Ho sempre amato il film Casablanca. Un classico della cinematografia mondiale. Un intenso Humprhey Bogart, una fatata Ingrid Bergman, una storia d’amore che non ha uguali nel mondo della celluloide. I loro sguardi languidi, intensi, unici sono rimasti nel cuore di molti di noi. Bogie&Ingrid in the star with diamonds, ci verrebbe da dire parafrasando i Beatles, ma c’è dell’altro. E questo altro sono i rifugiati di cui il film parla. Infatti pochi si accorgono, o addirittura non l’hanno mai saputo, che Casablanca mette in scena il dramma dei rifugiati europei in fuga dal nazismo. Una folla fatta di anarchici, ebrei, dissidenti, antifascisti, gente comune, famiglie, bambini che hanno perso ogni cosa. Nel film la città marocchina è solo un riflesso di Marsiglia, un riflesso edulcorato di quella città francese che durante la guerra pullulava di trafficanti e di miseria. Hollywood non ci mostra quella miseria,non può, non sarebbe Hollywood senza un abito da sera e un paio di tacchi a spillo, ma ecco in Casablanca nonostante il glamour spunta qua e là quella verità che negli anni ‘40 era sotto gli occhi di tutti. Ho sempre trovato particolarmente intensa la scena in cui due anziani signori parlano tra loro in inglese rifiutandosi di usare la madrelingua tedesca.
Il motivo è semplice vogliono (ancor prima di arrivarci) abituarsi all’idioma del nuovo mondo che verrà per loro, vogliono provare a sentirsi un po’ a casa in quella lingua così straniera. C’è una scena che tutti ricordano di #Casablanca, una scena a me particolarmente cara, quella in cui i rifugiati riuniti al Rick cafè (il luogo in cui potevano trovare i trafficanti e vendersi per ottenere un visto) cantano la Marsigliese per contrastare il canto arrogante dei nazisti. L’attrice Madeleine Lebeau, che interpreta Yvonne l’amante di Bogart, ci regala un fotogramma indimenticabile dove piange gridando il nome della patria perduta, Vive La France, dice e noi tutti ci commuoviamo. Le lacrime di Madelaine sono vere, infatti lei e il marito, come i personaggi del film, avevano fatto un viaggio allucinante che li aveva portati dalla Francia occupata fino a Lisbona. Il tutto usando documenti falsi, andando incontro a respingimenti e rimanendo intrappolati in quel non luogo che per molti rifugiati era Marsiglia.La vita di Madelaine sembra quella di una rifugiata siriana di oggi, la coincidenza colpisce. Sono storie quelle di Casablanca di rifugiati europei che l’Europa ha però presto dimenticato, ma che i suoi scrittori non hanno mai perso di vista. Come non pensare ad #Hercule_Poirot di #Agatha_Christie? Quell’investigatore impomatato sempre preoccupato per i suoi baffetti era anche lui un rifugiato. La dama del giallo l’avrebbe inventato ispirandosi a uno dei tanti belgi che l’Inghilterra aveva accolto (ne accoglierà 250.000) durante la prima guerra mondiale.
L’Europa ha dimenticato quando era lei a scappare dalle guerre. Si scappava anche dalle carestie come gli irlandesi negli Stati Uniti. E poi non ultima l’epopea degli emigranti italiani che in mancanza di tutto si riversavano nelle terze classi dei bastimenti con la speranza di trovare un paese dove ricominciare. L’Europa ha davvero la memoria corta e nel dimenticare non vuole cercare soluzioni per le migrazioni odierne che la vedono come territorio di approdo. Oggi siamo intrappolati in una narrazione binaria per quanto riguarda migranti e rifugiati provenienti in Europa dal Sud globale. Il paradigma in uso è quella del contenimento o respingimento. Ed ecco che le nostre orecchie sono bombardate da una parte da “aiutiamoli a casa loro”, “Non possiamo prenderci carico di tutta l’Africa” o un secco “non li vogliamo, se la sbrigassero da soli”, dall’altra invece si parla solo di accoglienza, dove la buona volontà si unisce a tratti ad una visone solo migratoria dell’altro condita da un paternalismo a tratti coloniale. Sono pochi a parlare oggi di diritto alla mobilità e apartheid di viaggio. Pochi a parlare di reciprocità nei diritti sia per chi scappa dalle guerre sia per chi vuole semplicemente coronare un sogno.
Così costringiamo sia i rifugiati, sia i migranti a viaggi impossibili. Anzi ultimamente stiamo costringendo molte persone, con una schizofrenia europea che non ha pari nella storia, a fingersi rifugiate. Se scappi da una guerra forse ti tollero (formalmente) un po’, ma se vieni per trovare un lavoro o per studiare non entrerai mai (o peggio entri, ma ti farò rimanere un illegale a vita, sfruttabile da mafie e caporali).
E ora nel Mediterraneo queste contraddizioni le stiamo pagando con i morti in mare, il terrorismo nelle città, l’ansia che non ci da tregua. Questa idea di fortezza Europa sta intrappolando gli altri fuori e gli europei dentro un recinto malefico, che ci rende sempre più deboli davanti a chi vuole la distruzione delle democrazie.
Viviamo di fatto in un pianeta dove se nasci nel posto giusto (nel Nord del mondo ricco, il cosiddetto occidente, ma anche la Cina, il Giappone, l’Australia) hai la possibilità di andare dove ti pare, basta un visto, un biglietto aereo e un trolley. Non serve altro. Ed ecco per chi nasce nel posto giusto un ventaglio di possibilità da seguire. E lì si può pensare di andare a studiare all’estero, lavorare per un po’ in un altro paese, trasferirsi per amore (o bisogno), e si perché no farsi una meritata vacanza se questo si desidera. Si è turisti e al limite, anche quando si decide di emigrare, non si viene definiti migranti economici, ma espatriati. Gli italiani lo sanno bene, i media infatti chiamano cervelli in fuga i tanti giovani che vanno all’estero per trovare il lavoro che in Italia non si trova più. Si, cervelli in fuga, anche se molti all’estero non hanno la possibilità di usare il loro cervello, ma sono costretti a raccogliere le cipolle in Australia, fare i camerieri a cottimo a Londra o vivere l’atroce situazione di essere illegale a New York City. L’emigrazione interna, italiana ed europea, viene edulcorata con perifrasi sempre più acrobatiche, Ma questa migrazione (come quella degli spagnoli, dei portoghesi, degli slovacchi, dei polacchi, dei bulgari, oggi addirittura anche dei rumeni e degli albanesi) non fa rumore, perché (per fortuna aggiungo io) è possibile in clima di legalità di viaggio. Questo purtroppo non è possibile per somali, eritrei, ghanesi, gambiani, senegalesi, ecc. Dall’Africa o dall’Asia (Afghanistan e paesi mediorientali soprattutto) si suppone che i corpi hanno come fine ultimo la migrazione, a volte è così (molti effettivamente sono in fuga da guerra e dittatura), ma altre volte no, le situazioni sono sempre complesse e legate al singolo individuo. Non si pensa mai che un corpo del Sud globale voglia studiare, specializzarsi, lavorare per un po’ e avere la possibilità dopo un lungo soggiorno di tornare indietro, al paese, con le conoscenze acquisite. Non si pensa che un corpo del Sud anche quando fugge da guerre e dittature ha bisogno di leggi sull’asilo chiare, di un percorso burocratico facilitato e di un viaggio sicuro fatto attraverso corridoi umanitari, molto lontani dalle attuali agenzie dell’orrore guidate da trafficanti senza scrupoli. Va detto chiaramente ai nostri governanti che gli abitanti del Sud non vanno considerati parassiti da fermare ad ogni costo o vittime passive da aiutare. Hanno un passato e possono riavere un futuro. Ma invece di collaborare ad una sinergia di intenti, il Nord mette in campo per “difendersi” i fantasmi della nostra contemporaneità: i tristi muri, gli apparati securitari, le strutture extraterritoriali che gestiscono enormi flussi di denaro, gli accordi ricatto con sedicenti leader locali (spesso autonominati o da noi imposti) che come usurai chiedono sempre di più ad una Europa disunita e confusa. Chiediamo agli altri di fare il lavoro sporco, di farli morire un po’ più in là questi rifugiati/migranti, non a favore di telecamera insomma. Nessuno dice agli abitanti spaventati del Nord che un viaggio legale è sicuro per il “migrante”, il rifugiato, lo studente ed è sicuro anche per il paese di approdo, perché con un sistema legale si ha la vera percezione di chi effettivamente arriva nel nostro territorio e perché. Possiamo monitorare la situazione, evitando di farci infiltrare da presenze non gradite. E soprattutto il viaggio legale ci toglierebbe dal ricatto in cui siamo precipitati pagando tagliagole e dittatori. Inoltre nessuno parla all’europeo spaventato della contraddizione del continente che da una parte non vuole le persone del Sud (anche se poi gli studi sottolineano che l’Europa senza migranti è perduta, niente più pensioni per esempio) e dall’altra vuole le sue risorse che si prende con la forza usurpando territori e cacciando popolazioni. È utopia, mi chiedo, cambiare il paradigma di questa relazione malata tra Europa (Occidente in genere) e Sud globale? Non credo sia impossibile. Io lo dico sempre che i miei genitori dalla Somalia sono venuti in Italia in aereo (non con il barcone!), erano gli anni ‘70. e ho l’immagine anche di tanti famigliari e dei loro viaggi circolari. Si andava in Svezia, in Egitto, in Francia per tornare poi a Mogadiscio. Mio fratello Ibrahim studiava a Praga. E all’epoca nessuno di loro aveva un passaporto europeo, ma viaggiavano con il passaporto somalo che oggi invece è considerato carta straccia in qualsiasi consolato. Forse dobbiamo ridare dignità ai documenti delle nazioni del Sud del mondo. Uscire dall’idea di fortezza. E cominciare a costruire una relazione diversa. Quindi non considerare chi fugge dalla guerra come un disperato, ma come una persona che a causa della guerra ha perso momentaneamente tutto, ma che è stata studente, maestra, ingegnere, dottoressa e potrà tornare ad esserlo. E lo stesso vale per chi non è in fuga, ma cerca semplicemente fortuna. I media velatamente li considerano usurpatori, invasori. E’ chiaro che questo sguardo e questo linguaggio devono cambiare.
Perché respingere se si possono creare ponti e scambi commerciali o culturali utili?
Se ci si può difendere reciprocamente dai pericoli (come il terrorismo) che ci colpiscono? Inoltre non sarebbe un cambio di rotta smettere di pagare dittatori per tenere nei moderni lager giovani uomini e donne e mettere in campo invece una cooperazione che non avvalla la corruzione reciproca come purtroppo è sempre stato, ma le eccellenze? Ahinoi le barriere crescono un po’ ovunque. E non è solo il Mediterraneo il dilemma. Per gli africani, per fare un esempio, è difficile al momento attuale anche viaggiare dentro il continente africano stesso. Basta pensare ai centri di detenzione in Angola. Barriere e muri sono addirittura più alti dentro il continente che fuori. La paura del Nord contagia anche il Sud e la cattiva politica spesso sguazza (per ragioni elettorali) dentro queste inquietudini. Ma serve un approccio più sereno.
Serve soprattutto rompere il monopolio dei trafficanti che dal 1990, attraverso ricatti e violenze, si stanno arricchendo sulla pelle dei migranti e degli europei.
Il viaggio legale del sud aiuterebbe il nord a non alimentare un mercato sommerso fatto di crimine e terrorismo, perché lì vanno i soldi che vengono depredati ai giovani in cerca di futuro. Terrorismo che (ricordiamolo!) poi usa quel denaro per compiere attentati nelle nostre città, come abbiamo visto a Manchester, a Barcelona, a Parigi, a Londra.
Legalizzare il viaggio ci permetterebbe inoltre di mettere a riparo anche il nostro futuro. In un momento di incertezza come questo, dove l’Italia e il Sud Europa sono esposti a mille pericoli, ci conviene fare la guerra a chi è più a sud di noi? Che Dio non voglia, ma se un giorno negassero il viaggio legale anche a noi che abbiamo ora passaporti considerati forti? Basta un cambio di rotta negli equilibri politici ed economici o qualche sfortunato evento che ci schiaccia verso il basso nella scala dei poteri globali. Nulla di così improbabile purtroppo. Negli anni ‘60 i somali, belli, eleganti, facevano belle feste davanti al mare con aragoste e branzini, se qualcuno allora avesse detto loro che i figli e i nipoti avrebbero preso un barcone (e non l’aereo come loro) per andare in Europa, facendosi ricattare, stuprare, imprigionare, non ci avrebbero creduto, Avrebbero scosso la testa dicendo “a noi mai”, avrebbero riso probabilmente. E invece è successo. Il futuro è sempre incerto amici miei. Preoccuparsi per i diritti degli altri non è buonismo, ma significa anche (oltre ad essere segno di umanità) preoccuparsi dei propri. Perché non si sa a chi toccherà la prossima volta il fato avverso. Almeno affrontiamolo tutti quanti con dei diritti in tasca. Datemi retta, lo so per esperienza, è meglio. Preoccuparsi per i diritti degli altri non è buonismo, ma significa preoccuparsi dei propri. Perchè non si sa a chi toccherà la prossima volta il fato avverso.