• #Villa_del_seminario”, la storia rimossa del campo di concentramento in #Maremma

    Nella frazione #Roccatederighi del Comune di #Roccastrada tra la fine del 1943 e la metà del 1944 vi fu un “campo di concentramento ebraico”, come scrissero i fascisti nel contratto di affitto con un vescovo vicino al regime. Da lì si partiva per #Fossoli, direzione Auschwitz. Il romanzo dello scrittore Sacha Naspini smuove la polvere.

    Roccatederighi, frazione del Comune di Roccastrada, in Maremma, tra il 28 novembre del 1943 e il 9 giugno del 1944 ospitò un campo di concentramento: vi furono rinchiusi un centinaio di ebrei, 38 dei quali poi deportati verso la Germania, da cui ritornarono solo in quattro. La struttura che ospitò il campo è la sede estiva del seminario vescovile di Grosseto, la “Villa del seminario” che dà il titolo all’ultimo romanzo di Sacha Naspini, scrittore grossetano che a Roccatederighi (che diventa Le Case in questo e in altri dei suoi libri) ha passato l’infanzia nella casa dei nonni materni.

    Che cosa ti ha spinto ad affrontare la vicenda del campo di concentramento della Villa del seminario?
    SN In qualche modo vengo da lì e fin da ragazzino sentivo girare per casa questa faccenda: il seminario sono due grossi edifici all’imbocco del paese, dicevano là sono successe delle cose, ma erano discorsi che sfumavano nel nulla. Prima del 2008, quando in occasione della Giornata della memoria fu messa lì una lastra commemorativa, la villa del seminario era usata per fare le scampagnate, anche le braciate del 25 aprile o del 1 maggio. Ricordo io e mio fratello, con i miei nonni che andavamo nel giardino del vescovo. Pochi sapevano, così quando è uscito il libro ho ricevuto molti messaggi o mail, da parte di persone che magari oggi hanno 75 anni, che sono nate e vivono a Roccatederighi e che di quella vicenda non ne avevano mai sentito parlare. Un uomo, che abita sulla provinciale, a cento metri dal seminario e mi ha proprio scritto: “Davvero vivo davanti a un campo di concentramento?”. Perché da lì si partiva per Fossoli (Modena), proseguendo poi per Auschwitz. E negli anni Ottanta e Novanta lì i giovani della Diocesi, anche quelli della mia generazione, facevano i campi estivi.

    Sei cresciuto a Grosseto: manca ancora o si è sviluppata una memoria condivisa rispetto a quell’evento? Nel libro scrivi che la strada verso quell’edificio ormai diroccato è ancora oggi via del Seminario.
    SN C’è un rimosso, io vengo da quei massi, quella bella cartolina di Maremma, rude e vera, ma anche da quel silenzio. Non tutti i rocchigiani hanno accolto bene il mio romanzo, fa parte della mentalità di paese il sentirsi attaccati o in qualche modo svestiti, spogliati da una serie di costruzioni e difese che la gente prende nei confronti dello stare al mondo in quella routine. Questo però è un caso unico nel mondo, perché nel contratto di affitto tra Alceo Ercolani (prefetto di Grosseto per la Repubblica sociale italiana) e Paolo Galeazzi, vescovo fascista, si parla apertamente di “campo di concentramento ebraico”, cose che danno un certo sgomento. Come ricordo nelle ultime pagine del romanzo, a febbraio 2022, nel giorno in cui ho chiuso le bozze del mio libro, il sindaco di Grosseto Antonfrancesco Vivarelli Colonna inaugurava la piazza in ricordo di Galeazzi, di cui si ricordano pastorali di chiaro stampo fascista e passeggiate a braccetto di Benito Mussolini.

    La memoria, quindi, non è né può essere condivisa.
    SN Il mio libro è stato un po’ come andare a muovere polvere sotto il tappeto. C’è anche chi mi ha detto “Io non lo sapevo, quindi non è vero”, ma la realtà è che una storica, Luciana Rocchi (dal 1993 al 2016 è stata Direttrice dell’Istituto storico grossetano della Resistenza e dell’età contemporanea, ndr) ha scoperto negli archivi della Diocesi il contratto d’affitto, che non può essere nascosto. La notizia, frutto del lavoro di una storica, resta un po’ sottotono, in sordina. Finché un libro, “Il muro degli ebrei”, di Ariel Paggi, una ricognizione su 175 ebrei di Maremma, molti dei quali passano anche da via del Seminario, mi ha dato le mappe per scrivere davvero questa storia.
    Altri particolari sono frutto della storia familiare: mia nonna mi ha raccontato in tutte le salse l’inverno durissimo del 1943, che già da novembre si annunciava così; poi la guerra, com’era avvertita in paese, con la febbre che si alzava sempre di più man mano che avanzavano gli alleati, l’organizzazione delle prime bande partigiane, ma anche le privazioni, il razionamento. Nel dicembre del 1943 il babbo della mia nonna materna è morto di “deperimento organico”, praticamente di fame, in casa. I bottegai di Roccatederighi probabilmente non ne sapevano niente, ma hanno visto arrivare intere famiglie che si facevano auto-internare, con l’idea di trascorrere alla villa del seminario quel momento particolare, lasciar passare la guerra e tornare a casa. Il vescovo è rimasto lì per tutto il tempo, scegliendo solo alla fine di salvare alcuni ebrei, tra i più benestanti, probabilmente per ottenere una “carta verde” dal nuovo governo, a cui ha poi chiesto gli arretrati per l’affitto non pagato.
    Anche dopo il 2008, quand’è stata apposta la lastra, non c’è la giusta attenzione. Sono emersi negli anni alcuni progetti di rivalutazione dello stabile, per farne un albergo o un istituto per malati di Alzheimer, ma la villa resta in abbandono. È cambiata la sacralità del luogo: dormiresti in un albergo sapendo che è stato un campo di concentramento?

    Uno dei protagonisti della vicenda è Boscaglia, giovanissima guida di una banda partigiana.
    SN La storia di Guido Radi, “Boscaglia”, è legata a quella della partigiana Norma Parenti, due persone che vibrano ancora. Lui venne ucciso a 19 anni, il suo corpo straziato trascinato fino a Massa Marittima, dove lei andò a recuperarlo, per darne sepoltura. Sono storie che potete ritrovare, perché tutto ciò che racconto è vero, a partire dalla morte di Edoardo, il figlio di Anna, in una vicenda che richiama la strage di Istia d’Ombrone, quando 11 ragazzi vennero assassinati per rappresaglia nel marzo del 1944. All’ultima commemorazione, nel 2023, il sindaco Vivarelli Colonna, che si è presentato senza fascia tricolore, è stato contestato da cittadini che hanno assistito al comizio del sindaco girati di spalle, in silenzio.

    La storia è narrata da René, un ciabattino di 50 anni che ha perso tre dita al tornio da ragazzino. Nel libro racconti la sua rivoluzione.
    SN Presa coscienza del grande lavoro di Paggi ho voluto scrivere una storia creando questo cinquantenne fuori dai giochi, che ingoia tutta le cattiverie del paese a partire dai nomignoli per la sua menomazione, da Pistola a Settebello. L’ho voluto ciabattino, perché quello è un pezzo di guerra che si è combattuta tanto con i piedi. È una storia che potrei aver ascoltato in paese e che ho ritrovato in un libro di Cazzullo, “Mussolini il capobanda”, che parla di un ciabattino storpio di Roccastrada che ha fatto la Resistenza. Ho voluto raccontare la trasformazione di un personaggio passivo, spettatore del mondo, dovuto all’impatto con la storia con la “s” maiuscola: il suo impatto vero è quando uccidono Edoardo, suo figlioccio, quando l’amica amata Anna decide di andare nei boschi per continuare l’impegno di suo figlio e lascio a lui un compito. Per la prima volta si trova a modificare il suo sguardo sulle cose e su stesso. È un’epopea interiore. Si chiede che cosa vedano i ragazzi che vanno nei boschi, che cosa intuiscono, elementi che tornano anche nel personaggio di Simone.

    Simone, che diventa amico di Renè, è un giovane soldato che pare appoggiare la resistenza. Come l’hai costruito?
    SN Per costruire il suo personaggio mi sono agganciato alle testimonianze dei ragazzi che si ritrovavano ingabbiati in un’uniforme che non sentivano più loro. Il calvario di Simone lo porta a dire “preferisco morire dalla parte sbagliata”. Oggi mi piace trasmettere questi fuochi, quella brama di futuro ai ragazzi che incontro nelle scuole, che si infervorano di fronte a vicende che riguardano loro coetanei. Ogni romanzo offre un’immersione in una circostanza accompagnata da un’emotività particolare. “Boscaglia” aveva 19 anni quando è morto, 18 quando era andato in montagna, non lascia indifferente un ragazzo di quinta superiore.

    https://altreconomia.it/villa-del-seminario-la-storia-rimossa-del-campo-di-concentramento-in-ma
    #Italie #camp_de_concentration #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #shoah #histoire #déportation #Auschwitz #mémoire

    • Villa del seminario

      Una storia d’amore, riscatto e Resistenza.
      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni – schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Poi ecco la guerra, che cambia tutto. Ecco che Settebello scopre la Resistenza. Possibile che una rivoluzione di questo tipo possa partire addirittura dalla suola delle scarpe?
      Villa del seminario evoca fatti realmente accaduti: Grosseto fu l’unica diocesi in Europa ad aver stipulato un regolare contratto d’affitto con un gerarca fascista per la realizzazione di un campo d’internamento. A Roccatederighi, tra il ’43 e il ’44, nel seminario del vescovo furono rinchiusi un centinaio di ebrei italiani e stranieri destinati ai lager di sterminio. Soprattutto Auschwitz.

      Maremma toscana, novembre ’43. Le Case è un borgo lontano da tutto. Vista da lì, anche la guerra ha un sapore diverso; perlopiù attesa, preghiere, povertà. Inoltre si preannuncia un inverno feroce... Dopo la diramazione della circolare che ordina l’arresto degli ebrei, ecco la notizia: il seminario estivo del vescovo è diventato un campo di concentramento.

      René è il ciabattino del paese. Tutti lo chiamano Settebello, nomignolo che si è tirato addosso in tenera età, dopo aver lasciato tre dita sul tornio. Oggi ha cinquant’anni. Schivo, solitario, taciturno. Niente famiglia. Ma c’è Anna, l’amica di sempre, che forse avrebbe potuto essere qualcosa di più... René non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. In realtà, non ha mai avuto il coraggio di fare niente. Le sue giornate sono sempre uguali: casa e lavoro. Rigare dritto.

      Anna ha un figlio, Edoardo, tutti lo credono al fronte. Un giorno viene catturato dalla Wehrmacht con un manipolo di partigiani e fucilato sul posto. La donna è fuori di sé dal dolore, adesso ha un solo scopo: continuare la rivoluzione. Infatti una sera sparisce. Lascia a René un biglietto, poche istruzioni. Ma ben presto trapela l’ennesima voce: un altro gruppo di ribelli è caduto in un’imboscata. Li hanno rinchiusi là, nella villa del vescovo. Tra i prigionieri pare che ci sia perfino una donna... Settebello non può più restare a guardare.

      https://www.edizionieo.it/book/9788833576053/villa-del-seminario
      #Sacha_Naspini

  • De port en port, traverser la Méditerranée aux Temps modernes : épisode • 3/4 du podcast Méditerranée(s), histoire de migrations
    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-cours-de-l-histoire/de-port-en-port-traverser-la-mediterranee-aux-temps-modernes-3696650

    De port en port, nous allons traverser la Méditerranée ou plutôt les Méditerranées, car cet espace est celui des mobilités, des exils, des migrations, de la pêche, de la guerre et bien sûr du commerce. La Méditerranée a été pensée, réfléchie, fantasmée et pourquoi pas inventée. Quelle représentation de la Méditerranée avaient les hommes et les femmes qui vivaient sur ces rives, dans ces ports et qui parfois prenaient la mer ?

    Une Méditerranée ou des Méditerranées ?

    L’idée d’une culture méditerranéenne unitaire est une construction idéologique récente, héritée de l’histoire coloniale. « La Méditerranée est un ensemble de micro-mers densément connectées les unes aux autres », décrit l’historien Guillaume Calafat. Ce sont « plusieurs régions, plusieurs entités politiques, qui communiquent et qui créent un espace producteur de normes, de règles, d’idées. » L’historien précise que « la construction historiographique de la Méditerranée comme région, comme civilisation et comme idée se développe à partir des années 1770-1780 et se renforce au 19e siècle. Nous sommes en partie héritiers de la façon dont la Méditerranée a été pensée comme un objet d’histoire. »

    Avant le 19e siècle, les hommes et les femmes de ces espaces géographiques ne se considèrent pas comme les membres d’un ensemble culturel et historique unitaire que serait le monde méditerranéen. Pourtant, les points de contact entre ces régions, les échanges commerciaux, diplomatiques et religieux sont légion.

    [avec] Guillaume Calafat et Mathieu Grenet publient Méditerranées. Une histoire des mobilités humaines (1492-1750), Points, 2023.

    (malgré l’animateur)

    #histoire #Méditerranée #1492

  • #Shtetl

    Juif polonais ayant survécu à l’#Holocauste, le réalisateur accompagne son ami Nathan sur la trace de sa famille, originaire de #Bransk, petite ville de #Pologne. Ils vont rencontrer Zbyszek Romaniuk, jeune Polonais féru d’histoire locale, avec qui, depuis un certain temps, Nathan est en relation épistolaire. Tous trois, en interrogeant les lieux et des témoins, tentent de retrouver les empreintes du passé juif de Bransk. Le shtetl a disparu quand 2 500 juifs furent déportés à Tréblinka... Plus tard, Zbyszek se rend aux États-Unis dans des familles juives originaires de Bransk. Mais quand ses recherches le conduisent en Israël, il se heurte à de jeunes étudiants, qui lui reprochent l’#antisémitisme polonais. De retour en Pologne, il sera au contraire critiqué et menacé à cause de son intérêt pour l’histoire juive de Bransk. Devenu maire-adjoint de la petite ville, il finira par occulter cet aspect du passé.

    http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/7160_0
    #traces #histoire #mémoire #film #film_documentaire #documentaire

  • #Ukraine, #Israël, quand les histoires se rencontrent

    Dans son dernier livre, l’historien #Omer_Bartov revient sur l’histoire de sa famille et de son voyage de la Galicie ukraino-polonaise à Israël, à travers les soubresauts de l’histoire de la première partie du 20e siècle.

    Alors que les atrocités du conflit israélo-palestinien continuent de diviser les étudiants de prestigieux campus américains, l’universitaire Omer Bartov se propose d’analyser la résurgence de l’#antisémitisme dans le monde à la lumière de sa propre #histoire_familiale.

    Un #antisémitisme_endémique dans les campus américains ?

    L’historien Omer Bartov réagit d’abord aux polémiques qui ont lieu au sujet des universités américaines et de leur traitement du conflit israélo-palestinien : “il y a clairement une montée de l’antisémitisme aux États-Unis, comme dans d’autres parties du monde. Néanmoins, il y a aussi une tentative de faire taire toute critique de la politique israélienne. Cette tentative d’associer cette critique à de l’antisémitisme est également problématique. C’est un bannissement des discussions. Les étudiants, qui sont plus politisés que par le passé, prennent part à cette histoire”. Récemment, la directrice de l’Université de Pennsylvanie Elizabeth Magill avait proposé sa démission à la suite d’une audition controversée au Congrès américain, lors de laquelle elle n’aurait pas condamné les actions de certains de ses étudiants à l’encontre d’Israël.

    De Buczacz à la Palestine, une histoire familiale

    Dans son dernier livre Contes des frontières, faire et défaire le passé en Ukraine, qui paraîtra aux éditions Plein Jour en janvier 2024, Omer Bartov enquête sur sa propre histoire, celle de sa famille et de son voyage de la Galicie à la Palestine : “en 1935, ma mère avait onze ans et a quitté #Buczacz pour la #Palestine. Le reste de la famille est restée sur place et quelques années plus tard, ils ont été assassinés par les Allemands et des collaborateurs locaux. En 1995, j’ai parlé avec ma mère de son enfance en Galicie pour la première fois, des grands écrivains locaux comme Yosef Agnon. Je voulais comprendre les liens entre #Israël et ce monde juif qui avait disparu à Buczacz au cours de la #Seconde_Guerre_mondiale”.

    À la recherche d’un monde perdu

    Cette conversation a mené l’historien à consacrer une véritable étude historique à ce lieu et plus généralement à cette région, la #Galicie : “ce monde avait selon moi besoin d’être reconstruit. Ce qui le singularisait, c’était la diversité qu’il accueillait. Différentes communautés nationales, ethniques et religieuses avaient coexisté pendant des siècles et je voulais comprendre comment il s’était désintégré”, explique-t-il. Le prochain livre qu’il souhaite écrire en serait alors la suite : “je veux comprendre comment ma génération a commencé à repenser le monde dans lequel nous avons grandi après la destruction de la civilisation précédente”, ajoute-t-il.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/france-culture-va-plus-loin-l-invite-e-des-matins/ukraine-israel-quand-les-histoires-se-rencontrent-9022449
    #multiculturalisme #histoire #crime_de_guerre #crime_contre_l'humanité #génocide #Gaza #7_octobre_2023 #nettoyage_ethnique #destruction #déplacements_forcés #Hamas #crimes_de_guerre #massacre #pogrom #occupation

    • Contes des frontières, faire et défaire le passé en Ukraine

      À nouveau Omer Bartov étudie Buczacz, a ville de Galicie qui servait déjà de point d’ancrage pour décrire le processus du génocide dans Anatomie d’un génocide (Plein Jour 2021). Cette fois, il étudie les perceptions et l’imaginaire que chacune des communautés juive, polonaise et ukrainienne nourrissait sur elle-même, ce a depuis les origines de sa présence dans ce territoire des confins de l’Europe.

      Comment des voisins partageant un sol commun ont-ils élaboré des récits fondateurs de leurs #identités jusqu’à opposer leurs #mémoires ? comment se voyaient-ils les uns les autres, mais également eux-mêmes ; quels #espoirs nourrissaient-ils ? Les #mythes ont ainsi influencé a grande histoire, le #nationalisme, les luttes, et de façon plus intime les espoirs individuels, voire les désirs de partir découvrir un monde plus arge, nouveau, moderne. Ce livre, qui traite de ces récits « nationaux », de a construction de l’identité et de l’opposition qu’elle peut induire entre les différents groupes, apparaît comme une clé de compréhension du passé autant que du présent. Aujourd’hui avec a guerre en Ukraine, sa résonance, son actualité sont encore plus nettes.

      https://www.editionspleinjour.fr/contes-des-fronti%C3%A8res
      #livre #identité

    • Anatomie d’un génocide

      Buczacz est une petite ville de Galicie (aujourd’hui en Ukraine). Pendant plus de quatre cents ans, des communautés diverses y ont vécu plus ou moins ensemble – jusqu’à la Deuxième Guerre mondiale, qui a vu la disparition de toute sa population juive. En se concentrant sur ce seul lieu, qu’il étudie depuis l’avant-Première Guerre mondiale, Omer Bartov reconstitue une évolution polarisée par l’avènement des nationalismes polonais et ukrainien, et la lutte entre les deux communautés, tandis que l’antisémitisme s’accroît.

      À partir d’une documentation considérable, récoltée pendant plus de vingt ans – journaux intimes, rapports politiques, milliers d’archives rarement analysées jusqu’à aujourd’hui –, il retrace le chemin précis qui a mené à la #Shoah. Il renouvelle en profondeur notre regard sur les ressorts sociaux et intimes de la destruction des Juifs d’Europe.

      https://www.editionspleinjour.fr/anatomie-d-un-g%C3%A9nocide

  • La cause du #peuple, sans le peuple
    https://laviedesidees.fr/La-cause-du-peuple-sans-le-peuple

    Après la #catastrophe de Fouquières-les-Lens survenue en 1970, une mobilisation de militants et d’artistes fait le procès des Houillères, mais sans la participation des mineurs. Alors que ce monde entre en déclin, les nouvelles formes de lutte arrivent trop tard. À propos de : Philippe Artières, La Mine en procès ? Fouquières-les-Lens, 1970, Anamosa

    #Histoire #justice #industrie
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202311_artieres.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231221_artieres.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231221_artieres.docx

  • « Affirmer que la #transition_énergétique est impossible, c’est le meilleur moyen de ne jamais l’engager »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/22/affirmer-que-la-transition-energetique-est-impossible-c-est-le-meilleur-moye

    Partant du double constat selon lequel il n’y a jamais eu, par le passé, de remplacement d’une source d’énergie par une autre ; et que les transformations énergétiques se sont toujours faites de manière additive (les énergies s’ajoutant les unes aux autres), certains historiens en déduisent, à tort selon nous, qu’il n’y aurait aucun horizon pour une sortie des fossiles. Cette sortie des fossiles (le « transitioning away from fossil fuels », dans le langage forgé à la COP28) serait donc condamnée par avance.

    Tel est le message récurrent de Jean-Baptiste Fressoz [chroniqueur au Monde] notamment, dans ses ouvrages ou tribunes, qui visent toutes à réfuter ce qu’il considère comme « la fausse promesse de la transition ».

    Or, ce déclinisme écologique est non seulement grandement infondé, mais également de nature à plomber les ambitions dans la lutte contre le changement climatique. Affirmer que la transition est impossible, c’est le meilleur moyen de ne jamais l’engager. A rebours de ce défaitisme, nous voulons ici affirmer, avec force, qu’il est possible de réussir cette transition.

    Certes, à l’exception des années de crise – financière en 2008-2009, sanitaire en 2020-2021 –, les émissions de CO2 n’ont jamais cessé d’augmenter, bien que sur un rythme ralenti, d’environ + 1 % annuel au cours des années 2010, contre + 3 % annuels dans les années 2000. Car, dans le même temps, la population mondiale continuait à augmenter, tout comme la satisfaction des besoins énergétiques d’une part croissante de cette population.

    Pourtant le désempilement des énergies a déjà lieu dans certaines régions du monde : c’est le cas en Europe, par exemple, qui a engagé sa transition énergétique. Parallèlement, des acteurs de plus en plus nombreux – Etats, entreprises, chercheurs, citoyens – intègrent aujourd’hui la nécessité de réduire les émissions de gaz à effet de serre dans leurs stratégies et comportements. L’ambition n’est pas encore assez affirmée, la mise en œuvre des transformations pas assez rapide et efficace, mais le mouvement est enclenché. Comment l’ignorer ?

    Sobriété, efficacité et investissements
    Le 11 janvier, Fatih Birol, directeur de l’Agence internationale de l’énergie (AIE), indiquait que les capacités installées dans l’année en énergies renouvelables avaient augmenté de 50 % entre 2022 et 2023. Pour la part des renouvelables dans la production d’électricité, l’AIE attend le passage de 29 % à 42 % en 2028 (de 12 % à 25 % pour les seules énergies éolienne et solaire). Depuis 1975, le prix des panneaux photovoltaïques est passé de 100 dollars par watt à moins de 0,5 dollar par watt aujourd’hui, soit une réduction de 20 % du coût pour chaque doublement des capacités installées ; c’est la mesure du taux d’apprentissage de la technologie. Et alors que la question du stockage de l’électricité devient de plus en plus cruciale, on constate le même taux d’apprentissage pour les batteries : depuis 1992, chaque fois que double le nombre de batteries produites, leur coût diminue de 18 %.

    Il est clair que ces progrès spectaculaires ne contredisent pas la thèse de l’additivité des énergies : si depuis 2016 les investissements dans les énergies décarbonées dépassent largement les investissements dans les énergies fossiles, ces derniers ont à nouveau augmenté après la baisse de 2020. Et la sortie des fossiles ne se vérifiera vraiment que le jour où l’augmentation de la production d’énergie décarbonée sera supérieure en volume à celle de la consommation totale d’énergie.

    Pour atteindre cet objectif, sobriété et efficacité énergétique sont indispensables afin de maîtriser la croissance de la demande. Mais il est également évident que sobriété et efficacité ne suffiront pas. Pour atteindre le plafonnement des émissions avant 2030, il faudra décupler les investissements dans ces énergies décarbonées, et notamment dans les pays du Sud, afin de faire baisser le volume des énergies fossiles : c’est la condition sine qua non pour atteindre les objectifs de l’accord de Paris. Nous sommes conscients qu’il s’agit d’un processus long et difficile, mais osons le dire : il n’y a pas d’autre solution, et nous pouvons y arriver.

    De nouvelles alliances s’imposent
    Serions-nous condamnés par l’histoire ? Faut-il prendre acte de notre impuissance supposée, ou poser un renversement complet du système comme condition préalable à la transition ? Dans les deux cas, cela serait très risqué, et franchement irresponsable.

    Car il n’y a pas de fatalité ! On trouve sur le site du dernier rapport du Groupe d’experts intergouvernemental sur l’évolution du climat (GIEC) une citation d’Albert Camus : « Pour ce qui est de l’avenir, il ne s’agit pas de le prédire, mais de le faire. » C’est dans cette perspective que s’inscrivent tous les acteurs des COP et des négociations internationales – que certains stigmatisent comme un « grand cirque » –, pour qui « dire, c’est faire ».

    Evidemment, dire ne suffit pas, et il faut aussi mobiliser des moyens puissants, politiques et financiers. Il faut également affronter ceux – lobbys industriels et politiques – qui, par fatalisme ou par intérêt, freinent cette transformation. Enfin, comme le suggère le philosophe Pierre Charbonnier, la création de nouvelles alliances s’impose entre ceux qui ont compris que la transition servait leurs intérêts, et surtout ceux de leurs enfants.

    La démarche des sciences de la nature et de la physique consiste à s’appuyer sur des constats d’observation pour en tirer des lois immuables. Elle s’applique mal cependant aux sciences sociales. Mais ces obstacles ne doivent pas empêcher de penser l’avenir, à la manière de Gaston Berger, le père de la prospective, qui ne cessait de rappeler : « Demain ne sera pas comme hier. Il sera nouveau et il dépendra de nous. Il est moins à découvrir qu’à inventer. »

    Signataires : Anna Creti, économiste, chaire Economie du climat, université Paris-Dauphine ; Patrick Criqui, économiste, CNRS, université Grenoble-Alpes ; Michel Derdevet, président de Confrontations Europe, Sciences Po ; François Gemenne, politiste, HEC Paris ; Emmanuel Hache, économiste, IFP énergies nouvelles et Institut de relations internationales et stratégiques ; Carine Sebi, économiste, chaire Energy for Society, Grenoble Ecole de Management.

  • Sur les traces des colons suisses au Brésil et de leurs esclaves

    Des colons suisses ont été propriétaires d’esclaves à #Bahia au Brésil, un pan sombre de l’histoire de notre pays qui remonte au 19e siècle. Une époque de plus en plus documentée par les historiens, mais qui reste taboue.

    Dans les forêts de Bahia, au Brésil, des vestiges remontant à 150 ans témoignent d’une histoire sombre. « Là-bas, il y avait la ferme », raconte Obeny dos Santos dans l’émission Mise au Point. « Et ici en bas, les #esclaves étaient emprisonnés, torturés. » Cette ferme appartenait à des colons suisses, propriétaires d’esclaves.

    « Regardez comme la structure était bien faite », explique Obeny dos Santos, en montrant des restes de murs mangés par la végétation. « C’est là que les esclaves étaient enfermés. Ils travaillaient pendant la journée et la nuit, on les bouclait là-dedans. » Attachés par des chaînes à un poteau de métal, aucune chance de s’enfuir.

    Les autorités suisses nient

    Les autorités suisses ont toujours nié avoir pris part aux horreurs de l’esclavage. Quelques financiers et commerçants auraient bien participé à cette #exploitation_forcée, mais dans le dos de la Confédération.

    Hans Faessler, un historien engagé, conteste cette vision des choses, documents à l’appui. Aux Archives fédérales de Berne, il présente un écrit exceptionnel : un rapport que le Conseil fédéral a rédigé en 1864 pour le Parlement, et qui concerne les Suisses établis au Brésil qui possèdent des esclaves.

    Premier constat : le Conseil fédéral est bien informé de la situation. Il connaît même le prix d’un esclave, entre 4000 et 6000 francs suisses.

    « Ce rapport est vraiment un document de grande importance pour l’histoire coloniale de la Suisse », souligne Hans Faessler. « Pour la première fois, la question de l’esclavage apparaît au Parlement suisse. Dans le rapport, le Conseil fédéral admet (...) qu’il y a des Suisses, des propriétaires de #plantations, des négociants et aussi (...) des artisans qui possèdent des esclaves. »

    Ce #rapport du Conseil fédéral répond à une motion de #Wilhelm_Joos, un médecin et conseiller national schaffhousois, qui s’est rendu dans les colonies suisses de Bahia. « Apparemment, Wilhelm Joos était choqué par la réalité de l’esclavage en #Amérique_latine, au Brésil, et la première motion qu’il a déposée au Conseil national demandait des mesures pénales contre des Suisses qui possédaient des esclaves au Brésil », détaille l’historien.

    Des traces encore vives au Brésil

    Le petit village d’#Helvetia, au sud de Bahia, garde aussi des #traces de cette époque. Son nom rappelle la présence de colons vaudois, neuchâtelois ou bernois durant tout le 19e siècle. Ici, on produisait de manière intensive du #café et du #cacao, une production impossible sans esclaves, beaucoup d’esclaves.

    « Il y en avait environ 2000, ils étaient largement majoritaires. C’est pourquoi aujourd’hui à Helvetia, 95% de la population est noire », raconte Maria Aparecida Dos Santos, une habitante d’Helvetia. Ses arrière-arrière-grands-parents ont été déportés d’Angola, avant d’être vendus aux colons suisses, envoyés dans les plantations et traités comme du bétail.

    « Les esclaves vivaient tous ensemble, entassés dans une grande écurie commune », décrit-elle. « Ils n’avaient pas d’intimité, pas de liberté, pas de dignité. Les colons violaient les femmes noires. »

    Et de souligner encore une autre pratique des colons : « Ces femmes noires étaient aussi considérées comme des reproductrices, donc les colons réunissaient des hommes forts et des femmes fortes pour fabriquer des enfants forts destinés spécifiquement à travailler dans les plantations ».

    Pour elle, cette histoire est « tellement triste que les gens essayent de l’oublier ». Même si depuis des années, des livres d’histoire racontent ces faits, « pour les gens, ces histoires ont représenté tant de #souffrance qu’ils ont essayé de les effacer de leur #mémoire, et donc de l’effacer de l’histoire ».

    Selon les autorités suisses de l’époque, « aucun crime » à dénoncer

    Les propriétaires suisses d’esclaves n’ont jamais été inquiétés par les autorités helvétiques. Pire, le Conseil fédéral de l’époque prend la défense des colons.

    « Le Conseil fédéral dit que l’esclavage pour ces Suisses est avantageux, et qu’il est normal », montre l’historien Hans Faessler dans le rapport. « Et il est impossible de priver ces ’pauvres’ Suisses de leur propriété qu’ils ont acquise légalement. »

    Selon le Conseil fédéral de 1864, ce n’est pas l’esclavage qui est injuste et contre la moralité, puisqu’il n’implique aucun #crime. Au contraire, aux yeux du gouvernement de l’époque, c’est « pénaliser les Suisses qui possèdent des esclaves qui serait injuste, contre la #moralité et constituerait un acte de violence ».

    « Le Conseil fédéral devient le dernier gouvernement de l’Occident qui banalise, qui justifie et qui excuse le crime de l’esclavage », insiste Hans Faessler. A cette date, la France, le Royaume-Uni et les Pays-Bas ont déjà aboli l’esclavage. Les Etats-Unis mettront eux un terme à cette pratique en décembre 1865.

    « Les esclaves travaillaient du lever au coucher du soleil »

    A quelques kilomètres d’#Ilheus, se trouve la #Fazenda_Vitoria, « Ferme de la victoire », l’une des plus grandes exploitations de la région. Près de 200 esclaves y cultivaient la #canne_à_sucre. Aujourd’hui la ferme est à l’abandon et son accès est interdit.

    Depuis plus de 40 ans, Roberto Carlos Rodriguez documente l’histoire de cette exploitation, où ses aïeux ont travaillé comme esclaves, et celle de ses propriétaires suisses.

    « #Fernando_von_Steiger était le deuxième plus grand propriétaire d’Africains réduits en esclavage dans le sud de Bahia », raconte Roberto Carlos Rodriguez. « Ici, les esclaves travaillaient du lever au coucher du soleil. Ils se réveillaient à cinq heures du matin, devaient donner le salut au patron. Ensuite, ils commençaient le travail. C’était un travail difficile et, comme dans d’autres fermes, l’esclave vivait très peu de temps. Au Brésil, l’espérance de vie d’un esclave était de sept ans. »

    Quand on évoque avec Roberto Carlos Rodriguez l’implication des autorités suisses dans l’esclavage, la colère se fait froide.

    « Cette ferme a été exploitée au plus fort de l’esclavage par deux Suisses. #Gabriel_Mai et Fernando von Steiger ont été financés par des maisons de commerces suisses », souligne-t-il. « De ce point de vue, il est de notoriété publique que le gouvernement suisse a investi dans l’esclavage par l’intermédiaire de ces #maisons_de_commerce. Dire que la Suisse n’a pas contribué à l’esclavage, c’est comme dire que le soleil ne s’est pas levé ce matin. »

    Quelle réaction aujourd’hui ?

    La conseillère nationale socialiste bâloise Samira Marti a déposé en 2022 une interpellation qui demande au Conseil fédéral de se positionner sur le rapport de 1864. C’est la 8e interpellation en une vingtaine d’années. A chaque fois, la réponse du Conseil fédéral est la même : « Les autorités fédérales d’alors ont agi conformément aux normes des années 1860 ».

    « C’est un peu scandaleux que le Conseil fédéral dise toujours que c’était seulement l’esprit du temps. Et que ce n’était pas l’Etat qui s’engageait dans l’esclavage », réagit l’élue bâloise. « Ce n’était vraiment pas normal. (...) Et la Suisse a quand même continué à accepter l’esclavage », souligne Samira Marti.

    L’élue socialiste réclame de la clarté de la part du gouvernement sur cette vision de l’histoire. « C’est important qu’aujourd’hui, le Conseil fédéral soit assez clair (...). Aussi pour aujourd’hui, aussi pour le futur, sur les discussions sur le racisme, sur l’inégalité globalement. » Et d’appeler même le gouvernement à corriger cette vision de l’histoire.

    Peur d’éventuelles demandes de réparation, embarras face aux compromissions passées, les autorités fédérales s’accrochent pour l’instant à leur version de l’histoire. Elles ont refusé toutes les demandes d’interview de Mise au Point.

    Dans l’autre Helvetia, même si l’exercice de la mémoire est aussi douloureux, Maria Aparecida Dos Santos espère trouver dans le passé des réponses à son présent et à celui de sa communauté. « J’ai envie aujourd’hui de faire des recherches parce que je sais qu’il existe des historiens à Salvador de Bahia qui travaillent sur le sujet. Il y a des livres qui racontent ce qui s’est passé à cette époque. Je me suis rendu compte que je ne connaissais pas ma propre histoire, et ça, ça suscite en moi un vide, une sensation intérieure forte… très forte. »

    https://www.rts.ch/info/suisse/14644060-sur-les-traces-des-colons-suisses-au-bresil-et-de-leurs-esclaves.html

    #Brésil #Suisse #histoire #histoire_coloniale #colonialisme #colonisation #Suisse_coloniale #esclavage #torture #tabou

    –—

    ajouté à la métaliste sur la #Suisse_coloniale :
    https://seenthis.net/messages/868109

    ping @cede

  • La Barre face au Sacré-Coeur Vidéo

    La FNLP a décidé de replacer d’une manière symbolique la statue originelle du chevalier de la Barre, martyre victime de l’Eglise, à sa place originelle face au Sacré-Coeur. Histoire de cette initiative.

    https://www.youtube.com/watch?v=ihMKClbS-8o

    Le Chevalier de la Barre est devenu le symbole de la liberté de conscience et de la Libre Pensée . Cette statue inaugurée, lors du Congrès mondial de la Libre Pensée en 1905 à Paris au moment du vote de la loi de Séparation des Églises et de l’État , devant une foule de 25 000 manifestants, a toujours été insupportable pour les suppôts de la Réaction .

    Ainsi l’ Evêché de Paris la fit déplacer en 1926 dans le square Nadar en contrebas de la Butte Montmartre . En 1941, les nazis avec le soutien du Régime de Vichy la déboulonnèrent avec toutes les statues des Humanistes, des Laïques, des Philosophes des Lumières , des Francs-Maçons, pour faire du bronze récupéré pour les canons. Mais les statues des « saints » et de _ Jeanne d’Arc _ furent épargnées par la furie fasciste et corporatiste.

    Un public important de libres penseurs et de laïques, devant une foule de touristes très intéressés et dûment informés par un dépliant de la Libre Pensée en plusieurs langues expliquant le sens du rassemblement, se pressait devant la statue à nouveau érigée en hommage à François-Jean Lefebvre de la Barre .

    Source : https://www.fnlp.fr/2024/01/21/le-7-avril-2023-la-fnlp-remettait-symboliquement-a-sa-place-originelle-la-statu

    #Histoire #paris #montparnasse #chevalier_de_la_Barre #commune #bucher #liberté_de_Penser #statues #Laïcité #religion #FNLP #LP #église #intolérance #statue

    • population d’Israel (worldometer) : 9.2 million

      S’ils ont pas spécialement besoin d’être au bord de la Méditerranée, de Jérusalem et du désert, un spot tranquille aux US, quitte à s’arranger avec eux pour faire un état embedded style Vatican, ça réalise le rêve Sioniste version « a safe place for the people of Israël » bien mieux que de rester à côté des [méchants] Arabes.

      @kassem @loutre jamais personne en a parlé ?

      Pour les aspects pratiques de l’auto-déplacement de 9 millions de personnes, ça doit pouvoir se faire en quelques mois, vu les moyens a dispo, c’est encore plus facile que d’envoyer 2 millions d’indigènes en Afrique :-)

    • Ben non : cette idée est totalement incompatible avec le sionisme chrétien, selon lequel rassembler tous les juifs en Palestine provoquera le retour de Djizouss, et ainsi le Jugement dernier. Selon le texte de Apocalypse, si tu fais ça dans le Kansas et le Nebraska, hé ben ça marche pas.

  • Delenda Israelo ?

    Je suis gentil d’accorder à #Israël le statut de #Carthage..

    Il est loin le temps de l’enthousiasme de certain/es à partir au #kibboutz... (il y a 45a / 50a) :-D :-D :-D

    #politique #international #sionisme #fascisme #race_supérieure #histoire #superstition #religion #suprématisme #monde #seenthis #monde

    "La Catapulte, peinture d’Edward Poynter, 1868. Sur la machine de guerre au siège de Carthage à la fin de la troisième guerre punique, les mots de Caton l’Ancien sont gravés : « delend a est Ca rthago » " (source Wiki)

    https://fr.wikipedia.org/wiki/Delenda_Carthago

  • Un long article de synthèse sur un débat en cours : jusqu’à quel point la société française actuelle est-elle marquée par des legs coloniaux ? A retenir, notamment, les noms et analyses des philosophes Souleymane Bachir Diagne et Nadia Yala Kisukidi.
    (la suite de l’article est à lire en vous connectant au site du Monde)

    Comment la question coloniale trouble les sociétés occidentales
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/19/comment-la-question-coloniale-trouble-les-societes-occidentales_6211842_3232

    Comment la question coloniale trouble les sociétés occidentales
    Par Nicolas Truong, le 19 janvier 2024

    Si l’histoire des colonisations se renouvelle en France, ses approches théoriques restent déconsidérées par une frange de l’opinion qui en refuse les conclusions et les réduit à leurs aspects les plus controversés.

    C’est une histoire qui travaille les mémoires. Un passé qui pèse sur le présent. La question coloniale ne cesse de hanter la politique nationale. A croire que chaque fracture française réveille ce passé qui a encore du mal à passer. Dans certaines de ses anciennes colonies, notamment africaines, où la France est conspuée et même chassée de pays longtemps considérés comme des prés carrés. Dans ses banlieues paupérisées au sein desquelles les émeutes contre les violences policières ravivent le sentiment du maintien d’une ségrégation sociale, spatiale et raciale héritée de la période coloniale. Dans des stades où La Marseillaise est parfois sifflée.

    Une histoire qui s’invite jusque dans les rangs de l’Assemblée nationale, où l’usage du terme « métropole » pour désigner la France continentale sans les territoires d’outre-mer est désormais rejeté, car considéré comme colonialiste. Et jusqu’à l’Elysée : après avoir affirmé, lors de la campagne présidentielle de 2017, que la colonisation était un « crime contre l’humanité » qui appartient à un « passé que nous devons regarder en face, en présentant nos excuses à l’égard de celles et ceux envers lesquels nous avons commis ces gestes », Emmanuel Macron a finalement estimé, en 2023, qu’il n’avait « pas à demander pardon ». Un ravisement contemporain d’un ressassement idéologique et médiatique permanent contre la « repentance », la « haine de soi » et l’« autoflagellation ».

    Cependant, il semble difficile pour une société d’éviter les sujets qui finissent inexorablement par s’imposer. Il en va de la colonisation comme de la collaboration. La génération Mitterrand et les années Chirac ont été ponctuées par des révélations, débats et discours marquants liés à la période du gouvernement de Vichy. La France d’Emmanuel Macron n’échappe pas à l’actualité de l’histoire de ses anciennes colonies. Car « le passé colonial est partout », résume l’historien Guillaume Blanc, l’un des quatre coordinateurs de Colonisations. Notre histoire, ouvrage collectif dirigé par Pierre Singaravélou (Seuil, 2023).

    (...).

    #colonisation #colonialité #racisme #antiracisme #émancipation #universalisme

    • Suite de l’article :

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2024/01/19/comment-la-question-coloniale-trouble-les-societes-occidentales_6211842_3232

      « Le colonialisme n’est pas achevé »

      Au Sahel, la présence de la France est devenue indésirable. Bien sûr, la stratégie africaine de la Chine comme l’emprise de la Russie, à travers les milices privées du Groupe Wagner, n’y sont pas étrangères. Mais « il faut souligner l’épaisseur historique de ce sentiment », insiste Guillaume Blanc. L’histoire de cette réprobation est « à la fois récente et ancienne », ajoute-t-il, en référence aux analyses d’Ousmane Aly Diallo, chercheur à Amnesty International, selon qui les interventions militaires de la France dans ses anciennes colonies en Afrique – près de cinquante depuis 1960 – ont pérennisé « l’hégémonie française dans ces espaces ». Ainsi, à partir de 2022, lorsque l’armée française quitte le Mali et le Burkina Faso et se replie au Niger, « elle a beau dire y lutter contre le djihadisme, les populations y voient une ingérence française de plus », constate Guillaume Blanc.

      Cette histoire est également plus ancienne et « nous ramène notamment aux années 1950 », explique-t-il, à la lumière des apports de l’historienne Gabrielle Hecht : c’est à cette époque, selon elle, que la France a construit sa prétendue « indépendance énergétique » en exploitant l’uranium du Gabon et du Niger. En échange de prix avantageux, la France soutenait les dirigeants gabonais et nigériens au pouvoir.
      Lire aussi la tribune | Article réservé à nos abonnés « La question du passé colonial est le dernier “tabou” de l’histoire de France des XIXᵉ et XXᵉ siècles »

      C’est pourquoi « les sociétés africaines sont des sociétés postcoloniales, tout simplement au sens où le passé colonial pèse encore sur le présent », observe Guillaume Blanc, qui estime que « la France est, elle aussi, une société postcoloniale ». En effet, rappelle le philosophe Souleymane Bachir Diagne, l’Organisation des Nations unies (ONU) considère toujours que la Polynésie et la Nouvelle-Calédonie sont des territoires « non autonomes », ce qui signifie que leurs populations « ne s’administrent pas encore complètement elles-mêmes ». Pour le professeur d’études francophones à l’université Columbia (New York), « cela veut dire que la majorité des nations qui composent l’ONU, et qui pour la plupart ont conquis leur souveraineté contre le colonialisme, estime que le mouvement des décolonisations, qui a défini l’histoire du XXe siècle, n’est pas achevé ».

      Souleymane Bachir Diagne rappelle une situation encore assez méconnue. Car si les recherches sur les colonisations et décolonisations sont nombreuses, novatrices et fécondes, la diffusion de ces savoirs reste parcellaire. Afin d’enseigner l’histoire de la colonisation et aussi « combattre les clichés », Guillaume Blanc, maître de conférences à l’université Rennes-II, trouve « assez utile » de partir des chansons, des bandes dessinées ou des films lors de ses cours sur les sociétés africaines et asiatiques du XIXe au XXIe siècle. Dans les amphithéâtres, l’auteur de Décolonisations (Seuil, 2022) n’hésite pas à diffuser le tube de Michel Sardou Le Temps des colonies (1976), où l’on entend : « Y a pas d’café, pas de coton, pas d’essence en France, mais des idées, ça on en a. Nous on pense », ou à évoquer certains albums d’Astérix « qui parlent de “nègres” aux lèvres protubérantes et ne sachant ni lire ni écrire ».

      La popularité du couscous

      D’autres contributeurs de Colonisations, comme la linguiste et sémiologue Marie Treps, s’attachent à l’actualité des « mots de l’insulte », comme « bougnoul », emprunté à la langue wolof où il signifie « noir », apparu au Sénégal à la fin du XIXe siècle, terme vernaculaire transformé en sobriquet « lourdement chargé de mépris » qui désigne désormais « un étranger de l’intérieur ». Les experts du fait colonial mobilisent l’analyse des objets ou de la cuisine – avec la popularité du couscous ou du banh mi – mais aussi du paysage urbain, comme le géographe Stéphane Valognes, qui montre la façon dont les rues de Cherbourg (Manche) portent encore les traces de la conquête coloniale, avec ses maisons de style néomauresque et ses rues estampillées du nom d’anciens généraux coloniaux. Sans oublier le palais de l’Elysée, à Paris, ancien hôtel particulier financé pour la monarchie par Antoine Crozat (1655-1738), qui bâtit sa fortune, dans les années 1720, grâce à la traite transatlantique, après avoir obtenu le monopole de la fourniture en esclaves de toutes les colonies espagnoles.

      « Si l’histoire de la colonisation est bien connue des spécialistes, en revanche, en France, il y a encore un refus de voir ce que fut la colonisation », estime Guillaume Blanc, qui trouve « aberrant » d’entendre encore des hommes politiques et certains médias évoquer les routes et les écoles que la France aurait « amenées » dans ses colonies : « Sans le travail forcé, la mort et la sueur des Congolais, des Malgaches ou des Vietnamiens, il n’y aurait jamais eu de routes. Quant à l’école, les petits garçons et les petites filles colonisés n’y allaient tout simplement pas : l’enseignement était réservé à une élite restreinte, et la France n’a jamais eu l’intention de scolariser les millions d’enfants qu’elle colonisait. »

      Nous vivons un moment postcolonial parce que notre époque est postérieure à l’ère des grandes colonisations – d’où le préfixe « post » – mais aussi, selon certains chercheurs, parce qu’il convient d’analyser ce passé qui pèse sur le présent en dépassant les anciennes dichotomies forgées aux temps des colonies. Notamment celles entre Orient et Occident, centre et périphérie ou civilisation et barbarie. « Postcolonial » est ainsi à la fois le marqueur d’une période historique et la désignation d’un mouvement théorique : après la critique du « néocolonialisme » des années 1960-1970, à savoir de l’emprise occidentale encore manifeste au cœur des nouvelles nations indépendantes, les études postcoloniales – postcolonial studies – émergent à la fin des années 1970. Elles prennent leur essor dans les années 1980 sur les campus américains et s’attachent à montrer comment les représentations et les discours coloniaux, en particulier ceux de la culture, ont établi une différence radicale entre les colonisés et le monde occidental, notamment forgé sur le préjugé racial.

      Publié en 1978, L’Orientalisme, ouvrage de l’écrivain palestino-américain Edward Said (1935-2003) consacré à la façon dont un Orient fantasmé a été « créé » par l’Occident (Seuil, 1980), est considéré comme l’un des premiers jalons du courant postcolonial, même s’il n’en revendique pas le terme. Au cours d’une déconstruction des représentations et clichés véhiculés sur l’Orient depuis le siècle des Lumières, ce défenseur lettré de la cause palestinienne assure que « le trait essentiel de la culture européenne est précisément ce qui l’a rendue hégémonique en Europe et hors de l’Europe : l’idée d’une identité européenne supérieure à tous les peuples et à toutes les cultures qui ne sont pas européens ». Se réclamant d’un « humanisme » qui ne se tient pas « à l’écart du monde », cet ancien professeur de littérature comparée à l’université Columbia estimait dans une nouvelle préface publiée en 2003, en pleine guerre en Irak à laquelle il était opposé, que « nos leaders et leurs valets intellectuels semblent incapables de comprendre que l’histoire ne peut être effacée comme un tableau noir, afin que “nous” puissions y écrire notre propre avenir et imposer notre mode de vie aux peuples “inférieurs” ».
      « La continuation du rapport de domination »

      La pensée postcoloniale fut largement inspirée par les subaltern studies, courant né en Inde dans les années 1970, autour de l’historien Ranajit Guha (1923-2023), études consacrées aux populations à la fois minorées par la recherche et infériorisées dans les sociétés récemment décolonisées. Une volonté de faire « l’histoire par le bas », selon les termes de l’universitaire britannique Edward Palmer Thompson (1924-1993), une façon de rompre avec l’idée d’un progrès historique linéaire qui culminerait dans l’Etat-nation, une manière de réhabiliter des pratiques et des savoirs populaires mais aussi d’exercer une critique des élites indiennes souvent constituées en mimétisme avec l’ancienne bourgeoisie coloniale.

      L’ambition des intellectuels postcoloniaux est assez bien résumée par l’Indien Dipesh Chakrabarty, professeur d’histoire, de civilisations et de langues sud-asiatiques à l’université de Chicago : il s’agit de désoccidentaliser le regard et de Provincialiser l’Europe (Amsterdam, 2009). L’Europe n’est ni le centre du monde ni le berceau de l’universel. Incarnée par des intellectuels comme la théoricienne de la littérature Gayatri Chakravorty Spivak ou l’historien camerounais Achille Mbembe, cette approche intellectuelle « vise non seulement à penser les effets de la colonisation dans les colonies, mais aussi à évaluer leur répercussion sur les sociétés colonisatrices », résume l’historien Nicolas Bancel (Le Postcolonialisme, PUF, 2019).
      Lire aussi l’enquête (2020) : Article réservé à nos abonnés « Racisé », « racisme d’Etat », « décolonial », « privilège blanc » : les mots neufs de l’antiracisme

      L’empreinte de l’époque coloniale n’est pas seulement encore présente à travers des monuments ou les noms des rues, elle l’est aussi dans les rapports sociaux, les échanges économiques, les arts ou les relations de pouvoir. Car une partie de ses structures mentales se serait maintenue. « La fin du colonialisme n’est pas la fin de ce que l’on appelle la “colonialité” », explique Souleymane Bachir Diagne. Forgé au début des années 1990 par le sociologue péruvien Anibal Quijano (1928-2018), ce terme désigne un régime de pouvoir économique, culturel et épistémologique apparu à l’époque moderne avec la colonisation et l’essor du capitalisme mercantile mais qui ne s’achève pas avec la décolonisation.

      La colonialité, c’est « la continuation du rapport de domination auquel les décolonisations sont censées mettre fin », poursuit Souleymane Bachir Diagne. « Et les jeunes ont une sensibilité à fleur de peau à ces aspects », relève-t-il, en pensant notamment aux altercations entre policiers et adolescents des « quartiers ». Pour le philosophe, une définition « assez éclairante de cette colonialité structurelle » a été donnée par le poète et homme d’Etat sénégalais Léopold Sédar Senghor (1906-2001), selon qui « l’ordre de l’injustice qui régit les rapports entre le Nord et le Sud » est un ordre fondé sur « le mépris culturel ». Ainsi, poursuit l’auteur du Fagot de ma mémoire (Philippe Rey, 2021), « on peut se demander si les populations “issues de l’immigration” dans les pays du “Nord” ne constituent pas une sorte de “Sud” dans ces pays ».

      « Le concept de colonialité ouvre des réflexions fécondes », renchérit la philosophe Nadia Yala Kisukidi, maîtresse de conférences à l’université Paris-VIII. Loin du terme « néocolonialisme » qui réduit la domination à une cause unique, la colonialité permet « d’articuler les formes de la domination politico-économique, ethnoraciale, de genre, culturelle et psychosociale, issues du monde colonial et de déceler leur continuation dans un monde qu’on prétend décolonisé. Ce qui permet de dire que, dans un grand nombre de cas, les décolonisations apparaissent comme des processus inachevés », poursuit l’autrice de La Dissociation (Seuil, 2022).

      Souleymane Bachir Diagne insiste sur le fait que Léopold Sédar Senghor, en « grand lecteur de Jean Jaurès », croyait comme le fondateur du journal L’Humanité en un monde où « chaque nation enfin réconciliée avec elle-même » se verrait comme « une parcelle » de cette humanité solidaire qu’il faut continûment travailler à réaliser. « Mais pour cela il faut combattre la colonialité, le mépris culturel, l’ordre de l’injustice. D’un mot : il faut décoloniser. L’impensé colonial existe : il consiste à ignorer la colonialité. »
      Universalisme eurocentré

      C’est ainsi que l’approche décoloniale, nouveau paradigme apparu dans les années 1990, est venue s’ajouter aux études postcoloniales autour de cette invitation à « décoloniser ». Née en Amérique du Sud au sein d’un groupe de recherche intitulé Modernité/Colonialité, la pensée décoloniale se donne notamment comme ambition de décoloniser les savoirs. Et de revisiter l’histoire. C’est pourquoi, selon ce courant théorique, la date capitale de la domination occidentale est 1492, le moment où Christophe Colomb ne « découvre » pas l’Amérique, mais l’« envahit ». C’est la période lors de laquelle naît la modernité par « l’occultation de l’autre », explique le philosophe et théologien argentino-mexicain Enrique Dussel (1934-2023). Un moment où la « reconquête » menée par la chrétienté expulsa les musulmans de la péninsule Ibérique et les juifs d’Espagne. Ainsi, une « désobéissance épistémique » s’impose, enjoint le sémiologue argentin Walter Mignolo, afin de faire éclore des savoirs alternatifs à une conception de l’universalisme jugée eurocentrée.

      Tous les domaines politiques, sociaux, économiques et artistiques peuvent être analysés, réinvestis et repolitisés à l’aide de cette approche décoloniale, à la fois savante et militante. L’écologie est notamment l’un des nombreux thèmes investis, car « la double fracture coloniale et environnementale de la modernité » permet de comprendre « l’absence criante de Noirs et de personnes racisées » dans les discours sur la crise écologique, assure l’ingénieur en environnement caribéen Malcom Ferdinand dans Une écologie décoloniale (Seuil, 2019). « Faire face à la tempête écologique, retrouver un rapport matriciel à la Terre requiert de restaurer les dignités des asservis du navire négrier tout autant que celles du continent africain », écrit Malcom Ferdinand.

      Partis d’Amérique latine, « ces travaux ont essaimé dans le monde entier », explique Philippe Colin, coauteur avec Lissell Quiroz de Pensées décoloniales. Une introduction aux théories critiques d’Amérique latine (Zones, 2023). Dans les années 1990, les lectures partisanes des théories postcoloniales ont suscité des controverses dans l’espace public, notamment autour de la notion de « discrimination positive » et du « politiquement correct ». Une discorde qui se rejoue aujourd’hui, notamment avec les attaques menées par les néoconservateurs américains contre ce qu’ils appellent, de manière péjorative, la « cancel culture », cette culture dite « de l’annulation » censée être portée par un « maccarthysme de gauche » et même un « fascisme d’extrême gauche », résume d’un trait Donald Trump.
      Pensées « victimaires »

      Aux Etats-Unis, les études postcoloniales et décoloniales, « forgées dans une matrice marxiste au sein d’une diaspora d’intellectuels indiens, africains ou sud-américains enseignant dans les campus américains, se sont déployées d’abord dans le champ académique », précise Philippe Colin. Alors qu’en France, la réception de ces travaux s’est faite immédiatement de façon polémique. « Le concept a été revendiqué par le Parti des indigènes de la République à partir de 2015 de manière explicite, et cela a changé beaucoup les choses en France », analyse l’historien Pascal Blanchard. « Il est alors devenu une cible idéale pour ceux qui cherchaient un terme global pour vouer aux gémonies les chercheurs travaillant sur la colonisation », poursuit-il dans le livre collectif Les Mots qui fâchent. Contre le maccarthysme intellectuel (L’Aube, 2022).

      Dans L’Imposture décoloniale (L’Observatoire, 2020), l’historien des idées Pierre-André Taguieff se livre à une critique radicale de « l’idéologie postcoloniale et décoloniale, centrée sur la dénonciation criminalisante de la civilisation occidentale ». Une position que l’on retrouve également au sein de L’Observatoire du décolonialisme et des idéologies identitaires, un site Web dont les contributeurs alimentent régulièrement les dossiers à charge des médias en guerre contre le « wokisme ».
      Lire aussi : Article réservé à nos abonnés Le « wokisme », déconstruction d’une obsession française

      Les critiques ne viennent toutefois pas uniquement de la galaxie conservatrice, des sites de veille idéologique ou des sphères réactionnaires. Auteur d’un ouvrage critique sur Les Etudes postcoloniales. Un carnaval académique (Karthala, 2010), le politologue Jean-François Bayart leur reproche de « réifier le colonialisme » car, affirme-t-il, aujourd’hui, « le colonial n’est pas une essence mais un événement ». Par ailleurs, rappelle-t-il, « le colonialisme n’a pas été l’apanage des seuls Etats occidentaux ». Des chercheurs insistent également sur le fait que la colonisation est un fait historique pluriel et qu’il convient de tenir compte de la diversité des sociétés où elle s’est exercée. Or, la prise en compte des formes de pouvoir propres à chaque société anciennement colonisée serait parfois omise par les approches décoloniales.

      Auteur de L’Occident décroché (Fayard, 2008), l’anthropologue Jean-Loup Amselle estime que ce courant de pensée a « détrôné l’Occident de sa position de surplomb, ce qui est une bonne chose, mais a entraîné des effets pervers », puisque, selon lui, elle reprend parfois à son compte « les stigmates coloniaux en tentant d’en inverser le sens ». Sur le site Lundimatin, l’essayiste Pierre Madelin critique, lui, les travers du « campisme décolonial » notamment apparu après le déclenchement de la guerre en Ukraine, à l’occasion de laquelle, dit-il, « plusieurs figures de proue des études décoloniales » ont convergé vers la rhétorique anti-occidentale de Vladimir Poutine.

      Procès en relativisme

      Comme toute théorie, ces approches postcoloniales et décoloniales sont critiquables, estime Nicolas Bancel, « mais à partir de textes, de positions théoriques et épistémologiques, et non à partir de tribunes maniant l’invective, la désinformation, la dénonciation ad hominem, sans que leurs auteurs sachent rien de la réalité et de l’importance de ce champ intellectuel », juge-t-il. D’ailleurs, prolonge Nadia Yala Kisukidi, au-delà de l’université, les termes « décolonial » ou « postcolonial », dans le débat public français, « fonctionnent comme des stigmates sociaux, pour ne pas dire des marqueurs raciaux. Loin de renvoyer à des contenus de connaissance ou, parfois, à des formes de pratiques politiques spécifiques, ils sont mobilisés pour cibler un type d’intellectuel critique, souvent non blanc, dont les positionnements théoriques et/ou politiques contribueraient à briser la cohésion nationale et à achever le déclassement de l’université française. Comme si le mythe de la “cinquième colonne” avait intégré le champ du savoir ». D’autant que « décoloniser n’est pas un mot diabolique », relève le sociologue Stéphane Dufoix (Décolonial, Anamosa, 2023)

      Un reproche résume tous les autres : celui du procès en relativisme. Une critique qui est le point de discorde de tous les débats qui opposent de façon binaire l’universalisme au communautarisme. Or, cette querelle a presque déjà été dépassée par deux inspirateurs historiques de ces mouvements postcoloniaux et décoloniaux : Aimé Césaire (1913-2008) et Frantz Fanon (1925-1961). Dans sa Lettre à Maurice Thorez, publiée en 1956, dans laquelle il explique les raisons de sa démission du Parti communiste français, à qui il reproche le « chauvinisme inconscient » et l’« assimilationnisme invétéré », le poète martiniquais Aimé Césaire expliquait qu’« il y a deux manières de se perdre : par la ségrégation murée dans le particulier ou par la dilution dans l’“universel” ».

      Aimé Césaire a dénoncé « un universalisme impérial », commente Souleymane Bachir Diagne, auteur de De langue à langue (Albin Michel, 2022). Mais, dans le même temps, « il a refusé avec force de s’enfermer dans le particularisme ». Au contraire, poursuit le philosophe, Césaire « a indiqué que s’il a revendiqué la “négritude”, c’était pour “contribuer à l’édification d’un véritable humanisme”, l’“humanisme universel”, précise-t-il, “car enfin il n’y a pas d’humanisme s’il n’est pas universel” ». Des propos que le Frantz Fanon des dernières pages de Peau noire, masques blancs (Seuil, 1952) « pourrait s’approprier », estime Souleymane Bachir Diagne.

      Ces exemples remettent en cause l’idée selon laquelle les études, réflexions et théories actuelles sur le fait colonial, postcolonial ou décolonial seraient des importations venues des campus américains et issues du seul frottement des études subalternes avec la French Theory, du tiers-monde et de la déconstruction. « Il n’est donc tout simplement pas vrai que les penseurs du décolonial soient unanimement contre l’universel », déclare Souleymane Bachir Diagne, qui, loin de tous les impérialismes et réductionnismes, appelle à « universaliser l’universel ».

      Nicolas Truong

    • « La question du passé colonial est le dernier “tabou” de l’histoire de France des XIXᵉ et XXᵉ siècles », Nicolas Bancel, Pascal Blanchard, historiens

      L’#histoire_coloniale est désormais à l’agenda des débats publics. Et si les débats sont très polarisés – entre les tenants d’une vision nostalgique du passé et les apôtres du déclin (de plus en plus entendus, comme le montre la onzième vague de l’enquête « Fractures françaises ») et les décoloniaux les plus radicaux qui assurent que notre contemporanéité est tout entière issue de la période coloniale –, plus personne en vérité ne met aujourd’hui en doute l’importance de cette histoire longue, en France, de cinq siècles.

      Loin des conflits mémoriaux des extrémistes, l’opinion semble partagée entre regarder en face ce passé ou maintenir une politique d’amnésie, dont les débats qui accompagnèrent les deux décrets de la loi de 2005 sur les « aspects positifs de la #colonisation » furent le dernier moment d’acmé. Vingt ans après, les politiques publiques sur le sujet sont marquées par… l’absence de traitement collectif de ce passé, dont l’impossible édification d’un musée colonial en France est le symptôme, au moment même où va s’ouvrir la Cité internationale de la langue française à Villers-Cotterêts.

      Si l’histoire coloniale n’est pas à l’origine de l’entièreté de notre présent, ses conséquences contemporaines sont pourtant évidentes. De fait, les récents événements au Niger, au Mali et au Burkina Faso signent, selon Achille Mbembe, la « seconde décolonisation », et sont marqués par les manifestations hostiles à la #France qui témoignent bien d’un désir de tourner la page des relations asymétriques avec l’ancienne métropole. En vérité, malgré les assurances répétées de la volonté des autorités françaises d’en finir avec la « Françafrique », les actes ont peu suivi les mots, et la page coloniale n’a pas véritablement été tournée.

      Relation toxique

      La France souffre aussi d’une relation toxique avec les #immigrations postcoloniales et les #quartiers_populaires, devenus des enjeux politiques centraux. Or, comment comprendre la configuration historique de ces flux migratoires sans revenir à l’histoire coloniale ? Comment comprendre la stigmatisation dont ces populations souffrent sans déconstruire les représentations construites à leur encontre durant la colonisation ?

      Nous pourrions multiplier les exemples – comme la volonté de déboulonner les statues symboles du passé colonial, le souhait de changer certains noms de nos rues, les débats autour des manuels scolaires… – et rappeler qu’à chaque élection présidentielle la question du passé colonial revient à la surface. C’est très clairement le dernier « tabou » de l’histoire de France des XIXe et XXe siècles.

      Ces questions, la France n’est pas seule nation à se les poser. La plupart des anciennes métropoles coloniales européennes sont engagées dans une réflexion et dans une réelle dynamique. En Belgique, le poussiéreux Musée de Tervuren, autrefois mémoire d’une histoire coloniale chloroformée, a fait peau neuve en devenant l’AfricaMuseum. Complètement rénové, il accueille aujourd’hui une programmation ambitieuse sur la période coloniale et ses conséquences. Une commission d’enquête nationale (transpartisane) a par ailleurs questionné le passé colonial.

      En France, le silence

      En Allemagne, outre le fait que les études coloniales connaissent un développement remarquable, plusieurs expositions ont mis en exergue l’histoire coloniale du pays. Ainsi le Münchner Stadtmuseum a-t-il proposé une exposition intitulée « Decolonize München » et le Musée national de l’histoire allemande de Berlin consacré une exposition temporaire au colonialisme allemand en 2017. Et, si le Humboldt Forum, au cœur de Berlin, fait débat pour son traitement du passé colonial et la présentation des collections provenant du Musée ethnologique de Berlin, la question coloniale est à l’agenda des débats publics de la société allemande, comme en témoigne la reconnaissance officielle du génocide colonial en Namibie.

      En Angleterre, le British Museum consacre une partie de son exposition permanente à cette histoire, alors que l’#esclavage colonial est présenté à l’International Slavery Museum à Liverpool. Aux Pays-Bas, le Tropenmuseum, après avoir envisagé de fermer ses portes en 2014, est devenu un lieu de réflexion sur le passé colonial et un musée en première ligne sur la restitution des biens culturels. Au Danemark, en Suisse (où l’exposition « Helvécia. Une histoire coloniale oubliée » a ouvert ses portes voici un an au Musée d’ethnologie de Genève, et où le Musée national suisse a programmé en 2024 une exposition consacrée au passé colonial suisse), au Portugal ou en Italie, le débat s’installe autour de l’hypothèse d’une telle institution et, s’il est vif, il existe. Et en France ? Rien. Le silence…

      Pourtant, le mandat d’Emmanuel Macron faisait espérer à beaucoup d’observateurs un changement de posture. Quoi que l’on pense de cette déclaration, le futur président de la République avait déclaré le 15 février 2017 à propos de la colonisation : « C’est un crime. C’est un crime contre l’humanité, c’est une vraie barbarie. Et ça fait partie de ce passé que nous devons regarder en face. »

      Notre pays est à la traîne

      Puis, durant son mandat, se sont succédé les commissions d’historiens sur des aspects de la colonisation – avec deux commissions pilotées par Benjamin Stora entre 2021 et 2023, l’une sur les relations France-Algérie durant la colonisation, l’autre sur la guerre d’#Algérie ; et une autre commission sur la guerre au #Cameroun, présidée par Karine Ramondy et lancée en 2023 – qui faisaient suite au travail engagé en 2016 autour des « événements » aux #Antilles et en #Guyane (1959, 1962 et 1967) ou la commission sur les zoos humains (« La mémoire des expositions ethnographiques et coloniales ») en 2011 ; alors qu’était interrogée parallèlement la relation de la France à l’#Afrique avec la programmation Africa 2020 et la création de la Fondation de l’innovation pour la démocratie confiée à Achille Mbembe en 2022. En outre, le retour des biens culturels pillés lors de la colonisation faisait également l’objet en 2018 d’un rapport détaillé, piloté par Felwine Sarr et Bénédicte Savoy.

      Mais aucun projet de musée d’envergure – à l’exception de ceux d’un institut sur les relations de la France et de l’Algérie à Montpellier redonnant vie à un vieux serpent de mer et d’une maison des mondes africains à Paris – n’est venu concrétiser l’ambition de regarder en face le passé colonial de France, aux côtés du Mémorial ACTe de Pointe-à-Pitre (#Guadeloupe) qui s’attache à l’histoire de l’esclavage, des traites et des abolitions… mais se trouve actuellement en crise en matière de dynamique et de programmation.

      Situation extraordinaire : en France, le débat sur l’opportunité d’un musée colonial n’existe tout simplement pas, alors que la production scientifique, littéraire et cinématographique s’attache de manière croissante à ce passé. Notre pays est ainsi désormais à la traîne des initiatives des autres ex-métropoles coloniales en ce domaine. Comme si, malgré les déclarations et bonnes intentions, le tabou persistait.

      Repenser le #roman_national

      Pourtant, des millions de nos concitoyens ont un rapport direct avec ce passé : rapatriés, harkis, ultramarins, soldats du contingent – et les descendants de ces groupes. De même, ne l’oublions pas, les Français issus des immigrations postcoloniales, flux migratoires qui deviennent majoritaires au cours des années 1970. On nous répondra : mais ces groupes n’ont pas la même expérience ni la même mémoire de la colonisation !

      C’est précisément pour cela qu’il faut prendre à bras-le-corps la création d’un musée des colonisations, qui sera un lieu de savoir mais aussi d’échanges, de débats, de socialisation de cette #histoire. Un lieu majeur qui permettra de relativiser les mémoires antagonistes des uns et des autres, d’éviter la polarisation mortifère actuelle entre les nostalgiques fanatiques et les décoloniaux radicaux, mais aussi d’intégrer à l’histoire les millions de personnes qui s’en sentent exclues. Une manière de mettre les choses à plat, pour tourner véritablement la page.

      De toute évidence, l’histoire coloniale est une page majeure de notre histoire, et l’on doit désormais repenser notre roman national à l’aune de la complexité du passé et d’un récit qui touche dans leur mémoire familiale des millions de familles françaises. Ce n’est pas là la lubie de « sachants » voulant valoriser les connaissances accumulées. Les enjeux sont, on le voit, bien plus amples.

      Mais comment concevoir ce musée ? Ce n’est pas à nous d’en décrire ici les contours… Mais on peut l’imaginer comme un carrefour de l’histoire de France et de l’histoire du monde, ouvert aux comparaisons transnationales, à tous les récits sur cinq siècles d’histoire, ouvert à toutes les mémoires et à inventer en collaboration avec la quarantaine de pays et de régions ultramarines qui en sont parties prenantes. Un musée qui mettrait la France à l’avant-garde de la réflexion mondiale sur le sujet, dans une optique résolument moderne, et permettrait de mettre en perspective et en récit les politiques actuelles de retour des biens coloniaux pillés et des restes humains encore présents dans nos musées.

      Allons-nous, à nouveau, manquer ce rendez-vous avec l’histoire, alors que dans le même temps s’ouvre la Cité internationale de la langue française à Villers-Cotterêts, installée dans le château de François Ier avec « 1 600 m² d’expositions permanentes et temporaires ouvertes au public, un auditorium de 250 places, douze ateliers de résidence pour des artistes… », dotée de plus de 200 millions d’investissements ? Si nous sommes capables d’édifier cette cité, nous devons imaginer ce musée. Sinon, la page coloniale ne pourra être tournée.
      Nicolas Bancel et Pascal Blanchard sont historiens (université de Lausanne), et ils ont codirigé Histoire globale de la France coloniale (Philippe Rey, 2022). Pascal Blanchard est également codirecteur de l’agence de communication et de conseil Les bâtisseurs de mémoire.

      https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/10/30/la-question-du-passe-colonial-est-le-dernier-tabou-de-l-histoire-de-france-d

      (candidature d’intellectuel éclairé)

      #1492 #Indochine (omise) #colonialité

    • La « cancel culture » avec les historiens Henry Laurens et Pierre Vesperini
      Publié le : 17/06/2022

      https://www.rfi.fr/fr/podcasts/id%C3%A9es/20220617-la-cancel-culture-avec-les-historiens-henry-laurens-et-pierre-vesperini

      Pierre-Édouard Deldique reçoit dans le magazine Idées, pour le thème la « cancel culture » ou « culture de l’annulation » en français : Henry Laurens, historien, titulaire de la chaire d’Histoire contemporaine du monde arabe au Collège de France, qui vient d’écrire Le passé imposé (Fayard) et Pierre Vesperini, historien, spécialiste de l’Antiquité grecque et latine, auteur de Que faire du passé ? Réflexions sur la cancel culture (Fayard).

  • Geheim und totgeschwiegen : Meinungsforschung in der DDR
    https://www.berliner-zeitung.de/open-source/geheim-und-totgeschwiegen-meinungsforschung-in-der-ddr-li.2177359

    La RDA avait son institut de sondages qui fournissait des informations pertinentes sur les opinions de la population du petit pays. Quand le vent commencait à tourner et les retours montraient des indices pour l’éloignement de la population du parti et du gouvernement l’institut fermait ses portes - sur ordre du grand chef Erich Honnecker. J’ai pu constater à ce moment même au sein de la nomenklatura une impression d’impuissance face à la sclérose politique causée par les vieux combattants antifascistes. Il avaient encore dix ans jusqu’à la défection du peuple et l’effondrement de leur oeuvre historique.

    19.1.2024 von Heinz Niemann - Es hat sie wirklich gegeben, Meinungsforschung zwischen 1964 und Ende 1978. Das Institut für Meinungsforschung (IfM) wurde auf Initiative Ulbrichts gegründet.

    Ein Institut wie das zur Meinungsforschung war im ganzen Osten ein Unikat. Zwar war das IfM nicht völlig geheim geblieben, zumindest der Spiegel vermeldete in seiner Ausgabe vom 15. Mai 1965 seine Gründung, wobei der Verfasser sich belustigt über „Schmerzen der Wende in der ideologischen Massenarbeit“ mokierte, weil „die Volksbefrager sich an der neuen Perspektive stießen: Bislang darauf dressiert, Ulbrichts Untertanen auf Staatskurs zu scheuchen, fühlten sie sich wie Wachhunde, die plötzlich Pfötchen geben sollten.“ Denn jetzt war die Meinung der Leute nicht mehr nur auszuspähen, sie musste ihnen auch gelassen werden.

    So mahnt denn ein Merkblatt, das an die Meinungsforscher verteilt wurde, nachdrücklich: „Du musst … beachten, dass jede Beeinflussung zu unterbleiben hat, die die Antwort der Befragten in eine bestimmte Richtung lenken könnte.“

    Meinungen über „politisch-ideologische Probleme“

    Um auch bei den involvierten Funktionären alle Unklarheiten auszuräumen, folgte ein Beschluss des Politbüros vom 10. August 1965 an die Ersten Sekretäre der Bezirks- und Kreisleitungen, der hervorhob: „Das Institut hat die Aufgabe, mit den Mitteln der soziologischen Forschung für die Parteiführung möglichst exakte Informationen über die Meinung der Bevölkerung der DDR zu wichtigen politisch-ideologischen Problemen des umfassenden Aufbaus des Sozialismus in der DDR und der nationalen Politik in beiden deutschen Staaten zu liefern.“ Doch die Öffentlichkeit erfuhr nichts mehr von diesem Institut; ausgenommen die Befragten.

    Befragt – ausschließlich schriftlich in VEB mit der „Klumpen-Auswahl“ (ganze Betriebsbereiche einbeziehend) und postalisch repräsentativ ausgewählte Bevölkerungsgruppen – wurden im Laufe der Jahre rund eine halbe Million Probanden, was 268 Berichte erbrachte, als Geheime Dienstsache in limitiertem Umfang von 25 Exemplaren den Mitgliedern und Kandidaten des Politbüros übermittelt.

    Deren mit seriöser Methodik und meist fast 85-prozentiger Rücklaufquote (durch Gruppenbefragung) erfasste Quellen führten zu validen Daten, die nach Bekanntwerden 1993 in Medien fast durchweg heftig bestritten und von der etablierten Wissenschaft rasch totgeschwiegen wurden. Dies war nicht überraschend, denn für den Zeitraum von etwa 1965 bis 1976/77 ließen sie unter anderem den Schluss zu, dass es in der Bevölkerung eine über 80 Prozent liegende Zustimmung zu den Grundlinien der Partei- und Staatspolitik gegeben hat.

    Das auf den Aufbau des Sozialismus ausgerichtete SED-Regime hatte nur zwei Jahrzehnte nach dem Zusammenbruch des nazistischen Dritten Reichs und trotz meist nicht sehr friedlichen Wettstreits mit einem ökonomisch überlegenen System im reicheren Teil Deutschlands eine historisch beachtliche Leistung vollbracht. (Eine ganze Reihe von Umfragen unterschiedlicher Einrichtungen, darunter auch die des Instituts für Jugendforschung aus Leipzig, haben nach dem Fall der Mauer mit meist über 50 Prozent liegenden positiven Ergebnissen diese generelle Stimmungslage bestätigt.)

    Es war naheliegend, darauf hinzuweisen, dass ein System mit klarer Akzeptanz und mehrheitlicher Zustimmung des Volkes ein hohes Maß an historisch-politischer Legitimität erfährt, weil – um es mit Hume zu sagen: All governments rest on opinion!

    Das war natürlich ein Angriff auf das Herzstück des öffentlichen Diskurses zur Delegitimierung des SED-Regimes und wurde mit sarkastischen Hinweisen auf Millionen Flüchtlinge, auf eine völlig auszuschließende seriöse Arbeitsweise des Instituts und mit der „Klarstellung“ beantwortet, dass die unter dem Zwang des Regimes stehenden befragten Probanden es niemals gewagt hätten, offen und ehrlich zu antworten.

    Als sich bei abgewickelten, aber nicht ganz zum Schweigen gebrachten Gesellschaftswissenschaftlern Widerspruch regte, waren die Verfechter des öffentlichen Narrativs empört. Allein nach Unterschieden von Legalität und Legitimität zu fragen, könne man nur als apologetische Klimmzüge von Leuten verstehen, die ihr Versagen, ihre Mittäterschaft und ihre Schuld nicht eingestehen wollen.

    Ein verkehrtes Gesamturteil?

    Die geltende Verfassungstheorie und das Recht machen die Legitimität eines Staates allein von den Ergebnissen legaler Wahlen abhängig. Legalität wird der DDR damit erst nach den Wahlen vom März 1990 zuerkannt, womit sie für die Zeit davor ohne Probleme zum Unrechtsstaat deklariert werden kann. Die geretteten Berichte stützen zumindest bedingt ein entgegengesetztes Gesamturteil, dass das gesellschaftliche System der DDR mehrheitlich – um mit Habermas zu sprechen – alles in allem für „anerkennungswürdig“ gehalten wurde, da es perspektivisch die Realisierung seiner (sozialen und humanistischen) Ideen versprach.

    Die Validität der Zahlen in den Berichten des IfM ausführlich darzustellen, würde hier den Rahmen sprengen. Paradoxerweise ist schließlich sogar das Ende der Meinungsforschung dafür ein Beleg. Als nach dem IX. Parteitag der SED 1976 statt eines Aufschwungs die Umfragen zunehmend negative Ergebnisse lieferten, ließ Honecker beschließen, das Institut unter fadenscheinigen Begründungen aufzulösen. Gegen alle bestehenden gesetzlichen Vorschriften für den Umgang mit solchen Akten befahl er, dass alle Unterlagen der Mitarbeiter einzusammeln und restlos zu vernichten seien.

    Nur 41 seinerzeit von einzelnen leitenden Mitarbeitern im ZK-Apparat nicht zurückgegebene Berichte wurden bisher aufgefunden. In dem riesigen Konvolut der Archivalien des ehemaligen Parteiarchivs dürften noch weitere überlebt haben und stünden der Forschung – wenn gewollt – zur Verfügung. An wenigen Beispielen soll in gebotener Kürze ihr Wert demonstriert werden, der auch durch die Tatsache gestärkt wird, dass es sich um Probanden handelte, die aufgrund des verbreiteten Empfangs westdeutscher Medien nicht durch ein herrschendes Informationsmonopol einseitig manipulierbar waren.

    Im Mai/Juni 1965 wurden in acht Bezirken der DDR 2367 Fragebogen an Einwohner verschickt und von Interviewern eingesammelt. Gefragt wurde nach einigen Problemen der nationalen Politik in beiden deutschen Staaten. Der Rücklauf betrug 1185, also rund 52 Prozent. Eine Quote, von der heutige Umfragen nur träumen können.

    Auf die Frage, welche der beiden existierenden Regierungen das Recht hätte, im Namen des ganzen deutschen Volkes aufzutreten, sprachen sich 55,5 Prozent für die DDR, 2,3 Prozent für die BRD, 19,2 Prozent für beide Regierungen und 18,6 Prozent für keine von beiden aus.

    Die Frage, ob die Ansicht der Bundesrepublik richtig sei, dass die DDR kein souveräner Staat wäre, beantworteten 80,6 Prozent mit Nein und 7,1 Prozent mit Ja. Für die Entwicklungstendenz ist die Beachtung der Verteilung nach Altersgruppen wichtig. Bis 25 Jahre lag der Nein-Anteil bei 85,8 Prozent, bei den über 50-Jährigen sank er bis auf 77,8 Prozent.

    Ende Juli, Anfang August 1966 wurden zu Problemen der westdeutschen Politik in sechs Großbetrieben, 403 Kreisstädten und fünf Bezirken 3219 Fragebogen eingesetzt, von denen 2324 ausgewertet werden konnten. Die Frage, ob der Alleinvertretungsanspruch der westdeutschen Regierung gerechtfertigt sei, wurde von 92,6 Prozent verneint. Auf die Frage, welches Ziel damit verfolgt würde, meinten 80,6 Prozent, um ihren Machtbereich auf die DDR auszudehnen, nur 13,4 Prozent erwarteten die Vereinigung Deutschlands auf (westlicher) demokratischer Grundlage.

    Verbesserung sozialer Lage begünstigt Stimmungswandel

    Für den Stimmungswandel spielte die Verbesserung der sozialen Lage eine wesentliche Rolle. Eine Umfrage zu Problemen der Wirtschaft und Politik vom Februar 1967 in zehn VEB im Bezirk Halle mit 1954 ausgegebenen und 1626 auswertbaren Bögen erbrachte zur Frage nach den persönlichen wirtschaftlichen Verhältnissen mit 37,1 Prozent „sehr gut/gut“, 50,3 Prozent „teils-teils“ und 9,6 Prozent „nicht gut/schlecht“ ein Ergebnis, das bei einem Anteil von 75 Prozent Produktionsarbeitern als positiv zu bewerten war. Bei der Frage, wo es mehr soziale Sicherheit für den Arbeiter gebe, blieb der Westen mit 3,6 Prozent gegenüber 89,9 Prozent im Osten geschlagen. Fast deckungsgleiche Ergebnisse wurden im Bezirk Erfurt gemessen.

    In gewissem Sinne stellten der Verlauf und das Ergebnis des Volksentscheids über die neue Verfassung von 1968 ein besonders gewichtiges Indiz für die Legitimierung des ostdeutschen Staates dar. Bisher einmalig in der deutschen Geschichte konnte ein Volk über die Verfassung seines Staates befinden, vorbereitet durch eine ebenfalls noch nie dagewesene breite Aussprache über ihren Entwurf. Das IfM war gleich zweifach im Einsatz.

    Auf Ulbrichts Ersuchen waren im Vorfeld vier Umfragen mit 5368 Probanden gemacht worden, die ein sehr positives Abstimmungsergebnis erwarten ließen. Zwischen 50 und 60 Prozent hatten danach den Entwurf gründlich gelesen, rund 20 Prozent zumindest überflogen. Die wahrscheinliche Zustimmungsrate lag zwischen knapp 80 und 85 Prozent, was sich am Wahltag weitgehend bestätigte. Bei einer Wahlbeteiligung von 98,05 Prozent gab es 94,49 Prozent Ja-Stimmen, 409.733 Nein-Stimmen, der Rest (24.353) war ungültig. In der Hauptstadt gab es 90,96 Prozent Ja-Stimmen. Das IfM hatte in einigen Wahllokalen zum Beispiel in Dresden veranlasst, dass alle Wähler die Kabinen aufsuchen sollten, wofür allerdings kein Bericht aufgefunden wurde. Kolportiert wurde seinerzeit, dass es dort bei „Kabinenzwang“ vier bis fünf Prozent weniger Ja-Stimmen gegeben hätte. Bei Honecker mussten es dann wieder 99,9 Prozent sein.

    Als Fazit kann festgehalten werden: Die Charakterisierung der DDR als zweite Diktatur, als Unrechtsstaat von Anfang bis Ende, wird der Entwicklung und dem historischen Platz der DDR in der gesamtdeutschen Geschichte in keiner Weise gerecht.

    Sicherlich wird es auch in weiterer Zukunft noch Differenzen und wissenschaftlichen Streit um die Beurteilung verschiedenster Tatbestände und Prozesse zwischen den Fachleuten und politischen Kombattanten wie im gesellschaftlichen Diskurs geben, aber eine Trennlinie könnte sie weiterhin in zwei Lager teilen, und diese Grenze wird durch die jeweilige Antwort auf die Frage nach der historisch-politischen Legitimität der DDR als einer von zwei politisch-moralisch gerechtfertigten Alternativen nach Nazi-Faschismus und Weltkrieg markiert sein.

    #DDR #histoire #socialisme #politique #statistique #sondage

  • The Starving Empire. A History of Famine in France’s Colonies

    The Starving Empire traces the history of famine in the modern French Empire, showing that hunger is intensely local and sweepingly global, shaped by regional contexts and the transnational interplay of ideas and policies all at once. By integrating food crises in Algeria, West and Equatorial Africa, and Vietnam into a broader story of imperial and transnational care, Yan Slobodkin reveals how the French colonial state and an emerging international community took increasing responsibility for subsistence, but ultimately failed to fulfill this responsibility.

    Europeans once dismissed colonial famines as acts of god, misfortunes of nature, and the inevitable consequences of backward races living in harsh environments. But as Slobodkin recounts, drawing on archival research from four continents, the twentieth century saw transformations in nutrition, scientific racism, and international humanitarianism that profoundly altered ideas of what colonialism could accomplish. A new confidence in the ability to mitigate hunger, coupled with new norms of moral responsibility, marked a turning point in the French Empire’s relationship to colonial subjects—and to nature itself.

    Increasingly sophisticated understandings of famine as a technical problem subject to state control saddled France with untenable obligations. The Starving Empire not only illustrates how the painful history of colonial famine remains with us in our current understandings of public health, state sovereignty, and international aid, but also seeks to return food—this most basic of human needs—to its central place in the formation of modern political obligation and humanitarian ethics.

    https://www.cornellpress.cornell.edu/book/9781501772351/the-starving-empire/#bookTabs=1
    #colonialisme #histoire #histoire_coloniale #colonisation #famine #France #livre

  • Un petit air d’empire
    https://laviedesidees.fr/Dumezil-L-Empire-merovingien

    Le royaume franc qui émerge entre le VIe et le VIIIe siècle a promu la diversité politique et religieuse, avant que les Carolingiens mettent fin à ce pragmatisme. Entre Rome et Charlemagne, l’Europe a-t-elle connu un #empire ? À propos de : Bruno Dumézil, L’Empire mérovingien, Ve-VIIIe siècle, Passés composés

    #Histoire #pouvoir #monarchie

  • La Volga dans la géopolitique russe
    https://laviedesidees.fr/Pascal-Marchand-Volga

    Le plus long fleuve d’Europe est marqué par l’histoire soviétique. Des barrages à la pêche en passant par l’industrialisation, il est au cœur des bouleversements continentaux qui se produisent sous nos yeux. À propos de : Pascal Marchand, Volga, l’héritage de la modernité, Éditions du CNRS

    #Histoire #Russie #environnement #aménagement_du_territoire #géographie #industrialisation
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202401_volga.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240124_volga.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20240124_volga.docx

  • Panorama des #mesures régissant l’entrée et le séjour des étrangers en #France (1972-2023)

    A l’heure de l’adoption de la révoltante « #loi_Darmanin », le #collectif_Ruptures publie une #recension de toutes les #lois régissant l’entrée et le séjour des étrangers en France. Loi après loi, #décret après décret, dispositif après #dispositif, année après année, ce panorama de la « #gestion_des_flux_migratoires » sur la période 1972-2023 vient compléter la brochure Lois répressives et autres bagatelles (France, 1974-2022) que nous avons édité au printemps.

    Ce tome 2 de Bagatelles est intégralement téléchargeable ici, et son introduction est lisible ci-dessous :
    https://collectifruptures.files.wordpress.com/2024/01/brochure_bagatelles2.pdf?force_download=true

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    Introduction

    Le 27 décembre 2023, Didier Leschi, directeur général de l’Office français de l’immigration et de l’intégration (OFII) s’exprime dans Le monde sur la dernière loi votée huit jours plus tôt.
    Selon lui, « les mesures adoptées en France demeurent plus ouvertes que dans les principaux pays de l’Union européenne », et « la prise en charge de la santé des sans-papiers bien meilleure comparée à l’Allemagne, l’Autriche, la Suède, le Danemark, aux Pays-Bas ou à l’Espagne ».
    On veut bien le croire. Et le remercier de nous confirmer que la montée de la gestion comptable de l’humain et de son traitement comme un simple rouage qu’on peut utiliser ou jeter selon les besoins économiques n’est pas propre à la France. En effet tous les pays cités par le directeur de l’OFII sont gérés depuis des décennies par de « bons pères de familles », tout à fait démocratiques, libéraux et propres sur eux. Remercions donc Didier Leschi pour cet éclaircissement.
    Mais pour mieux comprendre quelles sont ces « mesures », nous proposons ici de prendre un peu de recul historique, à l’échelle des cinquante dernières années.

    C’est pourquoi cette brochure recense l’ensemble des lois migratoires régissant l’entrée et le séjour des étrangers en France mises en place de 1972 à 2023.
    Elle constitue le deuxième volet d’un travail destiné à comprendre la montée d’une société de #surveillance_généralisée, mais sans les oripeaux du #fascisme historique, de façon libérale-autoritaire (1). La première partie, publiée en mai 2023, était consacrée aux lois, #arrêtés et décrets régissants la créations de fichiers informatiques et le travail de la police. Une troisième partie suivra, qui sera une recension de l’inflation technologique qui s’articule avec l’inflation juridique.
    Si le sort des Français et des étrangers est intimement lié, ils subissent un traitement différencié de la part de l’Etat. Nous avons décidé de consacrer une partie spécifique au traitement des étrangers en France pour une raison très pragmatique : la quantité très importante de lois visant spécifiquement l’entrée et le séjour des étrangers en France (d’où l’épaisseur de cette brochure : 128 pages !).

    Pourquoi avons-nous mené un tel travail ? Rappelez-vous l’été 2021 et la mise en place du pass sanitaire. Cette mesure, qui a motivé la création de notre collectif, nous est apparue comme la « goutte de trop ». Il nous a alors paru logique de nous livrer au travail de recension de toutes les gouttes précédentes, afin d’offrir un panorama de l’évolution de la législation et de mettre en perspective historique les mesures sanitaires de 2020-2021. En effet, toute personne qui s’intéresse à la surveillance, au contrôle, à la répression et la limitation de circulation des individus ne peut que constater qu’il est difficile – quasi-impossible – de suivre l’inflation de l’arsenal juridique qui régit les pratiques policières, les fichiers de collecte de données et les lois sur le séjour des étrangers. Dans nos sociétés prétendues « libérales » et « démocratiques », en matière de restriction de libertés et de répression, une loi s’empile sur la précédente, ce qui est annoncé comme un « simple projet » devient souvent rapidement une proposition de loi, puis une réalité juridique… et en route pour la suivante ! Cette brochure se veut donc une mise en perspective historique pour mieux comprendre les lois du présent.
    Précisons que nous ne proposons pas ici d’analyse, ou très peu, mais une simple #chronologie qui permet à chacun et chacune d’avoir accès à ces informations dispersées (2).

    Ruptures
    décembre 2023

    (1) Lire Grégoire Chamayou, La société ingouvernable, La fabrique, 2018.
    (2) Nos analyses sont quant à elles développées dans le journal La nouvelle vague, que nous publions régulièrement depuis décembre 2021. Voir en particulier « Réflexions sur l’autoritarisme et l’extrême-droite » (dans La nouvelle vague n°4).

    https://collectifruptures.wordpress.com/2024/01/01/loi-darmanin-et-avant
    #histoire #lois #dispositions #migrations #asile #réfugiés #séjour #frontières #ressources_pédagogiques #répression #liste

    via @karine4

  • Il y a 40 ans : En Allemagne l’inauguration des stations de radio et télévision privées et la création de la radio-télévision citoyenne.
    https://www.daybyday.press/article8550.html

    1.1.2024 - Privat-Sender XV – DaybyDay ISSN 1860-2967
    von Dr. Wolf Siegert

    Dankenswerterweise werden in der bewährten Moderation von Brigitte Baetz am 2. Januar 2024 im Deutschlandfunk-Programm „@mediasres“ diese beiden Beiträge über die Startversuche am 1. und 2. Januar 1984 in Ludwigshafen ausgespielt, die der Autor dieser Zeilen miterlebt und als AKK-Redakteur des „Bürgerservice“-Kanals bis zum Ende des Pilotprojektes mitgestaltet hat [2], auch nachdem er den Einladungen, insbesondere von Dr. Helmut Thoma in Luxembourg - „hier haben die Bäume immer nur an einer Seite grünen Moosbelag“ - nicht nachgekommen und nicht mit ihm nach Köln umgezogen ist.

    Es folgt die Dokumentation der Beiträge:

    – Einen Tag älter und meist der ewige Zweite: 40 Jahre Sat.1 von Torsten Zarges

    Audio Player

    Einen Tag älter und meist der ewige Zweite: 40 Jahre Sat.1

    – Spaß, Sport und Spitzenquoten: RTL wird 40 Jahre alt von Kevin Barth

    Audio Player

    Spaß, Sport und Spitzenquoten: RTL wird 40 Jahre alt

    In der Presseaussendung des Verbandes Privater Medien, VAUNET, vom 2. Jänner 2024:

    40 Jahre Privater Rundfunk von Audio bis Video – „Das Jahr 2024 wird für unsere Branche das Jahr der politischen Weichenstellungen für das nächste Jahrzehnt“

    heisst es u.a.:

    Die privaten Audio- und audiovisuellen Medien feiern 2024 ihr 40-jähriges Bestehen in Deutschland. Das Jahr wird für die Branche das Jahr der politischen Weichenstellungen für das nächste Jahrzehnt. Vor 40 Jahren war die Geburtsstunde des privaten Rundfunks und damit der heutigen privaten Audio- und audiovisuellen Medien in Deutschland. Am 1. Januar 1984 ging mit SAT.1 (damals PKS) erstmals ein privater TV-Sender und mit Radio Weinstraße ein privates Radioprogramm auf Sendung, einen Tag später folgte RTL plus. Ab1984 war nichts mehr so wie es war – das private Fernsehen und das Privatradio brachen mit den bis dahin ausschließlich öffentlich-rechtlich geprägten Hör- und Sehgewohnheiten – das bundesdeutsche Rundfunkangebot wurde vielfältiger, bunter, kreativer und innovativer. Heute haben sich die privaten Audio- audiovisuellen Medien fest etabliert, mehrere Generationen von Mediennutzern sind mit ihren Protagonisten, Formaten und Inhalten aufgewachsen. Eine einmalige private Anbieter- und Angebotsvielfalt erstreckt sich heute von Audio bis Video und von Podcast bis zum Streaming. Die Kreativwirtschaft ist, mit den privaten Medienangeboten als wichtiger Teilbranche, einer der bedeutendsten Wirtschaftszweige in Deutschland geworden. Mit hoher Demokratie- und Gesellschaftsrelevanz sind die privaten Audio- und audiovisuellen Medien heute ein Garant für journalistische Qualitätsangebote und bilden ein verlässliches Gegengewicht zu Algorithmen und Desinformation. Claus Grewenig, Vorstandsvorsitzender des VAUNET und Chief Corporate Affairs Officer RTL Deutschland: „Wir als Branche sind stolz auf das Erreichte, insofern werden wir 2024 feiern und das Thema das ganze Jahr über mit verschiedenen Events und Veröffentlichungen begleiten. Mit ihnen werden wir nicht nur zurück, sondern vor allem auch nach vorn blicken. Das Jahr 2024 wird für unsere Branche das Jahr der politischen Weichenstellungen für das nächste Jahrzehnt. Das gilt für die Ausgestaltung unserer Refinanzierungsmöglichkeiten durch Verzicht auf Werbeverbote ebenso wie für die Zukunft des dualen Mediensystems und für das Wettbewerbsverhältnis zu den ‚Big Tech‘ bei der Umsetzung der neuen europäischen Plattformregulierung. 2024 wird aufgegleist, wie die Branche zu ihrem 50. Geburtstag dastehen wird.“ Die Jubiläumsaktivitäten werden 2024 einheitlich unter einem Logo mit dem Claim „40 YEARS ON“ als verbindendes Element stehen

    Als „Bonus“ bei Jorg Wagner im Podcast zu hören:

    (52:35) BONUS: Vor 40 Jahren: Start des Privatfernsehens - PKS/SAT.1 - Jürgen Doetz, 01.01.1984/29.08.1999 | (58:31) BONUS: RTLplus - Helmut Thoma, 10.06.1990

    Anmerkungen

    [1]

    Uli Kamp gehörte zu den Wegbereitern Offener Kanäle in Deutschland. Er war Gründungsmitglied des Bundesverbands Offene Kanäle. Von 1988 bis 1995 war er Vorsitzender des BOK.

    Uli Kamp eröffnete am 1. Januar 1984 den ersten deutschen Offenen Kanal in Ludwigshafen. Bei seinen Tätigkeiten für die Landeszentrale für private Rundfunkveranstalter Rheinland-Pfalz und für das Bildungszentrum BürgerMedien setzte er sich mit großem Engagement für die Belange Offener Kanäle ein.

    Uli Kamps Überzeugungskraft für die Idee der Offenen Kanäle prägt die weitere Entwicklung der Bürgermedien.

    Uli Kamp ist am 14. Juni 2011 verstorben.

    [2] > Les chaînes communautaires - qu’est ce que ça veut dire?
    Journées Internationales de l’IDATE, Montpellier, 15-17. November 1989

    > Kabelmarketing in der BRD.
    Die Zukunft der Kommunikationsdienste - Kommunikationsdienste der Zukunft.
    IDATE, Montpellier, 18.11.1986

    > „Bürgerservice“. La Pluralité à la télévision.
    Die Zukunft der Kommunikationsdienste - Kommunikationsdienste der Zukunft.
    IDATE, Montpellier, Nov. 1986

    > Regional- und Lokalfernsehen in der Bundesrepublik Deutschland.
    Bestandsaufnahme und Perspektiven.
    National Federation of Local Cable Programmers, San Francisco, 10.07.1986

    > Bürgerkanäle in der BRD.
    Lokalbezug und Neue Medien = Neue Utopien?
    Ludwigshafen 1985

    [3]

    Uli Kamp gehörte zu den Wegbereitern Offener Kanäle in Deutschland. Er war Gründungsmitglied des Bundesverbands Offene Kanäle. Von 1988 bis 1995 war er Vorsitzender des BOK.

    Uli Kamp eröffnete am 1. Januar 1984 den ersten deutschen Offenen Kanal in Ludwigshafen. Bei seinen Tätigkeiten für die Landeszentrale für private Rundfunkveranstalter Rheinland-Pfalz und für das Bildungszentrum BürgerMedien setzte er sich mit großem Engagement für die Belange Offener Kanäle ein.

    Uli Kamps Überzeugungskraft für die Idee der Offenen Kanäle prägt die weitere Entwicklung der Bürgermedien.

    Uli Kamp ist am 14. Juni 2011 verstorben.

    https://www.daybyday.press/IMG/mp3/bs_seite_a.mp3


    https://www.daybyday.press/IMG/mp3/bs_seite_b.mp3


    #histoire #Allemagne #radio #télévision #privatisation #audiovisuel #radios_libres

  • L’empreinte étatique de la mémoire
    https://laviedesidees.fr/Gensburger-Qui-pose-les-questions-memorielles

    Sarah Gensburger bat en brèche l’idée d’un État dépassé par la fragmentation et la multiplication des demandes mémorielles. L’État est le principal créateur de nos cadres mémoriels, les utilisant même comme un puissant moyen de réaffirmation de sa légitimité. À propos de : Sarah Gensburger, Qui pose les questions mémorielles ?, CNRS Éditions

    #Histoire #mémoire
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20240115_gensburger.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20240115_gensburger.docx

    • Qui pose les questions mémorielles

      Depuis plusieurs décennies, le langage de la «  mémoire  » est devenu dominant pour dire les rapports sociaux au passé. «  Demandes sociales de mémoire  » et «  concurrence des mémoires  » se seraient substituées au grand récit national, plaçant les pouvoirs publics en position d’arbitre entre des aspirations éclatées et rivales.
      C’est cette vision convenue, source de tant d’articles, de rapports ou d’essais, que cette vaste enquête entend mettre à l’épreuve des faits. Qui pose les questions mémorielles ?
      Quels sont les acteurs et les actrices qui parlent de «  mémoire  » au sein de l’État ou en relation avec lui ? Depuis quand, à propos de quoi et de quelles manières ? Avec quelles réalisations concrètes et quels résultats ?
      Multipliant les points d’observation, ce travail retrace l’émergence de la mémoire comme secteur d’action publique, ouvre la «  boîte noire  » de l’État, interroge la constitution et le développement des associations mémorielles, étudie les pratiques mises en œuvre à différents niveaux et questionne leurs effets attendus – ou inattendus. Autant de facettes d’une véritable sociologie de la mémoire qui prend le contrepied de nombre d’évidences partagées.

      https://www.cnrseditions.fr/catalogue/histoire/qui-pose-les-questions-memorielles
      #Etat #mémoire #livre #Sarah_Gensburger

  • DDR-Geschichte : Abenteuer mit der Freundschaftsbrigade in Afrika
    https://www.berliner-zeitung.de/politik-gesellschaft/ddr-geschichte-abenteuer-mit-der-freundschaftsbrigade-in-afrika-li.

    L’état socialiste allemand poursuivait une politique d’aide au développement solidaire. Des milliers de jeunes diplomés y participaient et construisaient des logements et d’autres infrastructures. A la fin d’un projet les partenaires locaux en prenaient la gestion autonome. L’auteure raconte son expérience personnelle .


    Fast 13.000 Lastwagen W50 lieferte die DDR nach Angola, manche rollen noch heute. Hier zwei Exemplare im Jahr 2020 in der Stadt Calulu.

    14.1.2024 von - Maritta Adam-Tkalec - Ein Weg in die Welt führte für etliche Tausend junge Leute nach Asien, Afrika und Lateinamerika – für viele Monate zur Entwicklungshilfe. Was für eine Erfahrung!

    Die Freie Deutsche Jugend musste ran, sobald die DDR Außerordentliches anging – ob der Bau einer Erdgastrasse in der Sowjetunion, des Zentralflughafens Berlin-Schönefeld, des Kernkraftwerks Lubmin oder der Umbau der alten Berliner Mitte zur repräsentativen DDR-Hauptstadt.

    Zentrale Jugendobjekte profitierten von der Allgegenwart der FDJ, die über straffe Strukturen für solche klar definierte und zeitlich begrenzte Projekte verfügte.

    Solche Großvorhaben setzten natürlich auch auf die Begeisterungsfähigkeit junger Leute, in der Anfangszeit der DDR mit Riesenerfolg. Dem Aufruf zur Aktion „Max braucht Wasser“ 1949 folgten 2400 Jugendliche und bauten eine Wasserleitung von der Saale zum Stahlwerk Maxhütte in Unterwellenborn. Die Schüler und Studenten schliefen in Güterwagen mit Kanonenöfen und legten die fünf Kilometer lange Leitung binnen 90 Tagen.

    Im Geiste dieses legendären Vorbilds zogen 1964, vor 60 Jahren, die ersten FDJ-Freundschaftsbrigaden in junge Nationalstaaten. Sie sollten Dörfer aufbauen, aber auch von der Solidarität der DDR mit den ehemals kolonial unterdrückten Völkern künden – als Botschafter im Blauhemd. Entsandt wurden keineswegs allein von Idealismus getriebene Laien, sondern qualifizierte und nach persönlicher Eignung ausgewählte Leute – SED-Mitgliedschaft erwünscht, aber es ging auch ohne.
    Freundschaftsbrigaden aus der DDR in 26 Staaten

    Die ersten reisten als Agrarberater ins 1960 unabhängig gewordene Mali, kurz darauf begann eine Brigade in Algerien mit dem Wiederaufbau eines im Unabhängigkeitskampf gegen Frankreich zerstörten Ortes. 1966 ging eine Brigade an den Aufbau eines Musterdorfes in Sansibar, samt einer Berufsschule für Schlosser, Klempner sowie Tischler und einer Moschee.

    „Über ein Vierteljahrhundert lang arbeiteten wir in 26 Staaten an mehr als 40 Standorten und halfen mit, dort aus der Jugend Tausende eigene Fachleute für die Wirtschaft auszubilden“, schreibt eine Gruppe ehemaliger Brigadisten zu Beginn des Jahres 2024 zum 60. Jahrestag an einstige Mitaktivisten.


    Straße mit DDR-Plattenbauten in Sansibar – Ergebnis der Arbeit einer FDJ-Freundschaftsbrigade imago

    Diese Einsätze in Asien, Afrika und Lateinamerika sind heute wenig bekannt. Die nach der Wende verfassten, dürftigen Studien fallen hoffnungslos einseitig aus. Zumeist fußen sie auf bürokratischen Arbeitsberichten oder auf den in der Regel als ideologischer Kulissenzauber produzierten „Brigadetagebüchern“.

    Die ehemals Beteiligten erinnern sich an Schönes und Schwieriges: „Im engen freundschaftlichen Kontakt – oft weit entfernt von den Zentren der Einsatzländer und unter komplizierten Bedingungen mit einfachen Mitteln – gaben wir mit großem persönlichem Einsatz unsere beruflichen Erfahrungen und Fähigkeiten aus dem Bauwesen, dem Handwerk, dem Gesundheitswesen und der Landwirtschaft an unsere jungen, wissbegierigen Freunde vor Ort weiter.“ Einsatzbereitschaft auch über die Aufgabe hinaus und Bescheidenheit verschafften den Brigaden hohes Ansehen – zumindest hört man das noch heute aus den Gastländern.

    In Angola arbeiteten mehr als 20 Jahre lang Hunderte Kfz-Schlosser, -Elektriker, -Klempner, Fahrschullehrer, auch einige Ärzte und Krankenschwestern. Die Autorin dieses Textes war als Dolmetscherin von Juli 1978 bis März 1979 dabei, davon fünf Monate in der südlichen Basis Lobito, eindrucksvoll gelegen zwischen Gebirge, Wüste und Atlantik. Das größte denkbare Abenteuer ihrer bis dahin 22 DDR-Lebensjahre.

    Abenteuerlust, Neugier auf die ganz andere Welt da draußen und die Aussicht, dauerhaft Reisekader zu werden – das nennt auch Roland Scholz, von 1978 bis 1988 (mit Unterbrechung) Leiter der Zentralen Einsatzleitung der Brigaden in Angola, als Hauptmotive für die Entscheidung, sich für viele Monate, ohne Familie in unkomfortable Lebensumstände zu begeben, in Mehrbettzimmer, große Hitze, meist ohne Klimaanlage, mit instabiler Wasser- und Stromversorgung – und Myriaden von Malariamücken.


    Auch nach dem Ende der DDR arbeitete das Krankenhaus Carlos Marx in Managua weiter. Es war 1985 als eines der größten Solidaritätsprojekte der DDR gegründet worden. 2008 reiste Margot Honecker aus ihrem Exil in Chile zum Besuch an.Esteban Felix/AP

    Angola wuchs zu einem der größten Einsätze von Freundschaftsbrigaden. Doch die Zuständigkeit lag bis 1986 gar nicht beim Zentralrat der FDJ, sondern in den Händen von Fachministerien (Verkehr und Maschinenbau). Auch rührte der Einsatz nicht allein aus dem Motiv, Angola nach dem Ende der portugiesischen Kolonialmacht 1975 zu helfen.

    Die DDR hatte handfeste Interessen: politische, weil sich die neue Führung Angolas für einen sozialistischen Weg offen zeigte, und wirtschaftliche. Die Kaffeepreise auf dem Weltmarkt waren 1977 extrem gestiegen, die devisenschwache DDR litt und das Volk murrte, weil es nicht genug „guten Bohnenkaffee“ gab. Angola verfügte über erstklassige Kaffeeanbaugebiete. Statt „Max braucht Wasser“ galt nun „Heinz und Erika brauchen Kaffee“.

    Als der Kaffee in der DDR plötzlich eine teure Mangelware wurde

    Reiseweltmeister DDR: Von wegen Urlaub im Zwangskollektiv

    1977 fädelte Werner Lamberz, Mitglied des SED-Politbüros, den Deal Kaffee gegen Lastwagen aus Ludwigsfelde ein, was einer Direktumwandlung von DDR-Mark in Dollar gleichkam. Allradgetriebene W50, geeignet für den Einsatz in gebirgigen Kaffeeplantagen, hatte man auf Lager – Restbestände von Militärlieferungen, ursprünglich für Verbündete in der arabischen Welt produziert, daher die saharagelbe Lackierung. Seinerzeit munkelte man, sie seien für den Einsatz im Jom-Kippur-Krieg 1973 gedacht gewesen. Das hieße: im Aggressionskrieg gegen Israel.

    Den Lkw-Service in Angola sollten die Freundschaftsbrigaden etablieren und obendrein Kaffeeschälmaschinen reparieren – alles schnell, improvisierend, kostengünstig. Wer als Brigadist nach Angola wollte, sollte neben der Fachqualifikation auch Grundwehrdienst geleistet haben, tropentauglich, verheiratet und Parteimitglied sein. In meiner Brigade erfüllten die wenigsten die letzten beiden Punkte. Auch ich nicht – ledig, parteilos.

    Westgeld für zu Hause

    Das Gehalt (plus Tropenzuschlag) wurde zu Hause gezahlt, Unterkunft und Verpflegung hatte laut Vertrag der angolanische Staat zu stellen, dazu ein Taschengeld in der Landeswährung Kwanza im Gegenwert von 90 US-Dollar pro Monat. Wer das nicht verbrauchte, konnte es als Devisengutschein nach Hause transferieren. Das machten alle. Für die Privatkasse betrieb jeder je nach Talent einen (DDR-offiziell streng verbotenen) Tauschhandel. Billige Ruhla-Armbanduhren waren der Renner.

    Zum Vorteil für alle geriet die in der „ersten Heimwerkerdiktatur auf deutschem Boden“ (so ein namhafter Historiker) antrainierte Fähigkeit zum Improvisieren. Also: mit wenig oder nur halb passendem Material kreativ umgehen und das fehlende zu „organisieren“. Für Schlosser einer Autowerkstatt in Angola waren Schrottplätze und Unfallstellen solche Quellen. Dort lagen Ersatzteile – leider auch in kurz nach der Lieferung verunfallten W50.

    Bildstrecke


    _Völkerfreundschaft live: Der kubanische Koch (Mitte) aus der Nachbarschaft hat gefüllte Tintenfische serviert. Dolmetscherin Maritta hats geschmeckt. Maritta Tkalec


    Brigadist vor FDJ-Fahne im Gemeinschaftsraum der Basis Lobito. Maritta Tkalec


    Unterkunft der FDJ-Brigade Lobito, vom Atlantikstrand aus gesehen, ehemals Wohnungen portugiesischer Postbeamter. Maritta Tkalec


    Weihnachten 1978/79 am Atlantikstrand, eine eher traurige Versammlung Maritta Tkalec


    Der Schriftsteller Jürgen Leskien, der die Arbeit der Brigade einige Monate lang begleitete, schenkt Hochprozentiges aus. Maritta Tkalec

    Ansonsten floss viel Energie in den Alltag: Sauberes Wasser herbeischaffen, Moskitonetze und Stromgenerator erzwingen, Bananenkisten durch ein paar Möbelstücke ersetzen, Kontakt zur Brauerei pflegen, denn Bier hebt die Laune in jedem Schützengraben und diente in Angola als Tauschwährung. Der Bauer des Ananasfeldes mit köstlichen Riesenfrüchten nahm gerne Bier, während der deutsche Farmer, seit Jahrzehnten ansässig im Hochland von Gabela, sich über ein Neues Deutschland freute.

    Vom Mut des jeweiligen Basisleiters hing ab, wie viel Abenteuer möglich war: Ausflüge ins Umland, in atemberaubende Landschaften, in abgelegene Dörfer, mit dem kubanischen Krabbenfischer auf den Atlantik, zur nächtlichen Festa mit Trommeln unter Palmen, der Besuch in der Zaubermittel-Apotheke eines Heilers. Wer zu Hause von solchen Erlebnissen berichten konnte, war der beneidete Star der Familienfeier.

    Für die Partei- und Jugendarbeit gab es in Luanda zwei Verantwortliche, aber Lobito lag Hunderte Kilometer weit weg. Als sie uns besuchten, hing natürlich im „Wohnzimmer“ die gebügelte FDJ-Fahne. Das Verbot, über die Arbeitskontakte hinaus keine Beziehungen in die Bevölkerung hinein zu pflegen, unterhöhlte die propagierte Grundidee von der Freundschaft der Völker, ließ sich aber umgehen.

    Roland Scholz erinnert sich an die politische Stimmung der Brigadisten: „Der Solidaritätsgedanke war nicht motivierend. Und von FDJ war da anfangs noch gar nichts.“ Dennoch: Die Bereitschaft, den angolanischen Nachbarn zu helfen, den Werkstattkollegen etwas beizubringen war groß – Ehrensache ebenso wie der reparierte Motor, auch wenn es mal über den Feierabend hinausging.


    W50 als Busersatz im kubanischen Baracoa. Auch in Kuba arbeitete eine Freundschaftsbrigade. Sarang/CC0 1.0 Universal

    Immer wieder rückten wir camaradas alemães aus zu Sonderaktionen am Wochenende oder wenn die örtliche Verwaltung ein besonders großes Problem hatte. Zu offiziellen Anlässen wie Kundgebungen an Feiertagen oder Kulturereignissen erschienen wir im Blauhemd. Man war froh über jede Abwechslung.

    Heimweh und Seelenkasper

    Und nicht jeder blieb in den langen Monaten fern von zu Hause – ohne Telefon und nur alle vier Wochen Postlieferung – psychisch stabil. Da konnten die Palmen noch so rauschen und der Atlantik in der Sonne blitzen: Zu Weihnachten kam zum Heimweh der Seelenkasper, nach reichlich Bier flossen auch die vom Vater oder Opa gehörten Landsersprüche. Ansonsten erlebten wir eine Region im Krieg. Die Rebellenorganisation der Unità überfiel Transporte, zündete Bomben vor Krankenhaus und Volksladen. Es galt nächtliche Ausgangssperre. Kubanische Militärs wohnten in der Nachbarschaft.

    In den DDR-Zeitungen, die über die Freundschaftsbrigaden berichteten, fehlte das Wort „Solidarität“ niemals – dennoch blieben die Texte überwiegend in offiziösem und emotional trockenem Tonfall. Unkontrollierte Begeisterung für Abenteuer in Afghanistan, Somalia, Guinea-Conakry oder Kuba zu wecken, lag offenbar nicht in der Absicht. Dafür bekamen wir den vermessenen Anspruch zu hören, man stehe als Brigadista gemeinsam mit den natürlichen Verbündeten in den Entwicklungsländern an „vorderster Front im Kampf für den weltweiten Übergang vom Kapitalismus zum Sozialismus/Kommunismus“.

    Gleichwohl: Die Männer der DDR-Führung meinten es mit der Botschaft der Brigaden – Internationalismus und Solidarität – ernst. Bei Begegnungen mit Vertretern junger Nationalstaaten gingen ihnen die Herzen auf. Auch die Taschen. Als Dolmetscherin habe ich das erlebt: Wenn DDR-Offizielle Afrika besuchten, brach sich sentimentale Erinnerung an die Träume der eigenen Jugend Bahn. Wirtschaftlich ertragreich arbeiteten die Freundschaftsbrigaden nicht. Doch sie brachten Renommee – wichtig in den Jahren, als die DDR um staatliche Anerkennung kämpfte, dann bei Abstimmungen in der Uno und schließlich bei der Suche nach Wirtschaftspartnern.

    Die DDR kannte sich aus im Metier Berufsausbildung; und jeder hielt das für nützlich und sinnvoll. Die Partner wussten, dass die DDR-Brigaden mit Plan und Auftrag auch in entlegenen Gegenden arbeiteten, koordiniert und nicht nach dem Gießkannenprinzip.

    Der Berliner Afrikaspezialist Professor Ulrich van der Heyden hat in seiner Studie „Freundschaftsbrigaden, Peace Corps des Ostens“ die Strategie der Berufsausbildung beschrieben: die Besten aus den Berufsausbildungszentren zur Lehrmeisterausbildung in die DDR schicken, nach deren Rückkehr Übernahme der Projekte in lokale Hände.

    Das Ziel bestand von vornherein darin, sich wieder aus dem Projekt herausziehen, statt dauerhafte Abhängigkeiten zu erzeugen. Vorbildlich im Sinne der Hilfe zur Selbsthilfe. In den wenigen Projekten, die nach der Wiedervereinigung vom DED (Deutscher Entwicklungsdienst) übernommen wurden, verloren die Ortskräfte die Verantwortung. Dies erfuhr Ulrich van der Heyden von einer DED-Mitarbeiterin. Die DDR-Erfahrung interessierte nicht mehr.

    #histoire #DDR #RDA #Angola #FDJ #tier_monde #Afrique #solidarité_internationale

  • Pourquoi la vie sexuelle des femmes est-elle meilleure sous le socialisme ?
    https://labrique.net/index.php/thematiques/feminismes/1291-pourquoi-la-vie-sexuelle-des-femmes-est-elle-meilleure-sous-le-social

    Derrière ce titre un poil racoleur se cache une étude très sérieuse de l’universitaire Kristen Ghodsee sur le féminisme des anciens pays de l’Est. Le raisonnement qui fait passer de l’économie à l’orgasme est simple : la volonté des pays du bloc de l’Est d’enrôler les femmes dans la force de travail, couplée aux luttes des féministes communistes, ont permis la création d’une série de dispositifs favorisant l’indépendance économique des femmes. Celle-ci rend possible une plus grande égalité dans les couples (hétérosexuels), ce qui a des répercussions directes sur l’intimité : être moins préoccupée par sa survie quotidienne, moins accaparée par le travail domestique, moins dépendante de son mari, rend plus disponible pour la (...)

    #En_vedette #Féminismes

    • Why Women Have Better Sex Under Socialism And Other. Arguments for Economic Independence

      A spirited, deeply researched exploration of why capitalism is bad for women and how, when done right, socialism leads to economic independence, better labor conditions, better work-life balance and, yes, even better sex.

      In a witty, irreverent op-ed piece that went viral, Kristen Ghodsee argued that women had better sex under socialism. The response was tremendous — clearly she articulated something many women had sensed for years: the problem is with capitalism, not with us.

      Ghodsee, an acclaimed ethnographer and professor of Russian and East European Studies, spent years researching what happened to women in countries that transitioned from state socialism to capitalism. She argues here that unregulated capitalism disproportionately harms women, and that we should learn from the past. By rejecting the bad and salvaging the good, we can adapt some socialist ideas to the 21st century and improve our lives.

      She tackles all aspects of a woman’s life – work, parenting, sex and relationships, citizenship, and leadership. In a chapter called “Women: Like Men, But Cheaper,” she talks about women in the workplace, discussing everything from the wage gap to harassment and discrimination. In “What To Expect When You’re Expecting Exploitation,” she addresses motherhood and how “having it all” is impossible under capitalism.

      Women are standing up for themselves like never before, from the increase in the number of women running for office to the women’s march to the long-overdue public outcry against sexual harassment. Interest in socialism is also on the rise — whether it’s the popularity of Bernie Sanders or the skyrocketing membership numbers of the Democratic Socialists of America. It’s become increasingly clear to women that capitalism isn’t working for us, and Ghodsee is the informed, lively guide who can show us the way forward.

      https://www.hachettebookgroup.com/titles/kristen-r-ghodsee/why-women-have-better-sex-under-socialism/9781568588896

      #livre #indépendance_économique #capitalisme

  • Der größte DDR-Hit und die wahre Geschichte dahinter: „Über sieben Brücken musst du gehn“
    https://www.berliner-zeitung.de/open-source/peter-maffay-herbert-dreilich-ueber-sieben-bruecken-karat-sozialism


    Peter Maffay und Herbert Dreilich, Sänger von Karat, singen gemeinsam „Über sieben Brücken musst du gehn“.

    12.1.2024 von Werner Fritz Winkler - Ein Schriftsteller auf einer Großbaustelle, eine Liebe zwischen Polen und der DDR, ein Film-Song, der nicht erscheinen sollte: Das ist die Geschichte der Karat-Ballade.

    Für nicht wenige Ostdeutsche ist das Lied „Über sieben Brücken musst du gehn“ eine Art Hymne. Quasi ein Symbol ostdeutscher Lebensleistung, die eng mit ihrem Leben, ihren Gefühlen und ihrer Sozialisierung verbunden ist. Dagegen sind noch immer nicht wenige „Altbundesbürger“ überrascht, wenn sie erfahren, dass der Hit nicht von Peter Maffay getextet und komponiert wurde.

    Die beiden Hauptakteure, der Literat Helmut Richter sowie der Musiker und Komponist Ulrich „Ed“ Swillms, denen wir diese Rock-Ballade verdanken, weilen nicht mehr unter uns. Sie starben am 3. November 2019 bzw. am 27. Juni 2023. Aber bis heute lassen sich die einzigartige Geschichte und die emotionalen Erinnerungen an dieses Lied, das bisher in 30 Sprachen übersetzt und von mehr als 100 Interpreten gesungen wurde, fortschreiben. Die Geschichte des Liedes ist zugleich auch ein Zeugnis der Widersprüche und Konflikte, mit denen Künstler der DDR umgehen mussten.

    Wahlen im Osten: Es ist Unsinn, den Erfolg der AfD mit der DDR zu erklären

    DDR-Maler Jürgen Wittdorf: Warum 2024 das große Jahr des Ost-Künstlers wird

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    Im Frühjahr 1967 erhält der seit drei Jahren freiberuflich tätige Journalist und Schriftsteller Helmut Richter eine Einladung in das Leipziger Ernst-Thälmann-Haus, dem Sitz des FDGB. Dort wird ihm vom Kultursekretär ein Vertrag für ein Auftragswerk vorgelegt. Die Zielstellung lautet: Literarische Begleitung der Arbeit auf der Großbaustelle des Braunkohlenkraftwerks Thierbach. Dessen Bau ist ein Gemeinschaftsprojekt des Rates für Gegenseitige Wirtschaftshilfe (RGW), dem Gegenstück des Ostblockes zur EWG, der heutigen Europäischen Union. Die Kraftwerksbauer nehmen den „Schreiberling“ für mehre Monate bei sich auf.

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    Helmut Richter: Er schrieb „Über sieben Brücken musst du gehn“

    Auf dieser Vertrauensbasis entstehen mehrere Reportagen. Sie handeln von der Zusammenarbeit, dem Zusammenleben und den Problemen der polnischen, sowjetischen, ungarischen und deutschen Arbeiter und Ingenieure auf der Baustelle und darüber hinaus. Aber auch von Missständen berichtet er. Und er schreibt von der jungen Liebe zwischen dem polnischen Brigadier Roman und einer Deutschen. Sie wollen heiraten, doch die Hochzeit platzt. Diese Episode beschäftigt Richter auch Jahre später noch.

    Das Braunkohlenkraftwerk Thierbach während des Baus.

    Sofortige Beachtung finden seine Schilderungen des Alltags und vom Miteinander der unterschiedlichen Nationalitäten auf der Großbaustelle. Im Rundfunk werden Lesungen gesendet. Der mit 15.000 DDR-Mark dotierte FDGB-Literaturpreis ist im Gespräch. 1969 erscheinen die Reportagen unter dem Titel „Schnee auf dem Schornstein“ in einem kleinen Taschenbuch im Mitteldeutschen-Verlag. Geplant als „Schwerpunkttitel“ zu Ehren des 20. Jahrestages der DDR. Auflagenhöhe: 5000 Stück. Das gelb-schwarze Büchlein ist überall im Angebot, auch im Buchladen im ZK der SED.

    Von dort ziehen Anfang September 1969 plötzlich dunkle Wolken auf. Der Grund: Mitarbeiter der Abteilung Maschinenbau und Metallurgie finden das Buch nicht linientreu. Nach ihrer Überzeugung wird über „Ereignisse vom Aufbau des KW Thierbach ohne Wahrung des Vertraulichkeitsgrades ausführlich berichtet“ und Probleme der Zusammenarbeit der RGW-Länder nicht „wahrheitsgemäß“ geschildert. Des Weiteren sind sie der Auffassung, die „Klassenwachsamkeit“ wird nicht eingehalten und Staats- und Wirtschaftsfunktionäre werden verunglimpft. Die Information geht zunächst an den ZK-Sekretär für Wirtschaft, Günter Mittag. Wenig später erhält sie auch Erich Honecker, damals schon der zweitmächtigste Mann im Parteiapparat.

    Nach einer teilweise kontrovers geführten Diskussion setzen sich Ende November 1969 die Hardliner durch. Das Buch wird aus dem Handel genommen. Die noch vorhandenen 1600 Exemplare im Lager des Leipziger Kommissions- und Großbuchhandels werden eingestampft. Auch das in der Deutschen Bücherei in Leipzig hinterlegte Belegexemplar darf nicht mehr ausgeliehen werden.

    Für Helmut Richter folgt eine Zeit der großen Enttäuschung. Richter ahnt zu diesem Zeitpunkt nicht, dass die in Kritik geratenen und verbotenen Reportagen zur Triebfeder für sein größtes literarisches Werk und zu einer deutschsprachigen Rockballade werden. Die Erlebnisse auf der Thierbacher Großbaustelle lassen ihn nicht los. 1975 entsteht die deutsch-polnische Liebesgeschichte „Über sieben Brücken musst du gehn“.


    Helmut Richter im Jahr 2002.

    Die Kritik an Richter hält jedoch weiter an. Seine Arbeiterfiguren und realistischen Beschreibungen der gelebten Freundschaft der sozialistischen Bruderländer werden als „problematisch“ eingeschätzt. Mitte der 70er-Jahre verschärft sich das politische Klima in der DDR. Die ersten 10.000 DDR-Bürger stellen einen Antrag auf Ausreise. Der Liedermacher Wolf Biermann wird 1976 ausgebürgert und wenig später siedelt Manfred Krug in die BRD über. Ein anderes, weltoffeneres Erscheinungsbild zeigt dagegen die Volksrepublik Polen. Auf Märkten werden amerikanische Jeans, Schallplatten, die in der DDR nicht erhältlich sind, und sogar Symbole der amerikanischen GI aus dem Vietnamkrieg angeboten. Der politisch verordnete Freundschaftsgedanke wird vom Ansturm auf diese Waren überlagert.

    Ed Swillms von Karat: Wie der Song komponiert wurde

    Der DDR-Fernsehfunk erhält deshalb den Auftrag, möglichst schnell einen Film zum Thema Freundschaft mit dem polnischen Volk zu machen. 1976 kauft er überraschend die Rechte an Richters Liebesgeschichte. Der bis vor kurzem noch geschmähte Literat darf das Szenarium für den Film mit den Hauptfiguren Gitta Rebus, einer deutschen Chemielaborantin, und dem polnischen Bauarbeiter Jerzy Roman schreiben. Ort der Handlung sind das Braunkohlenveredlungswerk Espenhain, im Film Zaspenhain genannt, und die Thierbacher Großbaustelle. Verknüpft werden das während des Zweiten Weltkrieges in dieser Region erlittene Schicksal polnischer Zwangsarbeiter und die Nachwirkungen auf eine deutsch-polnische Liebesbeziehung in der Gegenwart.


    Die Band Karat. Ganz links: Ed Swillms.

    Gedreht wird der Film in Hagenwerder bei Görlitz, Pößneck in Thüringen und in Borna bei Leipzig. Die Regie für den Film führt Hans Werner. Es ist sein erster Film. Bisher hat er als Regieassistent des Erfolgsregisseurs Lothar Bellag („Daniel Druskat“) gearbeitet. Der hatte „keinen großen Bock“ auf diesen Film und meldete sich krank. Trotz der vielen ungeklärten Probleme nutzt Werner diese Chance. Sofort hat er eine große „Baustelle“: Es gibt noch keine Filmmusik. Viele der damals populären Komponisten werden angefragt. Doch keiner hatte Zeit oder Lust.

    Werner bringt schließlich den Keyboarder und Komponisten der jungen Rockband Karat, Ulrich „Ed“ Swillms, ins Gespräch. Dieser braucht etwa 14 Tage, bis er die zündende Idee hat. Schließlich wird das Ganze über den Preis, 4000 Westmark, auf den Weg gebracht. Erst am Ende der Dreharbeiten entsteht die Idee, dem Film einen Titelsong zu geben. Die Textzeile „Über sieben Brücken musst du geh’n“ soll ihn emotional aufwerten. Richter stellt sich dieser Herausforderung. Er hat bis dahin noch nie einen Songtext geschrieben. Die Erinnerungen an sein eigenes Schicksal sind ihm hilfreich. Er kam 1945 als Flüchtlingskind aus Tschechien nach Deutschland.


    Karat bei einem Auftritt 1976.

    Ende 1977 wird die Rockballade unter ungünstigen Bedingungen in einem Studio in Berlin-Grünau produziert. Sänger ist Herbert Dreilich (verstorben am 12.12.2004) der Frontmann von Karat. Die Übergabe des Demobandes erfolgt bei einem Treffen im Interhotel Gera. Mehr scherzhaft sagt Helmut Richter nach dem ersten Anhören: Das wird ein Welthit. Am Abend des 30. April 1978 wird der Film im Ersten Programm des Fernsehens der DDR erstmals ausgestrahlt. Völlig überraschend laufen unmittelbar nach dem Abspann in Adlershof die Telefone heiß. Die Anrufer, darunter auch 28 aus West-Berlin und der BRD, wollen wissen, wann und wo es die Schallplatte mit dem Titelsong zu kaufen gibt.

    Peter Maffay bittet um Erlaubnis für eine Coverversion

    Um das zu erreichen, müssen wiederum einige DDR-typische Hürden genommen werden. Es wird die Meinung vertreten, Text und Musik seien zu sentimental und es gebe Titel, die die Ziele des Sozialismus besser widerspiegeln. Zu den prominenten Befürwortern gehört die einflussreiche Autorin Gisela Steineckert. Als die Platte endlich gepresst ist und in den Handel kommen soll, fehlt es im Druckhaus Gotha an der roten Farbe für das Plattencover. Sie war wegen des Druckes der vielen Plakate für den 1. Mai ausgegangen. Noch im selben Jahr siegt die Gruppe Karat mit dem Lied beim Internationalen Schlagerfestival in Dresden. Eine Teilnahme des Filmes bei einem renommierten Festival in Prag wird dagegen von den DDR-Oberen verhindert. Der Grund: Die Schauspielerin Barbara Adolf, Darstellerin der Mutter von Gitta Rebus, ist im selben Jahr in die BRD übergesiedelt. Bei der Abnahme des Films kommentiert der anwesende Karl-Eduard von Schnitzler („Der schwarze Kanal“) den Satz „Ich gehe hier nicht weg!“ ihrer Figur mit den Worten: „Jetzt hat sie es sich wohl anders überlegt.“


    Karat bei der „ZDF-Hitparade“ 1982.

    Der Erfolgsgeschichte des Titelsongs konnten diese ideologischen Machtspiele nichts anhaben. 1979 erscheint von Karat das Album „Über sieben Brücken“, welches wenig später unter dem Namen „Albatros“ in der BRD veröffentlicht wird. Insgesamt liegen die Verkaufszahlen in den folgenden Jahren in Ost und West fast bei einer Million. Als Peter Maffay den Song zum ersten Mal im Rundfunk hört, ist er sofort begeistert und bemüht sich um Kontakt zu Karat. 1980 trifft er die Gruppe bei einem Konzert in Wiesbaden. Er bittet sie um Erlaubnis für eine Coverversion. Karat willigt ein und Maffay arrangiert das Lied neu. Die markanteste Veränderung wird das Saxofon-Solo. Der Song erlangt in dieser Version eine noch größere Bekanntheit. Maffays Album „Revanche“ verkauft sich mit dem Titel über zwei Millionen Mal. Ab 1990 singen Maffay und Karat ihn auch bei gemeinsamen Auftritten.

    Weitgehend unbekannt geblieben ist – die Hauptfiguren Gitta und Jerzy sind keine Erfindung. Sie gab es tatsächlich. Beide trugen im Film und der ihm zugrundeliegenden Liebesgeschichte nur andere Namen. Sie arbeiteten und wohnten einige Jahre in der Industriegemeinde Espenhain. Im Unterschied zum Film haben beide geheiratet und ein gemeinsames Kind. Später ziehen sie nach Hoyerswerda. Die Beziehung hält nicht und er kehrt nach der Trennung in seine Heimat zurück. Nur die Geschichte, dass die Figur Jerzy das Kind von polnischen Zwangsarbeitern ist, welches in Espenhain zur Welt kam und dessen Vater dort starb, hat Richter frei erfunden.

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    Bis ins hohe Alter hielt Helmut Richter freundschaftliche Verbindungen zu den Menschen aus der Kohleregion im Süden von Leipzig. Sein Grabstein aus Rochlitzer Porphyr auf dem Gohliser Friedhof in Leipzig trägt die Inschrift „Über 7 Brücken musst du gehn“. Wenige Tage vor Weihnachten 2023 hat der Leipziger Schriftsteller Ralph Grüneberger Richters Leben und Werk in einem sehr persönlichen Filmporträt („Über sieben Brücken. Helmut Richter“) der Öffentlichkeit präsentiert.

    Werner Fritz Winkler lebt im Leipziger Südraum und kannte Helmut Richter persönlich. Er erinnert mit Vorträgen an den Film und das Lied „Über sieben Brücken musst du gehn“.

    #histoire #DDR #RDA #Allemagne #culture #musique #politique

  • Mit Postkarten gegen die Todesmaschine
    https://www.spiegel.de/fotostrecke/widerstand-gegen-hitler-das-berliner-ehepaar-hampel-fotostrecke-142653.html


    https://cdn.prod.www.spiegel.de/images/461f1b34-0001-0004-0000-000001071187_w820_r1.7787418655097613_f
    Ce destin de résistant est vécu aujourd’hui par de nombreuses personnes qui osent s’opposer aux machinations des puissants. Nous leur devons notre soutien. Leur ériger des monuments ne suffit pas.

    Auf Karten riefen Elise und Otto Hampel zum Sturz der Nazis auf. 1943 wurden sie in Berlin hingerichtet.

    Text :

    Fort mit dem Hitler Verreckungssystem!
    Der gemeine Soldat Hitler und seine Bande stürzen uns in den Abgrund!
    Diese Hitler Göring Himmler Goebbels Bande ist in unser Deutschland nur Todes Raum zu gewähren!

    Elise und Otto Hampel
    Hintergrund
    https://www.berlin.de/kunst-und-kultur-mitte/geschichte/erinnerungskultur/artikel.723588.php

    Elise und Otto Hampel verteilten im Umfeld ihrer Wohnung im Wedding, aber auch in Charlottenburg, Schöneberg und Kreuzberg von 1940 bis 1942 handbeschriftete Postkarten, in denen sie zum Widerstand gegen das nationalsozialistische Regime aufriefen. Zunächst lange unentdeckt, wurden sie 1942 beim Auslegen der Karten beobachtet, denunziert und am 8. April 1943 in Berlin-Plötzensee hingerichtet. Ihr Handeln gilt heute als ein herausragendes Beispiel für den unorganisierten Widerstand gegen die nationalsozialistische Diktatur.
    ...
    an ihrem Wohnhaus in der Amsterdamer Str. 10 weist eine Gedenktafel auf ihr Schicksal hin.


    Platzbenennung in Wedding : Das bessere Argument
    https://taz.de/Platzbenennung-in-Wedding/!5010771

    Mais non, pour des raisons formelles (qui cachent toujours les véritables forces et mobiles) aujourd’hui (13.1.2024) le square ne porte toujours pas le nom des résistants contre le nazisme célébrés par Hans Fallada.

    26. 4. 2015 von Claudius Prößer

    In der Weddinger Müllerstraße wird ein namenloser Platz nach den Antifaschisten Elise und Otto Hampel benannt. Der Weg dahin war steinig.
    ...
    Widerstand Wedding Straßenname Armin-Paul Hampel

    Jeder stirbt für sich allein
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Jeder_stirbt_f%C3%BCr_sich_allein_(Roman)

    Roman von Hans Fallada (1947), Seul dans Berlin

    Texte complet (DE)
    https://www.projekt-gutenberg.org/fallada/jedersti/jedersti.html

    #antifascisme #résistance #nazis #histoire #1942

  • Les ravages de la drogue, quand même, c’est triste à voir…
    https://www.europe1.fr/politique/info-europe-1-regeneration-audace-discipline-republicaine-ce-qua-dit-emmanue

    Selon les informations d’Europe 1, Emmanuel Macron a continué sa prise de parole ainsi : « Le 21e siècle est le siècle de la régénération. Et cette régénération vous ordonne de renouer avec l’esprit de la Révolution française. J’ai choisi pour la France le plus jeune Premier ministre de son histoire : ce n’est pas un risque, c’est une chance », a-t-il déclaré avant de poursuivre.

    « Votre mission est d’éviter le grand effacement de la France face au défi d’un monde en proie au tumulte. Si vous ne vous en sentez pas capable, quittez cette pièce à l’instant. Vous n’êtes pas seulement des ministres, vous êtes les soldats de l’an II du quinquennat. Je ne veux pas de ministres qui administrent, je veux des ministres qui agissent. Je ne veux pas de gestionnaires, je veux des révolutionnaires. Ce gouvernement n’a qu’un seul mot d’ordre : de l’audace, encore de l’audace, toujours de l’audace. Ce gouvernement sera celui de la discipline républicaine. Je ne veux pas d’états d’âme, je veux des états de services. »