d’EOS rencontrent à Bruxelles #Despina_Spanou, cheffe de cabinet du Grec #Margarítis_Schinás, vice-président de la Commission européenne chargé des Migrations. Le 11 juin, c’est au tour de l’ASD d’échanger en visioconférence avec Despina Spanou, puis début juillet avec un autre membre du cabinet, #Vangelis_Demiris. Le monde de l’influence européenne est petit puisque le 30 juin, c’est Ecso, le nouveau bébé de Luigi Rebuffi, d’organiser une visioconférence sur la sécurité européenne avec le trio au grand complet : Margarítis Schinás, Despina Spanou et Vangelis Demiris. Pour la seule année 2020, c’est la troisième réunion menée par Ecso avec la cheffe de cabinet.

    Également commissaire chargé de la Promotion du mode de vie européen, Margarítis Schinás a notamment coordonné le rapport sur la « stratégie de l’UE sur l’union de la sécurité ». Publié le 24 juillet 2020, il fixe les priorités sécuritaires de la Commission pour la période 2020-2025. Pour lutter contre le terrorisme et le crime organisé, le texte indique que « des mesures sont en cours pour renforcer la législation sur la sécurité aux frontières et une meilleure utilisation des bases de données existantes ». Des points qui étaient au cœur de la discussion entre l’ASD et son cabinet, comme l’a confirmé aux Jours Sonya Gospodinova, porte-parole de la Commission chargée de l’industrie de la défense. « Lors de cette réunion, l’ASD a particulièrement souligné la nécessité de renforcer les liens entre les politiques de sécurité européennes et l’industrie de la sécurité », confie-t-elle. Difficile d’avoir le son de cloche des lobbyistes. Loquaces quand il s’agit d’échanger avec les commissaires et les députés européens, Luigi Rebuffi, ASD, EOS et Thales n’ont pas souhaité répondre à nos questions. Pas plus que l’une des autres cibles principales des lobbyistes de la sécurité, Thierry Breton. Contrairement aux Jours, l’AeroSpace and Defence Industries Association of Europe a décroché deux entretiens avec l’ancien ministre de l’Économie de Jacques Chirac en octobre dernier, pour aborder des sujets aussi vastes que le marché international de l’#aérospatiale, la #défense ou la #sécurité. À Bruxelles, Thales et ses relais d’influence sont comme à la maison.

    https://lesjours.fr/obsessions/thales-surveillance/ep7-lobbying-europe

    #complexe_militaro_industriel #surveillance_des_frontières #migrations #réfugiés #contrôles_frontaliers #lobby

    • Thales police les frontières

      De Calais à Algésiras, l’entreprise met ses technologies au service de la politique antimigratoire de l’Europe, contre de juteux contrats.

      Cette journée d’octobre, Calais ne fait pas mentir les préjugés. Le ciel est gris, le vent âpre. La pluie mitraille les vitres de la voiture de Stéphanie. La militante de Calais Research, une ONG qui travaille sur la frontière franco-anglaise, nous promène en périphérie de la ville. Un virage. Elle désigne du doigt un terrain poisseux, marécage artificiel construit afin de décourager les exilés qui veulent rejoindre la Grande-Bretagne. À proximité, des rangées de barbelés brisent l’horizon. Un frisson claustrophobe nous saisit, perdus dans ce labyrinthe de clôtures.

      La pilote de navire marchand connaît bien la région. Son collectif, qui réunit chercheurs et citoyens, effectue un travail d’archiviste. Ses membres collectent minutieusement les informations sur les dispositifs technologiques déployés à la frontière calaisienne et les entreprises qui les produisent. En 2016, ils publiaient les noms d’une quarantaine d’entreprises qui tirent profit de l’afflux de réfugiés dans la ville. Vinci, choisi en septembre 2016 pour construire un mur de 4 mètres de haut interdisant l’accès à l’autoroute depuis la jungle, y figure en bonne place. Tout comme Thales, qui apparaît dans la liste au chapitre « Technologies de frontières ».

      Thales vend son dispositif comme un outil pour protéger les employés, mais on voit bien que c’est pour empêcher les réfugiés de passer.
      Stéphanie, militante de l’ONG Calais Research

      Stéphanie stoppe sa voiture le long du trottoir, à quelques mètres de l’entrée du port de Calais. Portes tournantes et lecteurs de badges, qui permettent l’accès aux employés, ont été conçus par Thales. Le géant français a aussi déployé des dizaines de caméras le long de la clôture de 8 000 mètres qui encercle le port. « Thales vend son dispositif comme un outil pour protéger les employés, glisse Stéphanie, mais on voit bien que c’est pour empêcher les réfugiés de passer. » Le projet Calais Port 2015 – année initialement fixée pour la livraison –, une extension à 863 millions d’euros, « devrait être achevé le 5 mai 2021 », d’après Jean-Marc Puissesseau, PDG des ports de Calais-Boulogne-sur-Mer, qui n’a même pas pu nous confirmer que Thales en assure bien la sécurité, mais chiffre à 13 millions d’euros les investissements de sécurité liés au Brexit. Difficile d’en savoir plus sur ce port 2.0 : ni Thales ni la ville de Calais n’ont souhaité nous répondre.

      Les technologies sécuritaires de Thales ne se cantonnent pas au port. Depuis la mise en place du Brexit, la société Eurotunnel, qui gère le tunnel sous la Manche, a mis à disposition de la police aux frontières les sas « Parafe » (« passage automatisé rapide aux frontières extérieures ») utilisant la reconnaissance faciale du même nom, conçus par Thales. Là encore, ni Eurotunnel ni la préfecture du Pas-de-Calais n’ont souhaité commenter. L’entreprise française fournit aussi l’armée britannique qui, le 2 septembre 2020, utilisait pour la première fois le drone Watchkeeper produit par Thales. « Nous restons pleinement déterminés à soutenir le ministère de l’Intérieur britannique alors qu’il s’attaque au nombre croissant de petits bateaux traversant la Manche », se félicite alors l’armée britannique dans un communiqué. Pour concevoir ce drone, initialement déployé en Afghanistan, Thales a mis de côté son vernis éthique. Le champion français s’est associé à Elbit, entreprise israélienne connue pour son aéronef de guerre Hermes. En 2018, The Intercept révélait que ce modèle avait été utilisé pour bombarder Gaza, tuant quatre enfants. Si le patron de Thales, Patrice Caine, appelait en 2019 à interdire les robots tueurs, il n’éprouve aucun état d’âme à collaborer avec une entreprise qui en construit.

      Du Rafale à la grande mosquée de la Mecque, Thales s’immisce partout mais reste invisible. L’entreprise cultive la même discrétion aux frontières européennes

      À Calais comme ailleurs, un détail frappe quand on enquête sur Thales. L’entreprise entretient une présence fantôme. Elle s’immisce partout, mais ses six lettres restent invisibles. Elles ne figurent ni sur la carlingue du Rafale dont elle fournit l’électronique, ni sur les caméras de vidéosurveillance qui lorgnent sur la grande mosquée de la Mecque ni les produits informatiques qui assurent la cybersécurité du ministère des Armées. Très loquace sur l’efficacité de sa « Safe City » mexicaine (lire l’épisode 3, « Thales se prend un coup de chaud sous le soleil de Mexico ») ou les bienfaits potentiels de la reconnaissance faciale (lire l’épisode 5, « Thales s’immisce dans ta face »), Thales cultive la même discrétion sur son implication aux frontières européennes. Sur son site francophone, une page internet laconique mentionne l’utilisation par l’armée française de 210 mini-drones Spy Ranger et l’acquisition par la Guardia civil espagnole de caméras Gecko, œil numérique à vision thermique capable d’identifier un bateau à plus de 25 kilomètres. Circulez, il n’y a rien à voir !

      La branche espagnole du groupe est plus bavarde. Un communiqué publié par la filiale ibérique nous apprend que ces caméras seront installées sur des 4x4 de la Guardia civil « pour renforcer la surveillance des côtes et des frontières ». Une simple recherche sur le registre des appels d’offres espagnols nous a permis de retracer le lieu de déploiement de ces dispositifs. La Guardia civil de Melilla, enclave espagnole au Maroc, s’est vue attribuer une caméra thermique, tout comme celle d’Algésiras, ville côtière située à quelques kilomètres de Gibraltar, qui a reçu en complément un logiciel pour contrôler les images depuis son centre de commandement. Dans un autre appel d’offres daté de novembre 2015, la Guardia civil d’Algésiras obtient un des deux lots de caméras thermiques mobiles intégrées directement à un 4x4. Le second revient à la police des Baléares. Montant total de ces marchés : 1,5 million d’euros. Des gadgets estampillés Thales destinés au « Servicio fiscal » de la Guardia civil, une unité dont l’un des rôles principaux est d’assurer la sécurité aux frontières.

      Thales n’a pas attendu 2015 pour vendre ses produits de surveillance en Espagne. D’autres marchés publics de 2014 font mention de l’acquisition par la Guardia civil de Ceuta et Melilla de trois caméras thermiques portables, ainsi que de deux systèmes de surveillance avec caméras thermiques et de quatre caméras thermiques à Cadix et aux Baléares. La gendarmerie espagnole a également obtenu plusieurs caméras thalesiennes « Sophie ». Initialement à usage militaire, ces jumelles thermiques à vision nocturne, dont la portée atteint jusqu’à 5 kilomètres, ont délaissé les champs de bataille et servent désormais à traquer les exilés qui tentent de rejoindre l’Europe. Dans une enquête publiée en juillet dernier, Por Causa, média spécialisé dans les migrations, a analysé plus de 1 600 contrats liant l’État espagnol à des entreprises pour le contrôle des frontières, dont onze attribués à Thales, pour la somme de 3,8 millions d’euros.

      Algésiras héberge le port le plus important du sud de l’Espagne, c’est depuis des années l’une des portes d’entrées des migrants en Europe.
      Salva Carnicero, journaliste à « Por Causa »

      Le choix des villes n’est bien sûr pas anodin. « Algésiras héberge le port le plus important du sud de l’Espagne, c’est depuis des années l’une des portes d’entrées des migrants en Europe », analyse Salva Carnicero, qui travaille pour Por Causa. Dès 2003, la ville andalouse était équipée d’un dispositif de surveillance européen unique lancé par le gouvernement espagnol pour contrôler sa frontière sud, le Système intégré de surveillance extérieure (SIVE). Caméras thermiques, infrarouges, radars : les côtes ont été mises sous surveillance pour identifier la moindre embarcation à plusieurs dizaines de kilomètres. La gestion de ce système a été attribuée à l’entreprise espagnole Amper, qui continue à en assurer la maintenance et a remporté plusieurs appels d’offres en 2017 pour le déployer à Murcie, Alicante et Valence. Une entreprise que Thales connaît bien, puisqu’elle a acquis en 2014 l’une des branches d’Amper, spécialisée dans la création de systèmes de communication sécurisés pour le secteur de la défense.

      Ceuta et Melilla, villes autonomes espagnoles ayant une frontière directe avec le Maroc, sont considérées comme deux des frontières européennes les plus actives. En plus des caméras thermiques, Thales Espagne y a débuté en septembre 2019, en partenariat avec l’entreprise de sécurité suédoise Gunnebo, l’un des projets de reconnaissance faciale les plus ambitieux au monde. Le logiciel thalesien Live Face Identification System (LFIS) est en effet couplé à 35 caméras disposées aux postes-frontières avec l’Espagne. L’objectif : « Surveiller les personnes entrant et sortant des postes-frontières », et permettre « la mise en place de listes noires lors du contrôle aux frontières », dévoile Gunnebo, qui prédit 40 000 lectures de visages par jour à Ceuta et 85 000 à Melilla. Une technologie de plus qui complète l’immense clôture qui tranche la frontière. « Les deux vont de pair, le concept même de barrière frontalière implique la présence d’un checkpoint pour contrôler les passages », analyse le géographe Stéphane Rosière, spécialisé dans la géopolitique et les frontières.

      Chercheur pour Stop Wapenhandel, association néerlandaise qui milite contre le commerce des armes, Mark Akkerman travaille depuis des années sur la militarisation des frontières. Ses rapports « Border Wars » font figure de référence et mettent en exergue le profit que tirent les industriels de la défense, dont Thales, de la crise migratoire. Un des documents explique qu’à l’été 2015, le gouvernement néerlandais a accordé une licence d’exportation de 34 millions d’euros à Thales Nederland pour des radars et des systèmes C3. Leur destination ? L’Égypte, un pays qui viole régulièrement les droits de l’homme. Pour justifier la licence d’exportation accordée à Thales, le gouvernement néerlandais a évoqué « le rôle que la marine égyptienne joue dans l’arrêt de l’immigration “illégale” vers Europe ».

      De l’Australie aux pays du Golfe, l’ambition de Thales dépasse les frontières européennes

      L’ambition de Thales dépasse l’Europe. L’entreprise veut surveiller aux quatre coins du monde. Les drones Fulmar aident depuis 2016 la Malaisie à faire de la surveillance maritime et les caméras Gecko – encore elles –, lorgnent sur les eaux qui baignent la Jamaïque depuis 2019. En Australie, Thales a travaillé pendant plusieurs années avec l’entreprise publique Ocius, aidée par l’université New South Wales de Sydney, sur le développement de Bluebottle, un bateau autonome équipé d’un radar dont le but est de surveiller l’espace maritime. Au mois d’octobre, le ministère de l’industrie et de la défense australien a octroyé à Thales Australia une subvention de 3,8 millions de dollars pour développer son capteur sous-marin Blue Sentry.

      Une tactique rodée pour Thales qui, depuis une quinzaine d’années, profite des financements européens pour ses projets aux frontières. « L’un des marchés-clés pour ces acteurs sont les pays du Golfe, très riches, qui dépensent énormément dans la sécurité et qui ont parfois des problèmes d’instabilité. L’Arabie saoudite a barriérisé sa frontière avec l’Irak en pleine guerre civile », illustre Stéphane Rosière. En 2009, le royaume saoudien a confié la surveillance électronique de ses 8 000 kilomètres de frontières à EADS, aujourd’hui Airbus. Un marché estimé entre 1,6 milliard et 2,5 milliards d’euros, l’un des plus importants de l’histoire de la sécurité des frontières, dont l’attribution à EADS a été vécue comme un camouflet par Thales.

      Car l’entreprise dirigée par Patrice Caine entretient une influence historique dans le Golfe. Présent aux Émirats Arabes unis depuis 45 ans, l’industriel y emploie 550 personnes, principalement à Abu Dhabi et à Dubaï, où l’entreprise française est chargée de la sécurité d’un des plus grands aéroports du monde. Elle y a notamment installé 2 000 caméras de vidéosurveillance et 1 200 portillons de contrôle d’accès.

      Au Qatar, où elle comptait, en 2017, 310 employés, Thales équipe l’armée depuis plus de trois décennies. Depuis 2014, elle surveille le port de Doha et donc la frontière maritime, utilisant pour cela des systèmes détectant les intrusions et un imposant dispositif de vidéosurveillance. Impossible de quitter le Qatar par la voie des airs sans avoir à faire à Thales : l’entreprise sécurise aussi l’aéroport international d’Hamad avec, entre autres, un dispositif tentaculaire de 13 000 caméras, trois fois plus que pour l’intégralité de la ville de Nice, l’un de ses terrains de jeu favoris (lire l’épisode 1, « Nice, le “little brother” de Thales »).

      La prochaine grande échéance est la Coupe du monde de football de 2022, qui doit se tenir au Qatar et s’annonce comme l’une des plus sécurisées de l’histoire. Thales participe dans ce cadre à la construction et à la sécurisation du premier métro qatari, à Doha : 241 kilomètres, dont 123 souterrains, et 106 stations. Et combien de milliers de caméras de vidéosurveillance ?

      https://lesjours.fr/obsessions/thales-surveillance/ep6-frontieres-europe

  • La politique de lutte contre l’#immigration_irrégulière

    À la suite d’une première publication en avril 2020, qui portait sur l’intégration des personnes immigrées en situation régulière et sur l’exercice du droit d’asile, la Cour publie ce jour un rapport consacré à la politique de #lutte_contre_l’immigration_irrégulière, et notamment aux moyens mis en œuvre et aux résultats obtenus au regard des objectifs que se fixe l’État. À ce titre, la Cour a analysé les trois grands volets de cette politique : la #surveillance_des_frontières, la gestion administrative des étrangers en situation irrégulière sur le territoire national et l’organisation de leur retour dans leur pays d’origine. Il convient de souligner que ce rapport a été inscrit à la programmation des publications de la Cour plusieurs mois avant la présentation du projet de loi au Conseil des ministres puis au Parlement en février 2023, et qu’il a été réalisé et contredit avant la loi immigration de décembre 2023.

    https://www.ccomptes.fr/fr/publications/la-politique-de-lutte-contre-limmigration-irreguliere

    #cour_des_comptes #France #migrations #rapport #frontières #contrôles_frontaliers #efficacité #contrôles_systématiques_aux_frontières #coopération_transfrontalière #Frontex #surveillance_frontalière #force_frontière #sans-papiers #OQTF #éloignement #renvois #expulsions #rétention #détention_administrative #renvois_forcés #laissez-passer_consulaires #aide_au_retour #retour_volontaire #police_aux_frontières (#PAF) #ministère_de_l'intérieur #chiffres #statistiques

    ping @karine4

    • #Pierre_Moscovici s’explique sur le report de la publication de la Cour des comptes sur l’immigration irrégulière : « Je n’ai rien cherché à dissimuler »

      Plusieurs élus ont dénoncé une entrave volontaire au débat démocratique. Auprès de « CheckNews », le président de la Cour des comptes se défend et dit qu’il n’a « rien cherché à dissimuler ».

      Un timing qui interroge. Le 4 janvier, soit deux semaines après la #commission_mixte_paritaire (#CMP) qui s’est réunie pour l’examen de la loi immigration sur fond de crise politique sévère – et qui a finalement abouti à l’adoption d’un texte plus dur que la version initiale proposée par le gouvernement – la Cour des comptes a publié son rapport sur la politique de lutte contre l’immigration irrégulière.

      Ses conclusions dressent notamment le bilan médiocre de la politique migratoire de l’Etat. Et pointent une « stratégie globale illisible et incohérente » de l’Intérieur. Mais au-delà du propos, c’est aujourd’hui le choix de son président, le socialiste Pierre Moscovici, de repousser la publication de ce rapport, qui se retrouve sous le feu des critiques. A l’origine, le texte devait en effet être publié le 13 décembre. C’était sans compter, deux jours plus tôt, sur la motion de rejet de l’Assemblée, qui a ouvert la voie à une CMP.

      Lors de sa présentation du rapport, Moscovici a expliqué qu’il n’avait pas souhaité que ce texte « puisse interférer en quoi que ce soit avec un débat passionné voire passionnel ».

      Le lendemain, il revient sur ce choix, et défend sur LCI une « décision prise personnellement et que j’assume totalement. La Cour publie ses rapports quand elle le veut. Nous avions programmé de le faire le 13 décembre. C’était le surlendemain du vote sur la motion de rejet de la loi sur l’immigration. Je sais pas si vous imaginez un tel rapport qui sort à ce moment-là, trois jours avant la commission mixte paritaire ? Qu’est-ce qu’on aurait dit ? Certains, à droite ou à l’extrême droite, auraient dit : “Quel scandale, rien ne marche, il faut être beaucoup plus dur”. Les autres : “Déjà ça ne marche pas, donc on n’a pas besoin d’une loi”. »
      « Je n’ai pas voulu que ce rapport soit déformé »

      Face au présentateur Darius Rochebin qui lui oppose qu’il s’agit là du fondement du « débat démocratique », Pierre Moscovici répond : « Oui, mais nous étions dans une crise politique, dans un moment où les arguments rationnels se faisaient peu entendre. Je n’ai pas voulu que ce rapport soit déformé et je n’ai pas voulu interférer avec un vote sous pression. »

      Ce dimanche 7 janvier, ils sont nombreux à s’indigner davantage de cette justification. A droite, Laurent Wauquiez appelle à la démission de Pierre Moscovici, dénonçant un « manquement grave à notre démocratie et aux obligations les plus élémentaires qui s’imposent à la Cour des comptes ». De son côté, Rachida Dati estime que « Pierre Moscovici a utilisé son pouvoir personnel pour priver le Parlement d’éléments factuels pour légiférer sur l’immigration ».

      Des critiques auxquelles se joignent certaines voix de gauche. Le député LFI Thomas Portes parle ainsi de « magouilles d’un autre âge » et d’un « mépris profond pour les citoyens et les élus ». Quant à Antoine Léaument, élu insoumis aussi, il déplore des « propos incroyables du président de la Cour des comptes » qui « a décidé de garder cachée une information qui pouvait être d’utilité publique ».

      « Je n’avais pas d’autres choix »

      Pierre Moscovici, joint par CheckNews ce dimanche matin, note que ces critiques ne proviennent ni de « toute la droite, ni de toute la gauche ». Sur le fond, contrairement à sa justification initiale du 4 janvier (où il indiquait qu’il ne souhaitait pas que la publication « puisse interférer en quoi que ce soit avec un débat passionné voire passionnel »), il indique aujourd’hui que le 13 décembre, date à laquelle le rapport devait être initialement publié, « le débat était clos par la motion de rejet ».

      Et de préciser : « Il n’y avait plus de débat parlementaire mais une crise politique, à dénouer par une procédure particulière. Si le rapport avait été publié comme prévu, il y aurait eu un déluge de réactions qui n’auraient pas alimenté le débat mais les passions. L’institution est là pour éclairer les citoyens, pas pour nourrir les controverses entre partis pendant une CMP. Je n’avais pas d’autre choix. Les mêmes qui poussent des cris d’orfraie auraient assuré que la Cour des comptes ne laissait pas le parlement travailler librement, et lui auraient reproché de s’immiscer dans sa souveraineté. Aucune de nos analyses n’aurait été reprise sereinement. Mes raisons sont de bon sens, je n’ai rien cherché à dissimuler : j’ai simplement joué mon rôle en protégeant l’indépendance, la neutralité et l’impartialité de l’institution que je préside. Ces critiques de mauvaise foi montrent aujourd’hui en quoi la publication du rapport le 13 décembre aurait simplement nourri la violence du combat politique. »

      https://www.liberation.fr/checknews/pourquoi-pierre-moscovici-a-t-il-differe-la-publication-du-rapport-de-la-