Nell’estate del 2015 l’Ungheria fu fortemente esposta alla crisi dei rifugiati lungo la rotta balcanica. Migliaia di profughi, soprattutto siriani, giunsero alla frontiera serbo-ungherese dopo aver attraversato Turchia, Grecia, Bulgaria e Macedonia. La città di confine di Subotica, in Serbia, divenne un grande parcheggio di anime alla ricerca di una via per l’Europa, e questa via era l’Ungheria.
Le autorità magiare si trovarono spiazzate, e senza preparazione per fronteggiare la situazione. Permisero il transito lungo quella frontiera e poi sul territorio nazionale, per far sì che quella gente in marcia sconfinasse rapidamente in Austria, paese-ponte per la Germania: la meta più ambita per chi fuggiva e fugge ancora oggi da guerre e povertà.
Andò così per un po’, fintanto che Viktor Orbán, il premier ungherese, non decise di erigere una barriera metallica lungo i 175 chilometri di confine con la Serbia, replicata a stretto giro anche su quello con la Croazia, altro passaggio chiave sul crinale balcanico.
La barriera ungherese è stata percepita da tanti come un vulnus nell’Europa post-89; come il ritorno sgradevole di un muro, dopo il collasso di quello di Berlino, in cui l’Ungheria ebbe un ruolo fondamentale. Nell’estate del 1989 il governo di Budapest, rinnovato nei ranghi, deciso a negoziare la transizione con le opposizioni seguendo la via tracciata da Wałęsa e Jaruzelski in Polonia, e avviato all’apertura graduale del confine con l’Austria, permise ai tedeschi dell’est in vacanza nel paese magiaro di sconfinare in Austria, e trovare dunque asilo a Ovest. Per la DDR fu un colpo tremendo: la dimostrazione che i suoi sudditi volevano lasciarla.
E sempre a proposito di fughe via Austria al tempo della Guerra fredda va ricordata quella degli ungheresi dopo la rivoluzione del 1956, affogata nel sangue dai carri armati dei sovietici. È anche per questo motivo che il “muro” al confine con la Serbia è stato visto come un insulto che Orbán ha arrecato alla storia del suo stesso paese.
Ma il fattore storico-emotivo si rivela insufficiente e limitante per capire il significato politico della chiusura della frontiera sud e di quella della rotta balcanica (che però è solo parziale: l’area di crisi si è spostata in Bosnia-Erzegovina), su cui Orbán e il suo partito, Fidesz, hanno costruito una parte importante del consenso, ancora notevole dopo tre elezioni vinte (2010, 2014 e 2018). Sigillare la frontiera è stato un passaggio decisivo sulla via di quella democrazia non liberale, o illiberale, che Orbán vuole realizzare. Il suo modello di Europa, un’Europa cristiana e conservatrice, vede nell’immigrazione un pericoloso grimaldello. Il flusso dei rifugiati sulla via balcanica è stato percepito come un’ulteriore sfida al cuore del vecchio continente, e Orbán ha più volte sostenuto che l’Ungheria si è attivata per salvarlo. A questa retorica, mistica e mitica, si è affiancata una propaganda cinica e spietata contro i rifugiati e l’odiato George Soros, per Orbán il massimo interprete della dimensione multiculturale del paradigma liberale.
La costruzione della barriera sulla frontiera meridionale è stata per Orbán un’occasione politica da cogliere rapidamente, per dimostrare che la sua vocazione non liberale è cosa seria e opporsi alla Germania di Angela Merkel e alla sua politica delle “porte aperte”, altra espressione di prima fascia dell’ideologia liberale. Orbán, in quei frangenti, sembrava in netta minoranza, ma la realtà rivela che aveva perfettamente intuito ciò che si celava dietro l’iniziale empatia verso i rifugiati, e cioè quel sentimento di paura, diffidenza e persino rabbia aperta nei confronti dei rifugiati che, alimentato dalla frustrazione sociale post-crisi, si aggira per l’Europa.
Il primo ministro magiaro sembrava predicare nel vuoto anche nel 2010, quando, tornato al potere dopo otto anni di purgatorio, espresse il gran rifiuto alle politiche di austerità. Poco prima l’Ungheria, travolta dall’urto della crisi, era stata salvata dal Fondo monetario internazionale. Il governo Orbán non seguì più la sua ricetta, impostando una politica economica alternativa. I tassi furono portati ai minimi e vennero applicate imposte salatissime sui grandi capitali dominanti nel bancario, nella grande distribuzione e nelle telecomunicazioni: capitali in maggioranza stranieri.
Agli occhi di Orbán hanno colonizzato oltre il limite consentito l’Ungheria post-89, favoriti da una classe dirigente – quella liberale e post-comunista – passiva e inadatta a proteggere il paese dall’assedio del capitale straniero, oggi in ritirata: il governo ha riacquisito molti di questi asset. Grazie poi al ritorno alla crescita (dovuta prima di tutto alla ripresa europea e mondiale), ha aperto i rubinetti dando al sistema di welfare, prima pallido, fondamenta molto più solide.
Con questa politica economica, di rottura, di rivalsa e di assistenza, capace di dare sia sfogo che copertura alla delusione dell’Ungheria – condivisa in tutta l’area Visegrad – per la mancata convergenza economica con l’Europa occidentale, che fu la grande promessa dell’allargamento del 2004, Orbán non solo ha edificato consenso in patria, ma si è messo alla testa del movimento populista in Europa. Inizialmente è stata infatti l’avversione all’austerità imposta dal modello liberale-liberista a sospingerlo. Il contrasto nei confronti dei rifugiati e dell’immigrazione in generale sono un successivo e ulteriore gradino nella strategia, ambiziosa, di disegnare un’agenda di destra conservatrice e non liberale che sappia prima o poi essere maggioritaria in Europa.
E pensare che in origine, al momento del crollo del comunismo, la Fidesz si presentava come un partito liberale, fatto da giovani. Poi Orbán lo rimodellò, dandogli una linea cristiano-democratica, e con questa impostazione riuscì a vincere le elezioni nel 1998. Nel 2010 si è presentano con la maschera populista-sovranista, ed è quella che ancora porta. Altri hanno iniziato a indossarla, cercando di scalare il potere. A oggi ci sono riusciti solo Jarosław Kaczyński in Polonia e, per un periodo breve, Matteo Salvini in Italia. In altri paesi Ue i partiti, la stampa e l’opinione pubblica riescono ancora a formare un cordone sanitario nei confronti del modello Orbán e dei suoi aspetti più autoritari, quali il controllo assoluto sulla stampa e sulle università, oltre che i periodici attacchi all’indipendenza della magistratura.