• 11 octobre 2023, verdict en cour d’appel pour le #procès contre #Mimmo_Lucano, ancien maire de #Riace

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    Ce fil de discussion est la suite de celui-ci :
    Le 20.09.2023 la défense de #Mimmo_Lucano a prononcé le plaidoyer final dans le cadre de l’#appel à la condamnation de l’ancien maire de #Riace...
    https://seenthis.net/messages/1018103

    #accueil #migrations #solidarité #asile #réfugiés #Italie #criminalisation_de_la_solidarité #acquittement #justice #Xenia

    • La corte d’appello condanna Mimmo Lucano a 1 anno e 6 mesi

      La sentenza di primo grado aveva fissato la condanna a 13 anni e due mesi, la procura aveva chiesto 10 anni e 5 mesi. I suoi avvocati volevano l’assoluzione. Lucano non ha mai smesso di lavorare nei progetti per l’accoglienza e in una lettera aveva invitato i giudici ad andare a vedere il Villaggio Globale di Riace

      La Corte d’appello di Reggio Calabria ha condannato l’ex sindaco di Riace Mimmo Lucano a 1 anno e 6 mesi: un decimo di quanto chiesto dalla procura. Le accuse sono state fortemente ridimensionate, e l’esito drasticamente ridotto rispetto alla condanna in primo grado a oltre 13 anni.

      La procura generale aveva chiesto per questo secondo grado di giudizio la condanna a 10 anni e 5 mesi di carcere per l’ex sindaco di Riace e principale imputato del processo “Xenia”, nato da un’inchiesta della guardia di Finanza sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel piccolo paese della Locride. Un processo che lo vede alla sbarra insieme ad altre 17 persone. Le accuse erano pesanti: associazione a delinquere e peculato, frode, falso in atto pubblico, abuso d’ufficio e truffa.

      La prima condanna

      Il Tribunale di Locri a settembre del 2021 lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione, e 700mila euro di danni per la gestione dei progetti di accoglienza per i migranti (ma c’è anche la gestione dei rifiuti, il mancato pagamento della Siae e altri illeciti amministrativi), nonostante Riace sia stata lodata in tutto il mondo, e gli stessi giudici abbiano descritto i progetti come figli di un’utopia.

      Dal processo è stato dimostrato che Lucano non ha tratto benefici per il suo conto corrente. Nelle motivazioni della sentenza di primo grado i giudici trovavano la colpa nel «comportamento omissivo, che era stato tenuto per bieco calcolo politico».

      E ancora: «Nulla importa che l’ex sindaco di Riace sia stato trovato senza un euro in tasca», perché, si leggeva, «ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza».

      Per i difensori, Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, si tratta di un processo politico, in cui sono stati fatti anche errori. Durante il processo d’appello sono state aggiunte nuove intercettazioni e contestate trascrizioni della guardia di finanza da quelle precedenti. Nelle motivazioni d’appello i due legali avevano parlato di «lettura forzata se non surreale dei fatti».

      Dopo la sentenza di primo grado era scaturito in ambito internazionale un appello firmato dal linguista Noam Chomsky, dall’ex capitana Sea Watch Carola Rackete, fino al leader della sinistra francese Jean-Luc Mélenchon perché venissero ritirate le accuse a suo carico.
      La lettera

      Alle ultime elezioni regionali si era candidato in appoggio a Luigi de Magistris, ma non è stato eletto. Non ha smesso di lavorare. Il 20 settembre l’ex sindaco di Riace ha consegnato una lettera alla Corte: «Come tutti gli esseri umani posso aver commesso degli errori, ma ho sempre agito con l’obiettivo e la volontà di aiutare i più deboli e di contribuire all’accoglienza e all’integrazione di bambini, donne e uomini che fuggivano dalla fame, dalla guerra, dalle torture».

      Lucano ha poi ricordato: «Sono passati cinque anni da quando sono stato arrestato con l’accusa infamante di svolgere la mia attività di accoglienza e integrazione dei migranti per finalità di carriera politica e di lucro. Sono passati due anni da quando mi è stata inflitta la condanna in primo grado a una smisurata pena detentiva quale non tocca spesso ai peggiori criminali».

      Ma non ha desistito, e ha invitato i giudici ad andare a vedere i risultati del suo lavoro: «Ho continuato a dedicarmi a tempo pieno, da privato cittadino, alla riapertura e alla gestione del Villaggio globale di Riace che ha ospitato e continua ad ospitare bambini e persone con fragilità. Non si è interrotta, dunque, quella che considero la missione della mia vita, a prescindere da incarichi pubblici e finanziamenti statali. Altro che associazione a delinquere. Al termine di questo processo vi invito a visitare il Villaggio Globale di Riace, sarete i benvenuti».

      https://www.editorialedomani.it/politica/italia/mimmo-lucano-sentenza-corte-appello-oooeao9j

    • Non reggono in Appello le accuse monstre a Lucano. L’ex sindaco condannato a un anno e 6 mesi
      https://www.youtube.com/watch?v=qBE1GEzNnow&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.corrieredellaca

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      La decisione della Corte nel processo al “modello Riace”: assolti 15 imputati su 17. L’accusa aveva chiesto 10 anni 5 mesi per l’ex sindaco. In primo grado la pena comminata era stata di oltre 13 anni

      L’ex sindaco di Riace Domenico Lucano è stato condannato a un anno e sei mesi (con pena sospesa) dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria, pena sensibilmente inferiore rispetto ai 13 anni e due mesi rimediati in primo grado e rispetto alla richiesta della Procura generale (10 anni e 5 mesi). Oggi assente a Reggio Calabria, l’ex primo cittadino ha atteso l’esito della camera di consiglio durata circa sei ore, nel piccolo borgo del “modello” per molti anni simbolo dell’accoglienza e alla sbarra dopo l’inchiesta “Xenia” della procura di Locri. Dentro e fuori dall’aula applausi e festeggiamenti per la decisione.

      L’accusa, rappresentata dai sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari, aveva chiesto per l’ex primo cittadino una condanna di 10 anni e 5 mesi di reclusione. Imputati davanti ai giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, (presidente Elisabetta Palumbo, giudici relatori Davide Lauro e Massimo Minniti) Lucano e altre 17 persone.
      Si conclude così il secondo capitolo giudiziario scaturito dall’inchiesta condotta dalla Guardia di Finanza che si basa sull’accusa di aver utilizzato i fondi destinati all’accoglienza dei migranti per “trarre vantaggi personali”. Associazione a delinquere, abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Queste, a vario titolo, le accuse della Procura di Locri che ha attaccato in toto il sistema di accoglienza messo in piedi nel borgo della Locride. In primo grado il Tribunale di Locri aveva condannato Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione, a fronte della richiesta della Procura a 7 anni e 11 mesi.

      Il dibattimento

      Nel corso del dibattimento i legali di Lucano, gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, avevano sottolineato come quella di Lucano fosse una «innocenza documentalmente provata» poiché l’obiettivo dell’ex sindaco di Riace «era uno solo ed in linea con quanto riportato nei manuali Sprar: l’accoglienza e l’integrazione. Non c’è una sola emergenza dibattimentale (intercettazioni incluse) dalla quale si possa desumere che il fine che ha mosso l’agire del Lucano sia stato diverso».
      Nelle motivazioni d’appello i legali avevano sottolineato che in sentenza c’era stato un «uso smodato delle intercettazioni telefoniche, conferite in motivazione nella loro integralità attraverso la tecnica del copia/incolla». Intercettazioni che, in molti casi, secondo gli avvocati, sarebbero inutilizzabili. Nel corso delle arringhe finali i legali di Lucano avevano chiesto alla corte di ribaltare la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che aveva motivato la sentenza in 900 pagine definendo Lucano “dominus indiscusso” del sistema messo in piedi a Riace per l’accoglienza e l’integrazione dei migranti. Tanti i sostenitori di Lucano che hanno atteso la decisione dei giudici dentro e fuori la Corte d’appello di Reggio Calabria, tra loro anche Giuseppe Lavorato.
      In tanti di sono recati anche a Riace e hanno aspettato insieme all’ex sindaco l’esito del processo.

      https://www.corrieredellacalabria.it/2023/10/11/non-reggono-in-appello-le-accuse-monstre-a-lucano-lex-sindaco-

    • Lucano: “Finalmente respiro e ora torno in politica. Sogno un’altra Italia”

      Dopo la sentenza che ha cancellato la condanna a 13 anni e due mesi, parla l’ex sindaco del paese dell’accoglienza. “Riace era avanguardia dei diritti e della speranza, torniamo a esserlo”

      Ora respiro, ora respiro di nuovo». Non è facile parlare con l’ex sindaco dell’accoglienza Mimmo Lucano dopo la sentenza che lo ha assolto dall’accusa di aver trasformato la “sua” Riace in un “sistema clientelare” costruito al solo scopo di “ricavarne benefici politici”, sostenevano i giudici del primo grado. “Che assurdità. Proprio io, che non mi sono mai voluto candidare. Ma adesso la verità è stata ristabilita”, dice l’ex sindaco dell’accoglienza mentre dietro di lui si sente il paese in festa e di tanto in tanto la comunicazione salta perché qualcuno l’abbraccia forte.

      Quando ha sentito il giudice leggere la sentenza che ribaltava quella durissima di primo grado che effetto le ha fatto?

      “In pochi secondi tutti i dispiaceri, l’amarezza, i momenti più duri, quelli in cui non credevo di farcela, tutto è stato cancellato. Mi sono sentito rinascere”.

      È stata dura?

      “È stata dura, è stata lunga, ci sono stati i domiciliari, le misure cautelari che mi hanno tenuto lontano da Riace, poi la sentenza di primo grado, il fango. Ma adesso è come se tutto fosse sparito, in questo momento non pesa più”.

      In questi anni c’è stato qualcosa che è stato più difficile di altre da sopportare?

      «Il sospetto. Quelle ombre che sono state evocate su di me, l’idea che è stata instillata che avessi fatto tutto per un tornaconto personale. Riace era ed è un’idea di umanità, di rinascita per gli ultimi, per tutti. Adesso la verità è venuta a galla».

      I giudici di primo grado dietro quel modello avevano letto un sistema criminale.

      “Assurdo. La contestazione di associazione a delinquere è quanto di più lontano da quello che il villaggio globale, la comunità che qui avevamo costruito, rappresenta.Noi abbiamo sempre lottato per la fratellanza, perché tutti avessero un’opportunità, questa è l’antitesi alle associazioni criminali, che qui significano mafia. E noi l’abbiamo sempre combattuta. I miei primi passi in politica sono stati proprio contro la mafia”.

      A proposito di politica, cade anche l’interdizione ai pubblici uffici. Pensa di candidarsi nuovamente?

      “È presto, la sentenza è appena arrivata, solo adesso inizio a realizzare, ma ci sto pensando. Sicuramente adesso si apre una fase nuova, di rinascita e di speranza”.

      In che misura?

      “Fin dall’inizio della sua storia Riace è stata un’avanguardia in termini di difesa dei diritti umani, anzi dell’umanità. Abbiamo mostrato concretamente che accoglienza non è un problema di ordine pubblico o motivo di allarme sociale, ma occasione per il territorio che la sperimenta, crescita, rinascita per tutti, per chi c’era e per chi viene accolto”.

      E adesso che l’Italia sembra andare in tutt’altra direzione?

      «In questo momento storico così buio, con i decreti Cutro e Piantedosi che criminalizzano i migranti e chi prova a essere solidale, che i giudici cancellino una sentenza che provava a smentirlo trasforma Riace nuovamente in un’avanguardia».

      Di cosa?

      «Della speranza di un’altra Riace possibile, di un’altra Italia possibile, di un altro mondo possibile. Noi abbiamo sempre lottato per questo».

      Nel frattempo però il “paese dell’accoglienza” è stato distrutto

      «In realtà non del tutto. Paradossalmente la sentenza di primo grado ha scatenato un’ondata incredibile di solidarietà. Associazioni come “A buon diritto” hanno promosso persino una raccolta fondi per aiutarmi a pagare la sanzione pecuniaria che mi era stata inflitta. Ma quando il presidente Luigi Manconi mi ha chiamato, gli ho chiesto di usare quei fondi per altro».

      A cosa sono stati destinati?

      «Qui a Riace vivono ancora tante famiglie di rifugiati, quei fondi sono stati utilizzati per dei progetti di lavoro che adesso impiegano tantissime persone anche in strutture come il frantoio, che inizialmente era stato letto come parte di un progetto criminale ed è speranza per chi è arrivato senza più avere nulla».

      Insomma, l’accoglienza a Riace non è morta.

      «Assolutamente no e questo si deve anche a tutte le persone che in questi anni non hanno mai fatto mancare il proprio sostegno né a me, né a Riace. Il mio primo pensiero oggi è stato per loro, per i miei legali, l’avvocato Mazzone soprattutto, il primo a credere in me e che adesso non c’è più».

      Al ministro Salvini che in passato l’ha definita uno zero ha pensato?

      «No, ma so che è uno che guarda il calcio. E a lui che ha usato la mia condanna per criminalizzare l’accoglienza direi che i risultati si commentano a fine partita».

      https://www.repubblica.it/cronaca/2023/10/12/news/lucano_finalmente_respiro_e_ora_torno_in_politica_sogno_unaltra_italia-41

    • Freispruch in Riace

      Dem für gute Flüchtlingsarbeit bekannten italienischen Bürgermeister drohten 13 Jahre Haft. Jetzt hat ihn ein Gericht in zweiter Instanz freigesprochen.

      Mimmo Lucano ist kein Schwerverbrecher. Zu diesem Schluss kam am Mittwochnachmittag das Gericht im süditalienischen Reggio Calabria, das in zweiter Instanz den früheren Bürgermeister der kleinen kalabrischen Gemeinde Riace in fast allen Anklagepunkten freisprach.

      Lucano war mit seiner Politik der ausgestreckten Hand gegenüber Mi­gran­t*in­nen weit über Italien hinaus berühmt geworden, und wurde für sein „Modell Riace“ in den Medien gefeiert und mit Preisen ausgezeichnet, unter anderem mit dem Friedenspreis der Stadt Dresden – bis er im Jahr 2021 in erster Instanz als angeblicher Chef einer kriminellen Vereinigung zu exorbitanten 13 Jahren und 2 Monaten Haft verurteilt wurde.

      Angeblich hatte er, der in den Jahren 2004 bis 2018 Bürgermeister des 1.800-Seelen-Ortes Riace war, sich der Förderung illegaler Einwanderung schuldig gemacht, zahlreiche Delikte wie Betrug, Urkundenfälschung, Unterschlagung begangen, mehr als 700.000 Euro an staatlichen Geldern beiseite geschafft.
      Alles nur Show in Riace?

      Und das Modell Riace? Alles nur Fassade, wenn man Staatsanwaltschaft und Gericht glauben darf, das 2021 in erster Ins­tanz urteilte. Diese „Fassade“ bestand darin, dass Lucano dem Verfall des Dorfkerns von Riace, dem Wegzug jüngerer Menschen etwas entgegensetzen wollte: die Ansiedlung von Migrant*innen, für die Häuser instand gesetzt wurden, und die Schaffung von Arbeit in neu eröffneten Läden und Werkstätten, in denen alteingesessene Bür­ge­r*in­nen gemeinsam mit Neuankömmlingen aus Syrien oder Äthiopien tätig waren. Ende 2017 lebten 470 Mi­gran­t*in­nen in Riace, mehr als ein Viertel der Ortsbevölkerung.

      Doch in den Augen des Innenministeriums in Rom und der Justiz war das alles nur Show. Im Jahr 2017 behauptete der damalige Präfekt von Reggio Calabria, in Riace würden systematisch die staatlichen Zuwendungen für Mi­gran­t*in­nen unterschlagen. 2018 dann erließ das Gericht von Locri Haftbefehl gegen Lucano, der in Hausarrest genommen und seines Amtes enthoben wurde.

      Der damalige Innenminister und Chef der fremdenfeindliche Lega, Matteo Salvini, nutzte diese Steilvorlage, um das Modell Riace von einem Tag auf den anderen zu liquidieren und die dort lebenden Geflüchteten wegzuschaffen.
      Weder persönliche Bereicherung noch politischer Ehrgeiz

      Lucano stand mit 23 Mitangeklagten vor Gericht, und wurde dann zu einer Haftstrafe verurteilt, die eines Mafiabosses würdig gewesen wäre. Dabei mussten auch die Staatsanwaltschaft und das damals urteilende Gericht zugeben, dass auf keinem seiner Konten auch nur ein roter Heller war und ihm keine private Bereicherung nachgewiesen werden konnte. Aber egal: Seine Gegner argumentierten, es sei ihm um „politischen Nutzen“ und den eigenen Ruhm gegangen. Lucano allerdings hatte mehrfach Angebote für Kandidaturen zum Europaparlament und zum nationalen Parlament ausgeschlagen. Viel politischer Ehrgeiz war da nicht zu sehen.

      Zu einer ganz anderen Würdigung kamen denn jetzt auch die Rich­te­r*in­nen in zweiter Instanz. Fast alle Mitangeklagten Lucanos wurden freigesprochen. Er selbst allerdings wurde wegen Urkundenfälschung in einem Verwaltungsakt von 2017 zu 18 Monaten Haft auf Bewährung verurteilt. Dennoch feierten er und seine An­hän­ge­r*in­nen das Verdikt wie einen Freispruch. Die zahlreichen Anwesenden im Gerichtssaal stimmten „Mimmo, Mimmo!“-Sprechchöre an und sangen „Bella Ciao“. Lucano selbst, der das Urteil in Riace abgewartet hatte, brach nach dem Richterspruch in Freudentränen aus. Er sieht seinen guten Ruf wiederhergestellt und erwägt eine Rückkehr in die Politik.

      https://taz.de/Ex-Buergermeister-Mimmo-Lucano/!5962687

    • Mimmo Lucano, ridotta drasticamente la condanna in appello: un urlo liberatorio!

      «La solidarietà non può essere reato»

      La sentenza di appello del processo a carico dell’ex sindaco di Riace, Domenico “Mimmo” Lucano, e dei membri della sua giunta, per un totale di 18 imputati, rovescia completamente il verdetto di primo grado.

      I giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, infatti, lo hanno condannato a un anno e sei mesi di reclusione, con pena sospesa, contro la richiesta della Procura generale di 10 anni e 5 mesi, stravolgendo la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che gli aveva inflitto 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio per le iniziative di accoglienza, cooperazione, convivenza pacifica e solidarietà costruite nei tre mandati (tra il 2004 e il 2018) da Sindaco di Riace.

      La Corte ha così assolto Lucano da tutti i reati più gravi e poi tutti gli altri 17 imputati e ha ristabilito una verità dei fatti totalmente diversa da quella, abnorme, disegnata dal primo grado.

      «Ci sarà ora qualcuno che chiederà scusa a Mimmo Lucano per la sistematica attività di diffamazione indirizzata nei suoi confronti» si chiede A Buon Diritto.

      Per il presidente, Luigi Manconi, e per tutta l’associaizone «la soddisfazione per la sentenza di appello è grande».

      «Abbiamo sostenuto fin dal primo momento l’idea di politica dell’accoglienza e dell’ospitalità promossa dalla giunta di Riace e abbiamo sostenuto gli imputati con una sottoscrizione nazionale che ha dato eccezionali risultati. Questa sentenza conferma che eravamo nel giusto quando affermavamo che la solidarietà non può essere criminalizzata», conclude l’associazione alla quale si sono aggiunti in queste ore diversi commenti di personalità e organizzazioni solidali che sono sempre state vicine all’ex Sindaco.

      Intervistato da Repubblica, Mimmo Lucano ha detto: «In pochi secondi tutti i dispiaceri, l’amarezza, i momenti più duri, quelli in cui non credevo di farcela, tutto è stato cancellato. Mi sono sentito rinascere».

      E poi: «È stata dura e lunga, ci sono stati i domiciliari, le misure cautelari che mi hanno tenuto lontano da Riace, poi la sentenza di primo grado, il fango. Adesso è come se tutto fosse sparito, in questo momento non pesa più».

      https://twitter.com/RaffaellaRoma/status/1712154008217854430

      https://www.meltingpot.org/2023/10/mimmo-lucano-ridotta-drasticamente-la-condanna-in-appello-un-urlo-libera

    • C’è un giudice a Reggio Calabria

      Mimmo Lucano, a lungo agli arresti domiciliari e condannato a tredici anni e due mesi dal tribunale di Locri, con una sentenza nella cui motivazione si leggono anche pesanti giudizi etici (un “falso innocente» che avrebbe agito con una «logica predatoria delle risorse pubbliche» per soddisfare «appetiti di natura personale, spesso declinati in chiave politica»), ha visto oggi la Corte d’appello di Reggio Calabria assolvere i suoi coimputati (salvo uno) e ridurre drasticamente la condanna a un anno e sei mesi di reclusione.

      Da quel che si può capire dal dispositivo letto oggi in udienza, la condanna dovrebbe riguardare un episodio di abuso d’ufficio per l’affidamento del servizio di raccolta di rifiuti. Un reato che a detta del Ministro della giustizia andrebbe abolito perché inutile e fonte di ritardi e costi processuali (9 condanne su 5.000 processi penali).

      Ovviamente, come si suol dire in queste occasioni, aspettiamo di leggere la motivazione, che probabilmente ci riserverà ulteriori piacevoli sorprese. Ma già il dispositivo giustifica alcune valutazioni.

      L’indagine, nata da ispezioni al Comune di Riace disposte dal Prefetto di Reggio Calabria dell’epoca (successivamente nominato da Salvini capo del dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale) e da indagini della Guardia di Finanza, non ha retto al vaglio del giudizio della Corte d’appello. La difesa di Lucano, sostenuta dagli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia, aveva sostenuto, oltre ad alcuni plateali errori delle indagini (un’intercettazione erroneamente trascritta dalla polizia giudiziaria), l’inconsistenza del quadro probatorio dell’accusa e questa linea è stata evidentemente condivisa dalla Corte. Ma insieme all’accusa giuridica necessariamente dovrebbero essere caduti anche i giudizi morali negativi e le feroci critiche al modello di accoglienza realizzato da Lucano. Il “modello Riace” conosciuto e apprezzato nel mondo, sia nelle aule universitarie che nelle più diverse tribune mediatiche.

      E’ difficile però che quel modello, nell’attuale temperie culturale e politica, possa facilmente essere rimesso completamente in piedi. Non ostante la propria personale sofferenza per le accuse ricevute, Lucano, con l’aiuto concreto di alcune associazioni, ha continuato a praticare nel Villaggio Globale di Riace la sua idea di accoglienza. Non è certo il “modello Riace” che vedeva coinvolto l’intero paese, ma è importante che sia rimasto e rimanga in piedi il suo nucleo etico e culturale.

      https://www.articolo21.org/2023/10/ce-un-giudice-a-reggio-calabria

    • La condanna di Mimmo Lucano è stata ridotta in appello a 1 anno e 6 mesi

      In primo grado l’ex sindaco di Riace era stato condannato a oltre 13 anni per la gestione dei migranti, con una sentenza molto contestata

      Mercoledì la Corte d’appello di Reggio Calabria ha condannato Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, a un anno e sei mesi di reclusione per reati commessi nella gestione dei progetti di accoglienza dei migranti di Riace, in Calabria. Lucano era stato condannato in primo grado a 13 anni e 6 mesi di carcere, quasi il doppio della pena chiesta dall’accusa, con una sentenza assai contestata dato che la sua gestione dei migranti a Riace era stata raccontata in tutta Europa e nel resto del mondo come un modello di integrazione e solidarietà: il cosiddetto “modello Riace”.

      La sentenza d’appello è arrivata dopo diverse ore di camera di consiglio e non si sanno ancora le motivazioni della decisione dei giudici. In primo grado, a settembre del 2021, Lucano era stato condannato per 21 reati che includevano associazione a delinquere e una serie di reati tra cui falso in atto pubblico, peculato, abuso d’ufficio e truffa. Nella sentenza di appello i giudici hanno assolto Lucano da quasi tutti i reati, dichiarato il non luogo a procedere per difetto di querela per altri e concesso la sospensione condizionale della pena.

      Lucano è stato invece condannato per falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, e comunque limitatamente a un solo atto, delle decine indicate nella sentenza di primo grado, relativo a un contributo ricevuto per l’accoglienza di alcuni migranti. La procura aveva chiesto una condanna a 10 anni e 5 mesi: insieme a Lucano erano imputate altre 17 persone, tutte assolte a parte una.

      La vicenda giudiziaria di Mimmo Lucano era iniziata nel 2016, a seguito di alcune rilevazioni di varie irregolarità amministrative da parte di ispettori della prefettura locale. Due anni dopo era stata avviata un’inchiesta, l’operazione Xenia, che nel 2021 aveva portato alla condanna in primo grado da parte del tribunale di Locri. Lucano era stato invece assolto dalle accuse di concussione e immigrazione clandestina.

      In sostanza, secondo i giudici, il sistema organizzato da Lucano, descritto come un modello per i principi di solidarietà a cui si ispirava, nascondeva invece un’associazione a delinquere responsabile di una serie di reati. A dicembre del 2021 erano state pubblicate le motivazioni della sentenza. Secondo i giudici Lucano li aveva compiuti per arricchirsi e garantirsi una tranquillità economica una volta andato in pensione. Gli avvocati di Lucano avevano ritenuto queste accuse insensate, e avevano sostenuto che Lucano avesse gestito Riace col solo scopo di realizzare un sistema ispirato a valori di accoglienza e solidarietà.

      Le critiche alla sentenza avevano riguardato anche il calcolo della pena: i giudici avevano individuato due separati disegni criminosi, ripartendo quindi in due filoni i reati di cui Lucano era accusato e quindi duplicando la pena, con più di 10 anni di reclusione per il primo e più di 2 per il secondo, raddoppiando, come detto, la pena chiesta dall’accusa.

      Lucano e i suoi avvocati avevano fatto ricorso, e a luglio del 2022 c’era stato un ulteriore sviluppo nella vicenda: la Corte d’appello di Reggio Calabria aveva deciso di riaprire l’istruttoria dibattimentale: significa che la corte aveva ammesso un’integrazione alle prove raccolte durante il processo di primo grado. L’integrazione consisteva in 50 pagine di una perizia cosiddetta “pro veritate”, realizzata da un consulente della difesa di Lucano, Antonio Milicia, perito trascrittore. Il perito aveva trascritto cinque intercettazioni. In quattro di queste c’erano differenze, che la difesa aveva definito «fondamentali», tra il testo che presentava Milicia e quello che venne presentato dal perito del processo di primo grado.

      Prossimamente verranno depositate le motivazioni della sentenza d’appello.

      https://www.ilpost.it/2023/10/11/lucano-appello-ridotta-pena

    • Italie : peine allégée pour le maire qui aidait des migrants

      Condamné en première instance à treize ans de prison pour « association de malfaiteurs aux fins d’immigration irrégulière », il a vu l’essentiel des charges portées contre lui être abandonnées.

      Par un cri de victoire et des embrassades avec ses proches, #Domenico_Lucano, dit « #Mimmo », a célébré l’arrêt de la cour d’appel de Reggio de Calabre, mercredi 11 octobre. Les juges lui ont en effet notifié qu’il n’était plus « que » condamné à dix-huit mois de prison avec sursis, en dépit des réquisitions du procureur. Ancien maire de Riace de 2004 à 2018, petite ville d’à peine 2 000 âmes perchée sur les collines calabraises, Mimmo Lucano avait été condamné en première instance, en 2021, à une lourde peine : plus de treize ans de réclusion pour « association de malfaiteurs aux fins d’immigration irrégulière », « pratiques frauduleuses » et « détournements de biens publics ». « Justice a été rendue à un homme qui a toujours travaillé dans le seul et unique intérêt du bien commun et de la défense des plus faibles », ont réagi les deux avocats de l’ancien élu, à la sortie de la cour d’appel.

      « Il s’agissait d’un #procès_politique, les charges pesant sur lui étaient excessives, souligne Gianfranco Schiavone, président du Consortium italien de solidarité (ICS), une plate-forme qui dispense de l’aide juridique aux demandeurs d’asile. Cet épisode restera comme une page sombre de la justice italienne, celle où l’on a cherché à démolir un homme et un #modèle d’accueil. » Car derrière le maire de Riace, c’est bien l’intégration des migrants qui était mise en cause.

      En 1998, Mimmo Lucano accueille pour la première fois des Kurdes échoués sur une plage voisine, et ne s’arrêtera plus de porter secours aux migrants. En vingt ans, il va faire de Riace une commune connue dans le monde entier pour son #accueil_inconditionnel. Des dizaines d’exilés, venus de Somalie, de Tunisie, d’Afghanistan, trouvent refuge dans la bourgade. Une coopérative sociale est créée, tout comme des boutiques. L’école du village rouvre et fait cohabiter petits Calabrais et migrants.

      Cible de Matteo Salvini

      Le « modèle Riace », perçu comme un modèle d’intégration vertueux par le travail permettant, aussi, d’enrayer le déclin d’une Calabre qui se vide, est vanté dans de nombreux pays. En 2016, le magazine américain Fortune classe l’édile au 40e rang des personnes les plus influentes de la planète. La même année, le pape François lui envoie une lettre dans laquelle il exprime son soutien à ses initiatives en faveur des migrants.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/10/13/italie-la-cour-d-appel-allege-la-peine-du-maire-calabrais-condamne-pour-avoi

    • Le maire calabrais Mimmo Lucano voit sa peine pour « délit de solidarité » réduite

      En 2021, il avait été condamné, en première instance, à 13 ans de prison et 500 000 euros d’amende, pour délit de solidarité. Le crime de Domenico Lucano, dit Mimmo : avoir mis en place un ambitieux système d’accueil des réfugiés dans le village de Riace, en Calabre, dont il était maire.

      Sa peine a été réduite à un an de prison et 1 400 euros d’amende par la cour d’appel de Locri, en Calabre, qui a rendu son verdict ce mercredi en fin d’après midi. Les 17 autres solidaires assis à ses côtés sur le banc des accusés ont tous été acquittés, alors qu’ils avaient écopé, en première instance, de 1 à 10 ans de prison.

      « C’est une #victoire ! Je viens de l’avoir au téléphone. Il pleurait en remerciant tous ceux qui l’ont soutenu », explique Martine Mandrea, animatrice de son comité de soutien à Marseille.

      https://www.humanite.fr/monde/domenico-lucano/le-maire-calabrais-mimmo-lucano-voit-sa-peine-pour-delit-de-solidarite-redu

    • Cosa insegna la (quasi) assoluzione di Mimmo Lucano

      La quasi-assoluzione in appello di Mimmo Lucano e della sua giunta rappresenta una svolta nella battaglia culturale e politica relativa alla criminalizzazione della solidarietà. La pesante condanna ricevuta in primo grado, oltre tredici anni di carcere, superiore alle richieste della pubblica accusa, appare ora abnorme e immotivata, probabilmente viziata da teoremi pregiudiziali.

      All’ex sindaco di Riace era stata addebitata addirittura l’associazione per delinquere. Già il fatto che magistratura e forze dell’ordine in quel contesto avessero dedicato una quantità ingente di tempo e risorse a indagare sull’accoglienza dei rifugiati, distogliendole necessariamente dalla lotta alla ndrangheta, aveva qualcosa di surreale. Entrando nel merito, nel 2019 la Cassazione aveva criticato la conduzione delle indagini, affermando che poggiavano “sulle incerte basi di un quadro di riferimento fattuale sfornito di significativi e precisi elementi”.

      La vicenda Lucano si aggiunge quindi a una serie di casi giudiziari in cui i protagonisti di iniziative di accoglienza verso profughi e migranti sono stati colpiti non solo da veementi campagne politiche e mediatiche, ma anche da accuse che li hanno costretti a difendersi e non di rado a sospendere la loro attività: basti ricordare Carola Rackete e le molte ong finite sotto processo, con le navi ispezionate e sequestrate, ma mai condannate; padre Mussie Zerai, processato perché impegnato ad aiutare i profughi eritrei suoi connazionali; gli attivisti di Baobab a Roma, che rifocillavano i profughi e li aiutavano a ripartire verso la Francia; i coniugi triestini Gian Andrea Franchi e Lorena Fornasir, che con la loro associazione Linea d’Ombra assistevano i migranti della rotta balcanica.

      Il fenomeno non è solo italiano, giacché, per restare in Europa, in Francia aveva fatto rumore il processo a Cédric Herrou, contadino-attivista che accoglieva in val Roja i profughi provenienti dall’Italia.

      Non è il caso di parlare di un complotto, e tanto meno di rivolgere agli inquirenti accuse di politicizzazione speculari a quelle provenienti, anche in questi giorni, dal fronte della chiusura dei confini. Occorre però vedere in queste ripetute inchieste giudiziarie, quasi sempre destinate al fallimento o a magri risultati, uno dei frutti più tossici di un clima culturale avvelenato: un clima in cui l’accoglienza è esposta al rischio costante di essere scambiata per un atto sovversivo, di attacco alla sovranità statuale e al controllo (selettivo) dei confini. E in cui di fatto si finisce per intimidire e scoraggiare chi si mobilita per soccorrere e aiutare.

      Se vi è un auspicio da trarre da questa vicenda, è che magistratura e forze dell’ordine siano sollecitate a indirizzare le loro energie, non infinite e quindi necessariamente guidate da scelte di priorità, a indagare ben altri luoghi di malaffare, ben altre forme di lesione della legalità, ben altre violazioni della sovranità statuale. E per quanto riguarda noi cittadini, sia lecito sognare un mondo in cui l’accoglienza non sia né di destra, né di sinistra, ma la conseguenza di un’opzione per i diritti umani affrancata da logiche di schieramento.

      https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/mimmo-lucano-assoluzione-criminalizzazione-solidarieta

    • Per Mimmo Lucano ribaltata la sentenza: crollano quasi tutte le accuse

      La Procura generale di Reggio Calabria aveva chiesto 10 anni e 5 mesi di reclusione, mentre per i giudici è rimasto in piedi solo un falso in atto pubblico per un’assegnazione di fondi a cooperative

      Crollano in appello quasi tutte le accuse contestate all’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. I giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria, infatti, dopo una camera di consiglio di 7 ore, lo hanno condannato ad un anno e sei mesi di reclusione, con pena sospesa, contro la richiesta della Procura generale di 10 anni e 5 mesi, ribaltando la sentenza di primo grado del Tribunale di Locri che gli aveva inflitto 13 anni e 2 mesi di carcere per associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abuso d’ufficio. Assolti altri 16 imputati, collaboratori di Lucano, mentre l’unica altra condanna, a un anno, è per Maria Taverniti.

      Dalla lettura del dispositivo emerge che la Corte, presieduta da Elisabetta Palumbo, ha condannato Lucano solo per il reato di falso in atto pubblico in relazione ad una determina del 2017 relativa all’assegnazione di fondi pubblici alle cooperative, mentre sono state prescritte altre due accuse tra le quali l’abuso d’ufficio per l’affidamento del servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti nel Comune di Riace a due cooperative sociali prive dei requisiti richiesti dalla legge.

      Tutti gli atti del processo sono stati trasmessi comunque alla Corte dei Conti. Il resto cade, soprattutto l’accusa di essere il promotore di un’associazione a delinquere finalizzata alla gestione illecita dei fondi destinati ai progetti Sprar e Cas. Lucano non era presenta alla lettura della sentenza e ha atteso l’esito nel suo paese.

      Dentro e fuori dall’aula applausi e festeggiamenti per la decisione che smonta le accuse contenute prima nei durissimi rapporti della Prefettura di Reggio Calabria e poi nell’inchiesta “Xenia” della procura di Locri che nel 2018 aveva portato Lucano agli arresti domiciliari. L’inchiesta della procura di Locri e poi la sentenza di primo grado avevano accusato un modello di accoglienza diventato famoso nel mondo e iniziato nel 1998 quando con un gruppo di amici accolse alcuni curdi sbarcati a Riace, da cui il soprannome “Mimmo u’ curdu”.

      Eletto tre volte sindaco, tra il 2004 e il 2018, quando venne sospeso dopo gli arresti domiciliari. «È la fine di un incubo che in questi anni mi ha abbattuto, umiliato, offeso - ha commentato Lucano -. E che mi ha reso agli occhi della gente come un delinquente. Avrò fatto anche degli errori, ma sono stato attaccato, denigrato, anche a livello politico, per distruggere il “modello Riace”, la straordinaria opportunità creata per accogliere centinaia di persone che avevano bisogno e per ridare vita e ripopolare i centri della Calabria». Ma cosa rimane del “modello Riace”? Nulla o poco più. Non esistono più né Cas, né Sprar.

      Il Comune, a guida leghista dopo la caduta di Lucano, non ha più confermato quel sistema. Il nome di Riace però continua ad attrarre. Arrivano ancora immigrati, lo stesso Lucano aiuta a trovare case, ma è accoglienza improvvisata e non ci sono né lavoro né fondi per attività. E proprio per questo hanno chiuso quasi tutte le botteghe e i laboratori di artigianato. Molti i debiti ancora da pagare e comunque nel paese non si vede più quel turismo solidale di allora. Invece purtroppo a Riace marina è comparsa la prostituzione di donne nigeriane. Non è però finito il modello calabrese di accoglienza.

      Proprio nella Locride non sono pochi i comuni che continuano ad ospitare gli immigrati, ormai realtà consolidate, come a Camini, paese confinante con Riace. O come a Roccella Jonica, anche questo confinante, Comune record per sbarchi dalla rotta turca, e dove si accoglie senza tensione. O ancora a Gioiosa Jonica, Benestare, Caulonia, Ardore, Siderno. Tutte località che ancora ospitano Cas e Sai, pur tra non poche difficoltà. Ma senza problemi di irregolarità o bilanci in disordine. Buona accoglienza silenziosa e poco conosciuta. Senza riflettori politici, positivi o negativi. Solo accoglienza e integrazione. Tutta un’altra storia.

      https://www.avvenire.it/attualita/pagine/per-lucano-ribaltata-la-sentenza

    • Mimmo Lucano: «Il modello Riace ha spaventato chi non guarda ai migranti con umanità»

      L’ex sindaco a Telesuonano: «Futuro? Tre possibilità, ma ne preferisco una». L’avvocato Daqua: «Grave errore giudiziario che nessuno ripagherà»

      https://www.youtube.com/watch?v=sw2suusH4H8

      «Il mio sogno? È nato un po’ per caso e ho cercato di realizzarlo in maniera inconsapevole. Mi sono interessato di accoglienza, di solidarietà dopo uno sbarco. Ma è vero, man mano che passavano gli anni, ho immaginato in maniera concreta di riscattare la mia terra, la Calabria. Nonostante i luoghi della precarietà, spesso anche dell’abbandono, del silenzio, dell’omertà, abbiamo trasmesso un messaggio al mondo: che almeno siamo grandi per essere vicini a chi subisce le decisioni di guerra, chi subisce scelte di politiche che hanno depredato i territori del cosiddetto terzo e quarto mondo, abbiamo fatto capire che è possibile costruire alternative umane utilizzando i nostri spazi, i nostri luoghi che sono dei luoghi abbandonati. E non c’è voluto nulla, il modello Riace non è altro che l’utilizzo di case in cui prima abitavano i nostri emigranti che per ragione di lavoro hanno cercato altrove possibilità di un sogno per la loro vita». Ha esordito così, con queste parole semplici ma potenti, Mimmo Lucano, ospite nell’ultima puntata di Telesuonano, il format condotto da Danilo Monteleone in onda su L’altro Corriere tv (canale 75). L’ex sindaco di Riace, da poco reduce dalla sentenza di appello “Xenia” che ha fatto cadere quasi tutte le accuse a suo carico (dai 13 e due mesi inflitti a Lucano in primo grado, si è passati a un anno e sei mesi – con pena sospesa – per una «residua ipotesi di falso su una determina»), ha ripercorso il suo viaggio giudiziario, partendo dall’inizio dell’operazione che lo ha coinvolto.
      Dopo la sentenza

      «Quella mattina è stato l’epilogo di qualcosa di strano. Negli ultimi anni della terza legislatura, che corrispondono al 2015-2016, avevo percepito un atteggiamento ostile soprattutto dalla prefettura di Reggio Calabria, e anche a livello centrale con tentativi così ingiustificati di contrastare quello che invece nel piccolo era stata una soluzione per un problema globale come quello della migrazione. Devo dire che il primo ad avere raccontato al mondo che in Calabria esiste un luogo in cui addirittura l’immigrazione, l’arrivo delle persone, non è solo un problema, ma risolve i problemi delle comunità locali, è stato il regista Wim Wenders. Ha detto “questo è un messaggio per il mondo, è un messaggio globale, è stato fatto a livello locale però va molto al di là di questa prospettiva”. E poi quella mattina, quell’epilogo è stata la fine di una favola, è stato di nuovo scendere nella realtà ed è cambiato tutto. Ricordo le persone che mi sono state vicine in maniera molto lucida. Ancora vivo quei momenti, quelle sensazioni, quel bussare alla porta nelle prime ore del mattino, e poi ho visto l’avvocato Antonio Mazzone, Andrea Daqua che per me non sono stati solo avvocati. Hanno lottato insieme a me per un ideale di giustizia, di rispetto, della dignità, della democrazia della nostra terra. Aspettavo questo riscatto, la mia realtà stava vivendo un paradosso. Monsignor Bregantini è venuto a fare il testimone, partendo con il treno da Campobasso e ha detto: “Attenzione, questa non è una storia criminale, è una storia profetica che indica al mondo un’altra soluzione”». Dopo la sentenza di primo grado c’è stato però qualcosa che è riuscito a dare speranza a Lucano. «È durata solo un giorno quella sensazione di sconforto, perché il giorno dopo, eravamo all’inizio di ottobre, perché la sentenza è arrivata il 30 settembre 2021, ho ricevuto una telefonata che mi ha cambiato completamente lo stato d’animo. Non lo so perché, ho avvertito che c’era quasi un raggio di luce in una storia con tante ombre. Luigi Manconi (sociologo ed ex senatore, ndr), mi chiama e mi dice che c’è un’indignazione generale per quella condanna che è una condanna che non è solo verso una persona, ma verso gli ideali che appartengono alla collettività e soprattutto appartengono anche alla dimensione dei nostri luoghi, della nostra terra. Io l’ho sempre vista sotto questo aspetto, io sono stato il tramite, però quello che volevamo contrastare è quel messaggio che dice attenzione, la soluzione umana prevale su quella disumana. La soluzione disumana non porta a nulla, porta solo a guerre, a odi, a razzismi, a commercio di armi. Manconi in quella circostanza si è fatto promotore di una raccolta fondi che era finalizzata al pagamento della mia multa, perché oltre agli anni di reclusione dovevo pagare anche una sanzione pecuniaria. Io mi sono rifiutato, perché non riconoscevo quella giustizia. Ho detto “questi fondi utilizziamoli per riavviare l’accoglienza” e così è stato. Il villaggio globale ha riaperto l’asilo, ha riaperto la mensa sociale, ha riaperto la scuola, il dopo scuola, la scuola per gli adulti, abbiamo riaperto la fattoria sociale che prima addirittura era stata considerata il luogo del reato penale per quanto riguarda il peculato».

      A chi ha dato fastidio Riace?

      «A chi ha dato fastidio Riace? Qualcuno – ha affermato Lucano – ha voluto sintetizzare dicendo così: “noi siamo Riace, loro sono Cutro”. Ecco, ancora oggi si scelgono i percorsi di deportazione per la soluzione dei migranti, di persone che, non dobbiamo mai dimenticarlo, sono vittime delle politiche dei Paesi occidentali e siamo noi che abbiamo imposto regimi, guerre, vendita di armi, abbiamo depredato quei territori, le persone che arrivano non è vero che arrivano per fare un viaggio perché sono migranti economici». Sul primo percorso ispettivo su Riace del governo, che in quella fase era di centrosinistra, Lucano evidenzia come in quel periodo si diceva che appoggiare Riace significava perdere consensi. «Perché, paradossalmente, i consensi li ha chi propone misure di ordine, di disciplina, di chiusura delle frontiere, di chiusura dei porti. Riace non è stato tutto questo, semplicemente ha proposto una soluzione partendo dai luoghi. Ancora oggi io dico, che rispetto alle deportazioni in Albania (Lucano si riferisce all’accordo Italia-Albania, ndr) la soluzione ideale sarebbe quella di riaccendere i paesi abbandonati della Calabria». «Ci sono tanti disoccupati nei nostri paesi – ha proseguito l’ex sindaco –. Addirittura quando io facevo il sindaco non c’era nemmeno il reddito di cittadinanza. C’è una realtà locale di autoctoni che vive condizioni di difficoltà e qual è la soluzione? Quella di andare via, andando via si desertificano i territori che rimangono dei luoghi dove c’è solo il silenzio. L’arrivo delle persone è stato vissuto con la consapevolezza che invece poteva esserci una rigenerazione dei luoghi, qualcuno l’ha definita un’accoglienza dolce che occupa gli spazi che non sono di nessuno. Se tutte le realtà disabitate, soprattutto le aree interne, le aree fragili calabresi, dessero la disponibilità di numeri piccoli, allora non si parlerebbe più di invasione, ma di una straordinaria opportunità. Una cosa che si sarebbe potuta fare in Calabria? Penso alla legge 18 del 2009 che prendeva spunto da questa economia sociale e solidale che in atto a Riace, poteva essere l’occasione per attuare delle politiche in cui l’Europa sarebbe dovuta stare attenta ad avviare dei processi legati al recupero delle aree abbandonate nelle campagne, per una nuova riforma agraria, per attività sulla zootecnica, su quelle che sono le risorse e le vocazioni dei territori».

      Cosa resta oggi del modello Riace?


      «Oggi a Riace non c’è la scuola – ha ricordato Lucano – non c’è l’asilo, c’è di nuovo quell’atmosfera di oblio sociale che prelude poi all’abbandono. Quando le comunità diventano questo, di fronte agli occhi ti appare solo un deserto, paesi fantasmi. Ecco, il mio impegno di questi anni è andato in questa direzione. Poi è arrivata la storia giudiziaria, il voler dire che non c’è altra soluzione se non quella di chiudere le frontiere, chiudere gli spazi, di considerare l’immigrazione solo come un problema, solo come un’invasione, solo come qualcosa che produce la paura, che giustifica misure di sicurezza. Riace è stato il paese pioniere di una nuova visione che ribalta totalmente il paradigma dell’invasione. E secondo me è qui che bisogna cercare il movente giudiziario che mi ha portato ad essere indagato. Credo che il neoliberismo a livello mondiale non gradisca il senso dell’umanità».
      Il futuro di Mimmo Lucano

      Ma c’è davanti a Mimmo Lucano un ritorno all’impegno politico diretto? «Quello che ho davanti – ha detto ancora l’ex sindaco di Riace – è qualcosa che non riguarda solo me, in tanti hanno sostenuto Riace come un’idea in cui si è ritrovata tutta l’Europa. Io sono stato tante volte in Germania, in Francia, in Spagna. Riace non è qualcosa che riguarda solo me, quello che dovrò fare, ma certamente è un messaggio politico. Io non so quello che farò, ma credo dipenderà dal contributo che potrò dare alla collettività ed è una decisione che prenderò insieme alle tante persone che hanno condiviso il mio percorso di sofferenza. Esistono tre possibilità per dedicarsi all’impegno politico e sociale: la prima è fare il sindaco, l’altra è impegnarsi per la Regione, per la nazione e per l’Europa, e poi c’è la militanza, che non prevede ruoli. È quella che mi affascina di più».

      Dopo Mimmo Lucano, nella seconda parte di Telesuonano, è toccato all’avvocato Andrea Daqua ripercorrere in maniera più approfondita la vicenda processionale dell’ex primo cittadino di Riace. «Cosa ho pensato quando ho sentito pronunciare la condanna a 13 anni e due mesi? Con il collega Giuliano Pisapia (ex sindaco di Milano che nel frattempo era diventato difensore di Lucano dopo la morte del professore Antonio Mazzone che aveva seguito dall’inizio la vicenda, ndr), abbiamo immediatamente qualificato quel dispositivo come aberrante, ma non in riferimento soltanto alla quantità smisurata, sproporzionata della pena, ma perché noi che avevamo seguito il processo, avevamo subito intuito che c’era un contrasto evidente tra quel dispositivo e il dato che era invece emerso dall’istruttoria. Poi questa nostra convinzione si è rafforzata quando abbiamo letto la motivazione che era più aberrante del dispositivo e, soprattutto, quando abbiamo ascoltato fonti autorevolissime del diritto italiano, giuristi di primo livello che erano completamente sganciati dal processo e non conoscevano nemmeno Lucano, che hanno spiegato perché quella sentenza era aberrante». Così Andrea Daqua che ha sottolineato come anche nel caso di Lucano, «le cause scatenanti o determinanti di un determinato processo possono essere molteplici, ma noi abbiamo il dovere di attenerci al dato documentale, al dato processuale e sulla base di questo abbiamo dimostrato che Lucano è stato vittima di un gravissimo errore giudiziario. Poi su come sia nato questo errore giudiziario o sulle motivazioni qua potremmo parlare interi giorni». Un errore giudiziario che, come spesso capita, travolge una persona, i suoi familiari e, nel caso di Lucano, una esperienza. Chi ripagherà questo danno? «Nessuno – ha dichiarato Daqua –, l’unico modo secondo il mio modesto parere per dare un senso a questo danno irreparabile che ha subito una persona perbene come Lucano, è quello di leggere le carte, di leggere il processo, di capire il perché di tante anomalie e studiare i rimedi possibili affinché ciò non accada più, perché quello che è successo a Lucano domani potrebbe succedere a chiunque. Allora qui è necessario che gli addetti ai lavori riflettano su questo procedimento e capiscano come anche alcuni strumenti processuali andrebbero rivisti».

      Il ricordo dell’avvocato Antonio Mazzone

      «La fortuna di Mimmo (Lucano, ndr) – ha detto ancora l’avvocato Daqua – è che è stato seguito all’inizio dal professore Mazzone, scomparso da tre anni. Io appena mi sono laureato sono entrato nello studio del professore Mazzone e non ne sono mai uscito, anche se poi ho aperto il mio studio. Però continuare a collaborare con lui, è stata veramente una fortuna perché dove arrivava lui nessuno di noi era in grado di arrivare. Appena Lucano mi ha fatto vedere la prima relazione prefettizia, che era uno dei supporti investigativi su cui si è appoggiato poi il costrutto accusatorio, io, convinto della bontà del suo modello, della sua onestà, gli ho detto: “sindaco io la aiuto, ma qui c’è qualcosa che va oltre. Noi dobbiamo parlare con il prof. Mazzone”. Cosa che da lì a qualche giorno abbiamo fatto e da quel momento in poi tutta la prima parte l’abbiamo seguita insieme. Mazzone è stato convinto dal primo minuto dell’onestà di Lucano e aveva ragione». Ma cosa avrebbe detto Mazzone dopo aver ascoltato le due sentenze? «Nel primo grado – ha risposto sorridendo Daqua – è meglio che io non lo dica. Nel secondo grado, avrebbe detto che giustizia è stata fatta. E’ chiaro che in questo processo il merito è del professore, perché quando lui è venuto a mancare noi eravamo già in una fase istruttoriale avanzata. Poi è intervenuto il collega Pisapia, che ringrazio per il modo con cui lui si è messo a disposizione».

      La precisazione sulla sentenza in Appello

      Sull’ultima sentenza in Appello, Daqua ci ha tenuto a fare una precisazione. «Sento spesso dire che è stata ridotta la condanna – ha affermato il legale – non è proprio così, Lucano è stato assolto per tutti i reati. Per un reato, che è una ipotesi di falso relativa a una determina, c’è stata la condanna. E anche su questa noi siamo assolutamente rispettosi della decisione della Corte, aspetteremo l’esito della motivazione, perché secondo noi anche quella determina è lecita, però chiaramente aspetteremo la valutazione della corte e poi valuteremo. Comunque, nel complesso, possiamo dire che il castello accusatorio si è sbriciolato, sono caduti tutti i reati che erano gravi come il peculato, l’associazione a delinquere e la truffa. Abbiamo dimostrato che diverse intercettazioni erano assolutamente non rispondenti al contenuto della effettiva dichiarazione». «Le intercettazioni – ha continuato Daqua – costituiscono sicuramente uno strumento processuale, ma va assolutamente rivisto in una prospettiva di rispetto verso il principio costituzionale di presunzione di innocenza».

      https://www.youtube.com/watch?v=NzLgnpZvtTk&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.corrieredellaca

      https://www.corrieredellacalabria.it/2023/11/16/mimmo-lucano-il-modello-riace-ha-spaventato-chi-non-guarda-ai-

  • Segregare e punire: il disegno politico brutale dentro il “decreto Cutro”

    Nonostante la pletora di emendamenti il quadro del provvedimento governativo appare definito: centri informali chiusi, procedure accelerate, smantellamento della protezione speciale, ostacoli alla conversione dei permessi di soggiorno in permessi per attività lavorativa. “Una strategia illegale e sconsiderata”, osserva Michele Rossi

    Per comprendere il testo del decreto legge 10 marzo 2023 (https://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=Resaula&leg=19&id=1375360&part=doc_dc-allegatoa_aa), il cosiddetto “decreto Cutro”, occorre applicare con grande concentrazione le parole d’ordine gramsciane circa il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà (A. Gramsci, Quaderni dal carcere, Einaudi, 2014). Pessimismo dell’intelligenza perché siamo certamente di fronte al più violento e invasivo tentativo di sovvertimento di alcuni fondamentali istituti costituzionali, democratici e sociali della recente storia repubblicana.

    Non deve in tal senso ingannare il fatto il decreto legge riguardi “solo” migranti e “solo” norme che disciplinano l’immigrazione. È evidente che sottesa a tale disciplina risulta ben visibile un’idea di società e pur producendo un certo accanimento su uno specifico gruppo sociale -i migranti-, l’intento, nemmeno troppo malcelato, è di intervenire sui rapporti tra gruppi sociali: un’operazione di “ortopedia sociale” (M. Focault, Sorvegliare e Punire, Einaudi, 2014) volta a separare, segmentare, disgiungere le comunità, annichilirne la tensione, individuale e collettiva all’integrazione, alla coesione, allo stesso contatto interculturale. Il decreto opera -purtroppo con conseguenze drammatiche- innanzitutto sulle persone migranti, ma colpendo loro, frammenta il corpo sociale intero, con pesanti ripercussioni su tutti. Non si tratta nemmeno più di modelli di accoglienza, addirittura il paradigma securitario credo non basti a interpretarne la ratio e la filosofia di fondo, vedremo, ma di produrre condizioni di tale aleatorietà da rendere ordinario l’arbitrio, la deterrenza sistematica sino all’avveramento della profezia: non è possibile nessuna integrazione, solo marginalità e segregazione.

    Del resto, come proveremo ad argomentare, per immaginare un tale impianto andava raccolto e finalizzato un lungo periodo di semina culturale e nei fatti, la nuova costruzione normativa non poteva che ergersi su fondamenta feroci, una de-soggettivazione del migrante e la criminalizzazione della solidarietà sociale. Nonostante la pletora di emendamenti, frutto di una ben organizzata e accurata strategia, il quadro normativo e anche simbolico e culturale appare definito e spaventoso: centri informali chiusi, procedure accelerate, smantellamento della protezione speciale, ostacoli alla conversione dei permessi di soggiorno in permessi per attività lavorativa. In poche parole: segregare e punire. Una strategia illegale e sconsiderata, che ha chiaramente una pesantissima ricaduta sociale su persone, territori e comunità.

    Impotenza e aggressività
    Il “decreto Cutro” emendato, con le sue novazioni normative, non è infatti preciso ma piuttosto confuso e lo è forse, volutamente. Vuole, questo è chiaro, rendere non più esigibili che quei diritti che non può permettersi di negare apertamente, come (forse) vorrebbe. Per questo sembra più orientato a creare caos, paura e incertezza che a prescrivere e normare un qualsivoglia governo del fenomeno. La lettura consegna abbastanza nitido il tentativo di rendere organico un sistema di deterrenza: non puoi arrivare, se arrivi non puoi stare, se stai verrai recluso, non avrai il permesso di soggiorno e non potrai muoverti, se e quando potrai muoverti non troverai accoglienza, se la troverai avrai pochi servizi e sconterai il tempo che avrai passato ad attendere, non potrai lavorare regolarmente e renderti autonomo, se anche lavori non potrai convertire il permesso in lavoro: preparati ad essere sempre marginale e per te oltre allo sfruttamento, nessuna garanzia e nessun futuro.

    In estrema sintesi, e semplificando (ma nemmeno troppo) questo è il suo contenuto: si rivolge allo straniero e -con l’aggressività dell’impotenza (i promessi blocchi navali non sono stati in effetti realizzati)- promette sofferenza, spaventa, annichilisce il diritto ma anche la speranza. In questo senso la sua banalità non deve ingannare: è tanto più pericoloso quanto studiato frutto di una meticolosa applicazione.

    Dove possiamo colpire siccome non possiamo fermare? Dove possiamo ostacolare siccome non possiamo negare? Stupisce però che il governo abbia applicato la sua logica senza nessuna remora circa le conseguenze, in termini di sofferenza, illegalità, marginalità e quindi del prezzo di un tale impianto sulle vite individuali e sulla società tutta che questa operazione comporterà. Il messaggio sociale, culturale e simbolico è tanto più nascosto nelle pieghe di mille emendamenti quanto più è forte anche in questo senso, e suona come un monito: “Attenzione, siamo disposti a tutto”. Un monito che traduce un senso del potere sulla vita delle persone incondizionato e feroce.

    La “banalità” degli emendamenti
    In tal senso non deve nemmeno ingannare che una ipotesi così invasiva e violenta avvenga attraverso decine e decine di singoli emendamenti, che con il loro aspetto tecnico e procedurale parrebbero offrire una qualche forma di rassicurazione: “Non si può operare un tale sovvertimento attraverso emendamenti”; ossia cancellazioni e aggiunte di commi, frasi, parole. Lo strumento garantisce una operazione meno organica e meno frontale -come fu nel 2018 con i “decreti sicurezza”- e rischia di attenuare l’attenzione pubblica, di distrarla, specie i non addetti ai lavori. È piuttosto da ritenersi che anche questa sia una precisa strategia, già peraltro testata nei mesi scorsi nel processo di conversione del cosiddetto “decreto sbarchi”, in cui una serie di emendamenti che reintroducevano aspetti salienti dei “decreti sicurezza” del 2018 furono presentati in commissione Affari costituzionali dal parlamentare leghista Igor Iezzi, per poi essere dichiarati inammissibili per estraneità di materia e senza i requisiti di necessità e urgenza. Calare attraverso un’azione ordinaria contenuti che ordinari non sono, prevenire una reazione nella società civile, anticiparla sul tempo, farlo senza essere (troppo) visibili, lasciare conseguenze irreparabili.

    Deterrenza e paura reali
    Infine va osservato come il decreto legge che si avvia a essere convertito in legge dello Stato e a sfidarne l’ordinamento, rechi il nome della località dove si è consumata l’ennesima tragedia del mare: Cutro. È sintomatico e paradossale al tempo. Sintomatico perché, riferendosi al luogo di una strage sulla quale il governo ha una responsabilità per l’assenza dei soccorsi, rende manifesta, plastica, l’assenza di ogni limite alla politica di deterrenza imbracciata. In questo senso il nome suona sinistro perché riporta alla mente il mancato soccorso, i morti, lo spostamento delle bare senza interloquire con i familiari, il mancato omaggio della presidente del Consiglio alle vittime, i superstiti lasciati e abbandonati nel Cara di Sant’Anna, piantonati dalle forze dell’ordine. La stessa località è stata però anche -ed in questo senso che il decreto si intitoli Cutro appare invece paradossale- di una grande, continua e spontanea manifestazione di accoglienza dei cutresi e di tante comunità, paesi, amministrazioni della Calabria: dalla veglia delle vittime alla solidarietà ai superstiti, al blocco stradale per impedire il trasferimento coatto delle bare, alla manifestazione nazionale dell’11 marzo e a uno striscione, che, rivolto ai migranti tutti, vittime e superstiti, recitava: “La vostra speranza è la nostra speranza”. Quella speranza che il decreto vuole colpire e che i cittadini di Cutro e della Calabria hanno invece scelto per riconoscere nei migranti ciò che ci unisce. Ed è questo che il decreto, in ultima istanza, vuole intaccare.

    Carichi residuali
    Molto diverse da queste parole, sulla spiaggia di Steccato di Cutro, mentre ancora erano in corso le operazioni di recupero dei corpi delle vittime, quelle del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, che non riconosce “speranza” nei migranti ma una mancanza, precisamente di responsabilità. Lui non si rivolge direttamente ai migranti come invece faranno i cutresi, parla in prima persona, ma traccia un distinguo, morale, un solco incolmabile tra chi come lui, il ministro dice,“educato alla responsabilità” non avrebbe messo in mare, nelle mani degli scafisti i figli e chi lo ha fatto. Questa affermazione ben rappresenta a mio parere, lo spirito che informa il decreto che sopra abbiamo provato a interpretare. La strage, si intende, è colpa di chi, irresponsabile e non educato alla responsabilità, ha messo i figli in mare. La frase ha provocato, per la violenza e brutalità che esprime, forti reazioni; ma non è evidentemente un’esternazione sconsiderata. Le parole del ministro “disumanizzano” i migranti, che lo faccia a fronte dei corpi delle vittime, le rende solo più odiose, ma a ben vedere che cosa vuole trasmettere il ministro? Che non c’è società comune possibile senza “educazione”, senza il rispetto dei figli, senza responsabilità, non c’è futuro possibile “con” i rifugiati, essi non sono persone ma una categoria indistinta, non “educata” alla responsabilità, una minaccia quindi che va contenuta con ogni mezzo. Pochi mesi prima si era infatti rivolto a loro definendoli “carico residuale”. Ci siamo “noi”, categoria morale, e “loro” categoria immorale, che non hanno i medesimi attributi di umanità, che hanno la colpa della strage. Altri esponenti del governo avrebbero infatti parlato in quei giorni di mancato “rispetto di sé e della vita”. E come si può costruire una comunità con chi non ha rispetto “per sé e per la vita”, “responsabilità verso i figli” che appaiono essere i presupposti necessari per una convivenza civile?

    Privare
    Forse più queste affermazioni che singoli emendamenti riescono a restituire, perché ne sono coerente espressione, il disegno complessivo del decreto. Ma appunto vi è coerenza e continuità, le esternazioni pubbliche rompono la patina burocratica e banale del lavoro tecnico di scrittura di commi, articoli e rimandi. Tuttavia quegli emendamenti non potrebbero essere stati scritti se non avendo in mente “carichi residuali”, “non-persone” cui attribuire vigliaccamente la colpa della loro stessa morte per mancanze strutturali che li rendono definitivamente e senza appello, “altro” da noi, corpi estranei, da espellere, impossibilitati a vivere in comunità. Sironi, in un importantissimo saggio sulla tortura (Sironi, Françoise, Psychopathologie des violences collectives, Odile Jacob, 2007), scrive “privare i migranti del riconoscimento dei fattori storici e politici in cui prende corpo la migrazione, significa negare ai migranti quelle dimensioni cruciali nelle negoziazioni identitarie e nelle più ampie trasformazioni sociali che li implicheranno in qualità di nuovi cittadini”. È esattamente questo il punto. Esternazioni e decreti concordano invece su questa linea: negare i fattori storici e politici in cui la migrazione prende corpo. Per prima cosa infatti dobbiamo affermare che il decreto del 10 marzo 2023 lascia invariate due premesse: non sono possibili arrivi legali e canali sicuri e il solo modo di regolarizzarsi resta, nei fatti, l’asilo politico. Però non ci sono “veri” rifugiati e le liste dei Paesi sicuri aumentano irragionevolmente. Una scelta che nega la realtà attuale: guerre, persecuzioni, regioni non più abitabili, più di 100 milioni di rifugiati globali, il trionfo delle organizzazioni del traffico che prosperano sulla chiusura dei confini europei, i sanguinosi patti con Libia e Turchia.

    Segregare: l’assalto alla libertà dei richiedenti asilo
    Costretti a una migrazione forzatamente illegale, quindi a manifestarsi come presenza indesiderata e minacciosa dell’equilibrio sociale, economico, finanche “etnico” del Paese di approdo, il migrante è anche costretto a chiedere asilo, costituendo questa l’unica via -per poi dover sottostare a una complessa procedura burocratica di legittimazione della propria presenza e a un esito assai incerto rispetto il riconoscimento di una forma di protezione-.

    Il quadro che si sta delineando appare infatti molto peggiore anche di quello tracciato nel 2018 dai famigerati “decreti sicurezza”, perché entra in gioco oggi -ancor più violentemente- il tema della limitazione della libertà personale dei richiedenti asilo. Se, ad esempio, nel 2018 la riforma sovvertiva il sistema di accoglienza affermando la centralità dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), ridotti a mero parcheggio, senza servizi di integrazione e senza nemmeno il rispetto degli standard minimi europei; essi oggi rischiano di essere “superflui”, perché comunque aperti, ovvero senza limitazione della libertà personale dei richiedenti. Oggi il Governo Meloni preconizza, con la nozione vaga di “punti caldi/punti di crisi” (hotspot), centri di detenzione informale in cui condurre sia le procedure di identificazione sia l’esame, accelerato, delle domande di asilo. Non più quindi luoghi di transito ma di detenzione informale. Come osserva Gianfranco Schiavone va infatti ricordato che “l’ordinamento italiano continua a non prevedere alcun intervento dell’autorità giudiziaria sul presupposto della detenzione negli hotspot e sulla condizione della stessa”. Il governo sceglie la direzione opposta, intendendo sfruttare al massimo questa mancanza di garanzia, gli hotspot divengono da luoghi di identificazione e transito, centri informali di detenzione, utili sia all’identificazione sia all’esame, accelerato, della domanda d’asilo.

    Segregare: l’estensione indebita della frontiera
    È attraverso questa risignificazione dei vaghi e opachi “punti di crisi/punti caldi” che il governo, ignorando il dettato costituzionale sul trasferimento delle funzioni amministrative ai Comuni, si appresta a estendere indebitamente la nozione di “frontiera” sin dentro città e paesi, anche molto lontano da porti e confini terrestri e, in questo spazio sospeso e indefinito, a tracciare il solco e innalzare i muri che separeranno italiani e stranieri, presenze legali e “illegali”, dentro e fuori. Gli emendamenti al “decreto Cutro” prevedono un ampiamento delle casistiche cui applicare la procedura accelerata di esame della domanda di asilo (o procedura “di frontiera”) tale da ricomprendere nei fatti ogni casistica possibile. Il decreto prevede anche la moltiplicazione degli hotspot sul territorio nazionale. Sino ad oggi le procedure di esame accelerato, in frontiere erano limitate a pochissime fattispecie. È un cambio di paradigma: negli hotspot non solo la procedura di identificazione ma anche l’esame della domanda d’asilo, con la possibilità di estenderne -evidentemente- i tempi di permanenza. È la genesi di un nuovo sistema concentrazionario. Infatti ritorna anche, dal testo dei “decreti sicurezza”, l’impossibilità per i richiedenti asilo di accedere al sistema pubblico di accoglienza integrata e diffusa (Sai, già Sprar). Tale sistema ritorna quindi in versione Siproimi, a essere esclusivo per i soli, pochi, cui verrà riconosciuta la protezione internazionale. Tramonta l’idea di costruire la protezione e l’integrazione sin da subito, attraverso la prossimità relazionale del contatto nelle comunità e attraverso la libertà di movimento dei richiedenti asilo.

    Punire: la spietata logica dei grandi centri chiusi
    Una recente e fondamentale inchiesta di Altreconomia, condotta da Luca Rondi e Lorenzo Figoni, ha squarciato il velo sulle condizioni di vita dentro i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). L’articolo s’intitola significativamente “Rinchiusi e sedati: l’abuso quotidiano di psicofarmaci nei Cpr italiani”. I Cpr, pur teatro di un crescente numero di gesti autolesivi, suicidi, violenze e danneggiamento delle strutture, sono stati recentemente oggetto di uno stanziamento economico imponente (quasi 46 milioni di euro) per potenziarne -sempre seguendo la logica della paura e della deterrenza percorsa dal governo- il funzionamento e anche in questo caso, la diffusione sul territorio nazionale. Si intravede un’ipotesi: segregare il migrante sin dal suo arrivo e in caso di diniego passare direttamente da hotspot a Cpr. L’inchiesta di Altreconomia, dati alla mano, mostra l’abuso di psicofarmaci dentro le strutture, utilizzati sistematicamente per disciplinare migranti costretti all’inattività forzata, senza personale cui rivolgersi e nessuna attività da svolgere.

    In un’intervista rilasciata al giornalista Franz Baraggino e pubblicata su ilfattoquotidiano.it, il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, ha commentato: “Avere più Cpr non serve a niente, se non a dare il messaggio simbolico del ‘li teniamo chiusi qui’, nient’altro”. Lo stesso Garante ha aggiunto che “in quei posti le persone cambiano e quando ritornano nelle nostre comunità, come il più delle volte accade, sono peggiorate […] i comportamenti di insofferenza acuta sono il prodotto di uno spazio dove non sei nulla, non fai nulla e nulla avviene, salvo rimuginare sul proprio destino, che è un destino di fallimento, quello del rimpatrio”. Complessivamente nei Cpr transitano circa 10mila persone all’anno, il 2% del totale degli irregolari, e contribuiscono per il solo 50% (circa 3.000) ai complessivi 6.000 rimpatri che avvengono in media ogni anno. Senza accordi bilaterali, il rimpatrio è per molti più una minaccia che una realtà. A fronte dell’inefficacia dello strumento, a fronte dei suoi costi e della sofferenza che genera, il governo invece investe su questa forma di detenzione per le persone “espulse”, per un’irregolarità appositamente creata.

    Sin dagli anni 90 del secolo scorso la letteratura scientifica è concorde sull’individuare nei centri di detenzione amministrativa, siano strutture adibite al rimpatrio come i nostri Cpr o le strutture di confinamento e segregazione dei richiedenti asilo come gli hotspot, luoghi con alta incidenza di problemi psichiatrici psicologici, di perdita della salute organica e delle risorse psico-sociali per affrontare la vita lavorativa e sociale una volta usciti dal centro (Loutan, Louis, et al. “Impact of trauma and torture on asylum-seekers.” The European Journal of Public Health 9.2 (1999): 93-96.). Allora perché farne sistema? La domanda è chiaramente retorica.

    Punire: lo smantellamento della protezione speciale
    Largamente anticipati da un sinistro rumore di fondo che ha ricordato il precedente assalto alla protezione umanitaria (2018), un rumore di fondo sorretto dalla mistificazione che affermava essere la protezione speciale una anomalia solo italiana; gli emendamenti al “decreto Cutro” hanno infine smantellato anche tale protezione. Non potendo privarla dei riferimenti a convenzioni e norme internazionali (Cedu), il governo -altro esempio di logica deliberatamente punitiva- ha scelto di confondere le competenze per il rilascio, ostacolandone l’ottenimento, che rimane sulla carta possibile ma nei fatti arduo. Se sino a oggi il percorso di ottenimento appariva ragionevole e chiaro, ora non lo è più, precipitato nel conflitto di competenze tra questure e commissioni territoriali. Preme sottolineare che questa ennesima e antieconomica previsione colpirà in special modo coloro che per varie ragioni stanno compiendo passi decisivi per un percorso di integrazione sociale e lavorativa, cui ha dato principio nonostante gli ostacoli precedenti.

    Conclusione
    Abbiamo provato a ricostruire il messaggio culturale, simbolico e -almeno per alcune misure- le conseguenze concrete, di quanto previsto dal decreto legge del 10 marzo 2023 e dei suoi numerosissimi emendamenti che ne definiranno la conversione in legge, prevista entro i primi dieci giorni di maggio. Per quanto molti dei suoi contenuti siano di difficile applicazione ed è prevedibile un’imponente mole di controversie legali, abbiamo creduto importante analizzarne gli intenti, cercando di osservarne il disegno per comprendere quale intenzioni ed obiettivi hanno mosso il legislatore in una così radicale sfida all’ordinamento giuridico, ai diritti, a istituti sociali e conquiste culturali.

    Tra queste, certamente colpisce, a 45 anni dalla “Legge Basaglia”, il ritorno a strutture concentrazionarie per segregare un determinato gruppo sociale, oggi i migranti, privati della loro libertà per la colpa di sfidare con determinazione, disperazione o -come riconosciuto dai cutresi- speranza, il divieto imposto dall’Europa e dall’Italia a poter vivere in pace e sicurezza. Per articolare in legge questo che è un discorso politico e culturale “estremo” che nega sia ai migranti il riconoscimento delle cause in cui si è prodotta la migrazione, sia alla società italiana la propria storia e le sue conquiste democratiche e sociali (tra esse ricordiamo solo la chiusura dei manicomi, delle classi speciali), il governo investe su un decisivo salto di qualità in strumenti e pratiche di segregazione, confinamento e marginalizzazione dei migranti, sino al punto di limitare la libertà personale. Un salto di qualità atto a impedire il contatto, la solidarietà e orientato a impedire l’integrazione sociale e lavorativa, la convivenza interculturale basata sui diritti.

    Vincolato da Costituzione, trattati internazionali, norme superiori, il governo propone allora un disegno “banalmente” tecnico nella forma (gli emendamenti) quanto feroce nella sostanza. Tanto più feroce quanto più impotente a fronte dei cambiamenti epocali che stiamo collettivamente attraversando, cercando nella deterrenza e nella minaccia ai gruppi sociali più fragili, la misura della propria forza e assumendo una postura punitiva, inutile se non a produrre evitabili sofferenze individuali, tensioni sociali improduttive e costi economici e sociali per le generazioni future.

    L’iniziale citazione di Antonio Gramsci è stata trattata solo per metà, quella relativa al pessimismo dell’intelligenza. In conclusione è il tempo invece della seconda parte, l’ottimismo della volontà. C’è ragione di credere che un disegno -quello tracciato dal decreto- così povero di futuro e così meschinamente abbarbicato sulla deumanizzazione dei migranti, sia rigettato dalla società, sia reso inapplicabile nella quotidianità, nelle relazioni interpersonali e sociali, prima ancora che nelle aule dei tribunali, iniziando una grande stagione dove italiani e migranti insieme affermino uniti l’inviolabilità dei diritti di tutti e tutte e la libertà di costruire insieme il futuro che ci attende.

    https://altreconomia.it/segregare-e-punire-il-disegno-politico-brutale-dentro-il-decreto-cutro
    #décret #décret_Cutro #decreto_Cutro #Italie #migrations #asile #réfugiés #loi

    • Italy: New law curtails migrants’ rights

      For migrants in Italy getting special protection status can be life-changing. But lawmakers have now approved a law severely restricting access.

      Italy’s parliament recently greenlighted a controversial decree to crack down on irregular migration. Known as the Cutro decree — in reference to the southern town in Calabria where more than 90 people died in a shipwreck last February — the legislation severely limits a special protection status Italian authorities can grant to migrants who do not qualify for asylum.

      Italy has recorded more than 42,000 irregular arrivals since the beginning of 2023, almost four times as many as in the same period last year and the Italian government claims special protection incentivizes migrants to start dangerous trips to the country.

      “Special protection creates attractive conditions for immigration and we will eliminate it,” said Nicola Molteni of the right-wing League party, whose currently serving as the undersecretary at the Interior Ministry.

      Agriculture Minister Francesco Lollobrigida, from Prime Minister Giorgia Meloni’s far-right Brothers of Italy party, recently sparked controversy, warning against the “ethnic replacement” of Italians by migrants, a notion widely regarded as racist.

      Before the decree, people offered special protection status could live in Italy for two years, renew their residence permit and convert it into a working permit. It was granted to asylum seekers who risked being persecuted in their country of origin, those fleeing war and natural disasters, as well as those with family ties or high levels of economic integration in Italy.
      What changes with the new migration rules

      Now, all that has changed. While special protection remains available for those at risk of torture, inhumane treatment or systematic rights violations in their home nation, the new law narrows access by scrapping criteria based on family links or economic integration.

      “If a person is not at terrible risk in their home country, but in the meantime has started a family or had children in Italy, the commission [assessing residence status] will not take this into account,” explains Paolo De Stefani, a professor in international law at the University of Padova.

      People fleeing natural disasters or seeking treatment for severe medical conditions will also see their access to special protection restricted. Most importantly, however, it will not be possible for them to convert it into a work permit.

      Language courses and legal advice will also be scrapped in reception centers.

      Things will change, too, for unaccompanied minors. They are still entitled to special protection permits until they turn 18; they can extend it for one more year, but cannot convert it into a work permit.

      “This means killing the prospects of integration for people arriving in Italy at a very young age,” said De Stefani. “What type of educational path will be imagined for those with such prospects?”

      In contrast with the otherwise restrictive nature of the law, the law offers a new possibility for victims of forced marriage to apply for special protection.

      Migrants fear for their future

      While those who already benefit or who have already requested special protection will not be affected by the new legislation, many agree the climate towards migrants has become more harsh.

      Sarja Kubally, a Gambian national currently under special protection, says Italy has not been the same since a new government headed by the far right came to power.

      “I am thinking of leaving, I am happy here, but now I am afraid of staying with this situation,” he told DW.

      Although Kubally is confident he himself will get a work permit, he fears others will miss out on opportunities he benefited from.

      “Special protection really changes your life. It allows you to work, to study. You can do many things and give back,” Kubally said. “If someone needs help, you need to help them, not make it even harder for them. We should put humanity first.”

      The uncertainty for Ali, who asked not to use his real name for security reasons, is far greater. The Pakistani national, who spent four years in Greece where he maintains local authorities did not accept his asylum claim, has been living in Italy since 2021. He now has a three-year work contract and is learning Italian, but his asylum request was recently rejected. He is now appealing the decision. Should his bid be turned down again, Ali will not be able to apply for special protection under the new rules.

      “I lost four years of my life in Greece, but here in Italy I am well integrated, I have a job, I want to stay here,” Ali told DW. “Well-integrated people should be allowed to stay. I haven’t thought about [what I would do if I couldn’t access special protection]. Going back to Pakistan is unthinkable.”

      Less special protection, more precariousness

      Italy has always provided special protection, except from 2018-2020 when former Interior Minister Matteo Salvini scrapped it temporarily . Though Prime Minister Giorgia Meloni claims otherwise, Italy is not the only country which offers this type of protection. Though different terminology is used, 18 other states in Europe provide similar special protections.

      Critics warn restricting access to special protection will push more migrants into an undocumented life outside the law and rob vulnerable people of fundamental rights — especially as the move follows another decree which limits the work of nonprofit rescue ships operating in the Mediterranean, and Italy last month declaring a six-month state of emergency to curb migration flows.

      Valeria Carlini, a spokesperson for the Italian Council for Refugees, says the law will not only harm people seeking protection but also local societies, where migrants have begun building a life and contributing to the socioeconomic fabric.

      Law professor De Stefani believes the legislation ultimately undermines integration — especially for irregular migrants — and aims to put an emergency band-aid on migration flows. “People will have poorer conditions in Italy and eventually seek better protection and living standards in other European countries,” he said.

      Like many of her predecessor governments, Meloni has been demanding more solidarity and better coordination among EU countries to tackle migration flows.

      “This law might be seen as the latest maneuver to pressure Europe into seriously tackling migration issues, but it is betting with someone else’s life,” said De Stefani.

      https://www.infomigrants.net/en/post/48834/italy-new-law-curtails-migrants-rights

    • La doppia morte dei naufraghi di #Cutro

      1.

      In un documento redatto dall’associazione di magistrati Area sul “#decreto_Cutro” appena prima dell’esame della Camera dei Deputati, si legge questo interrogativo: «cosa spinge il legislatore a credere che blocchi navali o i finanziamenti di regimi autoritari possano fermare persone che hanno attraversato il deserto per fuggire a guerre, violenza insopportabile, distruzione, persecuzione, ripetute discriminazioni e che cercano protezione in quei Paesi che hanno fatto della protezione internazionale e del rispetto della dignità una regola fondamentale e immutabile della loro civiltà?» (https://www.areadg.it/comunicato/non-chiamiamolo-decreto-cutro). Nel frattempo il decreto legge è stato convertito, senza alcuna modifica da parte della Camera ove il Governo ha posto la fiducia, nella legge 5 maggio 2023 n. 50.

      Dopo la tragedia di Cutro (94 morti di cui 36 bambini, ma vi sono altri dispersi) chiunque si sarebbe aspettato che il Governo, seppure dalla sua posizione di chiusura, mettesse mano alla legislazione vigente focalizzandosi su due questioni generali irrisolte: la prima questione riguarda come riformare la normativa in materia di ingressi per lavoro in modo da aprire canali di ingresso regolare, come lo stesso Governo ha più volte annunciato di voler fare; la seconda riguarda la possibilità di introdurre procedure di ingresso protette/sicure, finora non esistenti, per consentire a una parte dei rifugiati che intendono arrivare in Italia di poterlo fare attraverso canali appunto protetti. In entrambi i casi le due diverse auspicate normative, oltre a salvare vite umane, avrebbero avuto il non secondario effetto di sottrarre alla criminalità organizzata delle quote di merce umana. Eppure la legge n. 50/2023 non è intervenuta su nessuna di queste due questioni fondamentali: né sugli ingressi per lavoro, né sugli ingressi per asilo.

      Sulla materia degli ingressi per lavoro il decreto legge n. 20/2023, poi convertito in legge, è intervenuto su due aspetti: la programmazione generale degli ingressi e la formazione all’estero. Sul primo punto la nuova disciplina prevede «la predisposizione ogni tre anni – salva la necessità di un termine più breve – del documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione» e «la definizione con dPCM annuale delle quote di ingresso, con possibilità di adottare ulteriori decreti in corso d’anno, sulla base dei criteri generali adottati nel documento programmatico». Ciò, peraltro, era già contemplato, con minime differenze, dalla normativa e l’unica modesta innovazione riguarda la modifica all’art. 21 del TU Immigrazione secondo cui «può essere autorizzato l’ingresso e il soggiorno per lavoro subordinato, anche a carattere stagionale, di stranieri cittadini di Paesi con i quali l’Italia ha sottoscritto intese o accordi in materia di rimpatrio». Nulla viene modificato in relazione al problema di fondo che produce da oltre vent’anni l’irregolarità in Italia, ovvero l’impossibile incontro a distanza tra offerta e domanda di lavoro che costringe i lavoratori stranieri a entrare in Italia irregolarmente, o a entrarvi regolarmente – se provenienti da paesi per i quali non è richiesto il possesso di un visto – e poi rimanere a soggiornare irregolarmente e lavorare in nero in attesa che un provvedimento di emersione o un decreto flussi, come quello emanato dal Governo il 26 gennaio 2023 per 82.705 posti di lavoro (a fronte di 240.000 domande presentate) permetta loro di regolarizzare ex post la loro posizione di soggiorno. Paradossalmente la nuova norma non prevede neppure l’abrogazione della preventiva verifica dell’indisponibilità di lavoratori italiani o stranieri già presenti in Italia prevista quale condizione per il rilascio dei nulla-osta al lavoro richiesti da datori di lavoro per l’assunzione dei persone chiamate a svolgere le prestazioni indicate nel decreto sulle quote: si genera così ancora una volta una palese contraddizione in quanto la programmazione è (o meglio dovrebbe essere) fondata sull’analisi del fabbisogno del mercato del lavoro effettuata dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali previo confronto con le organizzazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori. È quindi irragionevole che l’assunzione dall’estero per la medesima mansione sia condizionata da un’ulteriore verifica da parte del centro per l’impiego della indisponibilità di altri lavoratori che siano già in Italia. La mancanza di modifiche sostanziali, coperta da modificazioni solo linguistiche, è visibile in modo evidente nell’art. 23 TU immigrazione che prevede la possibilità di realizzare attività di istruzione e di formazione professionale e civico-linguistica nei Paesi di origine finalizzata all’inserimento lavorativo mirato nei settori produttivi italiani. Si tratta anche in questo caso, di una previsione che esisteva già, solo con diversa epigrafe. L’unica modifica significativa riguarda la possibilità che il Ministero del lavoro promuova «la stipula di accordi di collaborazione e intese tecniche con soggetti pubblici e privati operanti nel campo della formazione e dei servizi per il lavoro nei Paesi terzi di interesse per la promozione di percorsi di qualificazione professionale e la selezione dei lavoratori direttamente nei Paesi di origine» (art. 23 comma 4 bis); l’ingresso dei lavoratori che hanno effettuato i corsi avverrebbe in tal caso in deroga ai limiti quantitativi previsti dalla programmazione delle quote di ingresso. Si apre così la possibilità di una selezione delle braccia da parte di grandi agenzie che decideranno di organizzare corsi di formazione per reperire la propria mano d’opera all’estero, ma non la possibilità per i lavoratori stranieri che hanno effettuato con successo dei corsi di formazione all’estero (magari nell’ambito di programmi di cooperazione allo sviluppo, del tutto esclusi) di ottenere un visto di ingresso per ricerca di lavoro in presenza dei requisiti economici, posseduti dagli stessi lavoratori o forniti da terzi, necessari a mantenersi in Italia per un primo periodo. Se così fosse stato la legge avrebbe dato avvio a una pagina nuova che non si è voluto in alcun modo aprire. Il messaggio è chiaro: nessuna riforma del sistema degli ingressi doveva essere effettuata.

      Se sul versante degli ingressi per lavoro il Governo ha finto di aumentare i canali di ingresso regolari, per ciò che riguarda gli ingressi per asilo non ha neppure finto: nulla infatti è stato proposto se non dichiarazioni di elogio all’esperienza dei corridoi umanitari, realizzati però non dal Governo ma da enti umanitari. Le persone morte nella strage di Cutro, come in molte altre tragedie, erano in larga parte stranieri che fuggivano da situazioni di persecuzione e violenze in Afghanistan, Siria, Iraq e altri paesi e che cercavano asilo in Europa. La loro partenza dalla Turchia e la scelta della rotta marittima erano legate alla necessità di evitare, almeno per i soggetti più deboli (quali donne e minori), la via terrestre, ovvero la famigerata rotta balcanica segnata da continue violenze e respingimenti, dalla Grecia fino alla Slovenia. Sotto questo profilo la strage di Cutro rappresenta una tragica sintesi dell’ecatombe in atto lungo le rotte migratorie, sia via mare che via terra. Un decreto legge che nasce quale risposta a quella strage, come detto in premessa, avrebbe dovuto affrontare il nodo di come introdurre procedure e criteri in base ai quali i cittadini stranieri con bisogno di protezione internazionale possano entrare in Italia in modo regolare e protetto, autonomamente o usufruendo di programmi pubblici. Anche su questo versante erano state avanzate diverse interessanti proposte, ma sono state tutte rigettate.

      C’è una terza questione che la legge n. 50/2023 non affronta: la materia dei soccorsi in mare considerata la tardività e inefficacia dimostrata nel caso specifico e, in particolare, la non chiarita ragione per cui, pur informate dei fatti, le autorità competenti sono intervenute agendo attraverso modalità riconducibili a un’operazione di polizia e non a quelle di un operazione di ricerca e soccorso, come richiesto dalla normativa internazionale (https://www.asgi.it/notizie/naufragio-cutro-associazioni-depositano-esposto-collettivo-in-procura). A ben guardare però la materia del soccorso in mare è già regolata da precise norme di diritto internazionale recepite dall’Italia e non c’è bisogno di alcuna nuova disciplina per evitare le tragedie come quella di Cutro, che, semmai, avvengono a causa di prassi e forzature finalizzate e eludere o indebolire gli obblighi di soccorso. Di fronte a una tragedia avvenuta in un’area geografica non presidiata dall’intervento di ONG il Governo italiano non ha potuto coprire le proprie carenze gettando la colpa sulle odiate organizzazioni umanitarie. Alla caccia di qualcosa di roboante da dare in pasto all’opinione pubblica ha scelto, dunque, di introdurre nuove disposizioni penali eccezionalmente severe nel caso di morte o lesioni come conseguenza dei delitti di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. La premier Meloni ha scenograficamente annunciato ai media «la volontà di colpire gli scafisti non solo quando li troviamo sulle barche, ma andandoli a cercare lungo tutto il globo terracqueo» (la Repubblica 10 marzo 2023) dimenticando che coloro che guidano le imbarcazioni spesso hanno poco a che fare con le organizzazioni criminali e che in ogni caso, anche quando vi sono connessi, sono gli ultimi anelli della catena (Dal mare al carcere: la criminalizzazione dei cosiddetti scafisti).

      2.

      Se non interviene né sui nodi scoperti degli ingressi regolari per lavoro, né sugli ingressi protetti, quali sono dunque le materie affrontate dal decreto legge n. 20/2023 e, poi, dalla legge di conversione n. 50/2023?

      Gli aspetti essenziali, la nuova norma interviene sono tre: a) il ridimensionamento della protezione speciale; b) la destrutturazione del sistema di accoglienza dei richiedenti asilo con smembramento del SAI (sistema di accoglienza ed integrazione), a cui – analogamente a quanto era avvenuto per lo SPRAR con la legge n. 173/2020 – viene sottratta la possibilità di accogliere i richiedenti asilo; c) l’ampliamento delle ipotesi di trattenimento dei richiedenti asilo nei CPR e soprattutto negli hotspot e una parallela estensione delle procedure di frontiera o procedure accelerate, con una generale contrazione delle garanzie procedurali in sede di esame delle domande di asilo.

      Mi limito, per ragioni di spazio, a un breve approfondimento della problematica della protezione speciale. Il ridimensionamento della terza forma di protezione prevista dall’ordinamento, la cosiddetta protezione speciale, introdotta con la legge n. 132/2018 ma novellata in senso estensivo con la legge n. 173/2020, è stato il tema che maggiormente è emerso nel dibattito pubblico. Il testo del decreto legge n. 20/2023 sembrava mirare solo a restringere l’ambito di applicazione della previgente normativa cassando il paragrafo dell’art. 19 comma 1.1 secondo cui «non sono altresì ammessi il respingimento o l’espulsione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, a meno che esso sia necessario per ragioni di sicurezza nazionale, di ordine e sicurezza pubblica nonché di protezione della salute nel rispetto della Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati. Ai fini della valutazione del rischio di violazione di cui al periodo precedente, si tiene conto della natura e della effettività dei vincoli familiari dell’interessato, del suo effettivo inserimento sociale in Italia, della durata del suo soggiorno nel territorio nazionale nonché dell’esistenza di legami familiari, culturali o sociali con il suo Paese d’origine». In sede di conversione in legge al Senato è emersa una volontà della maggioranza ancor più aggressiva finalizzata a cancellare pressoché in toto questo istituto e ad eliminare la possibilità di esaminare la domanda di riconoscimento della protezione speciale attraverso il canale costituito dall’istanza alla questura e dal parere vincolante della commissione senza audizione, ovvero fuori dalla procedura di esame di una domanda di asilo. Alla fine dell’iter parlamentare alcune delle proposte più estreme sono state ritirate (pur se tutto è stato incanalato nella sola procedura di asilo) ed è rimasto l’obbligo per le Commissioni territoriali che esaminano le domande di asilo di riconoscere una protezione speciale qualora «esistano fondati motivi di ritenere che [la persona interessata] rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti o qualora ricorrano gli obblighi di cui all’articolo 5, comma 6 [del TU Immigrazione]». Il nuovo articolo prevede che «il rifiuto o la revoca del permesso di soggiorno possono essere altresì adottati sulla base di convenzioni o accordi internazionali, resi esecutivi in Italia, quando lo straniero non soddisfi le condizioni di soggiorno applicabili in uno degli Stati contraenti, fatto salvo il rispetto degli obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano».

      In questa situazione pochi dubbi possano esserci in relazione all’obbligo per le Commissioni territoriali di valutare la sussistenza dei requisiti per il riconoscimento della protezione speciale per rispetto di uno degli obblighi costituzionali o connessi all’ordinamento internazionale cui l’Italia è vincolata. Tra tali obblighi v’è il rispetto della vita privata e familiare sancito dall’art. 8 CEDU (Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo) come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU e da una rilevante giurisprudenza interna. Si è invece diffusa una fallace informazione secondo cui la protezione speciale è stata cancellata. In particolare si è sostenuto che è stato cancellato il riconoscimento di tale protezione per riconoscimento del diritto alla vita privata e famigliare. Persino nella relazione illustrativa del decreto legge alla Camera dei Deputati si possono leggere affermazioni quali la seguente: «l’articolo 7, modificato al Senato, elimina il divieto di respingimento ed espulsione di una persona previsto nel caso vi sia fondato motivo di ritenere che l’allontanamento dal territorio nazionale comporti una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare». In tale frase si sostiene che è legittimo espellere colui che… ha il diritto a non essere espulso. Ha dell’incredibile leggere tali corbellerie in un atto parlamentare e ciò illumina il livello di tensione politica che ha avvolto l’intera vicenda e soprattutto svela l’intenzione dell’Esecutivo: il diritto in questione non può essere cancellato, ma non deve potere essere esercitato.

      È agevole prevedere, sulla base di chiare evidenze, che il Governo farà enormi pressioni affinché le Commissioni territoriali per il riconoscimento del diritto d’asilo (che non sono per nulla indipendenti e soggette solamente alla legge e su cui si esercita una pervasiva influenza politica) restringano al massimo l’ambito di applicazione della protezione speciale rigettando il maggior numero possibile di domande anche in presenza dei presupposti per il riconoscimento. Che lo straniero denegato faccia pure ricorso alla magistratura sapendo che essa deciderà sui ricorsi dopo anni a causa della lentezza dei procedimenti, che diverranno ancor più lenti a causa dell’aumento dei contenziosi. Intanto ciò che conta è portare subito a casa il risultato di una diminuzione del numero dei riconoscimenti di protezione, anche se ciò aumenterà l’irregolarità e la precarietà di vita di migliaia di persone la cui vita è ritenuta irrilevante.

      Con il decreto legge n. 20/2023 e la conseguente legge di conversione i morti del naufragio di Cutro sono morti una seconda volta.

      https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/05/16/la-doppia-morte-dei-naufraghi-di-cutro
      #naufrage #mourir_en_mer #décès #Gianfranco_Schiavone #migrations #asile #réfugiés #Méditerranée #Italie

    • Naufragio di Cutro, ritardi e omissioni della Guardia di finanza. Avvisi di garanzia per tre ufficiali

      Il giallo degli audio spariti e le bugie sulla vedetta di salvataggio. Perquisizioni e sequestri di tablet e cellulari. L’ipotesi di reato: omicidio colposo. Alti tre indagati coperti da omissis. Il legale delle vittime
      “Lo Stato ha responsabilità chiare”

      Alle 23.49 del 25 febbraio il capoturno della sala operativa della Guardia costiera di Reggio Calabria era relativamente tranquillo. Da Vibo Valentia, la Guardia di finanza assicurava che una loro motovedetta, la potente “5006” era già uscita alla ricerca di quel caicco, verosimilmente carico di migranti, segnalato un paio d’ore prima da un aereo di Frontex a tutti i comandi operativi europei ed italiani a cominciare da quello della Finanza a Pratica di mare.

      (#paywall)
      https://www.repubblica.it/cronaca/2023/06/01/news/naufragio_cutro_indagati_sequestro-402763465

      #justice

    • The Crotone Cover Up

      Italy lied about their role in a shipwreck that killed 94 people – including 35 children – and the EU border agency Frontex helped cover it up

      During the early hours of February 26, 2023 a wooden pleasure boat crashed close to the shore in Cutro, Italy. On board were nearly 200 people, mostly refugees from Afghanistan. At least 94 of them died, including 35 children. Yet the overloaded boat had been spotted by Europe’s border agency Frontex six hours before the wreck, struggling in bad weather. The deaths, which took place so close to the shore, shocked Italy and Europe. But Frontex and the Italian authorities deflected blame onto each other.

      Frontex said that the boat showed “no signs of distress” and that it was up to Italy to decide whether to launch a rescue operation. Italy’s prime minister claimed that they didn’t know the boat “risked sinking” and didn’t intervene because Frontex didn’t send them an ‘emergency communication’. “Do any of you think that the Italian government could have saved the lives of 60 people, including a child of about three years whose body was just found today, and it didn’t?” Prime Minister Giorgia Meloni said shortly after the tragedy.

      A joint investigation by Lighthouse Reports and its partners reveals that both the Italian authorities and the Frontex leadership were aware that the boat was showing signs of distress when the ship was first spotted six hours before the wreck, but nevertheless decided not to intervene – and later tried to conceal how much they knew.
      METHODS

      When images of boat debris on an Italian beach were broadcast around the world, it was hard to imagine that they came from a vessel carrying 200 people. The Summer Love, a wooden boat approximately 25 metres long, was crammed with women, children and men fleeing wars, hoping for a better life. With little video footage available, we decided to make a 3D model of the vessel to better understand and explain the risks people were prepared to take. Crowded below decks, they had little chance of survival when the boat sank as their only exit was one narrow staircase.

      Over time, our reporters won the trust of some of the survivors by spending time with them in the centres they’re now living in. They shared their stories from departing Turkey to the harrowing losses they suffered in the sea. Some shared videos which revealed additional details about the shipwreck, including a tablet with navigation software which confirmed the vessel’s location and direction of travel.

      Crucially, we obtained leaked confidential Frontex mission reports which revealed that a plane operated by the border agency had reported signs of distress to both the agency and Italian authorities. Hours before the flight, operators warned about “strong winds” in the Ionian Sea. Frontex then detected the vessel by tracking multiple satellite phone calls made throughout the day by people on board. A detailed account of the pilot’s calls show that Frontex knew it was a “possible migrant vessel,” with no visible safety jackets and a “significant thermal response” from below deck. According to Frontex’s press office, this is an indication of the presence of an “unusual” number of people on board.

      Bad weather, a lack of life vests and overcrowding constitute signs of distress under Frontex’s and Italy’s own maritime rules; still the maritime authorities did not launch a search and rescue operation. After the wreck, the European border agency concealed the fact that their pilot had signalled strong winds to their control room during the surveillance flight.
      STORIES

      Assad Almulqi was a child when war broke out in Syria. His family fled their city after it was attacked with poisonous gas in 2013. This year, the 22 year-old paid 8,000 euros for a place on the boat from Turkey. His six-year-old brother Sultan was allowed to travel for free.

      He recalls the moment everything went wrong. “It was dark. The ship leaned to one side and half of it went underwater. It sank in seconds.”

      “I got scared, held my brother in my arms and told my uncle that we needed to go upstairs because something not normal was happening. The waves started hitting the windows and water entered the ship.”

      He jumped out when the water reached his knees, holding his brother tightly.

      Assad tried desperately to keep Sultan above the waves as he attempted to signal to rescuers. “We were drowning ourselves to keep his head above the water, but it wasn’t enough to save him.”

      They clung to pieces of the ship, fighting to stay afloat as people around them drowned.

      Also onboard was 23-year old Nigeena who was travelling with her husband Seyar, following their wedding just four months earlier. She clutched his hand as they fought to stay above water. They were almost ashore when a huge wave swept Seyar away. Their boat broke apart 200 metres off the coast of Italy.

      “The wreck is Italy’s fault because they knew from the start that a boat had arrived,” said Nigeena. “Usually when they see an unfamiliar ship it’s their job to check it out. But they didn’t.”

      Lawyers for some of the families of the victims are planning to take a case to the European Court of Human Rights, arguing Italy should be held responsible for the “irremediable violation of migrants’ right to life.”

      https://www.lighthousereports.com/investigation/the-crotone-cover-up

      –---

      En italien (résumé):
      L’insabbiamento sulla strage di Steccato di Cutro

      Un’inchiesta internazionale di #Lighthouse_Reports dimostra il rimpallo delle responsabilità tra Frontex, guardia di finanza e guardia costiera italiana

      https://www.meltingpot.org/2023/06/linsabbiamento-sulla-strage-di-steccato-di-cutro

    • Omissione di soccorso: la vera storia del naufragio di Cutro

      Un’inchiesta internazionale – a cui Domani ha collaborato insieme a Lighthouse Reports, Süddeutsche Zeitung, Le Monde, El Pais e Sky News – mostra attraverso documenti inediti, fonti confidenziali, immagini satellitari, modelli 3d e decine di testimonianze cosa è accaduto quella sera e il rimpallo delle responsabilità tra le tre autorità coinvolte: Frontex, guardia di finanza e guardia costiera. Intanto l’indagine giudiziaria della procura di Crotone va avanti: il primo giugno le prime perquisizioni hanno riguardato tre ufficiali della guardia di finanza. L’obiettivo è individuare le falle nella catena di comando

      (#paywall)
      https://www.editorialedomani.it/fatti/naufragio-cutro-inchiesta-internazionale-wqa2rkss

  • EU’s Frontex Tripped in Its Plan for ‘Intrusive’ Surveillance of Migrants

    Frontex and the European Commission sidelined their own data protection watchdogs in pursuing a much-criticised expansion of “intrusive” data collection from migrants and refugees to feed into Europol’s vast criminal databases, BIRN can reveal.

    On November 17 last year, when Hervé Yves Caniard entered the 14-floor conference room of the European Union border agency Frontex in Warsaw, European newspapers were flooded with stories of refugees a few hundreds kilometres away, braving the cold at the Belarusian border with Poland.

    A 14-year-old Kurd had died from hypothermia a few days earlier; Polish security forces were firing teargas and water cannon to push people back.

    The unfolding crisis was likely a topic of discussion at the Frontex Management Board meeting, but so too was a longer-term policy goal concerning migrants and refugees: the expansion of a mass surveillance programme at Europe’s external borders.

    PeDRA, or ‘Processing of Personal Data for Risk Analysis,’ had begun in 2016 as a way for Frontex and the EU police body Europol to exchange data in the wake of the November 2015 Paris attacks by Islamist militants that French authorities had linked to Europe’s then snowballing refugee crisis.

    At the November 2021 meeting, Caniard and his boss, Frontex’s then executive director, Fabrice Leggeri, were proposing to ramp it up dramatically, allowing Frontex border guards to collect what some legal experts have called ‘intrusive’ personal data from migrants and asylum seekers, including genetic data and sexual orientation; to store, analyse and share that data with Europol and security agencies of member states; and to scrape social media profiles, all on the premise of cracking down on ‘illegal’ migration and terrorism.

    The expanded PeDRA programme would target not just individuals suspected of cross-border crimes such as human trafficking but also the witnesses and victims.

    Caniard, the veteran head of the Frontex Legal Unit, had been appointed that August by fellow Frenchman Leggeri to lead the drafting of the new set of internal PeDRA rules. Caniard was also interim director of the agency’s Governance Support Centre, which reported directly to Leggeri, and as such was in a position to control internal vetting of the new PeDRA plan.

    That vetting was seriously undermined, according minutes of board meetings leaked by insiders and internal documents obtained via Freedom of Information requests submitted by BIRN.

    The evidence gathered by BIRN point to an effort by the Frontex leadership under Leggeri, backed by the European Commission, to sideline EU data protection watchdogs in order to push through the plan, regardless of warnings of institutional overreach, threats to privacy and the criminalisation of migrants.

    Nayra Perez, Frontex’s own Data Protection Officer, DPO, warned repeatedly that the PeDRA expansion “cannot be achieved by breaching compliance with EU legislation” and that the programme posed “a serious risk of function creep in relation to the Agency’s mandate.” But her input was largely ignored, documents reveal.

    The DPO warned of the possibility of Frontex data being transmitted in bulk, “carte blanche”, to Europol, a body which this year was ordered to delete much of a vast store of personal data that it was found to have amassed unlawfully by the EU’s top data protection watchdog, the European Data Protection Supervisor, EDPS.

    Backed by the Commission, Frontex ignored a DPO recommendation that it consult the EDPS, currently led by Polish Wojciech Wiewiórowski, over the new PeDRA rules. In a response for this story, the EDPS warned of the possibility of “unlawful” processing of data by Frontex.

    Having initially told BIRN that the DPO’s “advisory and auditing role” had been respected throughout the process, shortly before publication of this story Frontex conceded that Perez’s office “could have been involved more closely to the drafting and entrusted with the role of the chair of the Board”, an ad hoc body tasked with drafting the PeDRA rules.

    In June, the EDPS asked Frontex to make multiple amendments to the expanded surveillance programme in order to bring it into line with EU data protection standards; Frontex told BIRN it had now entrusted the DPO to redraft “relevant MB [Management Board] decisions in line with the EDPS recommendations and lessons learned.”

    Dr Niovi Vavoula, an expert in EU privacy and criminal law at Queen Mary University of London, said that the expanded PeDRA programme risked the “discriminatory criminalisation” of innocent people, prejudicing the outcomes of criminal proceedings against those flagged as “suspects” by Frontex border guards.

    As written, the revamped PeDRA “is another piece of the puzzle of the emerging surveillance and criminalisation of migrants and refugees,” she said.

    Religious beliefs, sexual orientation

    Leggeri had long held a vision of Frontex as more than simply a ‘border management’ body, one that would see it working in tandem with Europol in matters of law enforcement; to this end, both agencies have been keen to loosen restrictions on the exchange of personal data between them.

    Almost six years to the day before the Warsaw PeDRA meeting, a gun and bomb attack by Islamist militants killed 130 people in Paris. It was November 13, 2015, at the height of the refugee crisis in the Mediterranean and Aegean Seas.

    The following month, Leggeri signed a deal with the then head of Europol, Briton Richard Wainwright, which opened the door to the exchange of personal data between the two agencies. Addressing the UK parliament, Wainwright described a “symbiotic” relationship between the agencies in protecting the EU’s borders. In early 2016, a PeDRA pilot project launched in Italy, quickly followed by Greece and Spain.

    At the same time, Europol launched its own parallel programme of so-called Secondary Security Checks on migrants and refugees in often cramped, squalid camps in Italy and Greece using facial recognition technology. The checks, most recently expanded to refugees from Ukraine in Lithuania, Poland, Romania, Slovakia and Moldova, were introduced “in order to identify suspected terrorists and criminals” but Europol is tight-lipped about the criteria determining who gets checked and what happens with the data obtained.

    Since the launch of PeDRA, Frontex officers have been gathering information from newly-arrived migrants concerning individuals suspected of involvement in smuggling, trafficking or terrorism and transmitting the data to Europol in the form of “personal data packages,” which are then cross-checked against and stored within its criminal databases.

    According to its figures, under the PeDRA programme, Frontex has shared the personal data – e.g. names, personal descriptions and phone numbers – of 11,254 people with Europol between 2016 and 2021.

    But the 2015 version of the PEDRA programme was only its first incarnation.

    Until 2019, rules governing Frontex meant that its capacity to collect and exchange the personal data of migrants had been strictly limited.

    In December 2021, after years of acrimonious legal wrangling, the Frontex Management Board – comprising representatives of the 27 EU member states and the European Commission – gave the green light to the expansion of PeDRA.

    Under the new rules, which have yet to enter into force, Frontex border guards will be able to collect a much wider range of sensitive personal data from all migrants, including genetic and biometric data, such as DNA, fingerprints or photographs, information on their political and religious beliefs, and sexual orientation.

    The agency told BIRN it had not yet started processing personal data “related to sexual orientation” but that the collection of such information may be necessary to “determine whether suspects who appear to be similar are in fact the same.”

    In terms of social media monitoring, Frontex said it had not decided yet whether to take advantage of such a tool; minutes of a joint meeting in April, however, show that Frontex and Europol agreed on “strengthening cooperation on social media monitoring”.

    Indeed, in 2019, Frontex published plans to pay a surveillance company 400,000 euros to track people on social media, including “civil society and diaspora communities” within the EU, but abandoned it in November of that year after Privacy International questioned the legality of the plan.

    Yet, under the expanded PeDRA, Vavoula, of Queen Mary University, said Frontex officers could be tasked without scraping social media profiles “without restrictions”.

    Commenting on the entire programme, she added that PeDRA “could not have been drafted by someone with a deep knowledge of data protection law”. She cited numerous violations of elementary data protection safeguards, especially for children, the elderly and other vulnerable individuals, who should generally be treated differently from other subjects.

    “Sufficient procedural safeguards should be introduced to ensure the protection of fundamental rights of children to the fullest possible extent including the requirement of justified reasons of such a processing of personal data,” Vavoula said. “Genetic data is much more sensitive than biometric data,” and therefore requires “specific safeguards” not present in the text.

    Vavoula also noted the absence of a “maximum retention period,” warning, “Frontex may retain the data forever.”
    Internal dissent swept aside

    Internal documents seen by BIRN show that the man tasked by Leggeri to oversee the drafting of the new PeDRA rules, Caniard, ignored objections raised by the agency’s own data protection watchdog.

    Perez, a Spanish lawyer and Frontex’s DPO, has the task of monitoring the agency’s compliance with EU data protection laws not only concerning the thousands of migrants whose data will be stored in its databases but also of the agency’s rapidly expanding staff base, currently numbering more than 1,900 but soon to include a ‘standing corps’ of up to 10,000 border guards.

    She had also been working on earlier drafts of the new PeDRA rules since 2018, only to be leapfrogged by Caniard when he was appointed by Leggeri in August 2021.

    When she was shown an advanced draft of the new PeDRA rules in October 2021, Perez did not mince her words. “The process of drafting the new rules de facto encroaches on the tasks legally assigned to the DPO,” she said in an internal Frontex document obtained by BIRN. “When the DPO issues an opinion, such advice cannot be overruled or amended.”

    The DPO proposed more than a hundred changes to the draft; she warned that, under the proposed rules, Frontex “seems to arrogate the capacity to police the internet” through monitoring of social media and that victims and witnesses of crime whose data is shared with Europol face “undesirable consequences” of being part of a “pan-European criminal database.”

    During intense internal discussions in late 2021, as the deadline for approving the new rules was fast approaching, the DPO said that Frontex had failed to make a compelling case for the collection of sensitive data such as ethnicity or sexual orientation.

    “…the legal threshold to be met is not a ‘nice to have’ but a strict necessity,” Perez wrote.

    When the final draft landed on the desk of the Frontex Management Board in November 2021, it was clear that many of the DPO’s recommendations had been disregarded.

    At this point, Frontex was already the target of a probe by the European Anti-Fraud Office into its role in so-called ‘pushbacks’ in which migrants are illegally turned away at the EU’s borders, the findings of which would eventually force Leggeri’s resignation in April this year.

    In an initial written response for this story, Frontex said that the DPO “had an active, pivotal role in the deliberations” concerning the new rules and that the watchdog’s “advisory and auditing role was respected” throughout the process.

    Minutes of the November board meeting appeared to contradict this, however. Written in English and partially disclosed following an ‘access to documents request’, they cite Caniard conceding that the DPO was “consulted twice with a very short notice” and that, since Perez issued her opinion only the day before the meeting, there “was no possibility to take stock of it”. Perez submitted her opinion on November 16 and the board meeting was held on November 17 and 18.

    The DPO, for its part, urged the management board to “work on the current draft to eliminate inconsistencies” and, though not legally obliged, “to consult the EDPS prior to adoption”.

    Prior to publication of this story, BIRN asked Frontex again whether the DPO’s mandate had been respected during the drafting of the new PeDRA rules. The agency backtracked, saying it should have involved Perez’s office more closely and that the DPO would rewrite the programme.

    Dissent was not confined to the DPO. Danish and Dutch representatives in the meeting urged the board to delay voting on the rules given that the DPO’s opinions had not been taken on board and to “do its utmost to avoid any situation where it is necessary to amend rules just adopted just because an EDPS’ conflicting opinion is issued.”

    According to the minutes of the November meeting, the Commission representative, however, dismissed this, declaring that it considered the text “more than mature for adoption” and that there was no need to consult the EDPS because “it is not mandatory”.

    Email exchanges between the Commission and Frontex reveal the urgency with which the Commission wanted the new rules adopted, even at the cost of foregoing EDPS participation.

    One, from the Commission to Frontex on November 14, 2021, just days before the Board meeting said that, “while it would have been good to consult the EDPS on everything, it is more important now to get at least the two first decisions adopted.” An earlier mail, from July 2021 and sent directly to Leggeri, said it was “an absolute political priority to put in place the data protection framework of the Agency without any further delays.” That framework included the processing of personal data under PeDRA.

    Asked why it supported the expansion of the Frontex surveillance programme without first having the proposal checked by EDPS, the Commission told BIRN it would not comment on “discussion held in the management board or other internal meetings.”

    The EDPS, the EU’s top data protection authority, was only shown a copy of the new rules in late January 2022.

    Asked for its opinion, the EDPS told BIRN it is “concerned that the rules adopted do not specify with sufficient clarity how the intended processing will be carried out, nor define precisely how safeguards on data protection will be implemented.”

    The processing of highly vulnerable categories of individuals, including asylum seekers, could pose “severe risks for fundamental rights and freedoms,” such as the right to asylum, it said. It further stressed that “routine”, i.e. systematic, exchange of personal data between Frontex and Europol is not permitted and that such exchange can only take place “on a case-by-case basis.”
    Collecting data with ‘religious’ fervour

    Experts question the effectiveness of such extensive data collection in combating serious crime.

    Douwe Korff, Emeritus Professor of international law at London Metropolitan University, decried the apparent lack of results and accountability.

    “There isn’t even the absolute minimum requirement for law enforcement authorities to provide serious proof that the expansion of surveillance powers will be effective and proportionate,” said Korff, who has contributed to research on mass surveillance for EU institutions for years.

    “If you ask how many people have you arrested using this data that are completely innocent, they don’t even want to know about this. They pursue this policy of mass data collection with a religious belief.”

    Indeed, when the EDPS ordered Europol in January to delete data amassed unlawfully concerning individuals with no link to criminal activity, member states and the Commission came to the rescue with legal amendments enabling the agency to sidestep the order.

    In May, Frontex and Europol put forward a proposal, drafted by a joint working group named ‘The Future Group’, for a new surveillance programme at the bloc’s external borders that would implement large-scale profiling of EU and third-country nationals using Artificial Intelligence.

    https://balkaninsight.com/2022/07/07/eus-frontex-tripped-in-plan-for-intrusive-surveillance-of-migrants
    #surveillance #migrations #asile #réfugiés #frontières #Frontex #données #Europol #PeDRA #Processing_of_Personal_Data_for_Risk_Analysis #Caniard #Hervé_Yves_Caniard #Leggeri #Fabrice_Leggeri #Nayra_Perez #Italie #Grèce #Espagne #Secondary_Security_Checks #données_personnelles

  • Libia, così i gruppi armati controllano il territorio e la tratta dei migranti

    L’organizzazione Libyan Crimes Watch ha confermato che lo scorso 14 gennaio, 3 marocchini sono stati torturati e uccisi nel centro di detenzione ad Al Mayah, nella parte occidentale di Tripoli.
    Un rapporto militare confidenziale distribuito ai funzionari dell’Ue lo scorso gennaio e ottenuto da Domani, conferma la visione dell’Unione europea nel continuare supportare la guardia costiera e la marina libica nonostante il trattamento riservato ai migranti
    Il rapporto compilato dal contrammiraglio della Marina italiana Stefano Turchetto, comandante dell’operazione militare dell’Unione europea nel Mediterraneo (Eunavfor, Med Irini), riconosce inoltre «l’uso eccessivo della forza» da parte delle autorità libiche, aggiungendo che la formazione dell’Ue «non è più completamente seguita».

    L’article est en #paywall, mais une carte intéressante a été publiée sur twitter:


    https://twitter.com/saracreta/status/1490308670957268994

    https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/libia-gruppi-armati-migranti-rapporto-contrammiraglio-stefano-turch

    #cartographie #visualisation #pull-backs #push-backs #Libye #Méditerranée #asile #migrations #réfugiés #frontières

    ping @isskein @reka

  • Per sorvegliare i migranti l’Ue fa affari con i #contractor

    - È un’area grigia nel cuore del Mediterraneo, una zona d’ombra dove la parola “sovranità” è soprattutto #business. Produttori di armi e munizioni, mediatori specializzati in sicurezza e fornitura di #contractors, navi cariche di fucili automatici che funzionano come vere e proprie Santa barbara fluttuanti.
    – In questa terra di mezzo dove si incontrano trafficanti e governi, i migranti sono prima di tutto un lucroso affare.
    - Nel progetto #Rapsody di #Esa, che dovrebbe controllare il Mediterraneo con droni, compare #Sovereign_Global_Uk azienda riconducibile all’imprenditore #Fenech, arrestato per aver violato l’embargo sulla vendita di armi ai libici.

    (#paywall)

    https://www.editorialedomani.it/politica/mondo/per-sorvegliare-i-migranti-lue-fa-affari-con-i-contractor-pe98utxb

    #frontières #UE #migrations #réfugiés #armes #armement #commerce_d'armes #complexe_militaro-industriel #Libye #Méditerranée #drones

  • Che cos’è il “femminismo dei dati” e perché Bologna è una città apripista
    https://www.editorialedomani.it/politica/italia/che-cose-il-femminismo-dei-dati-e-perche-bologna-e-una-citta-apripi

    Che cos’è il “femminismo dei dati” e perché Bologna è una città apripista

    Bologna pubblicherà dati di genere e adotterà indicatori di impatto di genere fin dalla programmazione di attività e spesa. Altre città seguiranno l’esempio per portare in Italia il «data feminism» che considera i dati come dispositivo di potere dai quali quindi partire per ridurre le diseguaglianze

    #genre #Bologne #data #datafemminism #femminism

  • Trasportavano migranti dalla Slovenia in un furgone, un arresto e due fermi
    https://www.editorialedomani.it/fatti/trasportavano-migranti-dalla-slovenia-in-un-furgone-un-arresto-e-du

    L’autista a bordo del veicolo ha tentato la fuga ma si è schiantato contro un albero. Due migranti sono ricoverati in ospedale, mentre gli altri sono stati affidati a un centro accoglienza per minori. Avevano pagato dai 1.600 ai 1.800 euro il trasporto in Italia.

    Erano in otto. Tutti minori di origine bengalesi. Le forze dell’ordine li hanno trovati stipati dentro un furgone Fiat Ducato. Hanno pagato una cifra tra i 1.600 e i 1.800 euro per entrare in Italia dalla Slovenia. Ora la polizia di Trieste ha arrestato un macedone e sottoposto a fermo di indiziato di delitto un cittadino kosovaro e un altro macedone ritenuti responsabili, in concorso tra loro e con altri soggetti complici che sono in corso di identificazione, dei reati di favoreggiamento aggravato dell’immigrazione clandestina.

    L’indagine

    Le indagini sono iniziate dopo che le forze dell’ordine hanno individuato dei movimenti sospetti riguardo a due veicoli, una Volkswagen Passat con targa italiana e un Fiat Ducato con targa slovena, che avrebbero potuto essere impiegati per un imminente trasporto di migranti. Dall’Italia i trafficanti hanno raggiunto la Slovenia e dopo cinque ore sono rientrati in formazione sospetta. La Passat era in prima fila per segnalare eventuali controlli delle forze dell’ordine lungo il tragitto. La polizia ha tentato di fermarli, mentre l’autista della Passat non ha opposto resistenza, l’uomo a bordo del furgone ha tentato la fuga, che si è conclusa contro un albero di palma nella località di Monrupino.

    Una volta abbandonato il veicolo, l’autista si è dileguato nell’area boschiva della zona facendo perdere le sue tracce. All’interno del furgone gli agenti hanno trovato otto minori bengalesi che sono stai trasportati immediatamente all’ospedale. Sei di loro sono stati dimessi con una prognosi di alcuni giorni e sono stati affidati a una struttura di accoglienza per minori, mentre i due rimanenti sono stati trattenuti in ospedale per via dei traumi e delle fratture riportate in seguito all’incidente.

    Le indagini sono proseguite e le forze dell’ordine hanno quindi arrestato il macedone per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina in concorso, mentre gli altri sono stati sottoposti a fermo di indiziato di delitto. Uno dei due fermati è stato possedeva una carta d’identità croata contraffatta.

    @cdb_77 #slovenie #italie #migration #accident #frontière #trieste

  • What would feminist data visualization look like?, by Catherine D’Ignazio
    https://medium.com/@kanarinka/what-would-feminist-data-visualization-look-like-aa3f8fc7f96c
    https://civic.mit.edu/feminist-data-visualization

    The God Trick! Is this not the rhetorical premise and the seductive promise of most data visualization? To see from the perspective of no person, no body? Our appetite for such perspectives is fierce, “gluttonous”, as [Donna] Haraway characterizes it.
     
    And yet, there are ways to do more responsible representation. There are ways to “situate” data visualization and locate it in concrete bodies and geographies. Critical cartographers, counter-mapping artists, indigenous mappers and others have experimented for years with these methods and we can learn from them. 

    Here are some beginning design thoughts about what #feminist_data_visualization could do:
     
    1. Invent new ways to represent uncertainty, outsides, missing data, and flawed methods

    While visualizations - particularly popular, public ones - are great at presenting wholly contained worlds, they are not so good at visually representing their limitations.
     
    2. Invent new ways to reference the material economy behind the data.

    (...) What are the conditions that make a data visualization possible? Who are the funders? Who collected the data? Whose labor happened behind the scenes and under what conditions? (...)
     
    Data visualizations often cite data sources as fact on a legend but we could do more. What if we visually problematized the provenance of the data? The interests behind the data? The stakeholders in the data?

    (...)

    3. Make dissent possible

    (...) as we know from Wikipedia editing wars and GoogleMap Controversies the world is not actually bracketed so conveniently and “facts” are not always what they appear to be.

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    Catherine D’Ignazio is an Assistant Professor of Data Visualization and Civic Media at Emerson College who investigates how data visualization, technology and new forms of storytelling can be used for civic engagement.
    http://www.kanarinka.com

    #visualisation #méthodologie #féminisme #donna_haraway