• Meloni, accordo con Rama prevede 2 centri migranti in Albania

    “L’accordo prevede di allestire centri per migranti in Albania che possano contenere fino a 3mila persone”. Lo ha detto la premier Giorgia Meloni dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro dell’Albania Edi Rama. “L’accordo che sigliamo oggi – ha aggiunto - arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione” tra i due Paesi e “quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra Stati Ue e Stati per ora extra Ue – per ora - è fondamentale”. “In questi due centri” i migranti resteranno “il tempo necessario per le procedure e una volta a regime nei centri ci potrà essere un flusso annuale complessivo di 36 mila persone”. “L’accordo non riguarda i minori e donne in gravidanza ed i soggetti vulnerabili – precisa – la giurisdizione sarà italiana. L’Albania collabora sulla sorveglianza esterna delle strutture. All’accordo che disegna la cornice, seguiranno una serie di protocolli. Contiamo di rendere operativi i centri in primavera”. (ANSA).

    https://it.euronews.com/2023/11/06/meloni-accordo-con-rama-prevede-2-centri-migranti-in-albania

    #Italie #asile #migrations #réfugiés #Albanie #accord #externalisation #centres

    ajouté à la Métaliste sur l’#accord entre #Italie et #Albanie pour la construction de #centres d’accueil (sic) et identification des migrants/#réfugiés sur le territoire albanais...
    https://seenthis.net/messages/1043873

    –-

    Et ajouté à la métaliste sur les différentes tentatives de différentes pays européens d’#externalisation non seulement des contrôles frontaliers, mais aussi de la #procédure_d'asile dans des #pays_tiers
    https://seenthis.net/messages/900122

    • Migranti, accordo Italia-Albania. Meloni: “Centri italiani nel loro Paese”. Il Pd: “Un pericoloso pasticcio”. Ue: “L’Italia rispetti il diritto comunitario”

      Il premier Edi Rama ricevuto a Palazzo Chigi dove è stato siglato un protocollo d’intesa in materia di gestione dei flussi. Accoglieranno fino a 3mila persone, solo coloro che saranno salvati in mare. Protestano + Europa e Avs

      La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ricevuto a Palazzo Chigi il primo ministro dell’Albania Edi Rama. «Sono contenta di annunciare con lui un protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migranti. L’Italia è il primo partner commerciale dell’Albania. C’è una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità – dice Meloni durante le dichiarazioni congiunte con il collega albanese – L’accordo prevede di allestire due centri migranti in Albania che possano contenere fino 3mila persone. E arricchisce di un ulteriore tassello la collaborazione» tra i due Paesi e «quando ne abbiamo iniziato a discutere siamo partiti dall’idea che l’immigrazione illegale di massa è un fenomeno che nessuno Stato Ue può affrontare da solo e la collaborazione tra stati Ue e stati - per ora - è fondamentale».

      Un accordo contro cui si scagliano le opposizioni e che il Pd definisce “un pericoloso pasticcio”. Mentre da Bruxelles un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos dice: «Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve ancora essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale».

      L’incontro tra i due primi ministri è stata anche l’occasione per ribadire il sostegno dell’Italia all’ingresso di Tirana in Ue. "L’Albania si conferma una nazione amica e nonostante non sia ancora parte dell’Unione si comporta come se fosse un paese membro e questa è una delle ragioni per cui sono fiera che l’Italia sia da sempre uno dei paesi sostenitori dell’allargamento ai Balcani occidentali”. E ancora. «L’Ue non è un club. Quindi, io non parlo di ingressi ma di riunificazione dei Balcani occidentali che sono Paesi Ue a tutti gli effetti», osserva Meloni. Che ricorda anche come l’Italia sia «il primo partner commerciale dell’Albania. Il nostro interscambio vale circa il 20% del Pil albanese. Ci sono intensi rapporti culturali e sociali. È una strettissima collaborazione che già esiste nella lotta all’illegalità. L’accordo di oggi arricchisce questa collaborazione con un ulteriore tassello», conclude la premier.
      Le reazioni

      Se la destra plaude all’intesa tra l’Italia e l’Albania, le opposizioni insorgono. «L’accordo che il governo Meloni ha raggiunto con il governo albanese sembra configurarsi come un pericoloso pasticcio, parecchio ambiguo. Se infatti si è, come sembra, di fronte a richiedenti asilo, appare assolutamente inimmaginabile compiere con personale italiano e senza esborso di risorse, come annunciato, le procedure di verifica delle domande d’asilo», attacca Pierfrancesco Majorino, responsabile Politiche migratorie della segreteria nazionale del Pd. “Praticamente si crea una sorta di Guantanamo italiana, al di fuori di ogni standard internazionale, al di fuori dell’Ue senza che possa esserci la possibilita’ di controllare lo stato di detenzione delle persone rinchiuse in questi centri"., protesta Riccardo Magi, segretario di Più Europa. E Angelo Bonelli di Alleanza Verdi e Sinisra aggiunge: Quello che il governo ha definito come un ’importantissimo protocollo di intesa’ non è altro che una politica di respingimento mascherata da cooperazione internazionale. Il governo italiano –prosegue - sta delegando la gestione dei migranti irregolari, di fatto esternalizzando le proprie responsabilità, con il rischio di creare campi di permanenza che potrebbero non assicurare standard adeguati di accoglienza e rispetto per la dignità umana".

      Ma il ministro degli Esteri Antonio Tajani replica: «L’accordo rafforza il nostro ruolo da protagonista in Europa ed apre nuove strade di collaborazione nell’Adriatico. Contrasto all’immigrazione irregolare e bloccare la tratta di esseri umani. Queste le priorita’ della nostra politica estera».
      Il protocollo d’intesa

      Il protocollo d’intesa tra Italia e Albania in materia di gestione dei flussi migratori siglato oggi, secondo quanto si apprende da fonti di palazzo Chigi, non si applica agli immigrati che giungono sulle coste e sul territorio italiani ma a quelli salvati in mare, fatta eccezione per minori, donne in gravidanza e soggetti vulnerabili. Le strutture realizzate, viene spiegato, potranno accogliere complessivamente fino a 3mila immigrati, per una previsione di 39mila persone accolte in un anno. L’accordo si pone un obiettivo di dissuasione rispetto alle partenze e di deterrenza rispetto al traffico di esseri umani.

      La giurisdizione dei due centri per migranti in Albania sarà italiana, spiega ancora Palazzo Chigi. I migranti, viene precisato, sbarcheranno a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un centro di prima accoglienza e screening; a Gjader realizzerà una struttura modello Cpr per le successive procedure. L’Albania collaborerà con le sue forze di polizia per la sicurezza e sorveglianza. L’Albania, sottolinea ancora Palazzo Chigi, già vede un’importante presenza di forze dell’Ordine e magistrati italiani.
      Rama: “Se l’Italia chiama l’Albania c’è”

      “Se l’Italia chiama l’Albania c’è – risponde Rama – Non sta a noi giudicare il merito politico di decisioni prese in questo luogo e altre istituzioni, a noi sta rispondere ’Presente’ quando si tratta di dare una mano. Questa volta significa aiutare a gestire con un pizzico di respiro in più una situazione e difficile per l’Italia". «La geografia è diventata una maledizione per l’Italia, quando si entra in Italia si entra in Ue – spiega il premier Albanese – Noi non abbiamo la forza e la capacità di essere la soluzione ma abbiamo un dovere verso l’Italia e la capacità di dare una mano. L’Albania non fa parte dell’Unione ma è uno Stato europeo, ci manca la U davanti ma ciò non ci impedisce di essere e vedere il mondo come europei».

      https://www.repubblica.it/politica/2023/11/06/news/migranti_meloni_accordo_albania_edi_rama-419723671

      #Gjader #Shengjin #débarquement #identification #screening #premier_accueil #CPR

    • Migrants, accord Italie-Albanie. Meloni : « Des centres italiens dans leur pays ». Adhésion de Tirana à l’UE : « Nous l’avons toujours soutenue »

      Le Premier ministre Giorgia Meloni a reçu le Premier ministre de l’Albanie au Palazzo Chigi Edi Rama. “Je suis heureux d’annoncer avec lui un mémorandum d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires. L’Italie est le premier partenaire commercial de l’Albanie. Il existe déjà une collaboration très étroite dans la lutte contre l’illégalité – a déclaré Meloni lors de la réunion conjointe déclarations avec son collègue albanais – L’accord prévoit la création de centres de migrants en Albanie pouvant accueillir jusqu’à 3 mille personnes. Et il enrichit la collaboration « entre les deux pays avec une étape supplémentaire » et « lorsque nous avons commencé à en discuter, nous sommes partis du l’idée que l’immigration clandestine de masse est un phénomène auquel aucun État de l’UE ne peut lutter seul et que la collaboration entre les États de l’UE est – pour l’instant – fondamentale”.

      La rencontre entre les deux premiers ministres a également été l’occasion de réitérer le soutien de l’Italie à l’entrée de Tirana dans l’UE. “L’Albanie se confirme comme une nation amie et même si elle ne fait pas encore partie de l’Union, elle se comporte comme si elle en était un pays membre et c’est une des raisons pour laquelle je suis fier que l’Italie ait toujours été l’un des pays qui soutiennent l’élargissement. aux Balkans occidentaux”. Et encore. “L’UE n’est pas un club. Je ne parle donc pas d’entrées, mais de la réunification des Balkans occidentaux, qui sont à tous égards des pays de l’UE”, observe encore Meloni. Il rappelle également que l’Italie est “le premier partenaire commercial de l’Albanie. Nos échanges commerciaux représentent environ 20 % du PIB albanais. Il existe des relations culturelles et sociales intenses. C’est une collaboration très étroite qui existe déjà dans la lutte contre l’illégalité. L’accord d’aujourd’hui enrichit cette collaboration d’une étape supplémentaire”, conclut le Premier ministre.

      Le protocole d’accord entre l’Italie et l’Albanie sur la gestion des flux migratoires signé aujourd’hui, selon ce que l’on apprend de sources au Palazzo Chigi, ne s’applique pas aux immigrants arrivant sur les côtes et le territoire italiens mais à ceux secourus en mer, à l’exception de les mineurs, les femmes enceintes et les sujets vulnérables. Les structures créées, explique-t-on, pourront accueillir au total jusqu’à 3 mille immigrants, pour une prévision de 39 mille personnes accueillies par an. L’accord vise à dissuader les départs et à décourager la traite des êtres humains.

      « Si l’Italie appelle l’Albanie, elle est là – répond Rama – Ce n’est pas à nous de juger du mérite politique des décisions prises dans ce lieu et dans d’autres institutions, c’est à nous de répondre ‘Présent’ lorsqu’il s’agit de prêter un main. Cette fois, il s’agit d’aider à gérer une situation difficile pour l’Italie avec un peu plus de répit.” “La géographie est devenue une malédiction pour l’Italie, quand vous entrez en Italie, vous entrez dans l’UE – explique le Premier ministre Albanese – Nous n’avons pas la force et Nous avons la capacité d’être la solution, mais nous avons un devoir envers l’Italie et la capacité de lui donner un coup de main. L’Albanie ne fait pas partie de l’Union mais c’est un Etat européen, il nous manque le U devant mais cela ne nous empêche pas d’être et de voir le monde en Européens”.

      https://fr.italy24.press/local/1061085.html

    • Migrants: two structures to manage illegal flows, this is what the Italy-Albania #memorandum_of_understanding provides

      Two structures in Albanian territory under Italian jurisdiction which will serve to manage illegal migratory flows. This is the fulcrum of the memorandum of understanding signed today by Italy and Albania and announced by the Prime Minister Giorgia Meloni and the counterpart Edi Rama. Rama’s “surprise” visit was not officially announced until this morning when a brief note from Palazzo Chigi announced that the two heads of government would meet in the afternoon and that they would subsequently make statements to the press. The discretion of the two governments prevailed and, consequently, also the surprise effect at the time of the announcement. “It is an agreement that enriches the friendship between the two nations,” said Meloni at the time of the announcement, subsequently explaining the details of the agreement which focuses on three primary objectives: combating human trafficking, preventing it and welcoming who has the right to protection. “Albania will grant some areas of the territory”, where Italy will be able to create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to three thousand people who will remain here for the time necessary to process asylum applications and , possibly, for the purposes of repatriation", said Meloni, specifying that the agreement does not concern minors, pregnant women and vulnerable subjects.

      The prime minister also provided details on the areas which will host the two structures which, hopefully, will be ready by spring 2024. “In the port of Shengjin (the seaport located north of Albania) disembarkation and identification procedures will be taken care of, while in another more internal area another structure based on the Repatriation Retention Centers model will be created (Cpr)”, explained Meloni, adding that the Albanian police forces will cooperate to guarantee “the security and external surveillance of the structures”. According to Meloni, the agreement signed today is a further step in the close bilateral cooperation. “Mass illegal immigration is a phenomenon that EU member states cannot face alone and cooperation between EU states and, for now, non-EU states can be decisive,” said the Prime Minister, according to whom Albania confirms itself as a friend not only of Italy but also of the European Union. “Despite not yet being formally part of the EU, Albania is a candidate country but behaves as if it were already a de facto member country of the Union and this is one of the reasons why I am proud of the fact that Italy is has always been one of the greatest supporters of the entry of Albania and the Western Balkans into the Union", added Meloni, who defined the memorandum of understanding “an innovative solution” in the hope that “it can become the model for other agreements of this type”.

      Speaking at the end of Meloni’s statements, Prime Minister Rama – underlining that the idea for the agreement was born during the Prime Minister’s summer holiday in Vlore – he immediately wanted to point out that “when Italy calls, Albania is there”. “Albania is not an EU state, but it is in Europe. It is a European state, and this does not prevent us from seeing the world as Europeans,” said Rama. “We would not have made this agreement with any other EU state. There is an important relationship of a historical, cultural, but also emotional nature, which links Albania with Italy", continued the prime minister. “We can lend a hand and help manage a situation which, as everyone sees, is difficult for Italy. When you enter Italy, you enter Europe, the EU, but when it comes to managing this entry as an EU we know well how things go,” said Rama. “We don’t have the strength to be a solution, but I believe we have a duty towards Italy and a certain ability to lend a hand”, added Rama who then recalled how his country can boast a tradition of hospitality, which began by the thousands of Italians protected after the Second World War. “We have a history of hospitality”, Rama underlined, recalling that Albania welcomed more than half a million war refugees and those fleeing to survive the ethnic cleansing from Kosovo. “We also gave refuge to thousands of Afghan women when NATO abandoned Afghanistan, and to a few thousand Iranians,” added the Albanian prime minister.

      https://www.agenzianova.com/en/news/migrants-two-structures-to-manage-illegal-flows%2C-this-is-what-the-Ita
      #MoU

    • Migranti: Un #Protocollo_d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.osservatoriorepressione.info/migranti-un-protocollo-dintesa-lalbania-opaco-disumano-pri

    • Naufraghi e richiedenti protezione. In collisione con i diritti

      È sbagliato evocare Guantanamo e la detenzione extraterritoriale dei sospetti terroristi negli Usa, ma di certo l’accordo a sorpresa tra Italia e Albania per l’accoglienza di una parte delle persone tratte in salvo dal mare è destinato a far discutere. Il governo Meloni aveva bisogno di riprendere l’iniziativa su un dossier identitario come quello della politica dell’asilo, i cui risultati sono finora rimasti lontani dalle promesse elettorali, e ha servito all’opinione pubblica una soluzione che può presentare come “innovativa”. Ma l’innovazione può entrare in collisione con i diritti sanciti dalla Costituzione italiana e dai trattati europei e internazionali.

      Anzitutto, il patto Meloni-Rama ha un sottofondo post-coloniale, come l’accordo britannico con il Ruanda a cui sembra ispirarsi: un Paese del “Primo mondo”, forte delle sue risorse politiche ed economiche, dirotta su un Paese meno fortunato e più bisognoso di appoggi l’onere di accogliere sul suo territorio i migranti sgraditi. Si immagina paradossalmente che Paesi con meno risorse e istituzioni più fragili possano ricevere degnamente i profughi che da noi sono visti come un problema. Infatti, quasi tradendo il sottotesto punitivo dell’accordo, si prevede che vengano esentati dal trasferimento in Albania donne in gravidanza, minori, soggetti vulnerabili. E il governo non ha esitato a parlare di una misura finalizzata alla deterrenza nei confronti di quelli che si ostina a definire come immigrati illegali, al pari del modello britannico.

      In realtà nel 2022 il 48% dei richiedenti l’asilo ha ottenuto uno status legale in prima istanza, e ad essi si aggiunge il 72% di coloro che hanno presentato un ricorso giurisdizionale. Dunque, rischiamo di mandare in Albania delle persone che hanno diritto all’asilo. Proprio l’esempio britannico mostra che le corti di giustizia, nazionali ed europee, l’hanno finora bloccato, e la capacità di reggere al vaglio della magistratura sarà un arduo banco di prova dell’accordo.

      Qualcosa non quadra poi riguardo ai numeri: si prevede di realizzare due strutture sul territorio albanese, una per l’identificazione allo sbarco, l’altra per l’accoglienza temporanea, con una capacità di 3.000 posti complessivi, e si prevede di trattare complessivamente 36-39.000 profughi all’anno. Si lascia intendere che basteranno quattro settimane per decidere della loro domanda di asilo, mentre oggi il tempo medio è di circa 18 mesi, senza contare la possibilità di ricorso. È probabile che i profughi languiranno a lungo in Albania e che i numeri dei casi trattati rimarranno assai più bassi di quelli annunciati.

      Ma i problemi più spinosi riguardano l’integrazione dei “deportati”. Se otterranno la protezione internazionale, averli lasciati in un Paese terzo non avrà di certo preparato la strada per la loro futura integrazione in Italia, sotto il profilo della possibilità di apprendere e praticare la lingua italiana, di conoscere la società in cui dovranno inserirsi, di orientarsi nel mercato del lavoro e nel sistema dei servizi. Se invece riceveranno un diniego, occorre chiedersi che ne sarà di loro. La bassissima capacità di rimpatrio forzato da parte delle nostre istituzioni (4.304 persone nel 2022), peraltro simili in questo agli altri Paesi europei, è un dato ormai noto. Se ne occuperanno le autorità albanesi? Con quale protezione dei loro diritti umani inalienabili, per esempio il diritto alle cure mediche necessarie e urgenti, o a non morire di fame?

      La politica dell’immigrazione ci ha abituato da tempo a dichiarazioni enfatiche – basti ricordare i più volte annunciati accordi con la Tunisia – e presunte soluzioni che si rivelano inattuabili. Anche l’accordo Italia-Albania rischia ora di entrare nella serie. O meglio: se non sarà attuato, sarà l’ennesima pseudo-ricetta venduta all’opinione pubblica; se dovesse essere attuato, anche solo parzialmente, tratterà soltanto una minoranza dei casi e sferrerà comunque una picconata alla già traballante architettura giuridica dei diritti umani fondamentali.

      https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/in-collisione-con-i-diritti

    • Accord migratoire Italie-Albanie : l’#ONU appelle au respect du #droit_international

      L’agence de l’ONU pour les réfugiés (HCR) a appelé mardi au « respect du droit international relatif aux réfugiés » après l’accord signé lundi entre l’Italie et l’Albanie visant à délocaliser dans ce pays l’accueil de migrants sauvés en mer et l’examen de leur demande d’asile.

      « Les modalités de transfert des demandeurs d’asile et des réfugiés doivent respecter le droit international relatif aux réfugiés », a exhorté le HCR dans un communiqué publié à Genève.

      L’accord signé lundi à Rome par la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni et son homologue albanais Edi Rama prévoit que l’Italie va ouvrir dans ce pays, candidat à l’adhésion à l’UE, deux centres pour accueillir des migrants sauvés en mer afin de « mener rapidement les procédures de traitement des demandes d’asile ou les éventuels rapatriements ».

      Ces deux centres gérés par l’Italie, opérationnels au printemps 2024, pourront accueillir jusqu’à 3.000 migrants, soit environ 39.000 par an selon les prévisions. Les mineurs, les femmes enceintes et les personnes vulnérables ne seraient pas concernés.

      Le HCR, qui dit n’avoir « pas été informé ni consulté sur le contenu de l’accord », estime que « les retours ou les transferts vers des pays tiers sûrs ne peuvent être considérés comme appropriés que si certaines normes sont respectées - en particulier, que ces pays respectent pleinement les droits découlant de la Convention relative au statut des réfugiés et les obligations en matière de droits de l’Homme, et si l’accord contribue à répartir équitablement la responsabilité des réfugiés entre les nations, plutôt que de la déplacer ».

      Un membre du gouvernement italien a précisé mardi que les migrants seraient emmenés directement vers ces centres, sans passer par l’Italie, et que ces structures seraient placées sous l’autorité de Rome en vertu d’« un statut d’extraterritorialité ». Mais de nombreuses questions sur le fonctionnement d’un tel projet restent en suspens.

      L’Italie est confrontée à un afflux de migrants depuis janvier (145.000 contre 88.000 en 2022 sur la même période). Les règles européennes prévoient que d’une manière générale, le premier pays d’entrée d’un migrant dans l’UE est responsable du traitement de sa demande d’asile, et les pays méditerranéens se plaignent de devoir assumer une charge disproportionnée.

      https://www.mediapart.fr/journal/fil-dactualites/071123/accord-migratoire-italie-albanie-l-onu-appelle-au-respect-du-droit-interna

    • Accordo Italia-Albania: un altro patto illegale, un altro tassello della propaganda del governo

      #Fulvio_Vassallo_Paleologo: «Un protocollo opaco, disumano e privo di basi legali»

      “Un’intesa storica”, “È un accordo che arricchisce un’amicizia storica”, “I nostri immigrati in Albania”, “Svolta sugli sbarchi”. E’ un tripudio di frasi altisonanti e di affermazioni risolutive quelle che hanno accompagnato in questi giorni la diffusione del protocollo d’intesa firmato da Meloni e dal primo ministro albanese, Edi Rama, per l’apertura in Albania di due centri italiani per la gestione dei richiedenti asilo. Strutture in cui dovranno essere trattenute persone migranti, ad esclusione di donne e minori, soccorse nel Mediterraneo centrale da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza.

      Alcuni dettagli dell’operazione sono emersi da un testo (scarica qui) di nove pagine scarse e 14 articoli che indicano come funzioneranno e verranno gestiti i centri. L’accordo ha una durata di cinque anni e sarà rinnovato automaticamente a meno che una delle due parti non comunichi il proprio dissenso entro sei mesi dalla scadenza. In un anno dovrebbero essere accolte-trattenute circa 36.000 persone. I costi, dalle spese di detenzione alla sicurezza interna, saranno tutti in capo all’Italia, mentre l’Albania fornirà gratuitamente gli spazi in cui verranno costruiti i centri: uno al porto di Shengjin, circa 70 chilometri a nord di Tirana, e un altro a Gjader, nell’entroterra. I due centri dovrebbero servire per processare entro 30 giorni le richieste di asilo e per trattenere coloro a cui verrà negata la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine oppure del probabile invio in Italia. Come ha annunciato Giorgia Meloni “dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.
      L’Italia dovrà farsi carico anche di tutte le spese legate alla costruzione dei centri che dovranno essere aperti per la primavera del 2024. Il Post riporta che il sito albanese Gogo.al ha indicato sommariamente dei costi iniziali (vedi il documento diffuso): “l’Italia verserà all’Albania entro 3 mesi un primo fondo pari a 16,5 milioni. Si prevede che oltre 100 milioni di euro saranno congelati in un conto bancario di secondo livello come garanzia”.

      La presidente del Consiglio doveva battere un colpo, dare un messaggio al suo elettorato e alla maggioranza: il “problema immigrazione”, con gli sbarchi che non accennano a diminuire 1 e il flop dell’accordo con la Tunisia, è sempre una priorità della sua agenda politica, a tal punto che è lei stessa, senza coinvolgere nessun altro ministro, a intestarsi l’operazione e dichiarare il nuovo “punto di svolta”. E’ perciò evidente che questo protocollo si inserisce dentro il solco della narrazione mediatica e normativa, dal decreto Piantedosi sulle Ong, al cosiddetto decreto Cutro, fino alla proclamazione dello stato di emergenza dell’11 aprile e alle altre modifiche ai danni di minori e richiedenti asilo, dove vale tutto per raggiungere l’obiettivo dichiarato di ostacolare gli arrivi delle persone migranti.

      Tuttavia, tutti questi tentativi, dall’esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo fino a portare fisicamente le persone in Paesi extra Ue, non sono una prerogativa solo del governo Meloni, ma hanno avuto in questi anni diversi promotori e, pur con delle differenze tra loro, una stessa matrice ideologica anti-migranti: per esempio, i respingimenti a catena dall’Italia alla Bosnia-Erzegovina, non hanno poi uno scopo così diverso dagli accordi tra Inghilterra e Ruanda.

      Secondo l’avvocato Fulvio Vassallo Paleologo si tratta dell’ennesimo annuncio propagandistico del governo in quanto il protocollo d’intesa è «opaco, disumano e privo di basi legali».

      «Nulla infatti – fa notare l’esperto di diritto di asilo e immigrazione – è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, né su quali autorità effettuano i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?», si domanda.

      Nel protocollo – si legge nel testo – le autorità italiane avranno piena responsabilità all’interno dei centri, mentre le autorità albanesi dovranno garantire la sicurezza all’esterno dei centri e durante il trasferimento dei migranti: potranno entrare nei centri solo «in caso di incendio o di altro grave e imminente pericolo che richiede un immediato intervento».

      «La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi – spiega l’esperto – al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegnò alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi soccorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici)».

      «In quell’occasione – prosegue Paleologo – la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama».

      Anche rispetto la procedura di cosiddetto “sbarco selettivo” tra donne, minori e uomini ci sono diversi problemi di legittimità giuridica in quanto si tratta di una palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio. Anche su questo punto Paleologo è chiaro: «Il diritto di chiedere protezione internazionale è regolato secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo. Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure se sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporrebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera».

      Da Bruxelles, la Commissione UE non esclude del tutto la validità dell’accordo, affermando che il caso è diverso dall’accordo Regno Unito-Ruanda, in quanto si applicherebbe alle persone che non hanno ancora raggiunto le coste italiane. Sempre secondo l’avvocato Paleologo «il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, pratiche illegali di privazione della libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio».

      «La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respingimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana”? Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati.
      Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea», conclude Paleologo.

      https://www.meltingpot.org/2023/11/accordo-italia-albania-un-altro-patto-illegale-un-altro-tassello-della-p

    • L’accordo Italia-Albania sui migranti? Solo propaganda!

      Il nuovo memorandum d’intesa tra Italia e Albania sulla gestione dei migranti? Probabilmente solo un « ennesimo annuncio propagandistico » secondo Fulvio Vassallo Paleologo che firma su ADIF [1] un dettagliato articolo che analizza l’annuncio di Giogia Meloni ( non il provvedimento perché questo non esiste ).

      In altre parole, « per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, il “Piano Mattei per l’Africa”, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee ».

      Possibile che il giurista abbia ragione, ma è anche possibile che il fine sia creare terrore in chi in Italia è già; I CPR, ancor di più se in Albani, sono strumentali a schiavizzare i migranti.

      L’avvocato e attivista pro migranti Fulvio Vassallo Paleologo, nell’articolo solleva pure una serie di perplessità giuridiche del progetto della presidente del consiglio italiano di realizzare un CPR in Albania.

      Una tra queste: « qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo [e quindi l’Italia, NdR] deve avere una espressa previsione di legge, e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa » [1].

      Come possa assicurarsi, in Albania, la difesa legale del migrante e un procedimento di convalida firmato da un magistrato italiano rappresenta un grande punto interrogativo. « Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese? », scrive infatti il giurista nell’articolo.

      Precisa poi Fulvio Vassallo Paleologo come « il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi ».

      Il giudizio finale dell’autore rispetto all’annuncio della Meloni non può, quindi, che essere negativo e drastico: « appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio ».

      Tagliente anche il giudizio rispetto alla firma del leader albanese, Edi Rama: « il Memorandum d’intesa rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità ».

      La differenza tra la verità di Fulvio Vassallo Paleologo e la propaganda della Meloni, tuttavia, la fanno le “visualizzazioni” del sito ADIF rispetto a quelli di Repubblica, La Stampa, Libero, Il Giornale, La Verità, Il Gazzettino, etc dove l’effetto “annuncio” è passato senza commenti critici.

      Fonti e Note:

      [1] ADIF, 7 novembre 2023, Fulvio Vassallo Paleologo, “Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali”.

      https://www.pressenza.com/it/2023/11/laccordo-italia-albania-sui-migranti-solo-propaganda

    • Un Protocollo d’intesa con l’Albania, opaco, disumano e privo di basi legali

      Con l’ennesimo annuncio propagandistico del govern si apprende che Giorgia Meloni avrebbe concluso con il premier albanese Edi Rama un Memorandum d’intesa , che prevede – la realizzazione in Albania di due centri per il rimpatrio, che dovrebbero ospitare ogni mese fino a 3000 persone definite “irregolari”, ma solo se soccorse nel Mediterraneo da navi militari italiane, come quelle della Marina Militare e della Guardia di Finanza. Più precisamente, “l’Albania darà possibilità all’Italia di utilizzare alcune aree del territorio albanese dove l’Italia potrà realizzare, a proprie spese, due strutture dove allestire centri per la gestione di migranti illegali. Inizialmente potrà accogliere fino a 3mila persone che rimarranno il tempo necessario per espletare le procedure delle domande di asilo ed eventualmente rimpatrio”. I naufraghi saranno sbarcati a Shengjin e l’Italia si occuperà delle procedure di sbarco e identificazione e realizzerà un “centro di prima accoglienza e screening” a Gjader, che di fatto sarà una “struttura modello Cpr” per le successive procedure. I due centri dovrebbero servire per processare in 28-30 giorni le richieste di asilo e per detenere coloro che si vedranno respinta la richiesta di protezione, in vista del rimpatrio nei paesi di origine. Come ha annunciato Giorgia Meloni “Dei due centri, quello al porto si occuperà delle procedure di sbarco e di identificazione con una prima attività di screening mentre il centro che verrà realizzato nell’area più interna sarà una struttura modello Cpr”.

      Secondo quanto annunciato dalle stesse fonti governative in un anno si penserebbe addirittura di fare transitare in queste nuove strutture detentive, che dovrebbero essere sotto giurisdizione italiana, ma con “sorveglianza esterna” affidata alle autorità albanesi, circa 36.000 persone. Nulla è stato comunicato sulle modalità di rimpatrio e sulle autorità che saranno incaricate di eseguire gli accompagnamenti forzati, nè su quali autorità efettueranno i trasferimenti sotto scorta dai punti di sbarco in Albania ai centri di detenzione “sotto giurisdizione italiana”. Di certo, fin dal momento dello sbarco in Albania i migranti, già ritenuti comunque “illegali”, saranno totalmente privati della libertà personale. Come impone la sentenza n.105/2001 della Corte Costituzionale qualunque procedura di allontanamento forzato attuata da autorità italiane attraverso il trattenimento in un centro di detenzione deve essere convalidata dalla decisione di un giudice. Come sarà possibile realizzare queste garanzie in territorio albanese?

      La consegna delle persone soccorse in mare alle autorità albanesi, al momento dello sbarco, fino, presumibilmente, all’ingresso nei centri di detenzione, che si asserisce sarebbero “sotto giurisdizione italiana” potrebbe costituire una ipotesi di respingimento collettivo analoga a quella riscontrata e condannata dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo nel caso Hirsi, quando nel 2009 una motovedetta della Guardia di finanza riconsegno alle autorità libiche, entrando nel porto di Tripoli, decine di naufraghi socorsi in acque internazionali (pratica illegale che comunque si protrasse fino al 2010, con trasbordi più discreti in alto mare, piuttosto che con l’ingresso delle unità militari italiane nei porti libici). In quell’occasione la Corte di Strasburgo affermò che sebbene il soccorso fosse avvenuto in acque internazionali, il codice della navigazione italiano, oltre che il diritto internazionale, riconoscono che sulla nave militare in alto mare si applica la giurisdizione dello stato della bandiera. Dunque, in quella occasione, tra il momento in cui i profughi venivano accolti a bordo delle navi italiane e quello in cui gli stessi erano consegnati alle autorità libiche a Tripoli, le autorità italiane avevano esercitato su di essi un controllo de facto che impegnava la responsabilità dello stato italiano per qualunque violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione europea. La stessa considerazione potrà valere in futuro quando le autorità italiane consegneranno alle forze di polizia albanese i cittadini stranieri soccorsi in mare da unità militari italiane, ai fini del loro trasferimento forzato e dell’eventuale rimpatrio. Secondo il premier albanese, “Chi non ha diritto viene rimpatriato. Ma se l’Italia non riesce a fare i rimpatri dovrà riprenderseli”. La prova più evidente della riduzione delle persone a rifiuti da smaltire, la cifra morale e politica condivisa da Giorgia Meloni e da Edi Rama.

      Un progetto impraticabile e privo di basi legali, quanto previsto dal Memorandum sottoscritto dalla Meloni con il premier albanese, alla luce dei tempi previsti per le procedure nei centri di detenzione, e soprattutto a causa delle difficoltà di esecuzione delle misure di allontanamento forzato da tutti i paesi europei, anche per la mancanza di accordi di riammissione tra l’Albania e molti paesi di origine dei naufraghi che, dopo essere soccorsi in mare, dovranno affrontare in stato di detenzione procedure”accelerate” per il riconoscimento di uno status di protezione, ed una possibile deportazione. Senza potere fare valere i diritti di difesa e le garanzie della libertà personale previsti dalla Costituzione italiana (a partire dal’art.13 che impone la tempestiva convalida da parte di un giudice di ogni misura di trattenimento amministrativo attuata sotto la giurisdizione italiana) e dalle norme sovranazionali dettate dalle Nazioni Unite a protezione dei richiedenti asilo, e dall’Unione Europea in materia di rimpatri e procedure per il riconoscimento della protezione internazionale. E poi, se pensiamo ai migranti soccorsi intercettati nel mare Ionio, ma anche a quelli provenienti dalla Libia o dalla Tunisia, quanti di loro provengono da paesi terzi veramente “sicuri” ? Il governo italiano non può creare una evidente disparità di trattamento tra persone soccorse nel Mediterraneo da navi civili e altre soccorse da navi militari, che per questa sola ragione verrebbero esposte a procedure accelerate in territorio extra-UE, a differenza di quelle sbarcate in Italia,soprattutto se si tratta di persone che non provengono da paesi terzi sicuri, per cui in Italia si prevedono procedure ordinarie e sistemi di prima e seconda accoglienza.

      Non si comprende neppure quali saranno i criteri per “selezionare” i naufraghi soccorsi nel Mediterraneo dalle navi militari italiane, e se queste attività di “trasporto” verso l’Albania riguarderanno anche le navi italiane impegnate nell’operazione europea Eunavfor Med- IRINI, ammesso che svolgano qualche volta attività di salvatagio. Soprattutto non si comprende come le navi militari italiane possano fare fronte, dopo soccorsi di massa in axque internazionali, al trasporto di centinaia di persone verso l’Albania, che rimane alquanto decentrata rispetto alle rotte migratorie che attraversano il Mediterraneo centrale dal nord-africa. Forse si vorranno imporre giorni e giorni di navigazione su imbarcazioni poco adatte al trasporto di naufraghi, o si risoverà tutto nel’ennesimo effetto annuncio ?

      Come è avvenuto anche in passato, il contenuto del Memorandum, e degli accordi che seguiranno, resta avvolto nell’opacità più totale, e tutto sembra rimesso a successive intese operative segrete, che matureranno tra le autorità italiane e quelle albanesi. Ma colpisce immediatamente la portata disumanizzante dell’accordo, se solo si mette in evidenza l’uso pregiudiziale del termine “irregolari”, quando non addirittura “illegali”, per indicare tutte le persone soccorse in mare da navi militari italiane e condotte in Albania, ad eccezione di donne in gravidanza, persone vulnerabili e minori. In palese violazione delle norme interne ed europee che impongono per tutti lo sbarco in un porto sicuro indicato dall’autorità che coordina le attività di ricerca e salvataggio, e comunque riconoscono a tutte le persone, senza differenze a seconda della natura e della nazionalità della nave soccorriitrice, il diritto di chiedere protezione internazionale secondo regole fissate da Direttive e Regolamenti europei, oltre che dalla Convenzione di Ginevra del 1951 in materia di asilo, Regole che non possono essere derogate da un Memorandum d’intesa che, come altri che lo hanno preceduto, nel 2016 con il Sudan (governo Renzi), e nel 2017 (governo Gentiloni) con la Libia, neppure sarà portato all’approvazione del Parlamento, come imporebbe l’art. 80 della Costituzione. Approvazione che del resto, anche quando fosse richiesta, sarebbe probabilmente un ennesimo atto di forza della maggioranza, su una opposizione divisa, come in passato, sul tema, oggi ancora più scottante, degli accordi con i paesi terzi per realizzare le politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera. Ma per Giorgia Meloni, dopo il fallimento del Memorandum d’intesa tra Unione europea e la Tunisia, le difficoltà nei rapporti con i governi libici ancora in conflitto, e la caduta di qualsiasi ipotesi di collaborazione con i paesi africani, il Piano Mattei per l’Africa, rimasto congelato dopo la crisi in Niger, paese che si pensava di utilizzare come partner per operazioni di deportazione, e infine, per la ventata anti-occidentale che si respira in tutti i paesi del Sahel dopo l’esplosione del conflitto in Palestina, occorreva una dimostrazione di forza. Magari l’ennesimo annuncio, di un piano che dovrebbe andare a regime, secondo le intenzioni dei governi non prima della primavera del 2024, giusto in tempo prima delle elezioni europee.

      Per il ministro per gli affari europei Raffaele Fitto, il Memorandum sarebbe “in linea con la priorità accordata alla dimensione esterna della migrazione e con i dieci punti del piano della presidente della Commissione von der Leyen”. Da Bruxelles, un portavoce della Commissione europea all’Adnkronos ha invece affermato: “Siamo stati informati di questo accordo, ma non abbiamo ancora ricevuto informazioni dettagliate: l’accordo operativo deve essere tradotto in legge dall’Italia e ulteriormente implementato. È importante che qualsiasi accordo di questo tipo rispetti pienamente il diritto comunitario e internazionale“. Non si vede come la Commissione europea possa dare sostegno a questo Memorandum d’intesa, anche se l’approssimarsi della scadenza delle elezioni europee potrebbe fare schierare opportunisticamente alcuni leader nazionali(sti) o pezzi della Commisione UE a fianco di Giorgia Meloni. Il riconoscimento dell’Albania come “paese terzo sicuro” non potrà certo legittimare respingimenti collettivi, vietati dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali del’Unione Europea, pratiche illegali di privazione dela libertà personale o procedure di rimpatrio vietate dalla Direttiva 2008/115/CE, e dalle Direttive n. 32 e 33 del 2013, in materia di procedure e di accoglienza per richiedenti asilo.

      Appare ben strano che un paese aderente all’Unione Europea possa deportare persone soccorse in acque internazionali da proprie navi militari verso un paese che non appartiene all’Unione Europea e che dunque non è soggetto al rispetto degli obblighi e delle garanzie stabilite dalla normativa eurounitaria. Se poi si considerasse il diritto internazionale del mare, le persone soccorse in alto mare dovrebbero essere sbarcate in un porto sicuro nel paese che ha coordinato le attività di ricerca e salvataggio. In ogni caso le attività degli assetti militari in mare, con riferimento al soccorso dei naufraghi ed al contrasto dell’immigrazione irregolare, non possono prescindere dagli obblighi imposti dal Regolamento europeo n.656 del 2014. O, forse, le operazioni di ricerca e soccorso si trasformeranno in attività di intercettazione ed “manovre cinematiche di interposizione”, come quelle condotte poste in essere nel 1997 dal comandante di Nave Sibilla, dopo gli accordi di Prodi con il governo albanese di allora, quando la nave militare italiana, nel tentativo di attuare un maldestro blocco navale, speronava un barcone carico di migranti provenienti dall’Albania, mandandolo a fondo? Ci saranno altri casi simili sotto esame da parte dei Tribunali penali italiani?

      La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha già sanzionato l’Italia nel 2014 sul caso Sharifi per i respjgimenti collettivi effettuati verso un paese terzo “sicuro”, come poteva esserlo nel 2009 la Grecia, e sentenze più recenti hanno condannato su diversi casi il nostro paese per trattenimenti informali o “de facto“, senza la tempestiva convalida giurisdizionale imposta in precisi termini temporali, oltre che dall’art. 13 della Costituzione italiana, dagli articoli 5, 6 e 13 della Convenzione europea a salvaguardia dei diritti dell’Uomo. Qualunque forma di detenzione praticata da un paese aderente alla suddetta Convenzione deve avere una espressa previsione legale (riserva di legge), e deve essere convalidata da un giudice davanti al quale ogni persona migrante possa fare valere i suoi diritti di difesa (riserva di giurisdizione). Si prevede la presenza di giudici italiani nei nuovi centri di detenzione che si vorrebbero aprire in Albania “sotto giurisdizione italiana” ?

      Non sembra che il Memorandum d’intesa firmato dalla Meloni e da Edi Rama, alla caccia di appoggi per l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea, abbia tenuto conto di queste regole che, semmai si riuscisse davvero ad applicare quanto annunciato, potrebbero essere lese dalle autorità italiane sotto la cui giurisdizione resterebbero le persone deportate in Albania. E saranno tutte da verificare quali saranno le conseguenze per il traballante governo albanese di un Memorandum d’intesa che rischia di produrre migliaia di persone costrette alla clandestinità in territorio albanese, quando al termine dei trenta giorni di detenzione previsti non potranno essere rimpatriati. Un ennesimo esempio di come gli accordi tra governi possano agevolare le bande criminali che in Albania sono sempre più attive e che potrebbero lucrare sulla clandestinità, che sarebbero meglio contrastate se si garantisse alle persone migranti canali legali di ingresso e il diritto di chiedere asilo in un paese sicuro per davvero, secondo le regole fissate dalle Convenzioni internazionali e dalla normativa dell’Unione europea.

      https://www.a-dif.org/2023/11/07/un-protocollo-dintesa-con-lalbania-opaco-disumano-e-privo-di-basi-legali

    • Accordo Italia-Albania sui migranti, la UE chiede i dettagli

      L’Italia realizzerà in Albania due centri per la gestione dei migranti che potranno gestire un flusso annuale di 36mila persone. Lo ha dichiarato oggi la premier Giorgia Meloni in conferenza stampa con il primo ministro albanese Edi Rama. Ne parliamo con Genthiola Madhi, ricercatrice di Osservatorio Balcani e Caucaso, e con Andrea Spagnolo, professore di Diritto internazionale e umanitario all’Università di Torino.

      https://www.radio24.ilsole24ore.com/programmi/luogo-lontano/puntata/trasmissione-7-novembre-2023-160500-2404283315532563

    • Ecco perché l’accordo tra Italia e Albania è illegale: tutte le procedure che violano il diritto europeo

      Rappresenta il punto più estremo dell’esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo. Le tutele per le persone bisognose di protezione, invece che garantite, vengono ridotte al minimo.

      Il Protocollo stipulato tra Italia ed Albania “per il rafforzamento della cooperazione in materia migratoria” è il punto finora più estremo (ma, come si vedrà, anche incoerente) a cui l’Italia è giunta nel processo di esternalizzazione delle frontiere e del diritto di asilo.

      Trattandosi di un’intesa avente una chiara natura politica, che richiede oneri finanziari, e che altresì riguarda la condizione giuridica degli stranieri, quindi una materia coperta dalla riserva di legge di cui all’art. 10 co.2 della Costituzione, il Protocollo e i suoi atti attuativi devono essere ratificati dal Parlamento ai sensi dell’art. 80 della Costituzione. Prive di alcun pregio mi sembrano le argomentazioni di chi ritiene che non occorre alcuna ratifica trattandosi di una sorta rinforzo ad accordi pre-esistenti.

      Scopo del Protocollo è quello di trasportare coattivamente in Albania cittadini di paesi terzi per “i quali deve essere accertata la sussistenza o è stata accertata l’insussistenza dei requisiti per l’ingresso, il soggiorno o la residenza” (art.1) in Italia. In Albania, in “aree di proprietà demaniale” (art.1) albanesi, quindi in territorio albanese a tutti gli effetti, nel quale i migranti rimarrebbero confinati “al solo fine di effettuare le procedure di frontiera o di rimpatrio previste dalla normativa italiana ed europea e per il tempo strettamente necessario alle stesse” (art.4.3).

      Il testo non esclude che l’ingresso in Albania avvenga anche in via diversa da quella marittima, quindi riguardi anche persone straniere bloccate sulle vie terrestri, magari nei Balcani, purché tale trasporto avvenga “esclusivamente con i mezzi delle competenti autorità italiane” (art. 4.4). Le autorità italiane assicurano “la permanenza dei migranti all’interno delle aree impedendo la loro uscita non autorizzata” (art. 6.5) e il periodo di permanenza in Albania “non può essere superiore al periodo massimo di trattenimento consentito dalla normativa italiana” (art. 9.1).

      Al termine delle procedure le autorità italiane “provvedono all’allontanamento dei migranti dal territorio albanese” (art. 9) ovvero al rientro in Italia. Molta enfasi è stata posta sul fatto che l’accordo sia finalizzato al trasferimento forzato in Albania dei soccorsi in mare al fine di esaminare le domande di asilo dei naufraghi; tuttavia nel protocollo non c’è alcun riferimento alla procedura di asilo né alla protezione internazionale e le uniche parole che richiamano l’asilo riguardano il rinvio a non meglio definite procedure di frontiera.

      Obiettivo non secondario del protocollo, risulterebbe dunque essere l’utilizzo del territorio albanese per farvi dei centri di detenzione amministrativa per stranieri espulsi dall’Italia, ma che verrebbero trattenuti in Albania al fine di eseguire coattivamente il rimpatrio nel paese di origine. Nonostante il ministro Piantedosi si affanni a dichiarare che non si tratterà di CPR (Centri per il Rimpatrio) il testo del Protocollo dice diversamente.

      Emerge dunque evidente il rischio che l’operazione intenda nascondere una strategia per realizzare CPR inaccessibili, lontani da sguardi indiscreti e da inchieste giornalistiche, liberandosi dell’incubo di dover trovare un luogo dove aprirli in Italia, dove nessun amministratore, di qualsiasi colore politico li vuole. Esaminiamo ora l’ipotesi che il Protocollo venga applicato principalmente a persone soccorse in mare che verrebbero portate in Albania al solo scopo di detenerle e di esaminare le loro domande di asilo.

      Nel testo del protocollo si fa riferimento esplicito all’espletamento delle procedure di frontiera previste dal diritto italiano ed europeo. Prima ancora di verificare se gli standard e le garanzie previste dal diritto dell’Unione possano essere rispettate, ciò che bisogna chiedersi è se sia possibile esaminare le domande di asilo presentate da coloro che vengono deportati dal territorio italiano in cui si trovano (le navi ed altri mezzi delle autorità italiane) nel territorio albanese.

      La risposta non può che essere negativa, dal momento che il diritto dell’Unione sull’asilo (o protezione internazionale) si applica nel territorio degli Stati membri, alle frontiere, nelle zone di transito e nelle acque territoriali. Non si applica al di fuori dell’Unione. Un’applicazione extra-territoriale del diritto dell’UE non pare possibile, come del tutto correttamente messo in luce anche dal documento “Preliminary Comments on the Italy-Albania Deal” pubblicato il 9.11.23 dall’autorevole E.C.R.E. (European Council on Refugees and Exiles).

      Analogo ragionamento vale anche per ciò che attiene l’ipotesi di usare i centri per l’esecuzione del trattenimento degli stranieri espulsi regolato dal diritto dell’Unione con la Direttiva 115/2008/CE. Anche in tal caso non ne risulta possibile alcuna applicazione extra territoriale al di fuori del territorio degli stati membri dell’Unione.

      Va sempre considerato che non ci troviamo di fronte alla questione di come consentire l’accesso alla procedura di asilo da parte di uno straniero che si trova all’estero, e di come si possa esaminare, almeno in fase preliminare, la sua domanda di asilo al fine di consentire un suo successivo ingresso nel territorio di uno stato membro: in altri termini, di come creare delle procedure di ingresso protette a persone con un chiaro bisogno di protezione.

      All’esatto opposto, il protocollo tra Italia e Albania configura una situazione nella quale persone che sono già sotto la giurisdizione italiana, per essere stati soccorsi e trasportati da navi dello Stato, vengono subito dopo tradotte in un paese terzo al solo scopo di impedirne l’ingresso nel territorio nazionale e predeterminare delle condizioni di esame delle domande di asilo con garanzie procedurali ridotte al minimo.

      Ammettiamo ora, come mero esercizio, che si possa sostenere che il diritto dell’Unione sia applicabile all’esame delle domande di asilo in Albania ed esaminiamo le principali questioni che si aprono: la consegna dei migranti dalle mani delle autorità italiane a quelle albanesi, allo sbarco e fino all’ingresso nei centri di detenzione, che, nonostante l’asserita giurisdizione italiana, si trovano in territorio albanese, potrebbe configurare un respingimento collettivo vietato dal diritto dell’Unione Europea. Per i respingimenti collettivi attuati con la Libia nel 2009 l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti umani il 23.02.2013 nella causa Hirsi Jamaa.

      Nessuna valutazione sulla condizione delle persone salvate in mare può essere condotta a bordo delle navi italiane, e dunque ogni procedura giuridica dovrebbe iniziare in territorio albanese all’interno di centri sotto la giurisdizione italiana (ma anche albanese). La restrizione della libertà personale di coloro che vi verrebbero rinchiusi, per essere conforme all’art. 13 Costituzione, va convalidato dall’autorità giudiziaria con un esame caso per caso a seguito del quale il provvedimento di trattenimento viene convalidato o meno.

      Come garantire dentro il microcosmo del campo a gestione italiana il corretto funzionamento della procedura, tra cui ovviamente il diritto del richiedente che si intende trattenere di essere assistito da un legale italiano di fiducia? In ogni caso deve essere esclusa la possibilità di un trattenimento generalizzato di tutti i richiedenti asilo perché tassativamente vietato dal diritto dell’Unione che vieta agli Stati di applicare misure di limitazione della libertà personale nei confronti dei richiedenti asilo “per il solo fatto di essere un richiedente” (Direttiva 2013/33/UE articolo 7 paragrafo 1).

      Come noto, il diritto dell’Unione prevede che il trattenimento venga disposto solo in casi molto limitati e “salvo se non siano applicabili efficacemente misure alternative meno coercitive” (articolo 8, paragrafo 2), misure che comunque in Albania non sarebbero mai praticabili.

      La larga maggioranza dei richiedenti asilo, sicuramente tutte le situazioni vulnerabili e i minori, ma anche tutti coloro cui non sarebbe applicabile la procedura accelerata di frontiera, non potrebbero dunque in nessun caso essere trattenuti, ma poiché non possono neppure rimanere in Albania al di fuori dal centro, dovrebbero essere trasportati in Italia immediatamente per continuare l’accoglienza e l’esame ordinario della loro domanda di asilo sul territorio nazionale.

      Nei confronti di coloro che rimarrebbero rinchiusi nei centri in Albania va garantito senza eccezioni l’esercizio dei diritti fondamentali, tra cui il diritto di ricevere “le informazioni sulla procedura con riguardo alla situazione particolare del richiedente” nonché di comunicare con “organizzazioni che prestino assistenza legale o altra consulenza ai richiedenti” (Direttiva 2013/32/UE art. 19).

      In caso di diniego il richiedente deve poter pienamente esercitare il suo diritto alla difesa, costituzionalmente garantito (Cost. articolo 24) e ha diritto ad un “ricorso effettivo” (Direttiva 2013/32/UE art. 46 par.1) che per essere tale deve garantire alla persona la libertà di consultare un legale e di sceglierlo.

      Nell’ambito delle procedure accelerate di frontiera il giudice mantiene la possibilità di concedere la sospensiva nelle more della decisione di merito ovvero “autorizzare o meno la permanenza del richiedente nel territorio dello Stato membro” (art.46 par.6 lettera d). Ma, in caso di autorizzazione il richiedente non si trova affatto sul territorio dello Stato membro (!) bensì in Albania, il che comporta l’immediato trasferimento in Italia del richiedente da parte delle autorità italiane e la prosecuzione dell’iter della domanda in Italia.

      Il Protocollo appare dunque un incredibile coacervo di procedure radicalmente illegittime rispetto al diritto dell’Unione vigente e che comunque non potrebbero essere applicate in modo razionale e rispettoso di garanzie procedurali e di tutela dei diritti fondamentali degli stranieri coinvolti, sia che si tratti di naufraghi prima e richiedenti asilo poi, che di stranieri espulsi e poi trattenuti in Albania.

      https://www.unita.it/2023/11/10/ecco-perche-laccordo-tra-italia-e-albania-e-illegale-tutte-le-procedure-che-vi

    • Ancora lui, ancora Edi

      Periodicamente il primo ministro albanese si occupa dei flussi migratori italiani. Ripassare quali siano le sue motivazioni è utile, anche perché questa volta, forse, ha esagerato. Un commento

      Edi Rama governa l’Albania da più di dieci anni. Le prime elezioni le vinse nel 2013, pochi mesi dopo il “siamo arrivati primi ma non abbiamo vinto” di Pierluigi Bersani. Da noi la sinistra pareggiava con un Berlusconi terminale; sull’altra sponda dell’Adriatico, invece, Edi l’artista, Edi il socialista, l’ex sindaco di Tirana che aveva colorato i palazzi, archiviava per sempre la stagione di Sali Berisha. Voltava pagina. “Come sono avanti questi albanesi”, è il qualunquismo mezzo di sinistra e mezzo di disprezzo che da allora dedichiamo ai nostri vicini. E su questa carenza di conoscenza, da più di un decennio, periodicamente, Edi Rama lucra politica. Non lo vediamo perché per vederlo bisogna considerare l’Albania uno stato. E invece per noi l’Albania è un luogo dell’immaginario, e i sogni non sono portatori di interessi. Non lo vediamo, perché la fiction italo-albanese è utile a mascherare la povertà della nostra politica estera.

      L’ultimo gioco di prestigio Rama lo ha regalato lunedì scorso a Palazzo Chigi, questa volta il complice non è stato l’«amico Renzi» (2014), né l’«amico Di Maio» (2021), siccome siamo nel 2023 è stata «l’amica Giorgia Meloni». Non sono certo che commentare il memorandum (https://www.ilpost.it/wp-content/uploads/2023/11/08/1699429572-Protocollo-Italia-Albania-.pdf?x19465) firmato dai due governi sia utile, non solo perché è evidentemente poco praticabile sul piano pratico e giuridico, ma perché seguo da diversi anni le relazioni tra Italia e Albania e non credo più alle parole che si dicono le due diplomazie. A chi non avesse seguito, basti sapere che nel corso della conferenza stampa (https://www.governo.it/it/articolo/il-presidente-meloni-incontra-il-primo-ministro-della-repubblica-d-albania/24178), la Presidente del Consiglio ha dichiarato che l’Albania “concederà all’Italia alcune zone del suo territorio” (sic!), sulle quali l’Italia potrà realizzare “a proprie spese e sotto la propria giurisdizione” due strutture “per la gestione dei migranti illegali”. Per l’esattezza il governo ipotizza di portare in Albania tremila persone al mese, che dovrebbero rimanere in questi centri durante la domanda di asilo, negata la quale il richiedente verrebbe allontanato dal territorio albanese (non si capisce per andare dove, se si rimpatria dall’Italia o dall’Albania). Flusso complessivo annuale stimato: 36.000 persone. Come alla fine delle pubblicità dei farmaci, Meloni in chiusura ha messo le avvertenze – “Il protocollo disegna la cornice politica, all’accordo dovranno seguire i provvedimenti normativi conseguenti” – e ha fornito una vaga data di inizio progetto: primavera 2024. Tradotto: questo accordo non esiste, è pura propaganda.

      Nulla di nuovo sotto il sole italo-albanese. Qualcosa di simile era già avvenuto nel 2018, quando la crisi della nave Diciotti bloccata da Salvini nel porto di Catania venne “risolta” dai media manager del governo albanese, che promise su twitter l’accoglienza di 20 migranti, venendo immediatamente ripreso dall’account della Farnesina, e quindi da tutte le agenzie stampa. Anche allora i ministri Salvini e Di Maio (il governo era gialloverde) enfatizzarono la condotta del piccolo paese balcanico “più europeo e più solidale degli stati membri”: a sinistra ci si cullò nel sogno di un paese povero ma ospitale, a destra ci si vantò dei frutti dell’intransigenza del ministro degli Interni, che con il suo “no” aveva imposto una redistribuzione, peraltro a un paese che con il suo gesto ripagava finalmente l’accoglienza degli italiani (come se la Lega Nord degli anni Novanta fosse stata accogliente verso gli albanesi). Giorni di dichiarazioni allucinanti e vuote, perché nessun asilante della Diciotti arrivò mai in Albania (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Nessun-asilante-della-Diciotti-e-mai-arrivato-in-Albania-192453), né alcuna autorità si pose mai il problema che ciò accadesse, essendo illegale il trasferimento di un migrante giunto in Ue in uno stato terzo, fuori dal sistema di asilo europeo.

      Ed è proprio qui che la sparata di Meloni supera quella di Salvini: perché per evitare l’obiezione dell’illegalità di un trasferimento forzato fuori dall’Ue, a questo giro si dice che il porto di Shëngjin e le sue strutture saranno “territorio italiano”, e che da quel territorio i migranti dislocati in Albania potranno chiedere asilo all’Italia. Ammesso e non concesso che sia possibile trasportare i migranti intercettati, poniamo, al largo della Sicilia in un porto a 700 km di mare delle rotte del Mediterraneo centrale (non certo l’approdo più vicino imposto dalle Convenzioni internazionali sul soccorso in mare), davvero non si capisce come sia possibile realizzare una Italia extraterritoriale, capace di organizzare un’accoglienza rispettosa del diritto internazionale fuori dai propri confini. Ma sto contravvenendo al buon proposito di non commentare un memorandum che non diventerà mai operativo. Torniamo alla politica, e in particolare alla politica albanese. Perché, ciclicamente, Edi Rama si occupa delle nostre questioni migratorie?

      Per lo stesso motivo per cui nel 2020 sceneggiò di inviare una squadra di infermieri in Lombardia per aiutare le nostre terapie intensive intasate dal Covid-19 (https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Dare-un-senso-alla-solidarieta-del-governo-albanese-200768): il video sulla pista dell’aeroporto di Tirana (https://www.youtube.com/watch?v=XYtgeZjtIko

      ), con i poveri medici già inscafandrati è degno della Corea del Nord (per la cronaca, si trattava di ragazzi inesperti, come emerse negli ospedali del bresciano dove vennero dislocati, sostanzialmente per apprendere le tecniche di contrasto al virus, nel momento in cui la pandemia divampava anche in Albania). Nel 2018, come nel 2020 come nel 2023, per Edi Rama l’obiettivo è sempre uno solo: entrare nel flusso narrativo delle vicende europee, accreditarsi tra i partner come leader d’area e dipingere presso le opinioni pubbliche l’Albania come membro di fatto dell’Unione europea. Cose che aiutano a far dimenticare che su ogni singolo dossier dei negoziati di adesione il suo paese arranca.

      La conferenza stampa di Rama e Meloni non ha raccontato l’avvenimento di un fatto diplomatico. È essa stessa il fatto diplomatico. Dinanzi agli italiani, Rama ha offerto a Meloni la possibilità di fingere che l’Italia abbia una politica estera assertiva (una funzione che lo stato albanese ha svolto altre volte nella storia d’Italia), dinanzi agli europei, Meloni ha offerto a Rama ciò che tutti i governi italiani garantiscono a prescindere dal colore politico: il certificato di europeità. “Non solo l’Albania si conferma una nazione amica dell’Italia – ha dichiarato la Presidente – ma anche una nazione amica dell’Unione europea. Nonostante sia solo un paese candidato si comporta già come un paese membro dell’Unione”. Insomma, da dieci anni il copione è lo stesso, ma i nostri governi cambiano ed ereditano il discorso dal precedente, mentre Rama resta e continua ad affinare la sua interpretazione: “Preferisco far riposare il traduttore”, dice prima di sfoderare il suo italiano, con lo sguardo umile di chi vorrebbe fare di più. E poi va dritto al cuore, dritto sul senso di colpa della sinistra, dritto sul complesso di superiorità della destra: “Non avremmo fatto questo accordo con nessuno stato Ue. Il debito che abbiamo con l’Italia non si paga, ma se l’Italia chiama l’Albania c’è. Se ci sono domande bene, se non ci sono firmiamo e andiamo in vita dopo aver fatto il nostro dovere”.

      Da dieci anni, Edi Rama governa il suo paese con i media stranieri e il consenso che miete all’estero, da Bruxelles ad Ankara (perché esiste anche un copione “orientalista” consolidato, ma questa è un’altra storia: https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Albania-candidata-all-Europa-o-provincia-ottomana-195112). Oggi in Albania manca una opposizione credibile, sia a livello nazionale che municipale, principalmente perché opporsi non conviene. La criminalità organizzata è scesa a patti con questo nuovo, singolo, potere. La corruzione non dilaga, è endemica, l’unico metodo possibile. Le riforme richieste dall’Ue arrancano, gli albanesi emigrano in massa: senza barconi, ma chiedendo asilo in nord Europa, come gli eritrei della Diciotti.

      Per tutti questi motivi Edi (che è cresciuto a Rai e Mediaset e conosce il potere ipnotico che l’estero esercita sulla periferia albanese e che il ricordo della migrazione albanese esercita su di noi) ogni tanto un giretto in Italia se lo fa. E proprio per questi motivi, proprio perché l’Albania reale, nonostante la nostra cooperazione e le nostre politiche, oggi è un paese così, noi abbiamo bisogno di un’Albania che ci racconti quanto siamo stati bravi. Che ci confermi che stiamo raccogliendo i frutti dell’accoglienza seminata trenta anni fa. Che ci rassicuri sul fatto che sappiamo stare nel Mediterraneo, e che sul Mare Nostrum disponiamo di tavoli e relazioni che ci consentono di farci ascoltare in Europa. Questa volta, forse, l’hanno sparata troppo grossa. La ricorrente bugia italo-albanese è un’impostura morale che interessa a poche persone, ma sta oltrepassando le soglie della sostenibilità. Il risveglio rischia di essere molto brusco.

      https://www.balcanicaucaso.org/aree/Albania/Ancora-lui-ancora-Edi-228139

    • Albania Agrees to Host Centres Processing Migrants to Italy

      Albanian Prime Minister Edi Rama has signed an agreement in Rome pledging to host centers that will process the claims of thousands of migrants rescued by Italy at sea.

      Italian Prime Minister Giorgia Meloni and her Albanian counterpart, Edi Rama, on Monday in Rome signed an important memorandum of understanding under which Albania has agreed to host centres managing thousands of would-be migrants to Italy rescued at sea.

      “Mass illegal immigration is a phenomenon that no EU state can deal with alone, and collaboration between EU states and non-EU states, for now, is fundamental,” Meloni said.

      “The memorandum has three main goals”, she explained; to combat people smuggling and illegal migration, and to welcome only those that have rights to international protection.

      Under the deal, Italy will set up two centres in Albania, which Meloni said in the end might handle “a total annual flow of 36,000 people”.

      Jurisdiction over the centres will be Italian.

      “Albania will grant some areas of territory”, where Italy will create “two structures” for the management of illegal migrants: “they will initially be able to accommodate up to 3,000 people who will remain there for the time needed to process asylum applications and, possibly, for the purposes of repatriation,” said Meloni, Italy’s ANSA news agency reported.

      One centre will be at the northwestern Albanian port of Shëngjin, which will handle disembarkation and identification procedures and where Italy will set up a first reception and screening centre.

      In Gjader, also in north-western Albania, it will set up a second, pre-removal centre, CPR, structure for subsequent procedures, ANSA added.

      The deal does not apply to immigrants arriving on Italian territory but to those rescued in the Mediterranean by Italian official ships – not those rescued by NGOs. It does not apply to minors, pregnant women and vulnerable persons.

      Albania will collaborate on the external surveillance of the centres. A series of protocols will follow that outline the framework. The plan is to make the centres operational in the spring of 2024, Meloni said.

      Since Meloni’s far-right government came into power, one of its priorities has been to reduce the number of people arriving illegally in Italy through the Central Mediterranean or Western Balkan migration routes.

      This goal explains Italy’s renewed political interest in the Balkans. Several top Italian political figures, including Meloni herself and Foreign Minister Antonio Tajani, have been regularly meeting counterparts in Slovenia, Croatia and Albania in the last months. A central point of these meetings has been migration.

      Data published by the Italian Department of Public Safety show that the number of irregular arrivals in Italy in 2023 until November 1, 2023, was 145,314, a 165-per-cent increase compared to 2021, and 64 per cent higher than 2022.

      Albania’s Rama said Albania could not reach a similar agreement with any other country in the EU, citing the unique connections between Albania and Italy and Italians and Albanians.

      Sa far, Albania has had limited capacities to host migrants, most of whom use it as transit country to reach EU countries.

      Rama added that Albania owes the Italian people a debt for “what they did to us from the first day that we arrived on the shores of [Italy] to find support and to imagine and have a better life”.

      After the fall of communism of Albania in 1991, many Albanians fled to Italy’s southern coasts by boat. According to data published in 2021 by the Italian National Institute of Statistic, 230,000 Albanian citizens have acquired Italian citizenship since 1991.

      https://balkaninsight.com/2023/11/06/albania-agrees-to-host-centres-processing-migrants-to-italy

    • Italy-Albania agreement adds to worrying European trend towards externalising asylum procedures

      “The Memorandum of Understanding (MoU) between Italy and Albania on disembarkation and the processing of asylum applications, concluded last week, raises several human rights concerns and adds to a worrying European trend towards the externalisation of asylum responsibilities,” said today the Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović.

      “The MoU raises a range of important questions on the impact that its implementation would have for the human rights of refugees, asylum seekers and migrants. These relate, among others, to timely disembarkation, impact on search and rescue operations, fairness of asylum procedures, identification of vulnerable persons, the possibility of automatic detention without an adequate judicial review, detention conditions, access to legal aid, and effective remedies. The MoU creates an ad hoc extra-territorial asylum regime characterised by many legal ambiguities. In practice, the lack of legal certainty will likely undermine crucial human rights safeguards and accountability for violations, resulting in differential treatment between those whose asylum applications will be examined in Albania and those for whom this will happen in Italy.

      The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalising asylum as a potential ‘quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees, asylum seekers and migrants. However, externalisation measures significantly increase the risk of exposing refugees, asylum seekers and migrants to human rights violations. The shifting of responsibility across borders by some states also incentivises others to do the same, which risks creating a domino effect that could undermine the European and global system of international protection.

      Ensuring that asylum can be claimed and assessed on member states’ own territories remains a cornerstone of a well-functioning, human rights compliant system that provides protection to those who need it. It is therefore important that member states continue to focus their energy on improving the efficiency and effectiveness of their domestic asylum and reception systems, and that they do not allow the ongoing discussion about externalisation to divert much-needed resources and attention away from this. Similarly, it is crucial that member states ensure that international co-operation efforts prioritise the creation of safe and legal pathways that allow individuals to seek protection in Europe without resorting to dangerous and irregular migration routes.”

      https://www.coe.int/en/web/commissioner/view/-/asset_publisher/ugj3i6qSEkhZ/content/id/261934338

    • German Chancellor Scholz to examine Italy-Albania asylum deal

      The German leader has signalled an openness to study Italy’s recent agreement to hold asylum seekers in centers in Albania. The deal has raised human rights concerns, including from the Council of Europe.

      German Chancellor Scholz has said he will look “closely” at Italy’s plans to establish centers in Albania to hold migrants. Speaking on the sidelines of the congress of European Socialists in the Spanish city of Malaga, he noted that Albania is a candidate for EU membership and that challenges like migration needed to be addressed on a European level, reported Reuters.

      “Bear in mind that Albania will quite soon, in our view, be a member of the EU, implying that we are talking about the question of how can we jointly solve challenges and problems within the European family,” Scholz told reporters on Saturday (November 11).

      The Memorandum of Understanding between the Italian and Albanian governments, announced last week, will see tens of thousands of migrants who were rescued in the Mediterranean housed in closed centers in Albania while authorities assess their asylum requests.

      “Such deals, that have been eyed there, are possible, and we will all look at that very closely,” Scholz stated during the briefing, according to Reuters.

      He emphasized that a clear European course in migration policy was needed “to correct things that have not been right in the past (and) to establish a solidarity mechanism so that not each country on its own has to try and master the challenges alone.”
      ’It becomes less attractive for them to pay big money to smugglers’

      If the Italy-Albania deal is implemented, it would be the first time that such an idea would actually be put in place, Ruud Koopmans, a professor for migration studies and advisor to the German Federal Office for Migration and Refugees, BAMF, told DW in an interview. He referred to unsuccessful attempts by Denmark and the UK to try something similar in Rwanda.

      From a legal perspective, the Italy-Albania deal could become problematic if people who are rescued on Italian territory instead of in international waters are sent to Albania, Koopmans noted. “When people from the Sahara come to Italy and are then sent to Albania, there is no prior connection to Albania. This could be legally problematic.”

      Koopmans said that it could also become difficult to send people back who are rejected. “…(T)his is not easy in practice, as home countries often do not cooperate and documents are missing. This is a problem that Albania will also face. But if people know that they will have to wait in Albania if they are rejected, it becomes less attractive for them to pay big money to smugglers,” he said.

      Discussions on finding solutions to increasing asylum numbers are gaining momentum, Koopmans said. “More and more countries are looking for solutions. Denmark, Austria, the Netherlands and Germany are having discussions along these lines.” Deals like the Italy-Albania agreement could present an opportunity for countries neighboring the EU, in that they could help their efforts to join the bloc, he added.

      Deal could undermine human rights safeguards, Mijatović

      Italy’s deal has raised concerns among Italy’s opposition as well as rights groups who see it as an attack on the right to asylum. The NGO Emergency said that the deal is “in reality, ...a way to block migrants from arriving on Italian soil – and therefore European soil – to ask for asylum, as required by European and international law. (This is) yet another attack on asylum rights and the provisions of Article 10 of our Constitution.”

      Concerns were also expressed by Council of Europe Commissioner for Human Rights, Dunja Mijatović. She warned that the deal’s legal ambiguities could undermine human rights safeguards and accountability. “The MoU is indicative of a wider drive by Council of Europe member states to pursue various models of externalizing asylum as a potential ’quick fix’ to the complex challenges posed by the arrival of refugees,” she said in a press release on November 13.

      Mijatović urged member states to focus on improving domestic asylum and reception systems and to prioritize safe and legal pathways for protection in Europe.

      Germany announces streamlined asylum process

      The chancellor’s remarks in Malaga came on the heels of an agreement with Germany’s 16 states on a tougher migration policy and increased funding for refugee hosting capacities.

      Faced with an increase in the number of asylum cases filed in Germany, estimated to reach 300,000 this year, the government has announced it will accelerate procedures.

      At all BAMF offices, the procedure for registering asylum seekers now includes photographing and fingerprinting, allowing for immediate data checks to rule out potential multiple identities. The system allows other agencies involved in the asylum process to access biometric data as well, according to BAMF. Arabic names will be transferred into the Latin alphabet to prevent differences in spelling and other mix-ups.

      Furthermore, mobile phone searches will only be conducted on a case-by-case basis, BAMF said, and queries to the Schengen Information System (SIS) will be reduced: if the last SIS search was within 14 days, an additional inquiry is waived.

      A spokesperson from BAMF said that these specific measures would make procedures more efficient, while maintaining high-security standards. The asylum procedure is meant to last 6.7 months on average. However, when considering negative decisions, administrative court proceedings take on average 21.8 months in the first instance, the spokesperson noted.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53194/german-chancellor-scholz-to-examine-italyalbania-asylum-deal

    • Accordo Italia-Albania, ASGI: è incostituzionale non sottoporlo al Parlamento

      La Costituzione italiana prevede che la ratifica di trattati internazionali spetti al Presidente della Repubblica, previa, quando occorra, l’autorizzazione con legge del Parlamento (art. 87, Cost.).

      Tutti i tipi di trattati internazionali costituiscono una delle fonti del diritto internazionale, la cui efficacia nell’ambito nazionale deriva da un ordine di esecuzione dato per effetto della loro ratifica che fa sorgere l’obbligo internazionale della loro attuazione interna.

      Come ha ricordato il Ministero degli affari esteri nella sua circolare n. 2/2021 del 30 luglio 2021 “quale che sia la loro denominazione formale (trattati, accordi, convenzioni, memorandum, etc.), i trattati internazionali possono essere conclusi tramite documenti a firma congiunta, scambi di note, scambi di lettere o altre modalità, essendo riconosciuto dal diritto internazionale il principio della libertà delle forme.”

      Gli atti per i quali l’art. 80 Cost. prescrive la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica sono i «trattati che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi».

      La dottrina giuridica afferma che si tratti di una forma di controllo democratico della politica estera e di compartecipazione delle Camere al potere estero del Governo. Anche per tale rilevanza politica complessiva l’art. 72, comma 4 Cost. prescrive che i disegni di legge per la ratifica siano esaminati sempre con procedura legislativa ordinaria.

      Inoltre, è bene ricordare che, in generale, qualsiasi norma non costituzionale deve essere interpretata sempre in modo conforme alla Costituzione, sicché anche questo Protocollo deve essere interpretato in modo conforme all’art. 80 Cost.

      Secondo il Governo, tuttavia, il Protocollo italo-albanese in materia di gestione delle migrazioni non deve essere sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica, perché sarebbe l’attuazione del Trattato di amicizia e collaborazione tra la Repubblica italiana e la Repubblica di Albania, con scambio di lettere esplicativo dell’articolo 19, fatto a Roma il 13 ottobre 1995, ratificato e reso esecutivo sulla base della legge 21 maggio 1998, n. 170.

      Tesi giuridicamente infondata, perché l’art. 19 del Trattato del 1995 prevede soltanto che Italia ed Albania “concordano nell’attribuire una importanza, prioritaria ad una stretta ed incisiva collaborazione tra i due Paesi per regolare, nel rispetto della legislazione vigente, i flussi migratori” e che “riconoscono la necessità di controllare i flussi migratori anche attraverso lo sviluppo della cooperazione fra i competenti organi della Repubblica Italiana e della Repubblica di Albania e di concludere a tal fine un accordo organico che regoli anche l’accesso dei cittadini dei due Paesi al mercato del lavoro stagionale, conformemente alla legislazione vigente”.

      Dunque, nel Trattato del 1995 Italia e Albania si sono accordate per concludere successivi protocolli in materia migratoria soltanto per l’ipotesi prevista nell’art. 19 comma 2 e cioè per regolare l’immigrazione albanese in Italia (che infatti è stata poi regolata con due successivi accordi firmati in forma semplificata nel 1997 e nel 2008), mentre le norme che si riferiscono genericamente alla regolazione e al controllo dei flussi migratori alludono a materie del tutto vaghe e suscettibili delle più diverse applicazioni, future e incerte.

      Pertanto, la mera indicazione che si tratti di un Protocollo sulla “cooperazione in materia migratoria” e il richiamo a due precedenti trattati e accordi non possono certo essere lo strumento per eludere l’obbligo derivante dall’art. 80 Cost. per il Governo di presentare alle Camere un apposito disegno di legge di autorizzazione alla ratifica del Protocollo e della futura intesa di attuazione.

      Il Protocollo appena firmato prevede disposizioni molto dettagliate che riguardano proprio i casi in cui l’art. 80 Cost. esige la preventiva legge di autorizzazione alla ratifica, perché:

      – comportano oneri alle finanze, sia perché il Protocollo pone espressamente a carico dell’Italia specifici oneri finanziari, per l’allestimento delle strutture (art. 4, comma 5), per l’erogazione di servizi sanitari (art. 4, comma 9), per la realizzazione delle strutture necessarie al personale albanese addetto alla sicurezza esterna dei centri (art. 5., comma 2), per la riconduzione nei centri da parte delle autorità albanesi di eventuali migranti usciti illegalmente dai centri (art. 6, comma 6) e per l’impiego dei mezzi e delle unità albanesi (art. 8, comma 3) e per eventuali risarcimenti del danno (art. 12, comma 2), cioè per la realizzazione e gestione dei centri, per il relativo personale, per il trasporto da e per l’Albania degli stranieri trattenuti e per la loro assistenza anche sanitaria (a cui dovrà aggiungersi anche la copertura degli oneri connessi al gratuito patrocinio per le spese di difesa degli stranieri, per quelle di interpretariato e per quelle sullo svolgimento dell’attività delle commissioni per il riconoscimento della protezione internazionale e dei giudici che convalideranno il trattenimento e che giudicheranno sugli eventuali ricorsi), sia perché il Protocollo prevede specifici contributi, iniziali (16,5 milioni di euro) e una successiva garanzia di 100 milioni di euro, che devono essere erogati dall’Italia all’Albania i cui importi e scadenze sono specificati in un apposito allegato al Protocollo stesso;

      - comportano modificazioni di leggi, perché il Protocolloper essere effettivamente attuato non soltanto prevede espressamente un’intesa successiva (che, dunque, dovrà essere sottoposta alle Camere congiuntamente al Protocollo), ma prevede norme che comportano operazioni amministrative e giudiziarie concernenti stranieri giunti in Italia e che saranno svolte in Albania, cioè norme non previste dalle attuali leggi italiane. Questo significa che il protocollo, per essere attuato, esige implicitamente la modificazione di tante norme legislative vigenti in Italia, che regolano la condizione giuridica degli stranieri che giungono in Italia e che presentano in Italia una domanda per fruire del diritto di asilo nel territorio della Repubblica italiana (e la condizione giuridica dello straniero e le condizioni per il diritto di asilo sono materie coperte da riserva di legge ai sensi dell’art. 10, commi 2 e 3 Cost.). Infatti, in base alle disposizioni del protocollo costoro potranno essere soccorsi da navi italiane, e dunque in territorio italiano, e da qui trasportati poi in Albania per essere sottoposti in territorio albanese a misure restrittive alla libertà personale (e i casi e i modi dei provvedimenti restrittivi della libertà personale sono materie coperte da riserva assoluta di legge e da riserva di giurisdizione previste dall’art. 13 Cost. e dall’art. 5 CEDU); tali restrizioni avverranno mediante provvedimenti disposti e attuati in Albania da autorità italiane in modi che saranno, in tutto o in parte, diversi da quelli già previsti dalle vigenti norme legislative italiane (p. es. occorrerà indicare quale sarà l’autorità di pubblica sicurezza competente dal punto di vista geografico ad adottare i provvedimenti amministrativi di espulsione e i provvedimenti di trattenimento, occorrerà individuare la commissione territoriale competente ad esaminare eventuali domande di protezione internazionale, occorrerà dare una nuova applicazione al concetto di “accompagnamento immediato alla frontiera” di persone che in realtà sono già fuori del territorio italiano, occorrerà stabilire modi e garanzie per interpreti, difensori e stranieri durante lo svolgimento in Albania dei colloqui con le autorità di pubblica sicurezza e con i giudici, occorrerà disciplinare i procedimenti di trasporto degli stranieri da e per i centri albanesi);

      – comportano regolamenti giudiziari che riguardano la giurisdizione italiana, sia relativamente alla sua estensione territoriale e personale (inclusa la regolamentazione di eventuali contenziosi sulla responsabilità civile di ciò che accadrà in Albania che saranno espressamente di competenza dei giudici italiani), sia con riguardo alla effettuazione da parte dei giudici italiani nei centri albanesi dei giudizi di convalida dei trattenimenti e degli eventuali giudizi sui ricorsi contro le eventuali decisioni di diniego e di inammissibilità delle domande di protezione internazionale (occorrerà disciplinare la competenza territoriale del giudice che dovrà giudicare in Albania e le modalità delle notificazioni e dello svolgimento dei giudizi);

      - hanno natura politica, poiché le disposizioni del Protocollo impegnano durevolmente la politica estera italiana, avendo una durata di cinque anni ed essendo state negoziate e stipulate personalmente e pubblicamente dai capi dei Governi dei due Stati e non già da Ministri o da meri funzionari ministeriali, e poiché le premesse del Protocollo espressamente lo motivano con la “comunanza di interessi e di aspirazioni” tra i due Stati e dei due Stati alla prevenzione dei flussi migratori illeciti e della tratta degli esseri umani, e a promuovere la crescente collaborazione bilaterale tra Italia ed Albania “anche nella prospettiva dell’adesione della Repubblica di Albania all’UE”, che è l’evidente interesse principale di tutte le azioni di politica estera del governo albanese. La grande ed evidente politicità dell’accordo è confermata dalle dichiarazioni pubbliche fatte dalla Presidente del Consiglio dei ministri al momento della firma del protocollo davanti al Primo ministro albanese: il Protocollo è stato definito «importantissimo […] che arricchisce un’amicizia storica [e] una cooperazione profonda» tra i due Stati, la «cornice politica e giuridica» della collaborazione tra Italia e Albania e «un accordo di respiro europeo».

      Inoltre, il Protocollo ha per oggetto misure che attengono alle materie della sicurezza e della difesa nazionale. L’attuazione delle disposizioni previste dal Protocollo comporta il trasporto verso l’Albania di stranieri mediante mezzi delle competenti autorità italiane, il che avverrà in modi sostanzialmente forzati, mediante aerei o navi delle Forze armate italiane, le quali hanno già basi in Albania e alle quali il Governo con l’art. 21 del decreto-legge 19 settembre 2023, n. 124 ha affidato la realizzazione dei centri di permanenza per il rimpatrio, dei punti di crisi e dei centri governativi di accoglienza per richiedenti asilo, trattandosi di materie che lo stesso articolo del citato decreto-legge attribuisce espressamente alla materia della difesa e della sicurezza la realizzazione.

      Proprio su queste materie la legge n. 25/1997 (e oggi l’art. 10, comma 1, lett. a) del codice dell’ordinamento militare, emanato con d. lgs. n. 66/2010) ha previsto che tutte le deliberazioni del Governo in materia di sicurezza e di difesa debbano essere sempre approvate dal Parlamento. Ciò comporta che dal 1997 sono sottoposti all’esame delle Camere mediante leggi di autorizzazione alla ratifica anche tutti i tipi di accordi internazionali in materia di sicurezza e di difesa.

      *

      È dunque indispensabile l’esame parlamentare del disegno di legge di autorizzazione alla ratifica di questo protocollo e della sua futura intesa di attuazione e delle norme nazionali che daranno esecuzione nell’ordinamento italiano a questi accordi.

      Va ricordato, infine che:

      – la proposta di legge di autorizzazione alla ratifica non necessariamente deve essere di iniziativa del Governo (la Costituzione non lo prescrive), sicché, come è già accaduto in alcune altre occasioni, in mancanza di una presentazione di un disegno di legge del Governo essa può essere presentata nelle Camere anche da singoli parlamentari;

      – L’Assemblea di ogni Camera ha il potere di presentare alla Corte costituzionale ricorso per conflitto di attribuzioni tra i poteri dello Stato.

      In ogni caso qualora questo Protocollo non sia sottoposto a legge di autorizzazione alla ratifica in conformità con l’art. 80 Cost. non potrà mai essere eseguito, né potrà essere considerato vincolante per l’ordinamento italiano, quale obbligo internazionale ai sensi dell’art. 117, comma 1 Cost.

      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento

    • Nell’intesa Italia-Albania, la continuità deve preoccuparci quanto la novità

      L’accordo spinge la pratica di esternalizzare le frontiere verso direzioni preoccupanti. Dubbi sulla sua effettiva applicabilità

      A più di una settimana dall’annuncio dell’accordo tra Italia e Albania in materia di “gestione dei flussi migratori”, la mossa del governo italiano ha attirato diverse critiche in ambienti giuridici e militanti per le sue implicazioni in termini di diritti umani e di rispetto della legislazione italiana ed europea in materia di asilo.

      Nella consueta propaganda del governo, l’accordo (reso noto soltanto a operazione conclusa) è stato presentato come un successo diplomatico, un accordo “storico” e “innovativo”. Di fronte alle preoccupazioni sollevate da varie voci, la Presidente del Consiglio non è entrata nel merito, limitandosi a dichiararsi “fiera” di questa azione pionieristica, che “può diventare un modello per altre nazioni di collaborazione tra Paesi Ue e extra Ue” 1.

      Il protocollo prevede l’istituzione di due centri (paradossalmente definiti da alcuni media “di accoglienza”) in territorio albanese, ma sottoposti alla giurisdizione italiana: uno per le procedure di identificazione e gestione delle domande di asilo, l’altro per i rimpatri, sul “modello” dei CPR. È previsto un termine di 28 giorni per valutare le domande di ogni richiedente: una velocizzazione dei tempi che sicuramente andrebbe a discapito dell’accuratezza delle raccolte delle prove e delle valutazioni. Per quanto riguarda il “modello” del centro per i rimpatri, è ormai noto quanto gli abusi fisici e psicologici verso i detenuti siano frequenti, e quante morti evitabili sono state causate da questo sistema.

      I dubbi sulla legittimità e le possibili conseguenze dell’accordo sono tanti e fondati. E nonostante alcune affermazioni di approvazione da parte di politici europei per l’esperimento “interessante”, diversi giuristi esperti di migrazioni e diritto d’asilo hanno espresso le loro riserve sull’intesa. Una dichiarazione di ASGI sottolinea le ragioni per cui la mancata approvazione parlamentare di un accordo come questo non può ritenersi legittima. L’intesa prevede infatti disposizioni su alcune materie (finanziarie, scelte di politica estera, modifiche all’ordinamento giuridico) di cui dovrebbe necessariamente rispondere la rappresentanza democratica 2. Nel merito dei contenuti si è ampiamente espresso Fulvio Vassallo Paleologo, avvocato e attivista, descrivendo l’accordo come “privo di basi legali”.

      Un primo elemento di illegittimità è il trasferimento delle persone soccorse dalle navi italiane in territorio extra-europeo. Non si conoscono poi le attribuzioni delle competenze sulle procedure, le modalità dei rimpatri, i criteri per l’attribuzione delle caratteristiche di “vulnerabilità” che impedirebbero il trasferimento di alcune persone tratte in salvo da navi italiane verso l’Albania.

      Critiche sono arrivate anche da alcune organizzazioni non governative. Emergency ha descritto l’accordo come l’ennesimo attacco al diritto di asilo 3. La non appartenenza dell’Albania all’UE significa l’impossibilità di applicare la legge europea all’azione delle autorità albanesi. Inoltre, per i tempi sbrigativi con cui le persone richiedenti asilo sarebbero valutate, potrebbe non esserci spazio per il diritto al ricorso contro la decisione di rifiuto della domanda. In modo analogo, Amnesty International ha condannato l’accordo come “illegale e impraticabile” 4.

      Sia nelle presentazioni istituzionali sia nelle critiche, si è parlato di questo accordo soprattutto in termini di novità, di rottura con il quadro giuridico esistente. Ma è bene anche enfatizzare anche gli aspetti di continuità di questa scelta politica con il passato. Un’opinione autorevole arriva dal Consiglio d’Europa, che nelle parole della Commissaria per i diritti umani Dunja Mijatović esprime la sua preoccupazione per la tendenza crescente in Europa ad esternalizzare le frontiere e le procedure di asilo.

      La dichiarazione mette a punto una serie di fattori ambigui e problematici dell’accordo: “le tempistiche degli sbarchi, l’impatto sulle operazioni di ricerca e salvataggio, l’equità delle procedure di asilo, l’identificazione delle persone vulnerabili, la possibilità automatica di detenzione senza un adeguato controllo giudiziario, le condizioni di detenzione, l’accesso all’assistenza legale e a rimedi effettivi […]. In pratica, la mancanza di certezza giuridica probabilmente comprometterà le garanzie fondamentali per i diritti umani e la responsabilità per le violazioni, determinando un trattamento differenziato tra coloro le cui domande di asilo saranno esaminate in Albania e coloro per i quali ciò avverrà in Italia” 5.

      E sebbene tutte le ambiguità e anomalie implicite nel trattato potrebbero comportarne il fallimento o addirittura l’inapplicabilità, il protocollo d’intesa non fa che aggravare la preoccupante tendenza a esternalizzare le frontiere, ormai consolidata.

      E non è chiaramente una prerogativa esclusiva del governo attuale e delle forze politiche che lo sostengono. Infatti, il memorandum si inserisce perfettamente nel solco di altri accordi, più o meno opachi, che i nostri governi – ma anche altri governi europei e la stessa Unione – sottoscrivono da anni con paesi extra UE. Allora, forse, vale la pena di riflettere su quanto siamo disposti ad accettare, di volta in volta, di sacrificare un pezzo in più dei diritti delle persone in movimento, in una posta al ribasso che ha normalizzato sistemi che producono morte, sfruttamento e torture come inevitabili conseguenze della sacralità dei confini.

      Questa tendenza a esternalizzare tramite accordi con paesi terzi è indice di scarsa democraticità.

      Innanzitutto perché uno strumento come un protocollo d’intesa, o Memorandum of Understanding, è per sua natura “flessibile”. La preferenza sempre più marcata per questo tipo di accordo da parte del governo italiano – si pensi al memorandum con la Libia nel 2017 e con la Tunisia nel 2020 – risponde alle logiche emergenziali con cui sono ormai quasi esclusivamente trattate le questioni legate alle migrazioni.

      Se questo è un vantaggio dal punto di vista del governo, è evidente che la mancanza di controllo sui suoi contenuti e sulla sua eventuale applicazione rappresenta un problema: un memorandum non è legalmente vincolante per le due parti, non è necessariamente sottoposto a ratifiche parlamentare e può essere mantenuto riservato.

      Se si vuole parlare la lingua degli “interessi strategici”, troppo spesso l’unica con cui le istituzioni governative si approcciano alle politiche migratorie, è però una mossa rischiosa e in alcuni casi poco lungimirante. Un paese terzo a cui vengono attribuite determinate prerogative nel controllo dei confini non è un semplice ricettore passivo di politiche neocoloniali. Benché sia evidente che i rapporti di potere sono sbilanciati in favore della controparte europea, è vero anche che accordi di questo tipo hanno dato la possibilità ad alcuni governi di esercitare forme di pressione e influenza. Pressioni che, ovviamente, sono sempre andate a scapito dei diritti delle persone in movimento, usate come merce di scambio per ottenere dei vantaggi. Controlli più serrati si alternano a periodi di “rilascio controllato” dei/delle migranti, a seconda di ciò che il governo appaltante ritiene in quel momento più funzionale ai propri bisogni. È quello che accade ad esempio con Libia, Turchia, Marocco, Tunisia.

      È in questi termini che emerge ancora la continuità con le politiche migratorie degli ultimi decenni. Esternalizzare le frontiere e le procedure permette di sorvolare più di quanto non sia possibile in Italia sulle incombenze giuridiche e burocratiche del sistema di asilo. Ma soprattutto, rende meno visibili le immancabili violazioni associate al sistema di controllo delle migrazioni. Con la creazione di spazi sotto la giurisdizione italiana in un territorio di uno stato terzo, resta da chiarire come sarebbero valutate le responsabilità in caso di carenze gravi nelle strutture, che sono già state riscontrate in moltissime altre strutture europee, e non: sovraffollamento, mancanza di servizi adeguati per i richiedenti, incuria, abusi fisici, somministrazione di psicofarmaci contro la volontà dei soggetti interessati. A chi sarebbe affidata poi la repressione di eventuali rivolte o fughe da parte delle persone detenute?

      Esternalizzare le frontiere ha quindi uno scopo pratico molto preciso: allontanare dal territorio europeo la conoscenza delle sofferenze e degli atti di ribellione delle persone sottoposte al regime delle frontiere, prevenire azioni di monitoraggio e pressioni sul rispetto dei loro diritti da parte della società civile, far svolgere ad altri il lavoro sporco che per cui le istituzioni governative e le forze di polizia europee potrebbero dover essere chiamate a rispondere.

      Sottolineare gli elementi che renderebbero questo accordo illegale e inapplicabile è necessario per prevenire situazioni difficilmente riparabili con gli strumenti a disposizione della legge. Ma potrebbe non bastare: l’esperienza ci ha mostrato come accordi e decreti contrari ad alcuni principi costituzionali e del diritto di asilo abbiano comunque trovato applicazione, soprattutto quando questa è affidata in parte ad autorità di paesi terzi. È fondamentale quindi contestare alle sue radici una gestione emergenziale delle migrazioni, che passa per il solo sistema di asilo senza prevedere canali di ingresso regolari, e che mira a prevenire l’arrivo nel territorio europeo del maggior numero di persone possibile.

      Tweet di Giorgia Meloni: https://twitter.com/GiorgiaMeloni/status/1723027124246708620
      https://www.asgi.it/notizie/accordo-italia-albania-asgi-illegittimo-parlamento
      https://www.emergency.it/comunicati-stampa/laccordo-italia-albania-e-lennesimo-attacco-al-diritto-di-asilo-e-sottende
      https://www.amnesty.org/en/latest/news/2023/11/italy-plan-to-offshore-refugees-and-migrants-in-albania-illegal-and-unworka
      https://www.coe.int/hr/web/commissioner/-/italy-albania-agreement-adds-to-worrying-european-trend-towards-externalising-a

      https://www.meltingpot.org/2023/11/nellintesa-italia-albania-la-continuita-deve-preoccuparci-quanto-la-novi

    • Tavolo Asilo e Immigrazione: appello al Parlamento perché non ratifichi il Protocollo Italia-Albania

      L’accordo getta le basi per la violazione del principio di non respingimento e per l’attuazione di pratiche di detenzione illegittima: alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, senza una chiara base legale e nessuna garanzia del diritto di difesa e a un ricorso effettivo

      Il Tavolo Asilo e Immigrazione chiede che il Protocollo Italia-Albania venga revocato dal Governo e fa fin da ora un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera sull’intesa.

      L’accordo firmato con il governo albanese, violando gli obblighi costituzionali e internazionali del nostro Paese, si pone, come quello con la Tunisia, l’obiettivo di esternalizzare le frontiere e il diritto d’asilo.

      L’accordo Italia-Albania, così come delineato, comporta infatti il rischio di gravi violazioni dei diritti umani. Il testo dell’intesa non chiarisce se i centri da realizzarsi in Albania saranno destinati alle procedure di esame delle domande di protezione internazionale e in particolare alle procedure di frontiera o al rimpatrio, ma alle persone condotte nei centri sarebbe impedito di uscire, subendo di fatto un regime di detenzione automatica e prolungata, senza una chiara base legale. Anche la possibilità di controllo giurisdizionale sembra compromessa, così come il diritto di difesa e a un ricorso effettivo. L’Accordo non chiarisce infatti la competenza a convalidare il trattenimento delle persone, né che cosa accadrà alle persone che hanno chiesto protezione internazionale che non ottengano risposta entro i 28 giorni previsti dalla procedura accelerata.

      Infine, desta preoccupazione la mancanza nel Protocollo di qualsiasi riferimento alle persone maggiormente vulnerabili, minori, donne, famiglie, vittime di tortura, e di come queste sarebbero salvaguardate dall’applicazione dell’accordo, così come era stato invece annunciato nei giorni scorsi.

      Per questi motivi le Organizzazioni del Tavolo Asilo e Immigrazione ne hanno chiesto oggi la revoca da parte del Governo durante una conferenza stampa alla quale hanno partecipato anche la Segretaria del Partito Democratico Elly Schlein e il Segretario di +Europa Riccardo Magi, il senatore Graziano Delrio, Presidente del Comitato Parlamentare di controllo sull’attuazione dell’Accordo di Schengen, di vigilanza sull’attività di Europol, di controllo e vigilanza in materia di immigrazione, oltre ai deputati Matteo Mauri, Giuseppe Provenzano e Alfonso Colucci.

      Le associazioni hanno inoltre lanciato un appello al Parlamento perché voti contro il disegno di legge di ratifica preannunciato dal Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale durante le odierne comunicazioni alla Camera.

      Per il Tavolo Asilo e Immigrazione

      A Buon Diritto, ACAT, ACLI, ActionAid, Amnesty International Italia, ARCI, ASGI, Casa dei Diritti Sociali, Centro Astalli, CGIL, CIES, CNCA, Commissione Migranti e GPIC Missionari Comboniani Italia, DRC Italia, Emergency, Europasilo, Fondazione Migrantes, Forum per Cambiare l’Ordine delle Cose, Intersos, Medici del Mondo, Medici per i Diritti Umani, Medici Senza Frontiere, Movimento Italiani Senza Cittadinanza, Oxfam Italia, Refugees Welcome Italia, Save the Children Italia, Senza Confine, Società Italiana Medicina delle Migrazioni, UIL, UNIRE

      Aderiscono inoltre

      AOI, Mediterranea Saving Humans, Open Arms, Rivolti ai Balcani, Sea Watch e Sos Mediterranée Italia

      https://www.asgi.it/primo-piano/tavolo-asilo-e-immigrazione-appello-al-parlamento-perche-non-ratifichi-il-proto

    • Italy: Parliament to ratify Albania deal to process asylum seekers

      Both of Italy’s houses of parliament will be given the chance to ratify the country’s new deal to process asylum seekers in Albania. The motion was approved after a debate in the lower house on Tuesday.

      Italy’s Foreign Minister Antonio Tajani spoke to Italy’s lower house on Tuesday (November 21), explaining the Italy-Albania deal to process asylum seekers in more detail, and promising that the deal would be presented as a DDL (proposal of a law) and that both houses would have the chance to ratify it before it proceeds.

      In his long speech to the lower house, Tajani reminded parliamentarians that other similar deals with countries like Libya had not been subject to the same ratification process. Originally the Italian government said that the Italy-Albania deal didn’t need to be either, since it was not a treaty and only treaties needed to be ratified by parliament.

      However, in what the opposition has dubbed a “complete U-turn,” two weeks after the Italy-Albania deal was signed, Tajani has announced that it would be presented as a subject for debate by parliamentarians. The government hopes that the debates and ratification process will be “as quick as possible,” since the deal is meant to begin in just a few months, by spring 2024.
      Deal ’is just one additional instrument’ to manage migration

      Fighting the traffickers is “an absolute priority” for the Italian government, said Tajani during his speech to parliament. Referring to the death of a two-year-old girl during a rescue operation on Monday (November 20), Tajani said “we won’t and shouldn’t get used to these kinds of tragedies that are unfolding along our coasts.”

      He proposes that the Italy-Albania deal is just “one additional instrument” to help Italy manage migration. Tajani said that Italy has worked hard to make migration a central tenet of EU debate, and says that Italy and other members of the bloc are all working hard to “stop irregular migration, fight traffickers and strengthen the external borders of the EU.”

      Although Tajani admitted that the deal was “no panacea”, he said that Italy had “deep and historic ties with Albania” and already had joint teams to stop the trade in drugs and migrants. For the benefit of the parliament, Tajani outlined once again that the deal would be entirely paid for by Italy and was expected to cost €16.5 million initially. This would cover the two centers, one at the port and one about 30 kilometers away.

      The initial center at the port will be where people are registered and fingerprinted. They will then be moved to the reception center, where they will have their asylum requests examined. Anyone whose request is refused would be repatriated from there.
      Not comparable to UK-Rwanda deal, says Tajani

      This is no offshoring deal, said Tajani, disputing the accusations that it was “Italy’s Guantanamo” or anything like the UK-Rwanda deal. The centers will be entirely staffed by Italian personnel, be managed under Italian law, and they will come under the jurisdiction of the Italian courts, said Tajani.

      Italy’s foreign minister underlined that “no vulnerable people, women or children” would be sent to these centers. It will be exclusively to process the asylum requests of non-vulnerable migrants from safe countries, explained Tajani, or those who have already had one claim refused, or people waiting for repatriation.

      There will never be more than 3,000 people in the centers at any one time, promised Tajani. Italy will pay Albania for police patrols outside the centers and for any hospital visits that are required. Tajani also assured parliamentarians that all rights to healthcare and safety would be respected and that the only asylum seekers brought to Albania would be by Italian official boats. NGO rescue ships would not be disembarking people in Albania.
      Keeping it within the ’European family’

      Tajani said that the European Commission had already confirmed that the agreement did not violate EU law, since, as Tajani explained quoting EU Home Affairs Commissioner Ylva Johansson, the processing will follow Italian law which is fully in line with European law.

      Several MPs in the debate, including Minister Tajani referenced the fact that the German chancellor had said they would be following the agreement closely and thinking about similar models for their country. According to Tajani, the German Chancellor Olaf Scholz said that since Albania will soon be part of the European family, referring to Albania’s European accession process, processing asylum seekers in Albania was about “solving challenges within Europe” and not offshoring.

      Scholz, speaking in Malaga recently, said that the whole bloc was looking to “reduce irregular migration” and said he thought there should be more deals struck like the EU-Turkey 2016 deal, to help Europe manage migration.

      Increasing the legal pathways to Italy

      Nearing the conclusion of his speech, Tajani underlined that any exceptions to adhering to the rule of international law would be straight out “impossible”. Using the Albania agreement as a model, Tajani said the Italian government was seeking to conclude or extend similar deals with other friendly countries, transit countries and countries of origin.

      Tajani promised that the Italian government would also increase the number of legal pathways into Italy. He said in parliament that the new work permits for migrant workers had already been increased to about 150,000 per year from this year to 2025, compared to 82,000 in 2022.

      At the end of the debate in parliament, a majority of 189 to 126 voted to allow the proposal to continue its passage and be put forward as an official proposal of law (DDL), to be examined and ratified by both houses.
      Critics call deal ’illegitimate’ and ask for it to be revoked

      However, the law was not without its critics. During the debate, Riccardo Magi from the Più Europa (More Europe) party said that the deal “did nothing but increase uncertainty and would take away the fundamental right to personal liberty” of people who may be detained under the deal. He added that he didn’t believe that even the ministers proposing the deal believed it would really be doable.”

      On November 20, Amnesty International and 35 other NGOs, which together form the TAI (Tavalo Asilo e Immigrazione – a forum for the discussion of asylum and immigration) have also criticized the deal, calling it “illegitimate” and saying it should be “revoked.”

      The TAI held a press conference on Tuesday (November 21) where they reiterated that in their opinions, the deal violated international obligations and laws. They said that just like the deal with Tunisia, it was an attempt to “externalize the borders and the right to asylum.”

      According to a press release from the TAI, the Italian migration system is “in chaos and continuously violates the law and the rights of welcome and asylum” that under international law they are forced to offer. TAI accuses the Italian government of “making sure it implements practices in the field which just produce emergencies and discomfort.”

      The TAI says that the Italy-Albania deal “risks seriously violating human rights.” They say that once those people are on an Italian boat, they come under Italian jurisdiction, so they can’t then be transferred to another state to have their asylum requests examined.

      The deal, says TAI, goes against the principle of non-refoulement, whereby a person cannot be sent back to a land where they could knowingly be put in danger. The deal also allows for people to be detained illegitimately, claims TAI.

      https://www.infomigrants.net/en/post/53392/italy-parliament-to-ratify-albania-deal-to-process-asylum-seekers

    • In Pictures: Sites Where Refugees Will be Hosted In Albania

      BIRN has taken a look at the sites in Albania where a reception centre and a refugee camp will be built in accordance with the controversial agreement reached between the Albanian and Italian governments.

      The agreement was opposed both in Italy and Albania and one of the biggest critics that it received is related to Albania’s capacities to receive 3000 migrants in a month.

      According to the protocol that has been published, a reception centre for migrants will be built inside the Port of Shengjin, in the Lezha area of northern Albania, which will process and register migrants rescued at sea by Italy.

      A second site, which will serve as a refugee camp, will be built in Gjader, a village where a former military air base was built in the 1970s during the communist era.

      Italy’s plan to build migrant centres in Albania has been criticised in both countries, where activists and human rights lawyers have questioned Albania’s capacities to handle the arrangements.

      While the deal has been criticised by human rights experts, lawyers and civil society groups in Italy, in Albania many see it as Prime Minister Edi Rama’s personal initiative, since it was not discussed previously in public.

      The deal allows Italy to set up facilities on Albanian territory for migrants it has rescued at sea, which will accommodate up to 3,000 people at any one time.

      The agreement, which BIRN has seen, although without its annexes, states: “In the event that, for any reason, the [migrant’s] right to stay in the facilities cease to exist”, Italy must immediately transfer these persons out of Albanian territory.

      “Italy will use the port of Shengjin and the Gjader area to establish, at its own expense, two entry and temporary reception facilities for immigrants rescued at sea, capable of accommodating up to 3,000 people, or 39,000 a year, to expedite the processing of asylum applications or potential repatriation”, the text of the protocol notes, adding that jurisdiction over the centres will be Italian.

      “In Shengjin, Italy will handle disembarkation and identification procedures and establish a first reception and screening centre; in Gjader, it will create a model Cpr facility for subsequent procedures. Albania will collaborate with its police forces, for security and surveillance,” it adds.

      https://balkaninsight.com/2023/11/22/in-pictures-sites-where-refugees-will-be-hosted-in-albania
      #photographie #localisation

    • L’intesa con Tirana costerà oltre mezzo miliardo. 142 milioni di euro solo nel 2024

      «Oltre 142 milioni di euro nel 2024, quasi 645 nei cinque anni di validità (prorogabili). È quanto costerà ai contribuenti italiani l’intesa tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e l’omologo Edi Rama per rinchiudere nei centri di trattenimento in Albania i migranti soccorsi in alto mare dalle navi italiane. Soldi che l’esecutivo è andato a cercare raschiando il fondo del barile degli accantonamenti di quattordici ministeri.»

      https://ilmanifesto.it/tagli-a-universita-e-agricoltura-per-fare-i-centri-in-albania
      #coût

    • The 2023 Italy-Albania protocol on extraterritorial migration management

      In November 2023, the Italian government concluded a Memorandum of Understanding (MoU), or Protocol, with the Albanian authorities envisaging extraterritorial migration and asylum management, including detention and asylum processing, in Albania. This Report examines the Protocol in light of EU, regional and international legal standards, and the main responses that it has attracted so far. It concludes that the MoU can be understood as a nationalistic and unilateral arrangement that, while not involving the EU, covers policy areas falling within the scope of European law. The MoU runs contrary to EU constitutive principles enshrined in the Treaties, including the EU Charter of Fundamental Rights, as well as international law. It should be regarded as a non-model in migration and asylum policies as it is affected by far-reaching illegality and unfeasibility grounds undermining both its rationale and implementation.

      https://www.ceps.eu/ceps-publications/the-2023-italy-albania-protocol-on-extraterritorial-migration-management
      #extra-territorialité #droit_international #droits_fondamentaux

    • Nouvel avatar de l’externalisation : l’accord Italie-Albanie

      Il y a 20 ans, Plein Droit s’inquiétait des projets européens d’installation, dans des pays non membres de l’Union européenne (UE), de « centres de transit » où seraient enfermées, le temps d’instruire leur demande d’asile, les personnes étrangères ayant franchi illégalement les frontières de l’Union. Évoquant un « cauchemar », l’édito dénonçait l’intention des États membres « de se dégager des responsabilités que la Convention de Genève sur les réfugiés fait peser sur eux », ajoutant : « On devine au prix de quelles pressions, économiques ou non, ces pays accepteront ou se feront imposer ces camps de transit, […] on imagine sans mal l’insécurité à laquelle les demandeurs d’asile seront confrontés, les chantages auxquels ils pourront être soumis de la part des pays condamnés par l’Europe à les accueillir à sa place [1] ».

      Si, depuis, l’externalisation de l’asile a été déclinée de multiples façons [2], le projet de #camps_de_détention situés hors de l’UE, mais juridiquement contrôlés par un État membre, ne s’est jamais concrétisé. Sans doute à cause des #obstacles_juridiques que poserait un tel montage, notamment au regard du respect des droits fondamentaux. Mais aussi parce qu’il suppose de trouver où les implanter : jusqu’ici, les tentatives pour convaincre des pays voisins de se prêter au jeu ont échoué. Lorsqu’en 2018 le Conseil européen a exploré la possibilité de créer, hors du territoire européen, des « #centres_régionaux_de_débarquement » pour y placer des boat people interceptés en Méditerranée, il s’est heurté au refus catégorique des États nord-africains et de l’Union africaine [3].

      Aujourd’hui, le #cauchemar est à nos portes. À la veille de l’adoption du Pacte européen qui entend accélérer la procédure frontalière d’examen des demandes d’asile et renforcer la « dimension externe » de la politique migratoire de l’UE, l’Italie a conclu le 6 novembre, avec l’Albanie, un accord visant à y délocaliser l’accueil de migrants secourus en mer et l’examen des demandes d’asile. Il paraît que c’est au cours de ses vacances en Albanie, l’été dernier, que la cheffe du gouvernement italien Giorgia Meloni a posé les bases de cette « pièce importante » de sa stratégie de lutte contre les flux migratoires. Elle y a trouvé l’oreille attentive de son homologue albanais, Edi Rama, prêt à mettre « gratuitement » à la disposition de l’Italie deux zones au nord du pays pour qu’elle y construise les centres sous administration italienne où seront détenus des migrants interceptés en mer par des navires italiens. Le premier, dans une ville côtière, pour y procéder aux premiers soins, aux opérations d’identification, et instruire les demandes d’asile ; le second, sur une base militaire, pour organiser le #rapatriement des personnes qui ne demandent pas l’asile ou ne seront pas reconnues éligibles à une protection. Aux demandeurs d’asile placés dans ces centres qualifiés d’« extraterritoriaux » serait appliquée la procédure accélérée que la loi italienne prévoit pour les requêtes formées à la frontière. Seuls ceux qui obtiendraient une protection seraient admis au séjour en Italie, les autres devant être expulsés.

      L’accord ne pourra cependant entrer en vigueur avant que la Haute Cour albanaise ne se soit prononcée sur sa #constitutionnalité : les membres de l’opposition qui l’ont saisie contestent cette forme de « vente d’un morceau du territoire albanais » qui conduirait, selon un député du parti Più Europa, à la création d’« une sorte de #Guantanamo italien, en dehors de toute norme internationale, en dehors de l’UE [4] ».

      Là n’est pas le seul problème que soulève l’accord, même si Georgia Meloni aimerait que celui-ci devienne « un modèle à suivre ». Un « modèle » qui suscite les réserves du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés (HCR), à aucun moment « informé ni consulté », et que dénonce la Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe. Relevant ses « #ambiguïtés_juridiques », celle-ci liste les multiples questions que l’accord soulève en matière d’équité des procédures d’asile, d’identification des personnes vulnérables et des mineurs, de risque de détention automatique sans contrôle juridictionnel, de conditions de détention, d’accès à l’assistance juridique et de recours effectif... Et met en garde contre le recours croissant à l’externalisation, qui pourrait « créer un effet domino susceptible de saper le système européen et mondial de protection internationale [5] ». De leur côté, plusieurs ONG ont déjà mis en évidence l’incompatibilité de l’accord avec la législation européenne – à laquelle l’Italie est tenue de se conformer – en matière d’asile et d’éloignement [6].

      Les institutions de l’UE semblent moins inquiètes. Pas de réaction du côté des gouvernements, sans doute soulagés de voir l’Italie traiter seule le problème des arrivées d’exilé·es sur ses côtes plutôt que d’être rappelés à une « solidarité européenne » à laquelle ils préfèrent se dérober. Quant à la Commission européenne, elle s’est empressée de préciser que « le droit européen n’est pas applicable en dehors du territoire de l’UE » mais que, « étant donné l’appartenance de l’Italie à l’Union et l’adoption obligatoire d’une législation commune, les règles qui s’appliqueront dans les centres albanais seront effectivement de nature européenne et imiteront le cadre qui s’applique sur le sol italien [7] ». Nous voilà rassurés.

      https://www.gisti.org/spip.php?article7170

    • Protocole d’accord Italie/Albanie sur les migrations : une coopération transfrontière contraire au droit international

      La chambre des députés italienne et la Cour suprême albanaise ont approuvé le protocole d’accord sur les migrations conclu en novembre 2023, respectivement les 24 et 29 janvier 2024. Le réseau Migreurop dénonce des manœuvres qui s’inscrivent dans la continuité des politiques de l’Union européenne (UE) et de ses États membres pour externaliser le traitement de la demande de protection internationale.

      Le 6 novembre 2023, l’Italie a conclu un « accord » avec l’Albanie en vue de délocaliser le traitement de la demande d’asile de certain·e·s ressortissant·e·s étranger·ère·s de l’autre côté de ses frontières [1]. Ce protocole, rendu public le 7 novembre, s’appliquerait aux personnes interceptées ou secourues en mer par les autorités italiennes, qui pourraient être débarquées dans les villes côtières albanaises de Shëngjin et de Gjader. Les personnes reconnues « vulnérables » ne seraient pas concernées par cet accord.

      Celui-ci prévoit, d’ici le printemps 2024, la construction de deux camps [2] financés par l’Italie : l’un destiné à l’évaluation de la demande d’asile, l’autre aux « éventuels rapatriements » [3] (autrement dit, aux expulsions). Alors que le Parlement italien n’a pas été sollicité au moment de la conclusion de l’accord [4], ces structures relèveraient pourtant exclusivement de la juridiction italienne. Contre une compensation financière et une avancée dans le processus d’adhésion à l’UE, l’Albanie aurait donné son accord pour « accueillir » 3 000 personnes par mois sur son territoire et assurer une part active dans les activités de sécurité et de surveillance via ses forces de police [5]. Fortement inspiré par le concept australien de « Pacific solution » [6], ce mécanisme placerait les deux camps sous autorité italienne, avec du personnel italien, en vertu d’un statut d’extraterritorialité.

      Certaines institutions européennes se sont dans un premier temps contentées d’appeler au respect du droit national et international. La Commissaire européenne en charge des affaires intérieures a déclaré, une semaine après que l’accord a été rendu public : « L’évaluation préliminaire de notre service juridique est qu’il ne s’agit pas d’une violation de la législation de l’UE, mais que cela est hors de la législation de l’UE » [7]. Une formulation particulièrement ambiguë, qui n’a pas été éclaircie quand elle a ajouté : « l’Italie se conforme à la législation européenne, ce qui signifie que les règles sont les mêmes. Mais d’un point de vue juridique, il ne s’agit pas de la législation européenne, mais de la législation italienne (qui) suit la législation européenne ».

      La Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe, a quant à elle rappelé que « la possibilité de déposer une demande d’asile et de la faire examiner sur le territoire des États membres reste une composante indispensable d’un système fiable et respectueux des droits humains », ajoutant que « Le protocole d’accord crée un régime d’asile extraterritorial ad hoc, caractérisé par de nombreuses ambiguïtés juridiques » [8].

      S’il a l’allure d’un accord bilatéral, cet accord s’inscrit dans la continuité de l’externalisation des politiques d’asile menée par les États européens depuis le début des années 2000, se projetant plus ou moins loin des frontières européennes (du Maroc au Rwanda en passant par la Turquie, notamment). De nombreux pays sont en effet tenus de coopérer avec l’UE et ses États membres dans le domaine de l’immigration et de l’asile en échange d’avantages en matière commerciale, de politique étrangère ou d’aide au développement.

      Dans le cas présent, l’Italie, au nom d’un prétendu « partage des responsabilités », pioche dans la mallette à outils à disposition des États pour externaliser le traitement de la demande d’asile. L’Albanie ayant obtenu en 2014 le statut de pays candidat à l’adhésion à l’Union européenne, cette coopération transfrontière représenterait un gage de sa bonne volonté, se donnant ainsi l’image d’être le partenaire-clé des pays européens dans la mise en œuvre de leurs politiques de sélection et de filtrage des personnes étrangères aux frontières extérieures [9]. Cette stratégie utilitariste, mobilisant les personnes en migration comme levier de négociation politique, a déjà été mise en œuvre par le passé à de maintes reprises, et le réseau Migreurop a solidement étayé les effets délétères de tels accords sur les droits des personnes migrantes [10].

      Au-delà de l’opacité et du secret qui a entouré sa conclusion, ce protocole d’accord pose de nombreuses questions :

      Alors même que l’accord ne s’appliquerait pas aux personnes considérées vulnérables, ne peut-on estimer que les personnes rescapées sont de facto vulnérables ? Que le déplacement dans ces centres albanais de personnes rescapées en mer constitue de facto une action qui vulnérabilise ces personnes ?

      Quid du principe de non-refoulement ? En envoyant des personnes en dehors de son territoire, le temps du traitement de la demande d’asile, l’Italie risque de contrevenir au principe de non-refoulement, pourtant énoncé à l’article 33 de la Convention de 1951 relative au statut des réfugiés, qui interdit le retour des réfugiés et des demandeurs d’asile vers des pays où ils risquent d’être persécutés [11].

      En pratique, sa mise en œuvre impactera les droits des personnes selon les conditions du débarquement (qui ne sera donc pas le lieu sûr le plus proche comme le prévoit la réglementation internationale) : qu’en sera-t-il du respect de la procédure de demande d’asile, de l’identification de la vulnérabilité, de l’accès à une assistance juridique ? Elle impactera aussi, ensuite, les conditions dans lesquelles les personnes seront détenues, à l’image de ce qui s’est passé dans les hotspots en Grèce, dans lesquels les personnes étaient prisonnières de camps à ciel ouvert [12].

      Qui sera responsable en cas de violations des droits au sein de ces camps ? Quel droit s’appliquera, le droit italien ou le droit albanais ? Comment pourra être garantie l’effectivité des droits dans un territoire localisé à distance de la juridiction responsable, loin des regards ?

      Selon les termes de cet accord, ni les personnes débarquées par les bateaux d’ONG, ni les personnes arrivées de manière autonome ne devraient être concernées. Comment savoir si les autorités italiennes n’élargiront pas cette procédure à tou·te·s les demandeur·euse·s d’asile ? L’accord ne risque-t-il pas, en outre, de mettre en difficulté les conditions dans lesquelles s’effectueront les opérations de recherche et sauvetage des personnes en détresse en mer ? Le tri entre les personnes reconnues vulnérables et les autres se fera-t-il sur le bateau ou en Albanie ?

      Pour les personnes expulsées, le seront-elles depuis l’Italie ou depuis l’Albanie ? De sérieux doutes se posent au regard des déclarations du Premier ministre albanais affirmant qu’elles incomberaient aux autorités italiennes (alors qu’initialement cette tâche devait être effectuée par l’Albanie).

      La détention aurait lieu durant la procédure frontalière et en vue du retour, mais quid des personnes libérées en Albanie : seront-elles renvoyées vers l’Italie ou un autre État ?

      Cet accord tombe-t-il sous le coup du droit européen ou non ? La Commissaire aux affaires intérieures a laissé planer un doute sur la nature européenne des règles qui s’y appliqueraient. La Commissaire aux droits de l’Homme du Conseil de l’Europe a quant à elle pointé du doigt le risque d’un effet domino « susceptible de saper le système européen » si d’autres États décident eux-aussi de transférer leur responsabilité au-delà des frontières européennes [13].

      Les règles édictées dans l’accord politique sur le pacte européen adoptées le 20 décembre 2023 devront-elles s’appliquer sur le territoire albanais car sous juridiction italienne et donc européenne ?

      Et pour finir, se pose la question du coût exorbitant de ces déplacements de populations, mais aussi celui de l’accord négocié avec l’Albanie pour disposer d’une partie de son territoire national, et du fonctionnement-même de ces camps.

      Pour toutes ces raisons, le réseau Migreurop dénonce un protocole d’accord qui n’aurait jamais dû voir le jour. Et à supposer que le gouvernement italien s’obstine dans cette direction, cela ne peut se faire sans que le droit européen et la protection des droits des personnes soient mis en œuvre et respectés. À commencer par celui de demander l’asile dans de bonnes conditions.

      Les mécanismes d’externalisation à l’œuvre – qui se généralisent – violent le droit international avec la complicité des autorités nationales et la complaisance de certaines institutions européennes. Il est urgent de refuser ce contournement incessant du droit qui, loin des regards, s’inscrit dans la stratégie mortifère de mise à distance des personnes étrangères.

      https://migreurop.org/article3230

  • Decree bans new Syrian refugees from settling in #Chlorakas

    The interior ministry quietly issued a decree disallowing any more Syrian refugees from settling in the coastal village of Chlorakas in Paphos, as numbers were causing a huge shift in demographics and creating ‘ghettos’, according to the local community leader.

    “The minister of the interior stopped the settlement of Syrian refugees in Chlorakas a number of weeks ago, but it has only been reported in the media now. This is an important move as we can’t cope with the large number of refugees and we had a number of ghettos which is not acceptable,” Nikolas Liasides, the community leader of Chlorakas said, speaking to the Cyprus Mail on Friday.

    The demographic of the area changed to quickly and the authorities were unable to keep up, he stressed, adding that around 20 per cent of the population is now Syrian.

    Close to 7,000 people reside in Chlorakas, made up of 4,300 Cypriots and other Europeans and around 1,400 Syrian refugees, many from the same area in Syria. He said this number is too large and was mushrooming out of control.

    “We should have around 4 per cent of refugees here and not 20 per cent. We had many problems last summer with criminality and the residents and the community board wanted to do something to stop this from getting worse and so we appealed to the authorities to help,” he added.

    However, on Friday main opposition Akel issued a statement decrying the move as an ‘unprecedented action,’ requesting the government revoke it immediately.

    They said that the decree,” violates the European Directive on the basis of which our national legislation guarantees the right of free movement, establishment and residence of asylum seekers.”

    They also noted that the decree is against the spirit of the Charter of Fundamental Rights, which notes that we must first and foremost respect and safeguard.

    “Akel calls on the government to immediately withdraw this decree and to manage the refugee issue through a human-centered approach, by taking measures in the framework of international and European law and with respect for human rights.”

    But it appears that the move may be constitutionally sound, prominent human rights lawyer Achilleas Demetriades said on Twitter.

    “Article 9Ea, unfortunately, grants the right to the minister to issue such a decree IF it is directed towards the public good. The question is whether such a demographic change is within the public good and to what extent it is against A14 of the constitution,” Demetriades said on Friday.

    Liasides said that the decree was necessary as the large numbers of refugees in the area was causing a number of different issues.

    “There were problems with the old houses they were staying in and also the schools were encountering issues; teachers were finding it almost impossible to teach classes due to the different languages. In a class of 20 kids, 8 would be from Syria, 6 Europeans and 5 Cypriots, it was a difficult situation.”

    Liasides noted that companies can no longer draw up a contract to rent to a property in Chlorakas to a Syrian refugee: “It’s not allowed, and it is also illegal for owners to rent to Syrian refugees. If they did, they would be in trouble,” he said.

    The controversial decree has meant that the number of refugees has stayed the same without increasing, which is helping to make the situation better, he said.

    The community leader also noted that help is being given to Chlorakas by the ministry of education, in the form of special programme for school and social practices “We are very happy about that,” he said.

    “This includes lessons for refugees to learn the Greek language to prepare them to go to class, they also learn music and other things, it’s to help them to more easily integrate into the school. We don’t want them not to go to school,” he said.

    Last year, a growing crime rate and the murder of a Syrian man in Chlorakas spread fear among residents and forced Liasides to appeal for state help over groups of young, armed, single men, Liasides said. The situation spread serious concerns in the wider community, including among long-term Syrian residents who were in fear of the newer arrivals.

    “Things are getting better. We do still have problems with criminality, but now there is a police unit that was placed here last year because of the dire situation, we are going the right way.”

    He also stressed: “We are not racists. We love Syrians in Chlorakas and we want to be in a position to help them. We have had refugees here since the 1990’s and they are good people and a good, hard working nation and they are family people too. But we can’t handle the big numbers, it just isn’t viable.”

    https://cyprus-mail.com/2021/01/15/decree-bans-new-syrian-refugees-from-settling-in-chlorakas

    #Chypre #réfugiés #réfugiés_syriens #asile #migrations #réfugiés #decret #Paphos #ghetto #liberté_d'établissement #liberté_de_mouvement #liberté_de_circulation #loi #bien_public #démographie #constitution #constitutionnalité #écoles #logement #criminalité

    • Una riflessione sul rapporto tra migrazione e sicurezza a partire dalla questione della iscrizione anagrafica

      Io sono un uomo invisibile. No, non sono uno spettro, come quelli che ossessionavano Edgar Allan Poe; e non sono neppure uno di quegli ectoplasmi dei film di Hollywood. Sono un uomo che ha consistenza, di carne e di ossa, fibre e umori, e si può persino dire che possegga un cervello. Sono invisibile semplicemente perché la gente si rifiuta di vedermi: capito? (…) Quando gli altri si avvicinano, vedono solo quello che mi sta intorno, o se stessi, o delle invenzioni della loro fantasia, ogni e qualsiasi cosa, insomma, tranne me”.
      (R.W. Ellison, L’uomo invisibile - 1952 - Einaudi Torino 2009, p. 3).
      1.

      In questi ultimi giorni si è tornato a parlare molto dei c.d. Decreti sicurezza e di una loro possibile revisione. A riaprire il dibattito, da ultimo, la pronuncia della Corte costituzionale dello scorso 9 luglio con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 comma 1, lett. a) n. 2 del primo “decreto sicurezza” (Decreto Legge 4 ottobre 2018 n. 113) per violazione dell’art. 3 della Costituzione.

      Prima di dare conto del contenuto della decisione della Corte costituzionale, è opportuno ripercorrere, seppur brevemente, le tappe del percorso che ha portato i giudici della Consulta a intervenire. Per chiarire i termini precisi della discussione che è scaturita in questi anni e il senso della decisione finale assunta il 9 luglio, occorre inquadrare la questione in primo luogo da un punto di vista giuridico.

      Questa importante pronuncia ha riguardato appunto la legittimità costituzionale del primo Decreto Sicurezza approvato nel 2018 che doveva servire a impedire, almeno nelle intenzioni del legislatore, l’iscrizione dei richiedenti asilo, sulla base del titolo di soggiorno provvisorio loro rilasciato, nei registri anagrafici dei Comuni. Una modifica normativa volta a rendere ancor più precario lo status giuridico dei richiedenti asilo presenti nel nostro Paese, negando a costoro anche un legame fittizio con il territorio che avrebbe dovuto accoglierli. Una restrizione dal forte valore simbolico e di carattere tutto politico, frutto dei tempi.

      La nuova previsione normativa introdotta dall’art. 13 cit. ha animato, anche per questo, un forte dibattito e numerose sono state le prese di posizione da parte sia dei commentatori politici che dei tecnici del diritto. Un dibattito che purtroppo si è fermato alle problematiche più strettamente giuridiche sollevate dalla nuova normativa, tralasciando invece la questione della ratio ispiratrice della nuova disciplina. Una ratio che imporrebbe una riflessione più generale sulle problematiche legate ai fenomeni migratori e, nello specifico, sul tema dell’asilo e del rispetto dei diritti umani.

      Il tema della iscrizione anagrafica, infatti, ci consente non solo una riflessione sul contesto normativo che è stato oggetto di modificazione, ma anche sul significato profondo che assume il concetto di “asilo” nel nostro Paese.
      2.

      Negli anni il diritto d’asilo è stato più volte ridefinito generando anche confusione. Un diritto che affonda le sue radici nella storia antica, lo conoscevano bene i greci che riconoscevano al fuggiasco una sorta di inviolabilità per il solo fatto di trovarsi in un determinato luogo. “Veniva chiamata asilia l’inviolabilità a cui quel luogo dava diritto” [1].

      Un diritto che nel corso del tempo ha subito non pochi cambiamenti e che oggi è diventato uno strumento nelle mani dello Stato che ne dispone a proprio piacimento.
      Viene da pensare a quanto scrive la professoressa Donatella Di Cesare proprio a proposito del diritto d’asilo. Nel chiedersi se si tratti di un diritto del singolo che lo chiede o dello Stato che lo concede, la Di Cesare evidenzia come l’asilo sia divenuto “un dispositivo di cui gli Stati si servono per esercitare, anche in concreto, il loro potere sui migranti” [2]. Accade così che si assiste ad una duplice deriva che porta lo Stato a moltiplicare le barriere giuridiche e poliziesche e ad aumentare le restrizioni burocratiche e procedurali, con il fine dichiarato (non celato) di scoraggiare le richieste di asilo politico.

      Questo dibattito, direttamente connesso alla questione della iscrizione anagrafica “negata” ai richiedenti asilo, è stato purtroppo poco presente ed è stato messo in secondo piano rispetto invece alle questioni, non meno importanti, della discriminazione in essere nella normativa introdotta dal Decreto Legge n. 113 del 2018.

      Una precisa “discriminazione” nei confronti di una determinata categoria di soggetti, appunto i richiedenti asilo, rispetto ai quali, secondo i primi commenti, diveniva impossibile procedere all’inserimento nelle liste anagrafiche dei Comuni di residenza.

      Una norma, peraltro che, come osservato da autorevoli commentatori, si poneva in netto contrasto con la logica stessa dell’istituto dell’iscrizione anagrafica e con l’articolo 6 comma 7 del Testo Unico Immigrazione.
      3.

      Le discussioni che sono scaturite e lo scontro tra numerosi Sindaci, da una parte, e il Ministro dell’Interno dell’epoca, dall’altra, con i primi disposti anche a disapplicare la norma sui loro territori, sono state di fatto mitigate dagli interventi dei Tribunali italiani chiamati a decidere sui ricorsi d’urgenza presentati dai richiedenti asilo che si sono visti negato il diritto di procedere all’iscrizione presso i registri suddetti.
      Infatti, nella pratica, la modifica prevista dall’art. 13 del Decreto 113 del 2018 è stata immediatamente disinnescata dagli interventi dei giudici di merito chiamati a pronunciarsi sui ricorsi proposti. Numerose pronunce hanno riconosciuto il diritto del richiedente asilo alla iscrizione anagrafica addivenendo a una interpretazione della norma secondo la quale l’affermazione contenuta nell’art. 13 comma 1 lett. a) n. 2 avrebbe avuto soltanto l’effetto di far venire meno il “regime speciale” introdotto dall’art. 8 D.L. 17.2.17 n. 13 conv. in L. 13.4.17 n. 46 (secondo il quale i richiedenti asilo venivano iscritti all’anagrafe sulla base della dichiarazione del titolare della struttura ospitante) per riportare il richiedente asilo nell’alveo del regime ordinario (quello cioè della verifica della dimora abituale, come previsto anche per il cittadino italiano, al quale lo straniero regolarmente soggiornante è parificato ai sensi dell’art. 6, comma 7 TU immigrazione). Solamente in tre procedimenti i Tribunali di Trento e Torino hanno optato per una interpretazione diversa della norma optando per un divieto di iscrizione.
      4.

      Per rendere più chiara la comprensione dell’operazione compiuta dalla giurisprudenza di merito, proviamo a ricostruire, brevemente, uno dei tanti casi portati all’attenzione dei giudici italiani, nello specifico il caso di un cittadino di nazionalità somala che ha proposto ricorso d’urgenza dinanzi al Tribunale di Firenze contro il diniego all’iscrizione nei registri anagrafici opposto dal Comune di Scandicci. Nel ricorso proposto dal richiedente asilo si evidenziava come il requisito del regolare soggiorno nel territorio dello Stato potesse essere accertato mediante documenti alternativi al permesso di soggiorno rilasciati ai soggetti che hanno presentato domanda di riconoscimento della protezione internazionale, quali, ad esempio, il modello C3 di richiesta asilo presentato in Questura, oppure la ricevuta rilasciata da quest’ultima per attestare il deposito della richiesta di soggiorno o la scheda di identificazione redatta dalla Questura. Il Tribunale di Firenze ha ritenuto di poter accogliere il ricorso esprimendosi in favore del ricorrente.

      Nel motivare la propria decisione, il Tribunale, analizzando il contenuto letterale del nuovo comma 1-bis citato, sottolinea come esso si riferisca al permesso di soggiorno per richiedenti protezione internazionale quale titolo per l’iscrizione anagrafica e che, tuttavia, il sistema normativo di riferimento dalla stessa disposizione richiamato (il DPR n. 223 del 1989 e l’art. 6, comma 7 del T.U.I.), non richieda alcun “titolo” per l’iscrizione anagrafica, ma solo una determinata condizione soggettiva, i.e. quella di essere regolarmente soggiornante nello Stato. Inoltre, riconoscendo che l’iscrizione anagrafica ha natura di attività amministrativa a carattere vincolato, in relazione alla quale il privato ha una posizione di diritto soggettivo, evidenzia come «l’iscrizione anagrafica registra la volontà delle persone che, avendo una dimora, hanno fissato in un determinato comune la residenza oppure, non avendo una dimora, hanno stabilito nello stesso comune il proprio domicilio», sulla base non di titoli, ma delle dichiarazioni egli interessati o degli accertamenti ai sensi degli artt. 13, 15, 18-bis e 19 del citato DPR n. 223/1989. Pertanto, non essendo intervenuta alcuna modificazione dell’art. 6, comma 7, del T.U.I., sulla base del quale «le iscrizioni e variazioni anagrafiche dello straniero regolarmente soggiornante sono effettuate alle medesime condizioni dei cittadini italiani con le modalità previste dal regolamento di attuazione, ritiene il Tribunale che il nuovo comma 1-bis dell’art. 4 D.lgs. n. 142/2015 non possa essere interpretato nel senso di aver introdotto un divieto, neppure implicito, di iscrizione anagrafica per i soggetti che abbiano presentato richiesta di protezione internazionale.

      In conclusione, secondo la giurisprudenza di merito richiamata, se il legislatore avesse voluto introdurre un divieto, avrebbe dovuto modificare il già citato art. 6, comma 7 T.U.I., anche nella parte in cui considera dimora abituale di uno straniero il centro di accoglienza ove sia ospitato da più di tre mesi.
      5.

      Nonostante l’interpretazione prevalente della nuova normativa, la questione è stata portata all’attenzione della Corte costituzionale dai Tribunali di Milano, Ancona e Salerno che hanno comunque ritenuto fondata la questione di illegittimità costituzionale per violazione dei diritti fondamentali dei richiedenti asilo e per violazione del principio di eguaglianza.

      In data 9 luglio 2020 la Corte costituzionale ha così dato l’ultimo colpo alla normativa di cui all’art. 13 sancendone la illegittimità per violazione dell’art. 3 della Costituzione. In effetti, nel comunicato stampa diramato dalla stessa Consulta, in attesa di leggere le motivazioni complete della decisione, è scritto che “la disposizione censurata non è stata ritenuta dalla Corte in contrasto con l’articolo 77 della Costituzione sui requisiti di necessità e di urgenza dei decreti legge. Tuttavia, la Corte ne ha dichiarato l’incostituzionalità per violazione dell’articolo 3 della Costituzione sotto un duplice profilo: per irrazionalità intrinseca, poiché la norma censurata non agevola il perseguimento delle finalità di controllo del territorio dichiarate dal decreto sicurezza; per irragionevole disparità di trattamento, perché rende ingiustificatamente più difficile ai richiedenti asilo l’accesso ai servizi che siano anche ad essi garantiti”.

      I giudici costituzionali sono stati perentori nell’affermare che la norma censurata si pone in contrasto con l’art. 3 della Costituzione sotto molteplici profili e “sostanzialmente perché introdurrebbe una deroga, priva dei requisiti di razionalità e ragionevolezza, alla disciplina dell’art. 6, comma 7, del D.lgs. n. 286 del 1998” [3].

      In particolare il legislatore si troverebbe a contraddire la ratio complessiva del decreto-legge n. 113 del 2018 al cui interno si colloca la disposizione portata all’attenzione della Corte costituzionale. Infatti, “a dispetto del dichiarato obiettivo dell’intervento normativo di aumentare il livello di sicurezza pubblica, la norma in questione, impedendo l’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo, finisce con il limitare le capacità di controllo e monitoraggio dell’autorità pubblica sulla popolazione effettivamente residente sul suo territorio, escludendo da essa una categoria di persone, gli stranieri richiedenti asilo, regolarmente soggiornanti nel territorio italiano” [4].

      In conclusione, finanche l’obiettivo primario perseguito dal legislatore verrebbe contraddetto dalla disposizione in esame che proprio per questa ragione sarebbe paradossalmente in contrasto persino con le esigenze dichiarate di maggiore controllo e sicurezza del fenomeno migratorio.

      Un vero paradosso se pensiamo che l’esclusione dalla registrazione anagrafica di persone che invece risiedono sul territorio comunale accresce anziché ridurre i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo.
      6.

      È sulla base di queste ultime osservazioni che è possibile articolare una breve riflessione complementare sulla giustapposizione ideologica e strumentale di “migrazione” e “sicurezza” e considerare la necessità/possibilità di ripensare, ancora rimandando tra gli altri ai lavori di Di Cesare, le modalità di coabitazione e di residenza in un territorio.

      In effetti oggi l’asilo e la “protezione internazionale” sono divenuti strumenti di gestione statale della migrazione (in senso generale) e dei corpi delle persone migranti (in senso più concreto), in un crescendo di categorizzazioni che hanno progressivamente ridotto il numero degli “aventi diritto”: da una parte attraverso processi di “vulnerabilizzazione” che hanno estremizzato le logiche selettive a detrimento del diritto di altri individui a presentare una richiesta di protezione. Non stiamo dicendo che i vulnerabili non vadano protetti, ma che non è possibile escludere gli altri dalla procedura perché non lo sono abbastanza.

      D’altra parte, attraverso un’evoluzione intimamente legata ai processi di esternalizzazione dei controlli e della gestione della migrazione da parte dell’UE, si sono fatti saltare i “fondamentali” del diritto d’asilo come diritto individuale, riducendo la questione a un’economia geopolitica che seleziona e distingue sempre più esplicitamente su base nazionale, a partire da assunti quali i “paesi terzi sicuri”, come l’Afghanistan, o i porti sicuri, come la Libia.

      Lo smantellamento e la limitazione dell’asilo come diritto fondamentale individuale, e il ridimensionamento delle prerogative e dei diritti dei richiedenti asilo che vanno inevitabilmente a minare le loro condizioni di vita e i loro percorsi di integrazione come nel caso dei decreti Salvini, rappresentano tra l’altro soltanto una parte, molto importante anche per la sua valenza simbolica, ma non preponderante di una degenerazione complessiva delle politiche in materia di migrazione in UE. Perché al peggioramento delle condizioni di vita dei richiedenti asilo corrispondono purtroppo anche un progressivo aumento dei dinieghi, e una sempre maggiore “esclusione” dei potenziali aventi diritto (e chiunque dovrebbe averlo) dalla procedura, a causa di pratiche espeditive di espulsione, a causa dei ritardi di compilazione della documentazione necessaria (C3), ecc. Volendo essere espliciti, chi accede alla procedura d’asilo rappresenta, oggi, alla fine, il “resto”, la rimanenza dell’insieme delle persone in migrazione che il dispositivo di controllo e di gestione globale (IOM, UE, Stati europei e paesi vicini collaborativi) non è riuscito a bloccare, nei paesi di partenza, di transito, nel Mediterraneo, negli hotspot, ecc...

      Rileggendo il deterioramento del sistema di asilo in questi anni, sia in termini di rispetto dei diritti fondamentali che in termini materiali di accoglienza, divenuta sempre meno una politica etica e sempre più un business e un terreno di confronto elettorale, non possiamo che constatare che il dispositivo di asilo (ideologico e pratico) si riduce sempre più, come conferma Di Cesare, ad uno strumento di gestione della migrazione, allo stesso modo che i regolamenti interni di gestione (Dublino), la gestione emergenziale dell’accoglienza, i dispositivi di gestione della frontiera (Frontex, Eunavformed) i processi di esternalizzazione, ecc. In questo senso, il deterioramento del sistema d’asilo rappresenta l’ultimo anello, il livello finale di una progressiva e generale “lotta alla migrazione”, dissimulata dietro retoriche di approcci globali e pratiche di politiche di esternalizzazione sempre più feroci (si veda il riferimento di Di Maio alla condizionalità negativa migrazione/sviluppo come forma istituzionalizzata di ricatto alla Tunisia) : lotta alla migrazione che ha visto estendersi progressivamente le categorie (e il numero) di indesiderabili, ridotti genericamente a “migranti economici” provenienti da paesi “’sicuri” o comunque “bloccati” dal dispositivo di controllo e gestione della mobilità imposto ai paesi terzi. L’erosione del diritto d’asilo va dunque letta anche all’interno di una più generale dinamica generale di riduzione dei diritti alla mobilità e all’installazione nei confronti di una certa tipologia di persone straniere da parte dei paesi dell’UE.
      7.

      Il presupposto problematico è che questi “diritti” destinati a persone straniere vengono sempre definiti e manovrati da coloro i quali sono nelle condizioni di doverli applicare, e le norme internazionali vengono ignorate, trascurate, aggirate invocando situazioni di “urgenza” e di sicurezza, che evidentemente si sono amplificate in questa stagione pandemica, e che si accompagnano all’armamentario ideologico dei nuovi sovranisti. Questo è vero per quanto riguarda le situazioni di frontiera, ontologicamente più fosche e meno trasparenti, all’interno delle quali norme meno restrittive (Cuttitta etc) si associano a pratiche in esplicita violazione dei diritti fondamentali, ma è vero anche per quanto riguarda l’articolazione dei dispositivi di accoglienza e più in generale la gestione della presenza sul territorio di persone straniere con status amministrativi differenti, e condizioni di marginalità (e sfruttamento) differenti. La difesa della patria, il “prima gli italiani” che si declina a livello regionale, provinciale e iperlocale in un ripiegamento identitario in abisso, rappresentano il corrispettivo ideologico delle politiche di esclusione e di “chiusura” che i paesi dell’UE hanno integrato trasversalmente, con qualche sfumatura più o meno xenofoba. E purtroppo la retorica xenofoba, che mixa ignoranza e paura, paura di invasione e di contagio, si abbatte sulla popolazione con la forza di media conniventi e ripetizione ad oltranza di notizie false, fuorvianti, imprecise, volte ad alimentare diffidenza e timore: “insicurezza”.

      In questo senso, sarebbe utile come accennavamo sopra, provvedere ad una genealogia della convergenza di “immigrazione” e “sicurezza”, al di là dell’assunto antropologico “atavico” che il pericolo arrivi da fuori, da ciò che non si conosce: ma è già possibile, attraverso la vicenda dell’iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo legata all’applicazione dei decreti salviniani, osservare che la “geografia” di questi decreti immigrazione e sicurezza è a geometria variabile.

      Come ha parzialmente evidenziato la mappa prodotta dalla geografa Cristina del Biaggio e pubblicata su VisionCarto, che ha recensito le reazioni dei vari sindaci e dei differenti comuni alla stretta di Salvini sull’iscrizione anagrafica dei RA, la logica securitaria “sovranista” a livello nazionale, ossessionata dalla difesa delle patrie frontiere, con toni nazionalisti postfascisti e modi - come prova la vicenda di Open Arms - spesso al limite o oltre la legalità, è sfasata rispetto ad una nozione di “sicurezza” ad un livello territoriale più circoscritto, di comunità urbana e di amministrazione locale. Perché inevitabilmente tanti amministratori locali, di fronte ad un’operazione che ha concretamente destabilizzato la gestione locale dell’accoglienza e dell’integrazione buttando letteralmente per strada o comunque esponendo a situazioni di marginalità estrema un numero estremamente rilevante di persone (il rapporto «La sicurezza dell’esclusione - Centri d’Italia 2019» realizzato da ActionAid e Openpolis parlava di 80.000 persone toccate nei primi mesi di applicazione, con stime di 750.000 persone “irregolarizzate” entro gennaio 2021), hanno reagito sottolineando, a diverso titolo e con toni diversi, che gli effetti reali dei decreti sul territorio avrebbero inevitabilmente prodotto insicurezza e difficoltà (correlando più o meno direttamente una situazione amministrativa marginale/irregolare e l’aumento possibile di situazioni di criminalità, extralegalità, sfruttamento, ecc.).

      Dunque possiamo dedurre che la lettura della relazione tra sicurezza ed immigrazione non è la stessa a livello nazionale e a livello locale, dove, in ragione da una parte della ricaduta concreta e dell’applicazione pratica di normative e politiche che regolano la presenza di cittadini stranieri (a diverso titolo) sul territorio (permessi di soggiorno ecc.), e dall’altra dell’evoluzione delle dinamiche quotidiane di accoglienza/convivenza/integrazione, la presenza di persone migranti (richiedenti asilo etc.) rappresenta un elemento reale, contingente, relazionale e non semplicemente una nozione teorica, astratta, amministrativa. In questo senso, tutte le politiche legate alla migrazione, più o meno inclusive o esclusive, più o meno ammantate di un argomentario ideologico nazionalista/identitario, devono poi fare i conti con le condizioni concrete di coabitazione, con le possibilità e gli strumenti di integrazioni in possesso o da fornire alle persone “in arrivo” e con la volontà, la possibilità e la capacità di una comunità locale di interagire con le persone “straniere”, e più in generale “esterne” ad essa, nel modo più vantaggioso e utile, positivo e ragionevole possibile.
      8.

      Se il pericolo arriva da fuori, da cioè che non si conosce, le alterative sono due: chiudersi a riccio e difendersi a priori da qualsiasi cosa venga a perturbare il nostro quotidiano, la nostra “tradizione”, la nostra “identità”, o conoscere quello che c’è fuori, quello che arriva da fuori: accettando che questa dinamica di apertura e di incontro è stato il fondamento dell’evoluzione delle comunità umane.

      Alla presa di posizione dei sindaci, che osteggiano i decreti Salvini nel nome di una prospettiva accogliente o nel nome di un realismo politico e di organizzazione della vita sociale della comunità distinto dall’ottica di “gestione dell’ordine” dell’ex ministro degli interni e di tante prefetture (basta ricordare che Salvini ha invocato, nel marzo 2019 anche la possibilità di attribuire più poteri straordinari ai prefetti riducendo quelli dei sindaci), corrisponde anche una reazione “accogliente” dal basso, una capacità di adattamento della collettività (autonoma, indotta dall’amministrazione o in antitesi a posizioni di chiusura delle municipalità) : al di là dei comuni impegnati in politiche locali di accoglienza attraverso i dispositivi SPRAR, o di reti come RECOSOL, non sono poche le collettività che sono passate dal “rifiuto” e alla reticenza, legati agli spettri mediatici e politici, alle retoriche di invasione o alle presenze imposte in via straordinaria a livello prefetturale senza consultazione dell’amministrazione - e che hanno creato, quasi fosse una finalità connessa una pressione su comunità locali “impreparate” -, a modalità di apertura, graduali, mediate, progressive che si sono risolte spesso (a livello urbano come rurale) constatando che una presenza accettata, accolta, “accompagnata”, tutelata, sostenuta non è affatto “nociva” per la comunità che accoglie, ma anzi rappresenta un valore aggiunto, arricchisce e offre opportunità, in una logica di reciprocità che si affranca dalle pratiche assistenziali che annullano i potenziali di azione e partecipazione delle persone accolte.

      Il diritto internazionale relativo all’asilo, per ovvie ragioni storiche e geopolitiche, si appoggia alle strutture nazionali e “inevitabilmente” si confronta con le dimensioni dell’appartenenza come la cittadinanza e la “nazionalità”; tuttavia, la discussione è focalizzata sempre essenzialmente sul potenziale beneficiario/destinatario di questo diritto, dell’asilo o della “protezione internazionale”, come più in generale, eticamente, dell’accoglienza/ospitalità. Mentre rimane sempre implicita, troppo spesso data per scontata la soggettività collettiva che accorda questo diritto, che lo elargisce, che lo offre.

      Se il diritto internazionale tende ad inquadrarlo, a concederlo/garantirlo è di solito una comunità politica, un paese che concede asilo ad un cittadino straniero proveniente da un altro paese sulla base di principi “universali” e attraverso strumenti come, per l’Italia, la carta costituzionale.

      Ora, se appare evidente che l’accanimento xenofobo di un Salvini sia strumento elettoralista e strumentale che passa per una lettura quantomeno originale della stessa Costituzione, andando a “scegliersi” qualche articolo conveniente (come quelli che invocano la patria) ma snobbando completamente altri che si riferiscono a diritti fondamentali ( e dunque più “ampi” di quelli legati all’appartenenza nazionale), possiamo anche considerare che nel corso degli ultimi anni la questione “asilo” e più generalmente accoglienza in Italia è rimasta questione tecnica di specialisti nella sua dimensione normativa giuridica (avvocati, Commissioni territoriali ecc.), mentre dal punto di vista etico-politico (la questione) è rimasta sempre secondaria rispetto ad un discorso politico e mediatico focalizzato ossessivamente (come del resto avviene in tutta Europa) sulla difesa delle frontiere e sul controllo della migrazione: la presenza di persone straniere sul territorio diventa visibile solo quando appare “deviante” o “problematica”, mentre le “buone prassi” di integrazione e partecipazione rimangono escluse dalla narrazione quotidiana.

      In sostanza il “popolo” italiano, che attraverso la Costituzione garantisce a individui stranieri la possibilità di ricevere sostegno e protezione sul territorio nazionale, viene chiamato in causa e sollecitato (politicamente e mediaticamente) in concreto quasi esclusivamente in quanto corpo sociale minacciato (economicamente, culturalmente, socialmente, ecc.) dalla migrazione, dalla presenza di stranieri, e praticamente mai in quanto attore implicato in percorsi di accoglienza, impegnato in un percorso di evoluzione sociale e culturale che implica obbligatoriamente un confronto con la migrazione, come con tutti gli altri temi essenziali della convivenza politica.

      La “gestione” tecnica dell’accoglienza rimane invece questione tecnica, esposta a mistificazioni e speculazioni, e “astratta” fino a quando non si materializza sul territorio, spesso “precipitata” dall’alto, come è accaduto dal 2011 attraverso la gestione emergenziale, e inscritta come gestione dell’ordine pubblico piuttosto che all’interno delle politiche sociali: da un punti di vista “sovranista” e più in generale di depotenziamento dei livelli di partecipazione e implicazione critica della collettività, la comunità locale rimane “spettatrice” di processi di gestione che sono finalizzati sempre più solo al controllo delle persone e sempre meno alla loro integrazione (e che va di pari passo con una deresponsabilizzazione generale della popolazione a tutti i livelli).

      Ora, se la teoria costituzionale dell’asilo in Italia ha radici storiche determinate, le pratiche di accoglienza sono quasi sempre locali, territorializzate, e implicano l’investimento più o mendo diretto e esplicito della collettività: un investimento che, attraverso l’implicazione delle amministrazioni locali e percorsi partecipativi riporta la questione dell’accoglienza dell’altro, e la sua potenziale integrazione, nell’alveo di una realtà politica concreta, quotidiana, locale; diventa quindi interessante interrogarsi sulla consapevolezza di questa potenzialità da parte delle comunità locali (come in altri ambiti diversi) di autodeterminarsi politicamente, di impattare in modo significativo su una serie di questioni che le riguardano direttamente, puntualmente o sul lungo periodo.

      Se il diritto d’asilo va tutelato a livello internazionale e nazionale, e iscritto in quadri normativi che possano garantire un accesso inalienabili ai diritti fondamentali, diventa importante sottolineare la capacità delle comunità locali di rivendicare il dovere/diritto di andare oltre, e di integrare questo quadro giuridico con pratiche di accoglienza e partecipazione che, concertate collettivamente, possono rappresentare percorsi di evoluzione comuni, non solamente eticamente gratificanti ma anche vantaggiosi tanto per chi è accolto che per chi accoglie.

      Indipendentemente quindi anche dal parere della Corte Costituzionale che ha contestato una serie di elementi del decreti sicurezza tecnicamente difformi dal mandato costituzionale stesso, diventa estremamente rilevante l’espressione pubblica e politica di comunità locali, di andare oltre e di rivendicare il diritto di garantire l’iscrizione anagrafica - e con essa l’accesso ad un insieme di altri diritti in grado di migliorare sensibilmente le condizioni di esistenza delle persone sul territorio e all’interno della comunità, e di favorire dinamiche di interazione e cooperazione indipendenti da distinzioni legate alla provenienza e alla nazionalità.

      È in questo senso che evolve in questi ultimi anni la configurazione politica delle città rifugio (città accoglienti, città dell’asilo, città santuario, …), che si fonda precisamente sulla volontà e la capacità delle amministrazioni e delle comunità locali di pensare forme di accoglienza che superino le forme di gestione/ricezione legate ad una nozione di asilo sempre più sacrificate all’altare della geopolitica internazionale e delle politiche di esternalizzazione della UE.

      Se da un lato dunque occorre difendere il diritto d’asilo, e anzi incentivarlo ed aggiornarlo rispetto ad un orizzonte globalizzato, dall’altra è necessario resistere alla gestione differenziale della mobilità umana da una parte, rivendicando per tutti il diritto di movimento e di installazione, da combinare all’invenzione di nuove forme di coabitazione e accoglienza legate alla residenza e alla presenza sul territorio più che a origini nazionali e rivendicazioni identitarie.

      https://www.meltingpot.org/Una-riflessione-sul-rapporto-tra-migrazione-e-sicurezza-a.html
      #droit_d'asile #asile #justice #Scandicci #Testo_Unico_Immigrazione #jurisprudence #sécurité #prima_i_nostri #frontières #externalisation #peur #accueil #résistance #citoyenneté #nationalité #menace #droits #villes-refuge #liberté_de_mouvement #liberté_de_circulation

    • Message reçu via la mailing-list de lutte contre les réformes dans l’ESR... autour du #rapport :
      Le pilotage et la maîtrise de la masse salarialedes universités


      https://cache.media.enseignementsup-recherche.gouv.fr/file/2019/58/6/IGAENR-IGF_Pliotage_maitrise_masse_salariale_universitespdf_1245586.pdf

      Dans le contexte actuel de mobilisation, le #MESRI va nous expliquer que c’est un rapport qui ne l’engage absolument pas et que tout peut être discuté. À sa lecture, on comprend bien que le Gouvernement, qui écoute plutôt Bercy que le MESRI, n’a pas besoin de la LPPR. Tout est déjà en place pour poursuivre la transformation des établissements en « #universités_entrepreneuriales » qui trouveront, sous la contrainte, des marges de gestion. Les universités ne manquent pas de moyens, elles sont seulement mal gérées.

      Le projet de #budget pour l’année 2021 mettra en place l’étape décisive demandée par Bercy : la non compensation du #GVT.

      –----------

      Quelques citations choisies du rapport rendu par les deux inspections, il y a presque un an. Remarques de Pierre Ouzoulias (signalées avec —>) :

      Bien que se situant, tout financement confondu, juste au-dessus de la moyenne des pays de l’OCDE les universités sont à ce jour globalement correctement dotées par le #budget de l’État pour couvrir leur masse salariale au regard de la situation des #finances_publiques. Les situations peuvent toutefois varier selon les établissements en raison soit des défaillances du mode d’allocation des ressources, soit de choix de gestion individuels.

      –-> Le budget de l’ESR est suffisant au regard de la réduction de la dépense publique

      La part des ressources propres dans les recettes des universités, toutes universités confondues, n’a pas évolué entre 2011 et 2017. Les universités fusionnées, les universités scientifiques ou médicales (USM) et les universités de droit, économie, gestion DEG ont un taux de ressources propres 2017 proche de 20 %, en augmentation d’un point depuis 2012. Les universités pluridisciplinaires, avec ou sans santé, connaissent un taux de ressources propres supérieur à 16 %, stable depuis 2013. Les universités de lettres et de sciences humaines (LSH) ont le plus faible taux de ressources propres, proche de 13 % depuis 2011.

      –-> La solution : les ressources propres, les mauvais élèves : les #SHS

      Le nombre d’équivalent temps plein travaillé (#ETPT) de l’enseignement supérieur a augmenté de + 3,6 % de 2010 à 2017. En retranchant le « hors plafond », l’évolution est de – 3,22 % ; jusqu’en 2013 la réduction est significative (les effectifs représentant à cette date 95,71 % de ce qu’ils étaient en 2010), puis l’augmentation est constante, les effectifs revenant en 2017 à 96,78 % de ce qu’ils étaient en 2010.

      –-> Un constat partagé : la #masse_salariale augmente grâce à la #précarisation

      Un principe participatif est au fondement du fonctionnement des universités. Les élus qui représentent le corps enseignant, les personnels et les étudiants participent à la gestion et à l’organisation des activités des établissements. Le conseil d’administration ne compte que huit personnalités extérieures à l’établissement pour 24 à 36 membres. Il détermine la politique de l’établissement, approuve le contrat d’établissement, vote le budget et fixe la répartition des emplois.
      Les unités de formation et de recherche (#UFR) sont dirigées par un directeur élu par un conseil de gestion, lui-même élu, dans lequel le poids des personnels reste important.
      Dès lors, les mesures correctives en matière de gestion de masse salariale, qui conduisent nécessairement à remettre en cause des situations acquises sont difficiles à prendre pour un élu et interviennent trop souvent tardivement. La mission a constaté qu’elles s’imposent plus facilement en situation de crise que dans le cadre d’une gestion prévisionnelle visant à construire un modèle économique stable.

      –-> Les élu-e-s : un obstacle à une gestion efficiente des #ressources_humaines

      Trois comportements universitaires types en matière de maîtrise de la masse salariale :
      -- Une partie des universités a recours à une #régulation, plus qu’à une #optimisation, de la masse salariale. […] Elles mobilisent leurs #ressources_propres afin de ne pas avoir à engager des actions de recherche d’efficience jugées déstabilisantes.
      -- D’autres établissements se caractérisent par une volonté d’optimiser la masse salariale, condition nécessaire au déploiement du projet d’établissement. […] Les universités associées à ce deuxième comportement type sont en constante recherche d’#efficience.
      -- Enfin, certaines universités privilégient une recherche de la structure d’emploi conforme aux modèles économiques choisis. […] Ce troisième comportement type est celui d’universités que l’on peut qualifier « d’entrepreneuriales » avec des taux d’encadrement relativement élevés et des modèles économiques atypiques.

      –-> Le modèle : les « #universités_entrepreneuriales »

      Le lien entre masse salariale et stratégie doit passer par une #gestion_prévisionnelle_des_emplois et des compétences se traduisant dans un schéma directeur pluriannuel des #emplois. Celui-ci requiert de s’adosser à une réflexion interne pour établir une doctrine en matière de choix des statuts adaptés aux activités et à leurs évolutions anticipées, compatibles avec la situation financière et sociale d’ensemble de l’établissement et cohérents avec le projet d’établissement.

      –-> Le recours aux précaires : un instrument de gestion efficace

      Les prévisions de #départs_en_retraite des #titulaires montrent que les universités ne sont pas dépourvues de possibilités en termes de #gel, d’annulation ou/et de #redéploiements d’emplois par statut et catégorie.
      Pour conserver un rapport raisonnable, il faudrait combiner l’absence de remplacement d’un poste pour trois départs d’enseignants et d’un poste pour quatre départs de #BIATSS. Cela reviendrait à la suppression de 2 497 emplois de BIATSS et 992 emplois d’enseignants pour un impact de masse salariale hors charges patronales respectivement de 76 M€ et 41 M€.
      Ces chiffres ne sauraient constituer une cible ; ils n’ont d’autre objet que de montrer que les départs en retraite offrent des possibilités de redéploiement et de #repyramidage sous réserve de conserver une structure d’emploi cohérente et de ne pas affaiblir les activités de formation et de recherche qui constituent les points forts de chaque établissement.

      –-> Le non remplacement des retraités : un moyen efficace d’augmenter la part des non-statutaires

      Les universités ne pilotent cependant pas toujours de manière suffisamment précise cette évolution de structure. En effet, les emplois sous plafond et hors plafond sont suivis de manière distincte. Ils relèvent d’une logique différente pour les seconds qui sont rapportés aux ressources propres et non à l’équilibre économique d’ensemble de l’université. Le nombre d’enseignants contractuels lié aux #PIA s’inscrit notamment dans une logique particulière et augmente de manière significative. À terme, une partie de ces emplois sera inévitablement pérennisée dans la masse salariale de l’université.

      –-> Éviter la titularisation des contractuels financés par les PIA

      Par ailleurs, le recours aux #contractuels reste pour l’essentiel fondé sur les articles 4 et suivants de la loi n° 84-16 du 11 janvier 1984 portant dispositions statutaires relatives à la fonction publique de l’État. Les universités n’ont que marginalement utilisé l’article L-954 du #code_de_l’éducation qui offre des possibilités plus souples de #recrutement de contractuels (contrat dits « LRU »). En 2016, la moitié des universités comptait moins de trois ETP en contrat #LRU, au moins une sur quatre n’en employant aucun.
      Le recours aux contractuels peut permettre une meilleure #adaptation des effectifs aux besoins. Les personnels recrutés peuvent en effet être permanents ou temporaires, être enseignants – chercheurs, chercheurs ou enseignants ; ou bien cadres administratifs ou techniques. En outre, les universités ont une plus grande maîtrise de leurs situations salariales et de carrière que pour les titulaires dans la mesure où c’est le conseil d’administration qui statue sur les dispositions qui leur sont applicables.
      Dès lors que la plupart des besoins peuvent être indifféremment couverts par des contractuels ou des titulaires, compte tenu de la similitude de leurs profils, l’augmentation de la proportion d’#emplois_contractuels dans les effectifs d’une université a pour conséquence de lui donner davantage de leviers pour piloter ses ressources humaines, sa masse salariale et son #GVT.
      Ensuite, la transformation des #CDD en #CDI doit être maîtrisée pour ne pas résulter uniquement de la règle de #consolidation_des_contrats au bout de six ans. Par exemple, dans certaines universités rencontrées par la mission, la transformation d’un contrat temporaire en CDI est réalisée après examen par une commission vérifiant notamment que le contrat permanent correspond à des besoins structurels.

      –-> Les universités n’utilisent pas encore assez les contractuels

      Ces chiffres montrent que les choix des établissements en matière de #charge_d’enseignement ont un impact significatif sur les effectifs enseignants et donc sur la masse salariale et justifient un pilotage du temps de travail des enseignants. La #responsabilité doit en être partagée entre les composantes de l’université en charge de l’organisation des enseignements et l’échelon central responsable du pilotage économique et de la conformité des choix aux projets de l’établissement. Le pilotage trouve naturellement sa place dans le cadre du dialogue de gestion interne dont la nécessité a été décrite ci-dessus au paragraphe 2.

      –-> Un autre levier : le temps de travail des enseignants

      Compte tenu de ses effets contre-productifs, la mission considère que la compensation du GVT n’a plus lieu d’être s’agissant d’#opérateurs_autonomes, qui sont libres de leurs choix de structure d’emploi ; qu’il revient aux pouvoirs publics de limiter la compensation sur l’impact de la #déformation de la masse salariale des titulaires à la seule compensation des mesures fonction publique relatives au point d’indice ou se traduisant par une déformation des grilles (#PPCR par exemple), et, pour les universités disposant d’un secteur santé, à la compensation des #PUPH en surnombre ; que la maîtrise des universités en matière de recrutement, de #promotion et de gestion individuelle des carrières devrait être renforcée ; que le dialogue de gestion doit permettre à chaque établissement de faire valoir sa trajectoire de masse salariale.

      –-> Le non compensation du GVT : un outil efficace pour obliger les universités à s’adapter

      Il serait préférable d’en revenir au respect de la #trajectoire_LPFP, et de ne s’en écarter, en plus ou moins, qu’au vu de variations significatives constatées (et non anticipées) sur les dépenses ou les recettes des établissements. Cela semble une condition de la pluri annualité et de l’autonomie des opérateurs.

      –-> La loi de programmation des finances publiques est la seule référence

      Proposition n° 9 : connecter la #modulation des moyens à l’évaluation de l’activité et de la #performance universitaires ;

      –-> Où l’on retrouve l’#évaluation !

      La mission constate également que les universités visitées ont fait des progrès dans leurs modalités de gestion depuis le passage aux #RCE et qu’une marche supplémentaire peut désormais être franchie sous réserve que les outils, notamment informatiques, à disposition soient améliorés.
      Elles disposent de réelles marges de manœuvre leur permettant de gérer leurs effectifs de manière plus efficiente. Ces marges de manœuvre s’inscrivent cependant dans des logiques de #pilotage à moyen et long terme compte tenu de la #faible_plasticité_naturelle_des_effectifs. Pour pouvoir être mises en œuvre, elles supposent une capacité à construire des schémas d’#effectifs_cibles à trois ou quatre ans.
      En conséquence, la mission préconise, d’une part d’entamer une #refonte du système actuel de #répartition_des_crédits largement fondé sur la reconduction des enveloppes acquises lors du passage aux RCE, d’autre part, de mettre en place une #contractualisation État/université dans le cadre de #contrats_de_performance, d’objectifs et de moyens pluriannuels, enfin, de développer une architecture d’information permettant d’instaurer une véritable transparence entre les acteurs et en leur sein.

      –-> Conclusion : c’est mieux, mais il faut accélérer !

      #flexibilité #plasticité #performance

    • #Frédérique_Vidal arrive aux journées sciences humaines et sociales de L’Agence nationale de la recherche. Mais que va-t-il donc pouvoir se passer ?


      Intervention des facs et labos en lutte

      « Nous nous rallions à la revendication votée par la coordination des facs et labos en lutte, et demandons la suppression de l’ANR et l’affectation de la totalité de ses crédits et de son personnel là où ils sont nécessaires : dans les universités et établissements de recherche »
      Elle annonce ce qu’il y aura dans la LPPR : programmer budgétairement, sécuriser l’investissement, en arrêtant d’avoir l’objectif incantatoire de 3% du PIB. Favoriser l’#attractivité (c’est vrai qu’avec 100+ candidat.e.s par poste, l’attractivité est un vrai problème)
      #Vidal veut renforcer l’#ANR pour la mettre au niveau des agences des autres pays. Pour ça, réaffectation des crédits des labos pour soutenir les #projets (hop, moins de financements récurrents).
      L’idée est lâchée, Vidal annonce la modulation des services : les porteurs de projets ANR pourront enseigner moins, il y aura + de places à l’#IUF, + de #congés_de_recherche, pour arriver à une année #sabbatique tous les 7 ans (ce qui est un droit depuis le décret de 1984)
      Et allez, c’est parti : pour Vidal, il faut surtout augmenter les #investissements_privés dans la recherche, pour arriver à 2/3 du financement de la recherche sur #fonds_privés. Bye bye le service public de la recherche !
      Elle est cash : la grande majorité des transformations sera faite par #circulaires, de toute façon. La LPPR visera juste à faire sauter les #verrous_législatifs.
      Questions dans la salle : « Vous voulez donner des #décharges d’enseignement aux personnes qui ont des projets ANR, mais on est en #sous-encadrement massif dans les laboratoires ? La seule solution est une création massive d’emplois titulaires d’enseignant.e.s chercheur.e.s »
      (Non)-réponse : les communautés doivent s’organiser. Toutes les missions des EC doivent être prises en compte pour l’avancement. Quand un.e chercheur.e gagne un projet, tout le labo en bénéficie. Bref, rien sur la question de l’emploi titulaire.
      Une autre question revient dessus : que prévoyez-vous pour l’#emploi_titulaire ? La moitié des cours, dans certains départements, sont donné.e.s par des vacataires. Et encore une autre : le nombre de postes permanents ne cesse de baisser, comment on fait ?
      La solution de Vidal : refinancer la recherche avec des #contrats_d'objectifs-moyens, pour donner de la #visibilité aux établissements, mais c’est ensuite à chaque établissement de définir sa politique d’emploi. « Les emplois, ce n’est pas mon travail », dit la ministre.
      La loi va fixer un plancher de #recrutements, mais je ne vais pas annoncer des postes, dit la ministre. Elle rappelle que le précédent gouvernement a annoncé 5000 postes, et aucun n’a été créé. La solution : des contrats avec les établissements, et plus de #post-docs plus longs.
      Les doctorant.e.s financé.e.s ne sont pas des #précaires, pour Vidal. « Quand on est doctorant, on est étudiant ». La seule chose que fait le contrat doctoral, c’est de permettre à des étudiant.e.s « de ne pas travailler à côté de ses études »
      Enfin, Vidal réitère que la solution face à la #précarité, ce n’est pas l’emploi titulaire, mais des #CDI financés projet après projet, qui, à la différence des #fonctionnaires, pourront se faire virer si nécessaire (pardon, elle parle de « #rupture_de_contrat »)
      Un collègue demande comment il fait pour bosser alors qu’il n’a même pas de bureau. Air surpris de la ministre, qui répond directement « non mais je vais pas m’occuper d’attribuer des bureaux » et « Vous n’avez qu’à aller au campus Condorcet ». Le mépris.

      https://twitter.com/SamuelHayat/status/1232223691750113285

      Vous pourrez trouver ici la vidéo de l’interpellation de la ministre, le récit plus complet de l’action et des annonces faites, ainsi que la lettre qui a été lue et distribuée :
      https://universiteouverte.org/2020/02/25/interpellee-par-les-facs-et-labos-en-lutte-vidal-precise-les-orie
      https://www.youtube.com/watch?v=P-6dZghVhS0&feature=emb_logo

    • Comme dit un collègue :

      Le gouvernement va vite, très vite ...
      Le décret relatif au « #contrat_de_projet » dans la fonction publique est paru au Journal officiel (27.02.2020) :

      https://www.legifrance.gouv.fr/affichTexte.do?cidTexte=JORFTEXT000041654207&categorieLien=id

      A mettre en lien avec ces paroles de la ministre #Vidal :

      "La grande majorité des transformations sera faite par #circulaires, de toute façon. La LPPR visera juste à faire sauter les #verrous_législatifs.

      https://seenthis.net/messages/827430#message827565

      Ils ne sont pas #en_marche, ils sont #au_galop !

    • L’Assemblée adopte le vrai - faux engagement de #revalorisation des enseignants

      Peut-on imaginer des députés adopter un article en sachant qu’il est inconstitutionnel ? Peut-on imaginer une majorité promettre solennellement une mesure sociale à travers un texte sans valeur juridique ? Non. C’est pourtant ce que la majorité a fait à l’Assemblée nationale le 24 février en adoptant deux amendements qui inscrivent dans un nouvel article de la loi retraite l’engagement de faire une loi de programmation sur la revalorisation des enseignants. Or, depuis l’avis du Conseil d’Etat sur cette loi, on sait que cette disposition est anticonstitutionnelle. Les députés de la majorité ont adopté un article en sachant qu’il viole la constitution. Et ils s’engagent solennellement vis à vis des enseignants à rien.

      Que faire de la promesse de loi de programmation ?

      On le sait. Les alinéas 14 et 15 de l’article 1er de la loi sur les retraites mentionnaient un engagement gouvernemental pour la revalorisation des enseignants. « Le Gouvernement s’est engagé à ce que la mise en place du système universel s’accompagne d’une revalorisation salariale permettant de garantir un même niveau de retraite pour les enseignants et chercheurs que pour des corps équivalents de même catégorie de la fonction publique... Cet engagement sera rempli dans le cadre d’une loi de programmation dans le domaine de l’éducation nationale et d’une loi de programmation pluriannuelle de la recherche ». Or l’avis du Conseil d’Etat sur ce projet de loi estime que cette disposition est anticonstitutionnelle, une loi ne pouvant contraindre le gouvernement à déposer un autre projet de loi.

      Face à ce constat, la majorité a déposé plusieurs amendements. Ainsi, M Naegelen et des députés UDI ont pris au mot le gouvernement et proposé de retirer les alinéas 14 et 15 pour les remplacer par une mention garantissant le maintien des pensions au niveau d’avant la loi. Mme Rilhac proposait de remplacer les alinéas par une formule bien vague demandant au gouvernement de « mettre en oeuvre tous les moyens nécessaires à la réussite de cet engagement ».

      Deux amendements LREM réparent l’article 1 et créent un nouvel article

      Finalement c’est la formule proposée par le rapporteur LREM, M. Gouffier-Cha qui a été retenue. Un premier amendement (9998) propose de supprimer les deux alinéas. Un second (10 000) crée un article venant après l’article 1 reprenant le texte initial de la loi. « La mise en place du système universel de retraite s’accompagne, dans le cadre d’une loi de programmation, de mécanismes permettant de garantir aux personnels enseignants ayant la qualité de fonctionnaire et relevant des titres II, III et VI du livre IX du code de l’éducation une revalorisation de leur rémunération leur assurant le versement d’une retraite d’un montant équivalent à celle perçue par les fonctionnaires appartenant à des corps comparables de la fonction publique de l’État. Les personnels enseignants, enseignants chercheurs et chercheurs ayant la qualité de fonctionnaire et relevant du titre V du livre IX du code de l’éducation ou du titre II du livre IV du code de la recherche bénéficient également, dans le cadre d’une loi de programmation, de mécanismes de revalorisation permettant d’atteindre le même objectif que celui mentionné au premier alinéa du présent article. »

      « N’avez vous pas honte ? »

      Le ministre L. Pietraszewski parle « d’un engagement clair du gouvernement » et rappelle les « 500 millions pour 2021 » annoncés par JM Blanquer. La député Mme Rilhac (LREM) dit que « demain on veut atteindre 2000 euros par mois dès les 5 premières années d’enseignement ». La députée LREM Sylvie Charrière dit « qu’on peut pinailler sur l’histoire de la constitutionnalité, mais en attendant le geste est important, fort, c’est une loi de programmation et c’est 10 milliards qui seront sur la table ».

      En réalité, par ce moyen, la majorité sauve l’article 1 de son projet de loi. Mais il ne fait aucun doute que le Conseil constitutionnel n’annule le nouvel article créé par cet amendement. Les députés de la majorité ont en toute connaissance de cause adopté un article de loi anticonstitutionnel. Ils ont en même temps pris un engagement solennel envers les enseignants en sachant pertinemment que le Conseil constitutionnel les délivrerait de cet engagement.

      « Vous pourriez aussi bien marquer vos promesses aux enseignants de bottes de 7 lieues que ça aurait la même valeur », ironise JL Mélenchon devant l’Assemblée. « N’avez vous pas honte de dire aux français que vous allez adopter un amendement dont vous avez la certitude qu’il n’a pas le début d’une portée juridique... de dire aux enseignants que vous leur promettez une augmentation alors que dans la réforme vous voterez des paramètres diminuant leur pension », s’indigne Guillaume Larrivé (LR).

      Une journée historique

      « Nous serions heureux que M. Blanquer, ministre de l’éducation nationale, vienne s’expliquer sur ce point devant la représentation nationale », a déclaré M Juanico (PS). « Sachez cependant que, pour compenser la baisse de pension des enseignants, il faudrait non une prime mensuelle de quatre-vingt-dix à cent euros, mais une augmentation de traitement de 1000 à 1500 euros, en salaire et en revalorisation du point de la fonction publique – soit 10 à 12 milliards de masse salariale en plus. Puisque vous prévoyez d’ajouter seulement 500 millions en 2021 au budget de l’enseignement, notamment de l’enseignement supérieur et la recherche, nous sommes loin du compte. Nous souhaitons obtenir des explications, car beaucoup d’enseignants nous interrogent sur la revalorisation de leur traitement et la compensation de la diminution de leur pension ».

      « Durant le précédent quinquennat, le régime de prime des enseignants du premier degré a été aligné sur celui des enseignants du second degré ; en outre, le protocole PPCR – parcours professionnels, carrières et rémunérations – a été adopté, après deux ans de négociation avec les partenaires sociaux. Or vous n’avez eu de cesse de repousser son application, en 2018. Ainsi, avec ces projets de lois de programmation, vous rendrez aux enseignants en 2021 ce que vous leur devez depuis cette date », explique B Vallaud (PS).

      « Cela fait trois discussions budgétaires que, systématiquement, les députés de la gauche de l’hémicycle vous demandent de créer davantage de postes d’enseignants, et d’augmenter leurs rémunérations. À chaque fois, vous nous avez expliqué que ce n’était pas possible. À chaque fois, vous avez convenu qu’ils étaient peut-être moins bien payés que dans les autres pays européens, tout en refusant d’y voir un vrai problème. Or aujourd’hui vous prenez des airs de sauveur en annonçant que vous augmenterez leurs salaires. Vous prétendez en plus que la mesure n’a rien à voir avec la réforme des retraites ! Cela ressemble à une supercherie », dit Ugo Bernalicis (LFI). « Des promesses comme celles-ci figurent aux alinéas 14 et 15 de l’article 1er ou à l’article 1er bis, cela ne change rien : c’est une manœuvre pour inciter les enseignants à ne plus manifester et à cesser de se mobiliser contre votre projet pourri. »

      La journée du 24 février est historique. Le premier article de la loi retraite est adopté. Surtout on aura vu des députés voter un texte contraire à la constitution et inscrire dans une loi un engagement qui sera détruit dans quelques mois par le Conseil constitutionnel. Quel adjectif pour cette pratique politique ?

      http://www.cafepedagogique.net/LEXPRESSO/Pages/2020/02/18022020Article637176555371040344.aspx
      #constitutionnalité

    • La LPPR, sa communication et la politique de la recherche. À propos d’une tribune, d’un communiqué et d’une interview

      Voilà plusieurs semaines que l’ensemble les directions de laboratoires, des instances scientifiques du Comité national de la recherche scientifique (CoNRS) et du Centre national de la recherche scientifique (CNRS) et du sont vent debout contre les annonces des groupes de travail qui ont préparé la future Loi de Programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), plusieurs d’entre nous avons été surpris·es de découvrir que le CNRS utilisait son compte Twitter non pas pour communiquer sur l’ensemble des prises de position publiques de ses instances, pourtant remarquables par leur unanimité, mais pour faire connaître une pétition en faveur de la LPPR. C’est l’occasion de revenir sur ce contrefeu (1) et reproduire l’entretien que le président du Comité national de la recherche scientifique Olivier Coutard (2), a offert au journal d’entreprise CNRS info.
      1. Contrefeu : les émérites au secours des directions des EPST

      Le 20 février 2020, le compte Twitter du CNRS informe la communauté de la parution d’une tribune dans un quotidien sous péage. Le texte, très court — 1440 caractères — peut être intégralement lu sans payer.
      « La communauté scientifique attend un engagement financier
      fort et durable pour la recherche »

      –---

      Monsieur le Président de la République,

      vous avez annoncé, le 26 novembre 2019, votre intention de porter la dépense intérieure de recherche et développement (DIRD) à 3 % de notre produit intérieur brut. Pour la seule partie publique, cela représente une augmentation de plus de six milliards d’euros qui, dans le contexte actuel que nous connaissons tous, est une somme très importante. Mais le besoin est là, et l’urgence est manifeste. Plusieurs pays ont fait de la science une priorité. Vous l’avez affirmé vous-même pour la France : « Tous nos défis ont besoin de science et de technologie pour les relever ».

      C’est une question de souveraineté et, en cela, la France doit se donner les moyens de garder sa place sur la scène internationale. Nous avons besoin d’une loi de programmation pluriannuelle de la recherche, définie par rapport aux défis qui nous font face et correspondant à nos attentes et nos besoins. Comme vous le savez, il existe une inquiétude dans la communauté scientifique face à des informations qui sont encore fragmentaires.

      Sans présumer de la rédaction finale de la loi, nous tenons à vous affirmer que la communauté scientifique soutient l’idée d’une loi de programmation et attend un engagement financier fort et durable pour la recherche. Elle saura répondre aux enjeux pour notre pays. Cette loi marquera votre engagement et celui de la France sur la durée. Elle doit avoir des effets tangibles dès 2021.

      –---

      En substance, les 180 signataires demandent plus d’argent pour la recherche. Soit. Si possible de un financement pluriannuel. Re-soit.

      De là à vouloir la loi de programmation pluriannuelle de la recherche telle que les rapports des groupes de travail préparatoires la préfigurent, il y a un pas qu’on ne peut .franchir sans examiner le dispositif de signatures et l’environnement éditorial1

      Mettons de côté d’emblée la pétition associée à la tribune du Monde : les quelques 200 signataires, quatre jours après le lancement de la pétition fait peine à voir, d’autant qu’elle mêle aussi bien des citoyen-nes, des industriels et des scientifiques qui, tels cet Arnaud Pothier.

      180 signataires de la tribune, répartis par âge et par sexe (Crédit : PGE)

      La pétition émane-t-elle bien des « premiers signataires », comme il est courant dans un cas de péitionnement ? On peut s’interroger sur le profil des premiers signataires, bien hiérarchisés entre « Prix Nobel, Médaille Fields, Médaille d’or du CNRS » ; « Responsables d’institutions, organismes et universités » : et « Membres de l’Academié des sciences ». Le premier groupe a une moyenne d’âge de 75 ; le second, 66, le troisième 72. Le membre le plus jeune est Cédric Villani, qui n’est plus mathématicien, même s’il est bien médaillé Fields ; le plus âgé, Claude Lévi, professeur honoraire au Muséum national d’histoire naturelle, a 98 ans. Parmi ces signataires du troisième âge avancé, seules 15% de femmes. Le moins que nous puissions dire, c’est qu’à l’exception du groupe des Responsables, il s’agit de personnes qui ont quitté depuis longtemps, en moyenne plus de 5 ans le monde professionnel de l’enseignement supérieur et de la recherche et qu’ils ou elles en perçoivent difficilement les raisons de l’« inquiétude » de personnel à l’emploi très dégradé.

      À tout le moins peuvent-ils ou elle s’accorder sur le besoin de financement de la recherche à hauteur de 3% du Produit intérieur brut, soit un engagement financier durable dans la recherche, sans s’intéresser aux à-côtés dont les groupes de travail nous ont proposé, en particulier en matière d’emploi précarisé.

      Du côté des Responsables, en dépit d’une meilleure homogénéité de classe d’âge (entre 55 et 65 ans), c’est pourtant l’hétérogénéité qui questionne. Au sein des membres de la CURIF,qu’y a-t-il de commun entre un président d’université fraîchement élu par ses pairs, comme Éric Berton (Aix-Marseille Université) ou Yassine Lakhnech (Université de Grenoble Alpes) — dont les positions sont rapportées comme peu éloignées de celles de leurs collègues unanimes, et les présidents à la manoeuvre dans la conduite d’une olitique inégalitaire d’université de recherche vs. université de 2e ordre, comme Jean Chambaz, Sorbonne Université, récemment invité sur France culture, et Manuel Tunon de Lara, Université de Bordeaux, co-auteur du rapport du 2e groupe de travail sur l’attractivité de l’emploi scientifique ?

      Ces derniers ont sans doute plus de proximité avec les apparatchiks du MESRI, qui se déplacent d’un poste de direction à l’autre depuis dix ans, comme Philippe Mauguin, président de l’INRA depuis 2015, qui accompagnait Frédérique Vidal lors de son discours à la cérémonie des vœux du 21 janvier 2020, Alain Fuchs, ancien Pdg du CNRS (2010-2017), qui a mis en œuvre la dégradation consciete de l’emploi pérenne d’abord che les ITA, Antoine Petit, connu pour ses prises de positions élégantes en faveur d’une loi « darwinienne », contre le « bois mort » de la recherche ou encore ses amateurs incapables de jouer la « Champion’s League », L’attelage de ces Responsables, plus ou moins complètement déconnectés des activités d’enseignement supérieur et de recherche, laisse songeur.

      Fallait-il sauver le soldat LPPR par une tribune signée par des figures reconnues mais retraitées ? Ou par un communiquépublié le 24 février 2020, La CPU en phase avec les orientations du projet de loi sur la recherche vide de contenu, ne reposant sur rien, puisque le texte n’est pas connu ? On peut se le demander. Ce texte a continué à froisser la communauté, qui demande de façon constante et publique depuis plus d’un an des financements à la hauteur d’un pays comme la France et une vaste campagne de recrutement. Et surtout, comme l’écrit Olivier Coutard, le président du Comité national de la recherche scientifique — non plus sur Le Monde et le compte Twitter du CNRS, mais dans le Journal du CNRS, non plus en 1500 signes, mais en 15 000 signes — une concertation sincère sur la politique de recherche du MESRI est devenue absolument indispensable.

      2. Olivier Coutard – « Pour une concertation sincère sur la LPPR »

      –---

      Le président de la Conférence des présidents du Comité national (CPCN) revient sur son action à la tête de cette instance de représentation de la communauté scientifique. Face aux inquiétudes exprimées dans les laboratoires, Olivier Coutard plaide pour “une concertation sincère” sur la loi de programmation pluriannuelle de la recherche.

      Quel bilan tirez-vous du fonctionnement de la Conférence des présidents du Comité national (CPCN) après trois années d’exercice de sa présidence ?

      Olivier Coutard : Presque trois ans et demi même… Le premier aspect que j’aimerais souligner, c’est l’engagement remarquable des présidentes et présidents de sections et de commissions interdisciplinaires depuis le début de la mandature. Lors de notre dernière réunion mi-janvier par exemple, les trois quarts des membres de la CPCN étaient présents et la plupart des autres étaient représentés.

      Je ne doute pas que cet engagement perdurera jusqu’à la fin de la mandature. Mais j’en profite pour souligner que ces mandats, qui sont passés de quatre à cinq ans, sont des mandats lourds, même si cette durée de cinq ans a été pensée pour permettre aux sections, au gré des cinq vagues de contractualisation, d’évaluer l’ensemble des unités de recherche relevant de leur périmètre.

      Sur un plan général, il me semble que la CPCN remplit et remplit bien, ses trois grandes missions, à savoir, en premier lieu, l’échange entre les sections et les commissions interdisciplinaires (CID), qui facilite l’adaptation coordonnée de nos instances à un contexte réglementaire et institutionnel en constante évolution, tout en préservant la diversité des pratiques propres à chaque discipline ou champ de recherche. Le dialogue avec la direction du CNRS, qui constitue la deuxième mission, fonctionne bien à mon sens. Enfin, la CPCN s’acquitte d’une fonction non statutaire mais précieuse de représentation de la communauté scientifique nationale.

      Sur ce dernier point, j’avais indiqué dès ma prise de fonction que, selon moi, les positions publiques de la CPCN seraient d’autant plus fortes qu’elles reposeraient sur un consensus très large entre ses membres. C’est ainsi que toutes les motions adoptées par la CPCN depuis le début de la mandature l’ont été à l’unanimité, ce qui tend à prouver que les positions ou les préoccupations qu’elle exprime sont très largement partagées.

      Vous faites référence à vos motions sur le projet de loi de programmation pluriannuelle de la recherche ?

      C. : Pas seulement.

      Notre première prise de position notable a été de faire paraître dans Le Monde début décembre 2018, une tribune dans laquelle nous nous inquiétions de la baisse, décidée par la direction du CNRS, du nombre de postes ouverts au concours chercheurs : 250 au lieu de 300 les années précédentes et même 400 à la fin des années 2000 ! Nous étions et nous restons très préoccupés par cet étiolement programmé, pour reprendre les termes que nous avons employés dans cette tribune.

      Suite à l’annonce par le Premier ministre, en février 2019, de la mise en chantier d’une loi de programmation pluriannuelle de recherche (LPPR), la CPCN, les Conseils scientifiques d’instituts (CSI) et le Conseil scientifique (soit plus de 1100 collègues au total) ont établi ensemble un diagnostic de la situation de la recherche publique en France, assorti de propositions prioritaires. Ces éléments ont été consignés dans un document solennellement approuvé lors de la session extraordinaire du Comité national le 4 juillet dernier.

      J’ajoute qu’une tribune publiée il y a quelques jours dans Le Monde et appelant à mettre en œuvre les propositions du Comité national, a déjà reçu le soutien de plus de 700 directrices et directeurs d’unités, dont plus du tiers des directrices et directeurs d’unités mixtes de recherche (UMR).

      Quant aux groupes de travail mis en place par le ministère de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation (MESRI), leur diagnostic et leurs propositions recoupent les nôtres sur un certain nombre de points, mais en diffèrent sur des aspects majeurs. La question qui se pose est donc de savoir quelles propositions seront retenues dans la loi.

      Soutenez-vous la demande qui a été exprimée en faveur d’un « moratoire » de la loi et de la tenue d’états généraux ?

      C. : Nous subissons aujourd’hui une sorte de moratoire de fait. En effet, alors que les réflexions et travaux préparatoires à la loi ont été initiés il y a un an, nous ne disposons toujours pas d’une première version du projet de loi et la date de présentation de ce texte a été déjà reportée plusieurs fois. Je ne crois pas que ce soit une bonne chose, car cela nourrit les inquiétudes de la communauté scientifique. À titre personnel, je ne suis donc pas favorable à un moratoire prolongé. Je plaide plutôt pour une concertation sincère, aussi rapidement que possible, autour des principales dispositions du projet de loi. J’insiste sur le terme « sincère » car il est essentiel que les attentes très largement exprimées par la communauté scientifique soient véritablement prises en compte.

      Évidemment, les chercheurs ne sont pas les seuls à avoir leur mot à dire sur la politique de recherche de la nation. Mais pour réaliser les ambitions fortes exprimées par le président de la République — et l’on ne peut que se réjouir que l’État ait des ambitions en matière de recherche ! —, une large et profonde adhésion de la communauté scientifique est indispensable. Or force est de constater que cette adhésion n’est pas acquise pour l’instant. Au contraire, une vive inquiétude s’installe parmi les personnels de l’enseignement supérieur et la recherche (ESR), toutes disciplines confondues.

      Comment comprendre cette fronde montante contre un projet qui n’est pas encore écrit ?

      C. : Quelle que soit la manière dont les groupes de travail du MESRI ont travaillé, certaines de leurs propositions apparaissent en décalage important par rapport aux principales attentes exprimées par la communauté et ne semblent pas à-même de résoudre les difficultés identifiées. De surcroît, les déclarations du président de la République et les premières annonces de la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation ont mis en avant des dispositifs comme les tenure tracks ou les « CDI de mission scientifique » qui sont largement rejetés par les chercheurs et unanimement considérés comme secondaires, compte tenu du besoin de création de postes permanents. Si quelques mesures fortes et d’application immédiate ne viennent pas rassurer la communauté scientifique, la contestation se renforcera. Beaucoup craignent une loi qui « détricoterait » dès maintenant le statut des personnels de recherche et ce qui reste de fonctionnement collectif et collégial et qui annoncerait des moyens financiers pour plus tard peut-être, alors même que le gouvernement aurait pu amorcer le refinancement de la recherche sans attendre le passage de la LPPR.

      Or, quelles sont les attentes de la communauté scientifique ? De l’argent, d’abord, dans les laboratoires, des postes de personnels permanents, de la confiance permettant une simplification forte des procédures administratives. Certaines déclarations générales du président de la République et de membres du gouvernement semblent aller dans le sens de ces attentes, notamment en termes de financement et de simplification. Mais le moins que l’on puisse dire, c’est que pour l’instant les rares mesures concrètes qui ont été évoquées sont très décevantes. Le redéveloppement de l’emploi statutaire n’est pas évoqué, tout au plus sa stabilisation – à un niveau toutefois historiquement bas et dramatiquement insuffisant, toutes catégories de personnels confondues : chercheurs, enseignants-chercheurs, personnels d’appui. Rien n’est dit non plus sur le refinancement des laboratoires et des établissements hors réponses à appels à projets. Les montants financiers évoqués pour la revalorisation des rémunérations sont d’un ordre de grandeur dérisoire par rapport à ce qui, de l’avis général, serait nécessaire. Ainsi, la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation évoque dans une tribune parue dans Le Monde le 10 février « une première enveloppe de 92 millions d’euros pour engager la remise à niveau salariale de l’ensemble des métiers de la recherche », alors même que le groupe de travail qu’elle a mis en place estime les sommes nécessaires entre 2 et 2,4 milliards d’euros supplémentaires par an (hors compensations, le cas échéant, des effets de la réforme engagée des retraites). Enfin, le discours sur l’évaluation, très ferme dans ses intentions et très vague dans ses modalités, hormis l’apparente « reprise en main » du Haut Conseil de l’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (HCERES), suscite une vive inquiétude, aggravée par le contexte.

      Le 26 novembre dernier, le président de la République a évoqué la nécessité de revoir l’évaluation de la recherche et des chercheurs. Qu’en pensez-vous ?

      C. : En indiquant qu’il entendait « assumer une politique d’évaluation qui ait des conséquences », le président de la République a suggéré que les évaluations existantes sont sans effet. Ce n’est pas le cas. S’agissant des personnes, l’évaluation de l’activité professionnelle, tous métiers confondus, détermine la progression de carrière. Je voudrais souligner au passage que pour les chercheurs et les chercheuses du CNRS, les évaluations effectuées par le Comité national s’attachent à prendre en compte l’ensemble des activités des collègues et s’inscrivent ainsi pleinement dans les recommandations du nouveau Contrat d’objectifs et de performance (COP) du CNRS en la matière.

      S’agissant des collectifs (équipes, laboratoires), l’évaluation quinquennale des unités est, il est vrai, un processus lourd qui mobilise les membres de ces unités et dont le « retour sur investissement » si j’ose dire, peut être décevant. Les rapports d’auto-évaluation pourraient sans doute présenter plus explicitement qu’ils ne le font la plupart du temps, les principaux apports à la connaissance scientifique de l’unité pendant la période évaluée, en entrant davantage dans le contenu de la science produite. Cela permettrait en retour aux comités d’évaluation du HCERES et aux sections du Comité national, de centrer davantage leur évaluation sur ces apports.

      Cependant, même dans l’hypothèse où l’évaluation serait systématiquement centrée sur un examen approfondi des apports scientifiques de l’équipe évaluée, le lien mécanique parfois suggéré entre évaluation et attribution de moyens pour les années qui suivent, comporterait davantage d’effets pervers que de bénéfices. Cette vision repose en particulier sur l’idée erronée que les innovations scientifiques futures proviendront essentiellement, voire exclusivement, des équipes (et des personnes) ayant déjà innové dans le passé. L’histoire des sciences montre que ce n’est pas le cas. Les percées sont souvent le fait d’équipes composées de professionnels de haut niveau, très bien formés et très engagés dans leur métier, mais qui ne se sont pas nécessairement distingués auparavant.

      Les craintes suscitées par les déclarations du président de la République, mais aussi par celles de son conseiller recherche, Thierry Coulhon, candidat à la présidence du HCERES, ont amené plusieurs sections du Comité national — dont celle que je préside — à annoncer la rétention de leurs propres rapports d’évaluation et à encourager celle des rapports produits par les comités d’experts du HCERES. Il ne s’agit pas d’exprimer une défiance vis-à-vis du fonctionnement actuel du HCERES, qui représente une amélioration considérable par rapport à celui de l’Agence d’évaluation de la recherche et de l’enseignement supérieur (AERES) qui l’a précédé, mais encore une fois, de signaler une inquiétude par rapport aux orientations envisagées ou évoquées en matière d’évolution de l’évaluation scientifique et de ses usages.

      Le Comité national produit au cours de chaque mandature un rapport de conjoncture. Quel est la tonalité du prochain rapport ?

      C. : Le débat sur la LPPR et l’élaboration des contributions du comité national dont nous avons parlé, ont quelque peu ralenti le processus d’élaboration du rapport de conjoncture, mais celui-ci est en cours d’achèvement. Il confirme largement et précise le diagnostic posé par le Comité national au printemps. À titre d’exemple, je voudrais évoquer ici les conséquences du déclin démographique du personnel statutaire. Avec une baisse de 40 % en dix ans des postes de chercheurs ouverts au concours, la diversité des recrutements opérés est de plus en plus limitée. La capacité à recruter des profils originaux et donc plus risqués, est obérée au bénéfice de profils également très solides mais plus « rassurants » parce que situés davantage au cœur des disciplines ou des domaines de recherche des sections. C’est par construction moins vrai pour les commissions interdisciplinaires, mais là encore la diversité des recrutements est amoindrie.

      Or, la recherche a besoin de profils divers, certains au cœur et d’autres à la marge des domaines de recherche établis. En outre, des champs nouveaux émergent. Je pense en particulier à tout ce qui a trait aux données massives, leur collecte, leur stockage, leur exploitation et leur analyse. Des besoins de compétences dans ce domaine s’expriment dans toutes les disciplines scientifiques, tant en matière de recherche que d’appui à la recherche. Il est profondément regrettable qu’un opérateur majeur comme le CNRS n’ait pas les moyens (en termes de recrutement, d’équipement et de financement) d’y répondre de manière adéquate.

      Par ailleurs, le rapport de conjoncture comprendra une réflexion et des propositions sur les biais de genre dans les recrutements et les carrières et sur la science ouverte, deux sujets auxquels la direction du CNRS nous a demandé de porter une attention particulière. Sur le premier thème, le Comité national partage pleinement la préoccupation de la direction sur les biais de genre qui perpétuent des différences entre les carrières professionnelles des femmes et celles des hommes. Nous nous interrogeons sur l’ensemble des leviers sur lesquels les sections et CID peuvent jouer, y compris en amont de l’évaluation des demandes de promotion, pour contribuer à réduire ces inégalités. Il conviendrait aussi de s’interroger sur les raisons qui font qu’au CNRS la proportion de chercheuses (tous grades confondus) stagne à environ un tiers. En 10 ans, entre 2007 et 2016, elle est passée de 32 à 34 % ; à ce rythme-là, s’il se maintient, la parité entre chercheuses et chercheurs sera atteinte vers 2100.

      Certains constats issus du rapport de conjoncture vous ont-ils surpris ?

      C. : Oui. Je citerai deux exemples. J’ai été surpris, tout d’abord, de constater que très peu de rapports de sections évoquent le rôle de la Mission pour les initiatives transverses et interdisciplinaires (MITI) du CNRS, alors que tous soulignent l’importance grandissante de l’interdisciplinarité dans les pratiques à l’œuvre dans leurs champs de recherche. Cette faible visibilité est étonnante et constitue d’une certaine manière une énigme que nous allons nous attacher à élucider.

      Autre surprise, les sciences citoyennes sont également peu évoquées. Or nous savons que des formes très diverses de collaboration entre chercheurs professionnels et membres de la société civile se développent, de même d’ailleurs que les pratiques scientifiques amatrices. Ces évolutions sont porteuses d’enjeux considérables sur la place de la connaissance scientifique et des chercheurs dans la décision publique, dans l’action collective et plus largement dans la société. Ce sujet mérite donc également d’être examiné de plus près.

      –—

      Pour conclure cette briève analyse des stratégies de communication, on peut remarquer que la communication du MESRI et de ses partenaires responsables d’EPST, des universités « de recherche »n’est pas optimale : en retard, avec une couverture presse ridicule — comparée, par exemple, à l’opération « Pages blanches » des Revues en lutte — avec des éléments de langage sans contenu ou si pauvres qu’ils n’intéressent plus personne, au point où même l’équipe de communication du CNRS se tourne vers celles et ceux qui peuvent proposer une réflexion approfondie, comme Olivier Coutard, Isabelle Saint-This ou Marie-Sonnette.

      Sans trop se tromper, on peut dire que les responsables de l’ESR ont déjà perdu la bataille de la communication. C’est un début.❞

      https://academia.hypotheses.org/16986

    • La Ministre confirme : la LPPR a déjà eu lieu

      Dans le cadre des journées Sciences humaines et sociales (SHS) organisées par l’Agence nationale de la recherche les 25 et 26 février, des chercheur.es et enseignant.es-chercheur.es en lutte sont intervenu.es pour interpeller la ministre sur la Loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), le financement de la recherche et la politique de l’emploi scientifique. Nous avons suivi la chronique de cette rencontre fort instructive sur le fil Twitter de Samuel Hayat, qu’il a complété avec un compte rendu. Nous l’en remercions.

      https://www.youtube.com/watch?v=P-6dZghVhS0&feature=emb_logo

      Les orateurs et oratrices ont distribués le texte de leur « Lettre ouverte de lauréat.e.s de projets ANR, lue à l’occasion des journées SHS de l’ANR des 25 et 26 février 2020 » destinée à la Ministre. Les lauréat·es ont souligné la nécessité de financements récurrents, l’ampleur croissante du nombre et des catégories de travailleuses et de travailleurs précaires, avec son cortège de post-docs limités sur projet, de contrats courts et de stagiaires de recherche, et souligné combien cette politique dégradant l’emploi pérenne, venait à l’encontre des besoins impérieux de nos universités et centres de recherche. Augmenter la compétition, accroître la précarité, multiplier les évaluations, comme promet de le faire le projet de Loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), nuit considérablement à la qualité de la recherche faite en France.

      À la suite de cette intervention, Frédérique Vidal a précisé le contenu de la LPPR, confirmant ainsi les pires craintes des personnel.le.s et usager·es de l’ESR mobilisé.e.s. Selon la ministre, il faut renoncer à l’objectif, qualifié d’« incantatoire », de 3% du PIB pour la recherche, au profit d’une démarche de « refinancement », de « sécurisation de l’investissement » et de contractualisation. Pour favoriser « l’attractivité » (qui est pourtant un faux problème si l’on considère le nombre de candidat.e.s par poste, parfois plus de 100), Frédérique Vidal a réaffirmé qu’elle donnerait quelques miettes aux nouveaux/lles recruté.e.s : une minuscule augmentation de la rémunération à l’entrée en fonction.

      Quant à la part la plus importante de l’investissement pour la recherche, elle viendra en réalité clairement de deux sources. D’un côté, la ministre souhaite renforcer l’ANR pour la mettre au niveau des agences de financement des autres pays (évidemment présentés comme des modèles de performance). Pour cela, elle entend réaffecter les crédits des laboratoires pour soutenir les dépôts de projets – en échange de quoi une partie de l’argent bénéficierait aux laboratoires dans leur ensemble. Cela ne fait que confirmer la logique de financement conditionnel des unités de recherche, qui accentuera encore les inégalités entre laboratoires riches et pauvres, contre la nécessité d’un financement public, égalitaire, récurrent et inconditionnel. D’un autre côté, il s’agit pour Frédérique Vidal de favoriser les investissements privés, pour arriver à deux tiers du financement de la recherche sur fonds privés. Elle feint ainsi d’ignorer le poids déjà démesuré du Crédit d’impôt recherche, qui ponctionne 6 milliards d’euros par an au budget public, alors qu’on connaît la quasi-nullité de ses effets sur la production scientifique.

      Enfin, Frédérique Vidal a réintroduit, sous une forme euphémisée, la modulation des services. Sans officiellement mettre en question la règle des 192h équivalent TD de cours pour les enseignant.e.s chercheur.e.s titulaires, elle a annoncé vouloir multiplier les opportunités de réduction du service d’enseignement des plus “productifs.ves” : augmentation des places à l’Institut universitaire de France (IUF), du nombre de délégations au CNRS et de congés de recherche et conversion thématique (CRCT), des décharges de cours pour les porteurs/ses de projets ANR. Ces éléments pèseront davantage sur les personnels BIATSS et les collectifs enseignants (les heureux.ses lauréat.e.s de projets pourront ainsi se décharger auprès de leurs collègues non lauréat.e.s car moins chanceux.ses ou précaires, déjà à la limite du burn out), puisque la création d’emplois titulaires ne figure pas dans la LPPR. Quant aux CRCT, la ministre parle d’un « idéal » : une année sabbatique tous les sept ans. Si cela peut se présenter comme le rêve de tout.e enseignant.e chercheur.e, ce n’est pas un “idéal”, c’est un droit, pour tou.te.s les EC titulaires depuis le décret de 1984 fixant les dispositions statutaires du métier ! Même si effectivement ce droit est resté lettre morte jusqu’à présent, faute de moyens garantissant son exercice.

      Ces annonces illustrent et manifestent pleinement la logique profondément inégalitaire de la LPPR à venir. Pire encore, Frédérique Vidal a bien mis en avant que l’essentiel des transformations seraient faites par circulaires et décrets, sans examen par la représentation nationale ni débat public. Comme elle l’annonce tranquillement, la LPPR visera à « faire sauter les verrous législatifs », c’est-à-dire les quelques dispositions qui protègent encore les travailleurs/ses et usager.e.s de l’ESR de l’arbitraire total au sein des établissements et des inégalités entre établissements.

      Autant dire que la ministre n’a pas convaincu les présent.e.s. Dans la séance de questions-réponses qui a suivi son intervention, peu de questions ont porté sur les partenariats publics-privés, sur lesquelles F. Vidal est pourtant intarissable. En revanche, plusieurs collègues ont mis en avant le problème du manque d’emplois titulaires, qui menace l’existence même de certaines filières, et que la LPPR va encore aggraver. D’autres aspects de cette situation catastrophique ont été pointés, comme la part d’enseignements donnés par des non-titulaires, dont une bonne partie par des vacataires payé.e.s sous le SMIC horaire. La réponse de la ministre a été étonnante : ce n’est pas son problème ! Le ministère donne des crédits, mais c’est aux établissements de mener leur politique de recrutement. Elle rappelle à juste titre que le précédent gouvernement a annoncé 5000 postes, et qu’aucun n’a été créé. Dès lors, plutôt que de demander aux établissements d’honorer ces promesses d’emploi, la ministre préfère simplement ne plus en faire ! Plutôt qu’une véritable politique d’emploi, la ministre envisage des contrats d’objectifs et de moyens avec les établissements, pour leur donner une « visibilité ». « Les emplois, ce n’est pas mon travail », conclut la ministre. En tout cas, pas les emplois titulaires. En revanche, elle ne tarit pas d’éloges sur les post-doctorant.e.s, les CDI de projet, financé.e.s par contrats successifs, lesquel.le.s, à la différence des fonctionnaires, pourront être licenciés si nécessaire (la ministre préfère parler de « rupture de contrat »). De la précarité ? Clairement, Frédérique Vidal n’aime pas ce mot, surtout quand il s’agit des doctorant.e.s financé.e.s, qui ne sont pas des précaires, selon elle. « Quand on est doctorant, on est étudiant ». Le contrat doctoral – qui, rappelons-le, concerne une part seulement des doctorant.e.s et dont la durée n’excède pas trois annéess -, est de permettre à des étudiant.e.s « de ne pas travailler à côté de ses études » (sauf bien sûr lorsqu’il s’agit de faire des vacations pour combler le manque de titulaires).

      Bref, la ministre est apparue complètement hors-sol, qu’il s’agisse de prendre la mesure de la précarité, du manque d’emplois titulaires ou des conditions réelles de travail et d’étude. À un collègue demandant comment faire pour travailler alors qu’il n’a même pas de bureau, la ministre, décontenancée, a répondu : « Non mais je vais pas m’occuper d’attribuer des bureaux » et « Vous n’avez qu’à aller au campus Condorcet ». Qu’attendre d’autre d’une ancienne trésorière de la très sélective Coordination des universités de recherche intensive françaises (CURIF), un lobby composé des président.e.s d’université les plus « excellentes », qui pousse depuis sa création en 2008 à plus d’autonomie pour les établissements tout en accroissant la compétition entre eux (comprendre, plus de pouvoir pour les petit.e.s chef.fe.s locaux.les).

      Cet échange a eu le mérite de faire tomber les masques. La LPPR va encore aggraver le processus de transformation néolibérale des universités et des établissements de recherche et accélérer la destruction du service public. Contre la précarité, contre la réforme des retraites, contre la LPPR, il n’est pas d’autre choix que de lutter ! Alors, à partir du 5 mars, l’Université et la recherche s’arrêtent !

      https://academia.hypotheses.org/17566

    • L’#obscurantisme de l’excellence

      La loi sur la recherche risque de favoriser les « meilleurs » laboratoires en créant des grosses structures. Or des études prouvent qu’il est plus efficace de diversifier les financements.

      Tribune. Dans les mois qui viennent va être discutée la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR). Une loi ambitieuse, dont l’essence a été résumée par Antoine Petit, PDG du CNRS : il s’agira d’une loi « darwinienne ». Seuls les excellents doivent survivre : car il vaut mieux financer la recherche excellente que la mauvaise ! Il est paradoxal qu’alors que l’essence de la science est de douter des idées reçues et d’arbitrer des rationalités contradictoires par l’argumentation et la confrontation au réel, la politique de la recherche scientifique semble s’asseoir presque exclusivement sur des préjugés ou des sophismes.

      Depuis quinze ans a été engagée une transformation de la politique de la recherche pour remplacer les financements récurrents des laboratoires par des financements compétitifs sur projets. De ce point de vue-là, c’est une réussite : les chercheurs français consacrent désormais une bonne partie de leur temps autrefois consacré à leur métier à monter et à évaluer des projets dont environ un sur dix voit le jour. Alors même que l’un des buts revendiqués était de lutter contre le mandarinat, cette politique d’« excellence » a abouti à une concentration des ressources dans les mains des « excellents » car les mandarins ne sont-ils pas par définition « excellents » ? Mais ne soyons pas dogmatiques : peut-être est-ce une bonne chose ? On pourrait adopter une démarche scientifique et vérifier empiriquement si concentrer les ressources sur « les meilleurs » est un mode de gestion efficace. Or il existe des études sur ce sujet, qui concluent que la recherche suit une loi des rendements décroissants : il est plus efficace de diversifier les financements que de les concentrer en créant de grosses structures (https://arxiv.org/abs/1602.07396).

      On pourrait aussi se demander s’il est possible d’anticiper les découvertes scientifiques, qui par définition portent sur des choses préalablement inconnues, en évaluant des projets. Là encore, des études (https://elifesciences.org/articles/13323v1) se sont penchées sur la question. Elles concluent que, après une sélection grossière, l’évaluation n’est pas meilleure qu’une loterie, et en fait pire puisqu’elle introduit des biais conservateurs (contre l’interdisciplinarité, puisque l’évaluation se fait par comité disciplinaire ; contre l’originalité et le risque, puisque l’évaluation doit être consensuelle).

      Est-ce bien étonnant ? Il suffit de se pencher sur l’exemple récent de l’intelligence artificielle (IA) pour comprendre que l’idée de préfinancer la recherche « innovante » est une contradiction dans les termes. Les algorithmes qui défraient la chronique sont des variantes des réseaux de neurones artificiels conçus dans les années 80. Dans les années 90, ils ont été supplantés par des algorithmes statistiques beaucoup plus puissants (l’IA s’appelait alors plus modestement « apprentissage statistique »). Certains se sont malgré tout obstinés à travailler sur les réseaux de neurones, pourtant obsolètes, un attachement qui semblait davantage romantique que rationnel pour le reste de la communauté. Il se trouve que quelques améliorations incrémentales ont augmenté les performances de ces réseaux, pour des raisons encore incomprises. Manifestement, avant d’aboutir, cette recherche était tout sauf « innovante ». Car ce sont les conséquences des découvertes qui sont « disruptives », et non les projets eux-mêmes.

      S’il y avait une manière simple d’identifier les projets qui vont mener à de grandes découvertes, il n’y aurait pas besoin de recherche publique : ceux-ci seraient financés directement par des investisseurs privés. C’est ce qui se passe pour l’IA avec les investissements de Facebook ou Google, une fois que la recherche publique a fait émerger ces nouvelles idées. Financer l’innovation scientifique par projet, c’est une contradiction dans les termes. Ce que montrent les études académiques sur le sujet ainsi que l’histoire des sciences, c’est que la créativité est favorisée par un financement peu compétitif sur une base diversifiée, qui seul autorise l’originalité, le travail collaboratif et le temps long.

      En réalité, la compétition a toujours existé en sciences, puisque obtenir un poste académique est de tout temps difficile. Or cette compétition est fondée sur les compétences et non sur les « résultats ». Est-il bien raisonnable d’y ajouter artificiellement des compétitions supplémentaires de façon à ne donner qu’à un scientifique sur dix les moyens de travailler convenablement, lorsque l’on sait que cette sélection est arbitraire et coûteuse ? Ou de créer par appel à projets des structures bureaucratiques d’excellence dont le rôle principal est de créer de nouveaux appels à projets sur un périmètre plus réduit ? Enfin est-il bien raisonnable de remplacer les postes permanents par des postes précaires, c’est-à-dire remplacer des chercheurs expérimentés par de jeunes chercheurs inexpérimentés voués pour la plupart à changer de métier, avec pour seule justification les vertus fantasmées de la compétition ?

      Le moins que l’on puisse dire, c’est que la doctrine de l’excellence scientifique ne suit pas une démarche scientifique.

      https://www.liberation.fr/amphtml/debats/2020/02/26/l-obscurantisme-de-l-excellence_1779726

    • #Concentration of research funding leads to decreasing marginal returns

      In most countries, basic research is supported by research councils that select, after peer review, the individuals or teams that are to receive funding. Unfortunately, the number of grants these research councils can allocate is not infinite and, in most cases, a minority of the researchers receive the majority of the funds. However, evidence as to whether this is an optimal way of distributing available funds is mixed. The purpose of this study is to measure the relation between the amount of funding provided to 12,720 researchers in Quebec over a fifteen year period (1998-2012) and their scientific output and impact from 2000 to 2013. Our results show that both in terms of the quantity of papers produced and of their scientific impact, the concentration of research funding in the hands of a so-called “elite” of researchers generally produces diminishing marginal returns. Also, we find that the most funded researchers do not stand out in terms of output and scientific impact.

      https://arxiv.org/abs/1602.07396

    • « La moitié des enseignants-chercheurs ont des contrats précaires »

      « Le 5 mars, l’université et la recherche s’arrêtent ». (1) L’appel, lancé par la coordination nationale des facs et labos en lutte met en lumière le nouvel axe de mobilisation dans l’enseignement supérieur et la recherche, qui englobe aussi bien les combats contre la réforme des retraites que la précarité étudiante et le projet de loi LPPR. Cette proposition de loi vise à fixer des objectifs d’investissements dans le domaine de la recherche publique et améliorer la carrière des jeunes enseignants-chercheurs. Le JSD a rencontré Hélène Nicolas, maîtresse de conférence en anthropologie et études de genre à Paris 8, en grève reconductible depuis le 5 décembre. Interview.

      Hélène Nicolas : La LPPR, ce sont trois rapports qui en effet inquiète le milieu scientifique et universitaire. Ces trois rapports que disent-ils ? Ils constatent que la recherche et l’enseignement supérieur français décrochent, qu’il y a une précarité grandissante, un manque de démocratie… Nous, enseignants chercheurs, nous sommes d’accord avec ces constats. Ce sont les préconisations de ces rapports qui posent problème. Elles vont aggraver ces états de fait en multipliant les contrats précaires, en concentrant les moyens sur quelques universités ou laboratoires dits d’excellence et en cassant les quelques instances démocratiques qui gèrent l’université, c’est à dire qu’elle sera transformée en quelque chose de plus en plus managériale.On est là-dedans en permanence. Le PDG du CNRS, Antoine Petit a dit qu’il fallait pour la recherche une loi darwiniste et inégalitaire donc ça montre bien l’objectif de cette loi. Mais le décrochage dans le milieu n’est pas nouveau. Il est présent depuis dix ans, plus précisément depuis la loi relative aux libertés et responsabilités des universités (LRU) qui a amené un tournant néolibéral à la recherche. En gros, la LPPR veut accélérer dans la direction de la loi LRU.

      Le JSD : Quel est l’impact de la LPPR sur les enseignants-chercheurs et les étudiants ?

      Hélène Nicolas : Selon moi, l’impact le plus grave c’est qu’aujourd’hui, la moitié des enseignants-chercheurs qui travaillent dans les universités et les laboratoires sont des gens précaires. Ils sont rémunérés en dessous du smic horaire, sont payés tous les six mois et n’ont aucune garantie de trouver du travail à la fin de leur contrat. Les emplois titulaires se sont réduits ces dernières années alors qu’il y a de plus en plus d’étudiants et d’urgence pour les recherches de type climatique et inégalités sociales. On a de grands enjeux sociaux sur lesquels les chercheurs pourraient s’investir mais on voit que les financements pérennes disparaissent. Le problème que cela pose c’est qu’il est impossible de travailler dans de bonnes conditions avec des gens qui sont sous-payés voire qui travaillent gratuitement et qui changent de poste tous les 2, 3, ou 6 mois.

      Autre enjeu : quand on est enseignant-chercheur, on doit faire 192h d’enseignement par an, c’est le référentiel horaire. La moitié de notre temps de travail est pour l’enseignement, l’autre pour la recherche. La LPPR prévoit la suppression de ces 192h. On va donc potentiellement faire beaucoup plus d’heures en étant payé de la même manière. Plus, on va devoir réduire notre temps de recherche. Or, pour être de bons enseignants à l’université, il faut être à la pointe de ce qui se fait en recherche. Si on supprime cela, nous allons nous retrouver avec des enseignants-chercheurs qui ne seront plus que des enseignants, donc d’assez mauvaise qualité. On en arrive à l’impact sur les étudiants : avec la LPPR, il va y avoir une minorité d’enseignants-chercheurs qui auront des primes, qui pourront répondre à des projets financés ou qui vont avoir le temps de faire de la recherche et d’enseigner dans quelques pôles d’excellence. Les autres universités vont être des facultés où les cours et la recherche (si elle existe encore) vont être de seconde zone. A Paris 8, nous serons les premiers touchés car on accueille un public populaire.

      Le JSD : Plusieurs universitaires dénoncent aussi la logique « d’augmentation de la compétition » et d’inégalités qu’annonce ce projet de loi.

      HN : Avec la LPPR, il y aura en effet une petite minorité de chercheurs qui aura certainement le plus de financements. Ce seront les plus connus mais aussi ceux qui gravitent dans les réseaux de pouvoir ou dans les institutions les plus prestigieuses. Mais procéder ainsi, c’est cumuler les inégalités. Toute personne qui se trouve être extrêmement brillante sans être compétitive et qui n’accepte pas de marcher sur les autres pour mener son projet de recherche à bien va être écartée de la compétition. Ces inégalités sont valables pour les femmes. Elles pourront être compétitives si elles peuvent mettre l’ensemble de leur temps libre au service d’un projet de recherche. Or, les appels à projets demandent à travailler le soir et dans nos sociétés, ce sont les femmes qui gardent majoritairement les enfants. Le problème de la concentration des moyens, c’est qu’il est dans les mains de quelques-uns, pas quelques-unes. C’est souvent des hommes. Des hommes blancs, il faut le dire. Moins on a de procédures démocratiques, plus le pouvoir est concentré dans quelques mains et plus la capacité à exploiter les autres, à demander du travail gratuit, à faire du harcèlement moral et du harcèlement sexuel explosent. Et d’ailleurs, dans ce projet de loi, il n’y a aucun mot sur ce qui pourrait être fait pour endiguer ces phénomènes de harcèlement sexuels mais aussi ces problèmes de discriminations présents à l’université en général. On n’a aucun quota, rien qui est pensé. Aujourd’hui, on est quand même dans une société française qui a eu beaucoup de migrations. Or, il y a extrêmement peu d’enseignants-chercheurs qui ne soient pas blancs. Cela ne pose aucun problème à nos instances. Ce projet de loi ne questionne rien.

      Et puis, qui décidera des projets de recherche pouvant être financés ? Avec la LPPR, ce n’est pas un comité d’expert scientifique qui va juger de la qualité scientifique d’un projet. Ce seront des membres nommés par le gouvernement, des gens de grandes entreprises. Et bien sûr, tous les projets qui contestent la politique sociale, économique ou même écologique du gouvernement vont être en difficulté pour trouver des financements. On est vraiment dans cette idée de mettre la recherche au service du privé, au service d’un projet politique.

      Le JSD : Pour les enseignants chercheurs, la lutte contre la réforme des retraites suscite aussi pas mal d’inquiétudes… LPPR et réforme de retraites sont-elles des revendications indépendantes ?

      HN : A Paris 8, on doit être une trentaine à être en grève reconductible depuis le 5 décembre. On ne lutte pas seulement contre la LPPR mais aussi contre la réforme des retraites. Par ailleurs, à l’université, il existe deux types de personnels : les enseignants-chercheurs et les BIATOS, tous ces gens qui font tourner l’université et qui représentent en gros un peu moins de la moitié des employés. Si la réforme des retraites passe telle qu’elle est prévue, enseignants-chercheurs et BIATOS auront moins 30% sur leur pension. Chez les enseignants-chercheurs, la moyenne d’âge de recrutement est de 35 ans. Si le calcul de la retraite se fait sur l’ensemble de la carrière, il est évident que ce sera en notre défaveur. On a passé une grande partie de notre carrière à faire des études et à avoir des contrats précaires avant de trouver un emploi sérieux. On entend des gens dire « Oui, mais vous, vous allez pouvoir travailler jusqu’à 65, 70 ans. Mais à l’université, on a des maladies du travail extrêmement importantes comme le burn out qui se développent depuis dix ans. Cela est dû à toute ces injonctions contradictoires et le fait que régulièrement on nous demande de faire un temps de travail qui ne rentre pas dans la semaine.

      Le JSD : Aujourd’hui, quelles sont vos revendications et attentes pour la recherche ?

      HN : La première revendication de la coordination nationale des facs et labos en lutte, c’est un recrutement massif et pérenne de tous les précaires qui sont chez nous. Pas seulement les enseignements-chercheurs mais aussi le personnel administratif. Il y a un manque de personnel qui est frappant. Il faut absolument recruter et ce dans des conditions de travail dignes. La deuxième chose, c’est l’instauration de financements structurels. La plupart des facs comme Paris 8 ou la Sorbonne manquent de moyens : les fenêtres s’écroulent, régulièrement on n’a pas de lumière, pas internet. Il faudrait aussi construire 2 ou 3 universités en plus pour pouvoir accueillir un public étudiant qui a augmenté de façon exponentielle.
      Pour les laboratoires de recherches, nous avons également besoin de financements sur le long terme. Aujourd’hui, on passe un tiers de notre temps de travail à chercher des financements que une fois sur quatre, on n’obtient pas. C’est ridicule ! On a fait plus de dix ans d’études, on a des compétences extrêmement élevées dans nos domaines sauf que notre temps de travail scientifique est extrêmement réduit en raison de cette quête aux financements pour nos projets. La coordination des facs et labos en lutte est pour une université financée, ouverte, gratuite pour tout le monde. C’est-à-dire qu’il faut supprimer les frais d’inscriptions « exceptionnelle » pour les étudiants extra-communautaires car c’est anticonstitutionnel. L’éducation en France doit être gratuite et accessible à toutes et tous. Dans ce pays, on peut faire une recherche autonome et contradictoire. Si nos financements sont soumis aux pouvoirs politiques ou aux entreprises, c’est catastrophique non seulement en terme démocratique mais aussi scientifique. Si on n’a plus la liberté d’inventer, on ne fait plus de recherche fondamentale.

      Propos recueillis par Yslande Bossé

      https://lejsd.com/content/%C2%AB-la-moiti%C3%A9-des-enseignants-chercheurs-ont-des-contrats-pr%C3%A9cai

    • Un projet de loi contre l’avis de la recherche

      Multiplication des appels à projet, généralisation des CDD d’usage… les pistes de réforme envisagées par l’exécutif inquiètent la communauté scientifique. Les chercheurs déplorent l’absence d’engagement sur des postes pérennes.

      C’est le point névralgique du conflit social entre les enseignants-chercheurs et le gouvernement. Attendu début février, reporté fin mars voire début avril, le projet de loi de programmation pluriannuelle pour la recherche (dit LPPR) est devenu l’horizon indépassable des craintes du milieu universitaire français. Pourtant, « le texte de loi est toujours en cours d’élaboration », affirmait-on mercredi au ministère de l’Enseignement supérieur et de la Recherche à Libération.

      Le projet de loi avait été annoncé dès février 2019 par le Premier ministre, Edouard Philippe, avec comme objectif de « redonner à la recherche de la visibilité, de la liberté et des moyens ». Mais l’attente autour du texte, dont l’entrée en vigueur est prévue en 2021, nourrit les inquiétudes du milieu. D’autant que, depuis la publication de trois rapports préparatoires en septembre jusqu’aux récentes prises de paroles du gouvernement, des premières orientations ont filtré.

      Le 25 février, à l’occasion des journées des sciences humaines et sociales (SHS), la ministre de l’Enseignement supérieur et de la Recherche, Frédérique Vidal, a déclaré que l’objectif de porter le budget de la recherche à 3 % du PIB, contre environ 2,2 % aujourd’hui, était « incantatoire ». Ce qui a jeté le doute au sein de la communauté scientifique sur les réelles ambitions budgétaires. « Atteindre les 3 % reste un objectif du gouvernement », a cependant voulu rassurer le cabinet de la ministre auprès de Libération. Il faut dire que cette promesse, vieille de vingt ans, est la seule à mettre tout le monde d’accord, tant il est urgent de répondre au sous-financement chronique du secteur.
      Complexité administrative

      La ministre en a profité pour réaffirmer sa volonté de généraliser le financement du secteur par l’appel à projets, ce qui pourrait accroître les investissements par l’intermédiaire de fonds privés. « Cette logique valorise les effets d’annonce, explique la sociologue au CNRS Isabelle Clair. Elle contraint les chercheurs à orienter leurs projets en fonction des priorités définies par les organismes de financement. Au final, la recherche s’uniformise et s’appauvrit. Ce qu’on demande, ce sont des financements publics, inconditionnels et récurrents. » La mesure est aussi décriée car source de complexité administrative supplémentaire pour des chercheurs noyés sous la bureaucratie. Ce que conteste le cabinet de la ministre, qui précise que « l’un des buts de cette loi est de dégager du temps en plus pour que les scientifiques se consacrent pleinement à leurs objets de recherche ».

      Une autre crainte porte sur une innovation attendue : le recrutement par des contrats courts mais mieux rémunérés, une pratique partiellement en vigueur. D’une durée de cinq ou six ans, ces CDD d’usage appelés tenure tracks aux Etats-Unis, dont la rupture est motivée par le seul achèvement du projet en question, sont proposés à des post-doctorants en quête du graal, un emploi titulaire. « On accroît la période de précarité des jeunes chercheurs qui devront subir des évaluations tout au long du contrat sans avoir la certitude d’obtenir un poste, regrette Isabelle Clair. En dérégulant le système de recrutement, le processus de titularisation s’opacifie. C’est le statut de fonctionnaire qu’on attaque. »

      La création de postes pérennes reste le nerf de la guerre, alors que le nombre d’étudiants est en constante augmentation dans les facs. Premier mouvement social d’ampleur depuis la loi sur les libertés et les responsabilités des universités de 2007, la mobilisation intervient après des années de baisses d’effectifs des enseignants-chercheurs et des personnels techniques et administratifs, que ce soit à l’université ou dans les organismes de recherche comme le CNRS. « Les emplois, ce n’est pas mon travail », a balayé la ministre lors des journées des SHS.
      Recherche « à deux vitesses »

      Plus globalement, le milieu scientifique s’alarme de la philosophie du projet de loi qui érige la « performance » et la compétition en principes ultimes d’efficacité. La publication en novembre dans les Echos d’une tribune par le PDG du CNRS, Antoine Petit, appelant à « une loi ambitieuse, inégalitaire » et « darwinienne » n’en finit plus de mettre le feu aux poudres. Lors des 80 ans du CNRS, Emmanuel Macron enfonçait le clou en plaidant pour une évaluation qui différencie les « mauvais » chercheurs des meilleurs. Or, derrière l’accent mis sur la sélection, le milieu redoute une concentration des crédits vers les pôles dits d’« excellence », faisant courir le risque d’une recherche « à deux vitesses ». Aux chercheurs et laboratoires jugés les plus prometteurs et rentables, les gros budgets ; aux autres, les contrats courts et la précarité longue durée.

      Sur la forme, les chercheurs critiquent une conduite « blessante » de la réforme. Le ministère a confirmé à Libé qu’il s’agirait d’un « texte court, ne comportant qu’une vingtaine d’articles ». Ce qui laisse supposer que les transformations seraient faites, pour l’essentiel, par circulaires et décrets, sans concertation publique. « Le procédé est méprisant et antidémocratique, juge Isabelle Clair. La confusion entretenue autour du contenu du texte renforce notre colère. On en vient à se demander si c’est une stratégie de la part du gouvernement ou tout simplement de l’incompétence. »

      https://www.liberation.fr/france/2020/03/04/un-projet-de-loi-contre-l-avis-de-la-recherche_1780608

      Mise en avant ce ce passage :
      –-> "Le ministère a confirmé à Libé qu’il s’agirait d’un « texte court, ne comportant qu’une vingtaine d’articles ». Ce qui laisse supposer que les transformations seraient faites, pour l’essentiel, par #circulaires et #décrets, sans #concertation_publique."

    • Point sur la LPPR. Où en sommes-nous ? Que prévoient les rapports ? Dans quelle histoire de l’ESR s’inscrit cette loi ? - #Elie_Haddad, historien (CNRS), membre de SLU, 3 mars 2020

      Ce texte a fait l’objet d’une présentation publique lors d’une demi-journée banalisée à l’université de Paris Sorbonne Nouvelle le 3 mars après-midi.

      Faire le point sur la LPPR aujourd’hui, c’est prendre la mesure des évolutions depuis deux mois, ce qui nous place dans le temps très court de l’action politique et de la mobilisation. C’est en même temps resituer les enjeux de cette réforme dans un temps un peu plus long (une vingtaine d’années) de transformations de l’ESR. Retrouver la logique générale de ces transformations permet de ne pas tomber dans les pièges de la communication gouvernementale ni dans ceux des accrocs de la mise en place pratique des réformes successives, qui peuvent parfois laisser penser que celles-ci ne sont qu’improvisation et court-termisme. C’est, enfin, essayer de dégager les rapports de force au sein du pouvoir pour envisager ce qui va probablement se passer dans les prochains temps.
      Nous disposons désormais d’un peu plus d’éléments qu’il y a deux mois pour analyser la séquence dans laquelle nous nous trouvons. Outre les trois rapports préparatoires à la LPPR remis à la ministre Frédérique Vidal en septembre dernier, plusieurs déclarations faites par celles-ci sont révélatrices des enjeux actuels de la réforme. Des éléments du projet de loi dans son état de janvier ont fuité courant février. De même ont fuité certains éléments d’un rapport de l’IGF concernant l’ESR, tandis que des collègues ont à juste titre insisté surle Pacte productif lancé par Bruno Le Maire, ministre de l’Economie et des Finances, qui a son propre agenda pour la recherche publique en France. Enfin, plusieurs décrets ont été promulgués qui touchent directement l’ESR.
      Mise en perspective rapide de la LPPR dans l’histoire récente de l’ESR

      Pour comprendre la LPPR, il faut repartir du rapport « Education et croissance » rédigé en 2004 par Philippe Aghion et Elie Cohen pour le Conseil d’Analyse Economique, rapport qui a été très bien analysé par le Groupe Jean-Pierre Vernant [1]]. Proposant une « stratégie des petits pas » visant explicitement à contourner les oppositions de la communauté universitaire à un changement radical de modèle qui mettrait l’université et la recherche au service de l’économie, oppositions qui s’étaient manifestées à plusieurs reprises et notamment lors des Etats Généraux de la recherche qui venaient d’avoir lieu, ce rapport expliquait comment parvenir à introduire les logiques du marché, de la concurrence et de la privatisation dans l’ESR sans jamais le dire clairement et en amenant les acteurs à y participer eux-mêmes. Ce rapport a constitué la feuille de route de tous les gouvernements depuis, dont ils n’ont pas dévié, quoi qu’ils aient dû faire face à nombre d’oppositions qui ont amené à transiger sur certains points, retarder certaines dispositions, compliquer les dispositifs existants pour parvenir à leurs fins.
      Ce rapport prévoyait quatre volets visant à la dérégulation et à la mise en concurrence au sein de l’ESR.
      – L’autonomie administrative des universités. La loi LRU de 2007 en a été la déclinaison renforcée par le régime des compétences élargies, qu’elle prévoyait, mises en place progressivement dans les établissements à partir de 2009. L’autonomie de gestion et le transfert de la masse salariale aux universités ont placés celles-ci dans la situation de gérer la pénurie due aux coupes dans les budgets alloués par l’Etat, lequel par ailleurs a mis en place des dispositifs d’allocations de ressources fondés sur la concurrence (Labex, Idex, Equipex…). Les structures se sont ainsi retrouvées mises en concurrence les unes avec les autres et ont en outre été amenées à conduire un vaste plan social qui ne disait pas son nom, avec tout le développement de la précarité, particulièrement dans les personnels administratifs et techniques, que nous connaissons.
      – L’autonomie pédagogique, qui consiste 1/ à mettre les universités en concurrence cette fois pour attirer les étudiants, ces derniers étant eux-mêmes en concurrence pour l’obtention des places dans les universités les mieux cotées, et 2/ à déréguler les diplômes en cassant le référentiel national qui sous-tendait toute l’architecture de ceux-ci auparavant. La loi ORE dite Parcoursup entrée en vigueur il y a deux ans, qui permet aux universités de sélectionner leurs étudiants, est un des aspects de ce dispositif, dont l’amorce avait été la multiplication des diplômes « d’excellence » au sein de certaines universités.
      – L’autonomie de recrutement, d’évaluation et de gestion des personnels, avec pour objectif de déréguler en grande partie les statuts, notamment celui des enseignants-chercheurs et des chercheurs, de développer la contractualisation comme mode de recrutement au détriment des postes de fonctionnaires, avec pour conséquence la liquidation des libertés académiques et de toute forme de collégialité. Des dispositifs comme la modulation de service ou l’AERES devenue HCERES avaient pour but d’amorcer ce processus mais ils ont été en partie contrés en raison des oppositions fortes en 2009-2012. La modulation de service a été assortie d’une clause obligatoire de consentement de l’intéressé et l’AERES a été privée de ses pouvoirs de sanction. C’est précisément cette « autonomie » qui est au cœur de la LPPR.
      – Le dernier volet du rapport Aghion/Cohen concerne l’autonomie financière. Plusieurs éléments sont déjà en place, les rapports préparatoires à la LPPR préconisant d’ailleurs de les renforcer. Mais l’objectif principal, le noyau dur, concerne la dérégulation des frais d’inscription, en partie en place par la multiplication des diplômes d’université. L’augmentation des frais d’inscription pour les étudiants hors UE instaurée l’année dernière est une autre étape. Il n’y a aucun doute que ce sera le dernier chantier auxquels s’attaqueront les gouvernants (dans les cinq ans à venir ?).
      La LPPR : inégalité, management et autoritarisme

      La ministre l’a dit et redit, les trois rapports qui lui ont été remis ne sont pas la loi qui sera promulguée. Certes. Mais les conceptions générales sur lesquelles ils se fondent se retrouvent dans les propos tenus par Frédérique Vidal à différentes reprises et plusieurs dispositions prévues n’ont pas besoin d’une loi spécifique pour entrer en application [2].
      – C’est le cas des CDI de chantier dont la déclinaison sous forme de contrats de projet existe désormais dans la fonction publique grâce au décret du 27 février qui met en application un article de la loi PACTE d’août 2019. C’était une disposition demandée dans les rapports.
      – Par la Loi pour un État au service d’une société de confiance votée en août 2018, complétée par une ordonnance de décembre de la même année, les établissements du supérieur peuvent se regrouper en établissements expérimentaux, ce qui les autorise à déroger à la règle de la majorité du CA et, de façon dérogatoire, à exercer des prestations de service, à prendre des participations, à créer des services d’activités industrielles et commerciales, à participer à des groupements et à créer des filiales. Autrement dit, à intégrer des entreprises privées. Il y a un transfert de compétences entre les composantes du regroupement d’universités ou d’entités partie prenantes de l’Etablissement expérimental, lesquelles composantes doivent soumettre aux « instances collégiales » de cet établissement « tout ou partie des recrutements ». Ces établissements définissent eux-mêmes les modalités de désignation de leur dirigeant. Autrement dit, les dispositions permettent à ces établissements de contourner par des statuts ad hoc une bonne partie des règles publiques de leurs composantes en se rapprochant des règles d’une entreprise privée.
      – La suppression du plafond de 50% des emplois contractuels dans les établissements publics, elle aussi prévue par la loi PACTE, est entrée en application par un décret du 1er janvier 2020.
      – Le même jour, le décret d’application de l’article instaurant la rupture conventionnelle dans la fonction publique était également promulgué.
      – L’arrêté du 27 janvier 2020 relatif au cahier des charges des grades universitaires de licence et de master prévoit que « Les grades universitaires peuvent également être accordés à des diplômes d’établissements privés ». Autre mesure dont le terrain a déjà été préparé par la multiplication des stages dits professionnalisant, « Pour répondre aux exigences du marché du travail en matière d’insertion mais aussi, le cas échéant, aux besoins émergents de nouvelles filières et de nouveaux métiers, la présence de représentants du monde socio-économique au sein de l’équipe pédagogique comme l’existence de relations formalisées avec le monde professionnel concerné par la formation sont nécessaires. La mise en œuvre d’une approche par compétences, la qualité des partenariats avec le monde professionnel, la présence de modules de professionnalisation et de périodes d’expérience en milieu professionnel, ainsi que la production de projets de fiches RNCP de qualité et la construction de blocs de compétences seront prises en compte, tout particulièrement pour les formations visant spécifiquement à garantir une insertion professionnelle. »
      – Enfin les possibilités de chaires d’excellence existent déjà depuis 2009, même s’il est vrai qu’elles n’ont pas la souplesse des tenure-tracks réclamées par les rapports.

      Tous les instruments sont donc en place pour un contournement massif des statuts, une contractualisation poussée de l’emploi et un renforcement de la présence des intérêts privés au sein de l’ESR. Lors de la journée SHS de l’ANR, Frédérique Vidal a clairement affirmé que la loi à venir devrait faire sauter un certain nombre de verrous législatifs et que ce serait aux universités de décider de leur politique d’emploi. Le ministère s’en lave les mains.
      Les autres mesures annoncées consistent à accorder d’avantage d’argent à l’ANR, les projets étant l’outil pour mieux doter les laboratoires par l’intermédiaire du préciput qu’ils prélèveront sur les contrats qu’ils obtiendront. Renforcement du financement inégalitaire fondé sur la compétition pour l’obtention des crédits, donc. Enfin, Frédérique Vidal a réintroduit, sous une forme euphémisée, la modulation des services. Sans officiellement mettre en question la règle des 192h équivalent TD de cours pour les enseignant·es-chercheur·ses titulaires, elle a annoncé vouloir multiplier les opportunités de réduction du service d’enseignement des plus « productif·ves ».
      La loi telle qu’elle a fuité va un peu plus loin que ces déclarations. Les tenure-tracks y apparaissent bien, de même qu’un ensemble de dispositifs visant à simplifier les cumuls d’activité et l’introduction d’éléments du privé dans les établissements publics, de même que la ratification de l’ordonnance sur les établissements expérimentaux, l’élargissement des mobilités public-privé, l’orientation des thèmes de recherches par l’ANR.
      Ces dispositifs sont néanmoins un peu en retrait par rapport à ceux prévus dans les rapports (un effet de la mobilisation ?). On ne sait pas ce qu’il en sera de la verticalité prévue dans la décision en matière de politique de recherche scientifique. Mais l’ANR est amenée à jouer un rôle crucial en la matière, en lien direct avec une recherche à visée industrielle.
      Rien n’est dit non plus du HCERES alors qu’il s’agit du cœur du système voulu dans les rapports et que l’on sait toute l’importance qu’accorde Thierry Coulhon, pressenti à la présidence du HCERES, à l’instauration d’une évaluation managériale déterminant l’allocation des ressources à tous les niveaux de l’ESR. Le HCERES deviendrait ainsi la clé de voûte de l’ensemble de l’architecture de l’ESR, l’organe central qui jouerait le rôle de bras exécutant des décisions en matière de politique de recherche et d’enseignement supérieur qui se décideraient dans l’entourage du Premier Ministre. Moyennant quoi le Comité national de la recherche scientifique et le Comité national des universités, dernières instances collégiales réelles dans l’ESR, seraient supprimées ou vidées de leur substance.
      Je ne pense pas que le gouvernement ait l’intention de revenir là-dessus, mais il peut se passer d’intégrer ces éléments dans la loi et les faire passer, comme l’a expressément dit la ministre, par décrets et circulaires.
      De la « loi budgétaire » à la « loi des personnes »

      Pour déminer les oppositions, la ministre a d’abord affirmé que la LPPR ne serait pas une loi structurelle mais une loi de moyens, puis qu’elle ne serait pas une loi structurelle mais une loi de personnes. Ce changement de discours révèle crûment son échec : les derniers arbitrages budgétaires du quinquennat ont été faits contre elle. On peut en être certain puisque, lors des journées SHS de l’ANR, elle déclaré qu’il fallait renoncer à l’objectif, qualifié d’« incantatoire », de 3% du PIB pour la recherche, au profit d’une démarche de « refinancement », de « sécurisation de l’investissement » et de contractualisation. Cet objectif était pourtant affirmé comme essentiel par les trois rapports préparatoires et clamé partout dans l’entourage du ministère.
      Les couches dirigeantes partagent toutes les mêmes objectifs décrits plus haut ainsi que les normes devenues la doxa dans les « élites » concernant la bonne gestion (managériale, comme il se doit). Parmi les fers de lance de la réforme, on trouve la Coordination des Universités de Recherche Intensive Françaises (CURIF), association de présidents et d’anciens présidents d’université, qui représente au sein de la CPU les universités qui se pensent comme le haut du panier et croient avoir tout à gagner à ces réformes. Mais la CURIF comme les technocrates de l’ESR qui ont rédigé les rapports préparatoires avaient un combat : en échange de tant de bonne volonté en matière de réforme, il s’agissait de leur rendre la monnaie de la pièce en espèces sonnantes et trébuchantes.
      Las, à la fin, c’est Bercy qui gagne. Un autre rapport, passé inaperçu pour la bonne raison qu’il n’a pas été rendu public, rédigé principalement par l’IGF à l’automne dernier, pouvait mettre la puce à l’oreille. Bercy a sa propre idée sur l’ESR. Selon ses inspecteurs, les universités ne sont pas mal dotées mais mal gérées. La bonne gestion consiste à accroître leurs revenus propres et la contractualisation de leur masse salariale : « Le recours aux contractuels peut permettre une meilleure adaptation des effectifs aux besoins. Les personnels recrutés peuvent en effet être permanents ou temporaires, être enseignants – chercheurs, chercheurs ou enseignants ; ou bien cadres administratifs ou techniques. En outre, les universités ont une plus grande maitrise de leurs situations salariales et de carrière que pour les titulaires dans la mesure où c’est le conseil d’administration qui statue sur les dispositions qui leur sont applicables. Dès lors que la plupart des besoins peuvent être indifféremment couverts par des contractuels ou des titulaires, compte tenu de la similitude de leurs profils, l’augmentation de la proportion d’emplois contractuels dans les effectifs d’une université a pour conséquence de lui donner davantage de leviers pour piloter ses ressources humaines, sa masse salariale et son GVT. » Plus encore, pour inciter les universités à mieux se comporter (selon ses normes), Bercy demande à ce que le GVT ne leur soit plus versé, à accroître le temps d’enseignement des enseignants-chercheurs et à coupler évaluation et allocation de ressources pour distinguer les bons et les mauvais élèves. Nous y revoilà.
      En outre, par le Pacte productif, Bruno Le Maire et les hauts fonctionnaires du ministère de l’Économie et des Finances se chargent eux-mêmes du volet « innovation » de la recherche. Le Maire l’a dit expressément : « la loi de programmation de la recherche devrait être l’occasion de réfléchir à une augmentation des moyens consacrés à des programmes de recherche publique en contrepartie de leur orientation vers un développement industriel précis. »
      Il peut être confiant : son ministère a toujours été suivi par le chef de l’État et le premier ministre lorsqu’il s’agissait de trancher sur la politique à mener.

      Je voudrais finir sur une note positive. Il y a un point faible dans le système qui doit être mis en place. Il nécessite notre coopération. C’est particulièrement vrai pour le HCERES. Se retirer de toute coopération avec cette instance est une nécessité vitale tant que ne seront pas clarifiées les implications des évaluations à venir. C’est aussi vrai pour toutes les instances administratives. L’université et la recherche ne tiennent que parce que nous acceptons un investissement énorme et chronophage dans ces multiples tâches administratives que parfois nous réprouvons. Nous avons donc la possibilité de paralyser la machine à nous broyer qui est en marche.

      http://www.sauvonsluniversite.fr/spip.php?article7407

    • Quelques réponses aux questions fréquemment posées sur la loi pluriannuelle pour la recherche (LPPR)

      Nous avons reçu un courrier abondant après la publication de notre billet de désenfumage, nous posant des questions à propos du projet de loi pluriannuelle pour la recherche (LPPR), de ses initiateurs, de son calendrier ou encore des sommes en jeu. Dans ce complément au billet, nous répondons à ces questions à partir des informations dont nous disposons.

      I Quel est le calendrier prévisionnel de la LPPR ?

      Le calendrier parlementaire ne permet pas l’examen de la LPPR avant l’automne. La date avancée par la ministre, Frédérique Vidal, pour rendre public le projet de loi (fin mars-début avril) correspond à la date du probable du remaniement ministériel.

      Un examen de la loi par le Parlement à l’automne pose cependant un problème de communication à l’exécutif, puisqu’il coïnciderait avec la phase préparatoire du budget 2021, faisant apparaître explicitement l’absence de création de postes et d’augmentation du budget de l’Université et de la recherche publiques pour la troisième année du quinquennat. Rappelons qu’en 2019 et 2020, le nombre de postes pérennes mis au concours a fortement baissé et le budget n’a été augmenté que du montant de l’inflation, ne permettant pas la compensation du Glissement Vieillesse Technicité.

      II Qui soutient ce train de réformes de l’Université et de la recherche ?

      Alors que la communauté académique s’alarme du contenu des rapports préparatoires à la “grande loi darwinienne” pour la recherche et l’Université, les initiateurs et rapporteurs de la LPPR (Gilles Bloch, Jean Chambaz, Christine Clerici, Michel Deneken, Alain Fuchs, Philippe Mauguin, Antoine Petit, Cédric Villani et Manuel Tunon de Lara) ont fait paraître une pétition dans le Monde daté du 20 février 2020 :
      LA COMMUNAUTE SCIENTIFIQUE a lancé cette pétition adressée à Emmanuel Macron.

      Se sont associés à leur texte une centaine de chercheurs retraités qui ont tous bénéficié au cours de leur carrière des conditions (postes pérennes, liberté de recherche et moyens récurrents) dont les réformes à venir vont achever de priver les jeunes générations de chercheurs [1]. Les plus connus d’entre eux avaient déjà signé une tribune à la veille du premier tour de la présidentielle pour faire connaître leur attachement au mille-feuille d’institutions bureaucratiques créées depuis quinze ans (ANR, HCERES, etc).

      Est-ce dû à leurs convictions d’un autre temps les conduisant à prétendre parler au nom de “la communauté scientifique” — c’est le nom d’administration de la pétition — communauté à laquelle ils n’appartiennent de facto plus ? Leur pétition de soutien à la LPPR a rassemblé deux cents signatures en quatre jours.

      III Qui est à l’origine de ce train de réformes de l’Université et de la recherche ?

      La majorité des mesures de précarisation et de dérégulation qui accompagneront la loi de programmation budgétaire ont été conçues par la Coordination des Universités de Recherche Intensive Françaises (CURIF), association de présidents et d’anciens présidents d’universités qui travaillent depuis quinze ans à la suppression progressive des libertés académiques et à la dépossession des universitaires. La CURIF comprend dix-sept membres, dont huit, indiqués en gras, véritablement actifs : Philippe Augé, David Alis, Jean-Francois Balaudé, Yvon Berland, Jean-Christophe Camart, Jean Chambaz, Christine Clerici, Frédéric Dardel, Michel Deneken, Barthélémy Jobert, Frédéric Fleury, Alain Fuchs, Corinne Mascala, Sylvie Retailleau, Manuel Tunon De Lara, Fabrice Vallée, Frédérique Vidal, Jean-Pierre Vinel. La CURIF a déclaré son allégeance à la candidature de M. Macron lors d’une réunion avec Jean Pisani-Ferry, le 28 avril 2017. Le programme de la CURIF est simple : différencier les statuts et les financements des établissements, supprimer le CNRS, et accorder les pleins pouvoirs aux présidents d’université. Les apports de la CURIF au programme présidentiel de M. Macron figurent dans les deux documents suivants :
      http://groupejeanpierrevernant.info/CURIF_EM.pdf
      http://groupejeanpierrevernant.info/positions_CURIF_avril_2017.pdf
      La place des courtisans de la techno-bureaucratie universitaire dans la structure en cercles concentriques d’En Marche est discutée dans ce billet :
      http://www.groupejeanpierrevernant.info/#LuttePlaces3

      Amélie de Montchalin revendique avoir obtenu la LPPR grâce à sa proximité avec Édouard Philippe. Elle ambitionne de devenir ministre de l’enseignement supérieur, de la recherche et de l’innovation, et donc de porter elle-même cette loi devant le Parlement à l’issue du remaniement qui devrait suivre les élections municipales.

      S’il importe de nommer les managers à l’origine de la loi, il ne faut pas ignorer ce qu’elle doit aux normes de “bonnes pratiques” gestionnaires rappelées par l’Inspection Générale des Finances dans son rapport récent sur le pilotage et la maîtrise de la masse salariale des établissements :
      https://www.education.gouv.fr/cid149541/le-pilotage-et-la-maitrise-de-la-masse-salariale-des-universites.html

      IV Le “Pacte productif” de Bercy empiète-t-il sur le pilotage et le budget de la recherche ?

      Frédérique Vidal n’a emporté aucun arbitrage budgétaire depuis le début du quinquennat. Ni Bruno Le Maire ni les hauts fonctionnaires du ministère de l’Economie et des Finances n’ont été convaincus de la nécessité de financer l’Université et la recherche. Mieux, ils se chargent eux-mêmes du volet “innovation” du Pacte productif :
      https://www.economie.gouv.fr/pacte-productif

      Ce financement par l’impôt du secteur privé est pris sur la même enveloppe globale que le budget de la recherche publique. Il est hélas probable qu’un programme pour “l’innovation” serve davantage les intérêts politiques de M. Macron que le financement de la recherche et de l’Université publiques, pourtant vitales pour répondre aux trois crises, climatique, démocratique et économique, qui minent nos sociétés.

      Mais l’emprise de Bercy sur la politique de recherche ne s’arrête pas à la ponction de nos cotisations retraites pour financer des programmes d’“innovation” et la niche fiscale du Crédit d’Impôt Recherche (CIR) plutôt que de financer la recherche. Comme l’a précisé Bruno Le Maire, “la loi de programmation de la recherche devrait être l’occasion de réfléchir à une augmentation des moyens consacrés à des programmes de recherche publique en contrepartie de leur orientation vers un développement industriel précis.” [2] Tout est dit.

      La LPPR est le volet de la réforme de la recherche porté par la CURIF, organisant la dérégulation des statuts et le contournement du recrutement par les pairs, en renforçant le pouvoir démesuré de la technostructure managériale des établissements. Le “pacte productif” apparaît comme le volet de cette même réforme portée par Bercy, instaurant des outils de pilotage qui lui permettent de contrôler cette même technostructure.

      V Quelles sont les sommes dégagées par l’article 18 de la loi retraite ?

      Le budget brut salarial pour l’Université et la recherche s’élève à 10,38 milliards € par an. La baisse de cotisation patronale de l’État de 74,3% à 16,9% sur 15 ans permettra à terme de redistribuer les 6 milliards € par an prélevés sur notre salaire socialisé. Pour la période 2021-2027 couverte par la LPPR, l’article 18 conduira en cumulé à 11 milliards € de prélèvement dans nos cotisations de retraite [3]. Il convient donc de comparer les annonces de “revalorisation” du salaire des jeunes chercheurs et d’augmentation du budget de l’ANR (120 millions € par an) à ces sommes.

      VI Que contient le projet de loi relatif à la programmation pluriannuelle de la recherche 2021-2027 ?

      La version stabilisée de la LPPR se compose de 20 articles.

      Titre Ier : Dispositions relatives aux orientations stratégiques de la recherche et à la programmation budgétaire.
      Art 1 : Approbation du rapport annexé.
      Art 2 : Programmation budgétaire 2021-2027, financements ANR, trajectoires de l’emploi scientifique.

      Titre II : Attirer les meilleurs scientifiques
      Art 3 : Chaires de professeur junior (tenure tracks)
      Art 4 : Fixer un cadre juridique spécifique pour le contrat doctoral. Développer les contrats post-doctoraux.
      Art 5 : Développer des CDI de mission scientifique.
      Art 6 : Faciliter avancements et promotions en cours de détachement ou de mise à disposition.

      Titre III : Piloter la recherche et encourager la performance
      Art 7 : Lier évaluation et allocation des moyens par une rénovation de la contractualisation.
      Art 8 : Unités de recherche.
      Art 9 : Orienter les thèmes de recherche par l’Agence Nationale de la Recherche.

      Titre IV : Diffuser la recherche dans l’économie et la société
      Art 10 : Elargissement des dispositions de la « loi Allègre ».
      Art 11 : Elargissement des mobilités public-privé par les dispositifs de cumul d’activités à temps partiel.
      Art 12 : Elargissement des mobilités public-privé par les dispositifs d’intéressement des personnels.
      Art 13 : Droit de courte citation des images.

      Titre V : Mesures de simplifications et autres mesures
      Art 14 : Mesures de simplification en matière d’organisation et de fonctionnement interne des établissements. Délégations de signature. Rapport sur l’égalité femmes-hommes. Suppression de la mention des composantes dans le contrat d’établissement. Limitation des élections partielles en cas de vacance tardive. Approbation des conventions de valorisation des EPST. Mesure de simplification du régime des dons et legs à l’Institut de France ou aux académies.
      Art 15 : Mesures de simplification en matière de cumul d’activités.
      Art 16 : Mesures de simplification en matière de formation. Prolongation de l’expérimentation bac pro BTS. Possibilité de stage dans les périodes de césure.
      Art 17 : Ratification de l’ordonnance sur les établissements expérimentaux
      Art 18 : Simplification du contentieux relatif au recrutement des enseignants-chercheurs et chercheurs.
      Art 19 : Habilitations à légiférer par ordonnance.
      Art 20 : Entrée en vigueur de la loi.

      Titre VI : Rapport annexé

      [1] La sociologie de ce groupe, composé à 93% d’hommes, sans chercheur en SHS, et la hiérarchie des statuts qu’ils affichent, témoignent du fait que le temps où ils ont été pleinement productifs (la moyenne d’âge est de 72 ans et demi) ne saurait être considéré comme un âge d’or de la recherche.

      [2] Le pacte productif. Discours de Bruno Le Maire, ministre de l’Économie et des Finances à Bercy, le mardi 15 octobre 2019.
      https://www.economie.gouv.fr/pacte-productif/discours-de-bruno-le-maire-ministre-de-leconomie-et-des-finances

      [3] Le calcul affiné, séparant primes et salaires, conduit à -4,98 milliards € au lieu de -6 milliards € et à -9,12 milliards € pour la période 2021-2027, et non -11 milliards €. Nous avons gardé le calcul approximatif pour permettre à chacun de vérifier le calcul.

      Message du Groupe Jean-Pierre Vernant reçu par email, le 23.02.2020

    • #Temps_de_travail dans l’ESR (2) : essai d’analyse pour un·e enseignant·e-chercheur·se

      Résumé

      Le temps de travail des enseignants-chercheurs, cadré par le décret de 1984, est en général sous-évalué et sous-estimé, faisant l’object de représentations erronées. La contribution cherche à objectiver le temps professionnel. Plusieurs contributions récentes ont mis en évidence le degré de fragmentation des tâches, la contrainte accrue des tâches gestionnaires, une multiplication des tâches invisibles et extrêmement chronophages, dans le contexte de la diversification des missions de l’université et à leur autonomie. La démarche est personnelle et comporte une dimension réflexive sur ma propre relation aux fonctions que j’exerce de professeur des universités dans un département de géographie.

      Il s’agit d’analyser les pratiques, notamment dans un cadre d’injonctions contradictoires, de contraintes, concurrences et complémentarités entre les tâches d’enseignement et de recherche. L’objectif de cette contribution est de livrer les résultats d’une analyse du temps de travail sur une année entière, à travers quelques méthodes statistiques simples destinées à mettre en forme un agenda électronique (Google) dont le contenu s’apparente à des textes et informations non structurées (fouille de données et analyse textuelle), Les résultats de l’analyse montre un temps de travail de 2321 h annuelles (soit 290 jours pleins), dont 42 jours le week-end, débordant largement sur la soirée et la nuit. L’activité est décomposée en fonction des principales tâches : l’enseignement, la recherche, l’encadrement doctoral, l’évaluation, et les tâches administratives, courriels et réunions.

      Contexte

      La profession d’enseignant-chercheur (E.C.) fait l’objet d’idées reçues et d’une image fortement dégradée tant dans son investissement professionnel que dans son rapport au temps de travail. Cette représentation du temps de travail est d’ailleurs souvent moquée, voire caricaturée, depuis les assauts méprisants d’un président de la République N. Sarkozy en 2009 (“je vous remercie d’être venu, il y a de la lumière, c’est chauffé”1 ).

      Depuis quelques semaines, le mouvement lié à la préparation de la LPRR a relancé le débat sur le temps de travail des enseignants-chercheurs, et de la légitimité de l’ajustement éventuel de celui-ci en dehors du cadre dit des “#192_heures” (la modulation de service). Celui-ci est cadré autour du seuil de 192h Eq. TD d’enseignement, organisé en théorie comme un équilibre entre le temps d’enseignement et le temps de recherche, fixé par le décret de 1984, modifié par l’arrêté de 2009, qui se base sur un ratio de 4,2h travaillées pour 192h d’enseignement (préparation, corrections, activités annexes de l’enseignement, mise en ligne, formation, lectures afférantes…), soit #1607_heures de travail effectif théorique :

      “Le temps de travail pris en compte pour déterminer des équivalences horaires est le temps de travail applicable dans la fonction publique d’Etat, soit 1 607 heures de travail effectif. Il est composé pour moitié d’une activité d’enseignement correspondant à 128 heures de cours magistral ou 192 heures de travaux dirigés ou pratiques et pour moitié d’une activité de recherche”2.

      Métiers, #fragmentation, #invisibilité du temps de travail

      Dans l’activité quoditienne, ces deux activités, recherche et enseignement, ne sont pas nécessairement en compétition l’une avec l’autre, l’enseignement faisant partie des moments de constrution de la pensée et de production de savoirs nouveaux (Bodin 2018). Ce référentiel sert de base à des compensations horaires (décharges) pour une série d’activité annexes et administratives : ce sont ces dernières qui mettent sous contraintes les missions premières des E.C.

      Dans une certaine mesure, on peut considérer comme impossible voire absurde de mesurer le temps de travail d’un E.C., en tout cas le temps d’enseignement et de recherche du fait de la nature intellectuelle du métier et du caractère non mesurable et non objectivable de sa production3. Mais nos établissements surveillent très précisémment chaque heure de TD faite, seul référentiel objectivable en l’état, alors que personne ne maîtrise ce temps de travail, dépendant de nombreux interlocteurs, institutions, injonctions, sans aucune vision générale de la charge de travail. Au prix de remarques lorsque l’on demande à rectifier une erreur de quelques heures dans notre service d’enseignement, comme s’il était incongru ou illégitime de prêter attention à son temps de travail effectif. En balance, la vocation d’une part (“vous êtes privilégiés de faire ce métier”) ; l’obligation faite aux employeurs d’autre part que la charge de travail d’un salarié demeure dans les limites de l’acceptable.

      Depuis 2009 et le mouvement social massif de notre profession contre la réforme des statuts dans le cadre de la loi LRU (loi sur l’autonomie des universités de 2007), contre la réforme de la formation des enseignants, et contre le démantèlement de la recherche publique, le diagnostic est connu : temps professionnel trop contraint par les tâches gestionnaires, une tendance à la parcellisation et la fragmentation des tâches, une multiplication des tâches invisibles et extrêmement chronophages. Cette évolution a partie liée avec la diversification des missions de l’université et à leur autonomie, se traduisant par des pressions temporelles, un éclatement des fonctions, et une évolution des métiers des enseignants-chercheurs dans un cadre institutionnel de plus en plus complexe. Le rapport entre temps officiel et disponibilité (Lanciano-Morandat 2013) est très variable selon les institutions, les stades et stratégies de carrière, l’engagement professionnel, mais globalement, comme l’indiquent Gastaldi (2017), les principaux facteurs de pression trouvent leur origine dans les dispositifs d’évaluation constants (publications, HCERES, ANR, suivi de carrière, promotions, etc…) ; la mise sous tension des moyens dans la systématisation des financements sur projets et pour certains leur individualisation (Labex, ANR, ERC, IUF…) ; la managérialisation de l’ESR, avec une forte bureaucratisation (budgets, équipes, “reporting”, contrôle par les outils informations tels qu’Apogée) (Gastaldi 2017). Une enquête de Bodin (2018) mettait en évidence que les fonctions d’enseignement, de recherche et les charges administratives sont à la fois complémentaires et en concurrence, sans qu’aucune ne puisse être qualifiée de marginale dans l’activité. Selon cette enquête, les E.C. exercent trois métiers : 55% des EC enquêtés consacrent 2 jours et plus à l’enseignement, 38% à la recherche, 43% à l’administration. Un temps qui déborde très largement sur le soir et le week-end : 79% des EC travaillent après 22h, 97% le week-end et les jours de congés (Bodin 2018). Dans le cadre de la LPPR (loi de programmation pluri-annuelle de la recherche), une partie du débat s’oriente sur le temps de recherche. Ce diagnostic est clairement établi par la Concertation individuelle sur la loi de programmation pluriannuelle pour la recherche conduite par un collectif de 23 sociétés savantes (France 2019), qui précise notamment la priorité d’une action globale destinée à restaurer du temps de recherche :

      Redonner du temps de recherche aux chercheurs et enseignant.e.s-chercheurs.

      Abaisser le service annuel d’enseignement statutaire des EC de 192h à 150h équivalent Travaux Dirigés, le service actuel étant très largement supérieur aux pratiques internationales. Alléger les services d’enseignement des EC nouvellement recrutés (au-delà des 32 heures de décharge actuelles) et recruter un nombre plus élevé de chercheurs et EC permanent.e.s pour assurer aux étudiants un taux d’encadrement supérieur tout en limitant le recours excessif aux vacataires.
      Augmenter le nombre de congés sabbatiques réguliers, comme cela se pratique dans les autres pays, et les possibilités de délégation temporaire des EC vers les grands organismes.
      Limiter le gaspillage de ressources et le temps de recherche perdu à écrire des projets finalement non financés en renforçant conjointement le financement sur dotation des laboratoires et le taux de succès des appels à projets.
      Renforcer le soutien technique et administratif aux chercheurs par recrutement d’ITAs/BIATSS4

      Pour autant, cette dimension du temps de travail est peu présente dans le débat qui se structure autour de la LPPR. Ainsi, le volet emploi et carrières du rapport préliminaire à la LPPR (Berta 2019) focalise le diagnostic sur les questions de la rémunération, de l’érosion de l’emploi scientifique pérenne et les incidences sur la précarisation des statuts, et des conditions défavorables d’entrée dans la carrière. La faiblesse en terme de gestion des ressources humaines semble être pointée, les recommandations visant à faciliter la mobilité et renforcer l’évaluation. Sur le rapport à l’organisation du temps de travail, les recommandations y font implicitement référence, en particulier sur les questions de rémunération, la revalorisation étant envisagée via des régimes indemnitaires “tenant compte notamment de leur engagement dans leurs différentes missions”. En filigrane donc, les travaux en vue de la LPRR recommandent de mettre la pression sur deux secteurs qui actuellement contribuent très largement à la fragmentation des tâches et des missions : l’évaluation et la “course aux primes”, tels que cela s’opère par exemple dans le cadre de la PEDR. Dans ce contexte, le silence demeure assourdissant sur l’ensemble des tâches administratives et quotidiennes complètement invisibilisées (Lecuppre-Desjardin 2020).
      Comment construire une position réflexive ?

      L’objectif de cette contribution est de livrer les résultats d’une analyse du temps de travail sur une année entière, à travers quelques méthodes statistiques simples destinées à mettre en forme un agenda dont le contenu s’apparente à des textes et informations non structurées (fouille de données et analyse textuelle), en suivant deux motivations principales.

      D’une part, il s’agit de documenter. Lors du dernier mandat passé au CNU, Conseil National des Universités5, l’augmentation de la charge d’évaluation des dossiers individuels, en particulier pour les promotions, PEDR et suivi de carrière, donnait très largement à voir des dossiers de collègues dont les situations d’implication, de dévouement, mais aussi de sur-travail chronique voire de surmenage étaient évidentes. De ces travaux d’évaluation individuelle des carrières, je retiens la multiplicité, la fragmentation des tâches, mais aussi l’invisibilisation d’une partie du travail administratif ou d’évaluation (non ou peu reconnu), quand ce n’est pas évidemment la course après les injonctions contradictoires d’excellence, d’augmentation des effectifs, et la lutte quotidienne contre des moyens humains pérennes en contraction, dans tous les départements de géographie. Les parcours sont d’une grande diversité, très contingents aux ancrages locaux pour certains, aux dimensions internationales pour d’autres, subissent des évolutions de carrières très inégales selon les statuts, les conditions d’entrée dans la carrière, et évidemment le genre. Dans ce cadre, l’exercice est frappant du nombre de collègues qui cherchent soutien et attention auprès du CNU, témoignant de leur situation. Ainsi, confronté à des dossiers d’évaluation où l’on est invité à présenter ses réussites, où l’on devine aussi les échecs et les situations de détresse, je souhaite présenter une situation de rapport au travail qui me paraît sinon insatisfaisante, assurément dangereuse à terme.

      D’autre part, il s’agit d’analyser les pratiques, notamment dans un cadre d’injonctions contradictoires, de contraintes, concurrences et complémentarités entre les tâches d’enseignement et de recherche (Gastaldi 2017 ; Bodin 2018 ; Le Blanc 2019). Alors que je me portais candidat pour moi-même bénéficier du privilège d’une décharge dans le cadre d’un dispositif individuel, l’IUF, il m’a semblé nécessaire d’objectiver cette situation relative au temps de travail. D’une part pour tenir bon dans les débats sur la nature des tâches que nous avons à exécuter, sur la bureaucratisation de l’université soumise aux normes du new public management, sur les effets de la multiplications des structures au sein desquelles nous évoluons (UFR, UMR, Ecole doctorale, Labex, IDEX…). D’autre part, j’ai fait cet exercice pour ma propre information, après avoir subi, déjà, deux situations dites de burn out, dont une suivie d’une hospitalisation. Ce point me paraît important, car l’exercice auquel je me suis attelé visait, avant tout, à m’aider à définir les seuils, les priorités, et ce à quoi il faudrait renoncer dans une tentative d’un retour progressif à une situation tenable. Je fais cet exercice, totalement idiosyncratique, et donc très contingent, non seulement à des fins de discussion, mais comme un point réflexif sur mes propres pratiques d’implication dans le métier. L’absence de référent sur ce point dans mon établissement, du désintérêt des services RH sur ces questions, sans même parler de médecine du travail, inexistante (je ne l’ai jamais rencontrée depuis mon recrutement en 2004), sont des facteurs aggravants : tous ces éléments ont contribué à ma motivation pour l’expérience que j’ai tenté de mener à bien de mesure de mon temps de travail.
      Données et méthodologie

      La méthode adoptée vise à dresser un bilan, sur une année, du 1/11/2018 jusqu’au 31/10/2019 : j’ai noté dans mon agenda Google tout ce que je faisais : cours, écriture d’article, conférence, tâches administratives, courriels, jurys, évaluations, précisant au maximum avec des mots clés, tatonnant aussi un peu dans l’exercice de description, tentant d’être le plus rigoureux chaque jour dans les horaires, et les contenus des tâches. Ces données, exportées au format CSV, décrivent 1430 tâches uniques, leurs jours, horaires et durée. Elles ont été rassemblées dans une base de données que j’ai exploitée ensuite, en procédant à des analyses de nombre d’occurrences des mots-clés, en limitant l’analyse aux 100 mots-clés les plus fréquents. Les tâches correspondant à des erreurs de codage, les colloques ou déplacement notés sur plusieurs jours, ainsi que d’éventuelles traces d’activités non professionnelles ont été éliminées, grace à l’analyse textuelle sur les mots clés et leurs occurrences. Les outils utilisés, sous R, relèvent de l’analyse textuelle (package quanteda) et de l’analyse multivariée (FactoMineR) afin de classifier les principales catégories d’activité en fonction des corrélations entre les occurrences d’activités et de tâches. Je ne livre ici que quelques analyses descriptives.
      Résultats

      En fonction des tâches quotidiennes, notées systématiquement pendant un an dans mon agenda électronique, le temps de travail annuel est estimé à 2321.5 heures, soit 290 jours temps plein à 8h/jour. Ce total est à comparer au référentiel de 1607h réglementaires, qui n’a évidemment qu’une valeur indicative. Rappelons dans ce décompte qu’une année est composée de 261 jours de semaines, et de 104 jours de week-end. Les périodes sans activités et congés sont permises par un report des activités sur les nuits, et elle débordent évidemment très largement sur les week-ends, de l’ordre de 335 h/an, soit 42 jours pleins (il y a 52 week-ends dans l’année, peu ne sont donc pas travaillés), au détriment de l’équilibre personnel et familial, et évidemment de la santé. Sans compensation, ni heures complémentaires.
      Les grandes catégories de l’activité

      A l’issue d’une analyse factorielle et d’une classification (Figure 1), l’analyse des tâches, triées par mots-clés (analyses lexicales sur l’agenda électronique) met en évidence plusieurs pôles très clairement identifiables dans les activités quotidiennes, synthétisées dans le Tableau 1 :

      D’une part l’activité d’enseignement (les 192h équiv. TD) représente avec l’ensemble des tâches afférantes de préparation, de suivi des étudiants, de l’ordre de 387 heures. C’est une activité comprimée par les autres tâches, dans un cadre où de nombreux cours font l’objet d’une préparation relativement rapide. Une décharge d’enseignement vient comme un soulagement, alors que cela n’affecte qu’une partie déjà bien réduite de l’ensemble des activités. Cette actitivé était légèrement réduite par rapport aux années précédentes : pas de nouveaux cours, et surtout pas de préparation de CAPES en 2018-19, des enseignements lourds nécessitant la préparation de nouveaux cours sur programme auxquels j’ai participé systématiquement depuis le début de ma carrière.
      Cette activité d’enseignement est complétée par celle de corrections de copies, très nettement séparée dans le temps (soirées, week-ends, vacances), et dans l’espace, puisqu’elle se fait rarement sur le lieu principal de travail : de l’ordre de 95h au total en 2018-19. L’enseignement et les corrections représentent 21% du temps de travail total, loin des 50% théoriques.
      D’autre part, l’activité de recherche correspond à environ 644h, soit 27% du temps, comportant la réponse aux appels d’offre pour chercher des financements (en l’occurrence auprès de l’ANR et du programme européen ESPON), la direction et coordination de projet, les analyses de données, le recueil de sources, l’écriture, les publications, le suivi des conventions. Cette activité constitue une priorité, que j’ai pu maintenir et protéger, sur les soirées, les week-ends, les périodes d’interruption de cours, grâce notamment à la sanctuarisation des périodes de terrain aménagées pendant les “vacances” de printemps.
      Séparé du précédent, l’encadrement et le suivi des thèses, comportant de nombreux rendez-vous, suivi de rédaction, préparation des soutenances, coachings variés (stratégie de publications, préparation du CNU et de la campagne de recrutement, soutien moral, etc.), rédaction des lettres de recommandation quand arrive la période des recrutements CDD pour les jeunes docteurs. Ces éléments constistuent un champ fondamental de l’activité de directeur de recherche, qui représente de l’ordre de 377h (16%). Un champ particulièrement intense avec trois soutenances, donc relectures et corrections de thèses, dans l’année 2019.
      Un temps considérable correspond aux activités d’évaluation, à plusieurs niveaux : évaluations individuelles (CNU, qualifications, promotions, primes, suivi de carrière), évaluations d’articles et de projets de recherche pour diverses agences en France et à l’étranger, évaluations HCERES, et par ailleurs la préparation des soutenances, la préparation des pré-rapports ou rapports, la participation à des jurys de thèse et HDR (environ 3 à 5 par ans). Ce sont pour l’essentiel des heures de travail invisibles, le plus souvent dans des commissions ou des jurys qui nécessitent des déplacements en dehors de l’établissement, et soumises à des délais courts et une forte pression temporelle. La plupart de ces actes sont exercés à titre gratuit, pas ou peu indemnisées, ou en dessous du SMIC horaire quand elles le sont (CNU et HCERES en particulier), alors qu’il s’agit très clairement d’activités qui débordent du temps de travail légal et de l’activité principale : 307 h (13%) en 2018-19.
      Les heures liées aux tâches ancillaires, relatives à l’administration, les mails, les réunions (diverses) et de présence dans les instances et conseils (conseil scientifique d’UFR, conseil facultaire, etc…). Une partie de cette activité est liée, de fait, à la direction d’unité CNRS ou aux fonctions de direction (master), et représentent 509h (22%). L’essentiel de ces tâches administratives reposant sur des échanges de mails et de documents, voire sur des “applications métiers” ou sites intranet dédiés, quand il s’agit d’opérer le recrutement des ATER, lors des comités de sélection pour le recrutement des collègues, ou dans le suivi des actes de gestion d’une unité CNRS (promotion et suivi de carrière de personnels de l’unité, par exemple).. A noter que la décharge de direction d’unité, compensant ces fonctions, est de 24h annuelle, celle de directeur de master 16h. Sans autre commentaire. Si le traitement statistique regroupe les tâches admnistrative, les courriels et les réunions, c’est que celles-ci sont bien souvent associées dans les temps et les lieux : de nombreux tableaux Excel à remplir, de reporting sur les horaires et maquettes, de tableaux de soutenabilité de master, de rapports annuel d’une unité, d’analyse des dossiers de candidatures pour les master. Et puis, il revient à l’honnêteté intellectuelle de dire que compte-tenu du caractère débordant du temps de travail, de nombreux mails sont faits pendant les réunions, même s’il est évident que cela nuit à l’efficacité d’ensemble.

      Le profil de l’activité

      La Figure 2 fait une synthèse de la distribution quotidienne et horaire de l’activité. Parmi les faits saillants, cette figure met en évidence la fragmentation temporelle, et le débordement systématique des horaires de travail sur le début de matinée (dès 6h30…), la soirée (après 22h), parfois la nuit, avec de très longues journées. Les deadlines à respecter, notamment pour le financement, imposant évidemment de pouvoir dégager du temps continu d’investissement (par exemple, la nuit mi-mars correspond au dépôt d’une ANR). Les congés, à l’exception d’une période relative de vacances l’été, sont systématiquement occupés, en particulier par les corrections et la recherche, dont on voit qu’elle s’intercale en fait dans des périodes intenses, mais finalement ponctuelles, notamment autour de la Toussaint et après le 15 mai. Si l’activité ralentit bien après le 15/7, la trêve reste interrompue par de l’administratif, des mails, et surtout du suivi doctoral, afin de préparer les dépôts de thèse de début septembre.

      Conclusion

      Cet exercice individuel montre des tendances bien identifiées et bien connues sur l’amplitude horaire, le débordement généralisé, et la fragmentation du temps de travail. Ce “temps de travail” ne décompte par ailleurs que les tâches balisées : pas de pause, pas de discussion ici sur les sandwiches pris devant l’ordinateur le midi, pas de discussions de couloir avec les collègues, pas de “réunion debout”. Ces éléments sont dans les blancs de la Figure , tout comme le temps de repos. De même, alors que l’activité se déploie sur trois sites à Paris en fonction des lieux d’enseignement et de recherche (dans les 5e et 13e arrondissements, ainsi que depuis septembre à Aubervilliers, nouveau campus Condorcet), de nombreux déplacements en transports en commun ponctuent les journées, de même que plusieurs déplacements à l’étranger, pour lesquels le temps de déplacement n’est pas vraiment pris en compte ici.

      Au-delà de ces constats, il faut insister sur la diversité des interlocuteurs et des institutions que chacune de ces tâches implique, chacune avec ses temporalités propres. Si l’enseignement relève essentiellement de l’université, c’est-à-dire l’employeur principal, il s’agit de la seule activité que voient et constatent effectivement les services de mon établissement et mon UFR. L’activité de recherche répond à de multiples institutions, de multiples contraintes réglementaires et contractuelles : le CNRS en premier lieu (tutelle de l’unité), un Labex (Investissements d’Avenir), un Idex, des grands projets (Campus Condorcet), des agences de financement (ANR), des commanditaires (Société du Grand Paris, ESPON, par exemple). S’agissant de l’encadrement doctoral, il s’agit d’une Ecole doctorale, relevant de l’établissement. L’activité d’évaluation est probablement celle qui s’opère dans le cadre insitutionnel le plus fragmenté : HCERES, ANR, revues, éditeurs, écoles doctorales de chaque établissement pour lesquels on établit des rapports, et des acteurs étrangers (revues et agences de recherche) qui nous sollicitent également pour l’évaluation de projets et travaux. Chacun de ces acteurs impose ses temporalités, ses normes, ses contraintes. L’activité administrative, de courriel et de réunion chapeaute le tout, et dans une certaine mesure fait tenir l’échaffaudage : il s’agit à la fois d’une activité subie au sein de chacun de ces périmètres institutionnels (réunions, réponses à des injonctions), mais également un temps important consacré à la coordination et la mise en cohérence dans un temps contraint des requêtes de ces acteurs variés.

      En espérant que cet exercice, de l’ordre de 3 minutes par jour de saisie de l’information, puisse engager d’autres collègues à tenter de suivre leur activité, afin que collectivement nous puissions mieux objectiver le travail invisibilisé (évaluations, commissions variées, travail administratif, interactions électroniques), qui représente au final une partie essentielle d’un temps professionnel très fragmenté et étalé (il faut bien manger, dormir, sortir encore un peu, voir ses enfants, dans les interstices), au détriment évidemment des missions de service public d’enseignement et de recherche.

      https://academia.hypotheses.org/20672

    • À quoi servira la LPPR ? L’exemple des recrutements

      Texte de la conférence donnée à l’occasion de la réunion d’information « La LPPR, vrai problème ou fausse alerte ? » 6 mars 2020, Paris, centre Panthéon, UMR8103, salle 6 Institut des sciences juridique et philosophique de la Sorbonne,

      -- I.—

      Il existe aujourd’hui une certaine confusion quant au rôle exact que jouera la LPPR dans le phénomène de précarisation de l’enseignement supérieur et de la recherche. Cette confusion est d’abord et avant tout la conséquence du refus de la ministre de l’ESRI de dévoiler l’avant-projet de loi – un refus désastreux pour le ministère et problématique pour la mobilisation :

      désastreux pour le ministère, d’abord, car il témoigne de façon particulièrement spectaculaire de la dégradation générale des relations entretenues avec la communauté universitaire ;
      problématique pour la mobilisation, ensuite, en ce qu’il entraîne une focalisation excessive des critiques sur les trois rapports dits « des groupes de travail » (les rapports remis au Premier ministre le 23 sept. 2019), faute d’autre texte à discuter.

      Bien sûr, la lecture des trois rapports est éclairante, ne serait-ce que parce qu’ils dévoilent le décalage considérable qui existe aujourd’hui entre, d’un côté, les orientations que veulent donner à l’ESR quelques individus occupant des fonctions de premier ordre dans ce secteur et, de l’autre côté, les aspirations d’une part importante de la communauté universitaire.

      Pour autant, il faut bien reconnaître que la ministre a raison de rappeler, comme elle l’a fait à maintes reprises, que ces rapports, indiscutablement, « ce ne sont que des rapports » (Frédérique Vidal, séminaire des nouveaux directeurs et directrices d’unité, CNRS / CPU, 4 février 2020). D’une certaine façon, se concentrer sur ces documents pour critiquer la LPPR, c’est alimenter encore davantage le discours – très prégnant chez toute une partie des collègues, et en particulier dans les facultés de droit – selon lequel il est inutile de se mobiliser contre un projet de loi qui nous est encore inconnu. Or, précisément, s’il faudrait sans doute moins se focaliser sur les trois rapports, c’est parce qu’on en sait aujourd’hui davantage sur le contenu de l’avant-projet de LPPR, en particulier parce que la ministre en a distillé plusieurs éléments lors de sorties récentes.

      On sait désormais, par exemple, que, quand bien même cette loi ne serait qu’une loi « de budget et non une loi « de structure » (pour reprendre l’opposition employée par la ministre), une telle distinction est trompeuse : la mise en place des nouveaux contrats d’objectifs et de moyens — un outil bien connu des juristes de droit public — et le jeu sur le montant forfaitaire du préciput de l’ANR — pour citer deux instruments que la ministre a présentés devant la Conférence des présidents d’université comme figurant dans la réforme — auront des conséquences structurelles tout à fait considérables sur le service public de l’ESR.

      Je ne m’attarde pas sur ce premier point, qui, s’il est crucial, n’est pas l’objet de mon propos. Ce sur quoi j’aimerais m’attarder, en revanche, c’est sur la question des recrutements (le fameux « assouplissement des modes de recrutement » évoqué par le président de la République lors de la cérémonie des 80 ans du CNRS, le 26 novembre 2019). C’est peut-être en ce domaine, en effet, que l’on observe le décalage le plus important entre ce que l’on sait désormais plus ou moins du contenu de l’avant-projet de loi et les critiques qui lui sont adressées dans le cadre des mobilisations. Le discours un peu fantasmé qui accompagne, chez certains collègues mobilisés, la publication du décret du 27 février 2020 relatif au contrat de projet dans la fonction publique, une des mesures d’application de la loi du 6 août 2019 de transformation de la fonction publique, est à cet égard caractéristique : s’il est presque certain que les contrats de projet seront massivement employés dans les universités à l’avenir, si, donc, il est très important de s’intéresser à ces nouveaux contrats, il est faux, en revanche, de répandre l’idée qu’avec ce décret, le gouvernement utiliserait la voie réglementaire pour faire discrètement passer certaines des mesures prévues dans la LPPR.

      Prétendre cela, c’est ramener à nos seules préoccupations d’universitaires un débat qui, malheureusement, va très au-delà — il concerne aussi bien la fonction publique d’État que la FP territoriale et la FP hospitalière — et à propos duquel les syndicats se sont battus becs et ongles pendant des mois, avant comme après l’adoption de la loi du 6 août 2019. Bien sûr, il faut être prudent lorsque l’on tient ce genre de discours, car un angle mort gigantesque persiste dans tous les cas : on ne sait pas ce qui, dans la LPPR, fera l’objet d’une habilitation à légiférer par voie d’ordonnance1.

      Ceci dit, s’agissant des recrutements, on a tout de même eu la confirmation de deux choses à présent, parce que la ministre les a évoqués à plusieurs reprises ces dernières semaines, dans ses prises de parole publiques : deux contrats nouveaux au moins2 devraient bien être créés par la voie de la LPPR : les « CDI de mission scientifique », d’une part ; les contrats de « professeurs junior », d’autre part. Ces deux contrats sont éminemment problématiques pour différentes raisons. Et, à première vue, on a du mal comprendre comment, avec de telles mesures, la ministre s’autorise à présenter la LPPR comme une simple loi « de budget ». Une première interprétation pourrait être de soutenir qu’il s’agit, de sa part, d’un mensonge éhonté. Une autre interprétation — qui est celle vers laquelle je tends — consiste à considérer que la ministre a une connaissance si précise du cadre juridique des recrutements dans l’ESR qu’à ses yeux, il est tout à fait évident que ces deux contrats ne sont pas le cheval de Troie de la précarité dans l’ESR, mais de simples mesures de technique juridique, destinées à régler deux points de droit bien spécifiques, pour lesquels, effectivement, il n’est pas possible d’en passer par autre chose qu’une loi.

      Il faut prendre au sérieux, à cet égard, les propos tenus par la ministre lors des journées SHS organisées par l’Agence nationale de la recherche les 25 et 26 février 2020, lorsqu’elle expliqua que, s’agissant des règles juridiques de recrutement, la LPPR n’interviendrait qu’à la marge, c’est-à-dire exclusivement pour « faire sauter les verrous législatifs » – au sens de « verrous » que seule une loi, précisément, a la compétence de faire sauter3. Autrement dit, c’est d’une vraie tournure d’esprit dont il faut s’imprégner si l’on veut que nos critiques de la LPPR fassent mouche : la ministre sait mieux que quiconque que le cadre juridique actuel permet d’ores et déjà de mener à bien la plupart des orientations préconisées par les rapports des groupes de travail en matière d’emplois, comme je vais essayer de le montrer plus loin.

      De ce fait, la présence, dans la LPPR, des CDI de mission scientifique et des contrats de professeurs junior ne marque pas tant la réorientation profonde du cadre juridique du recrutement dans l’ESR qu’elle ne témoigne, malheureusement, de ce que l’on en est déjà aux ultimes mesures d’adaptation — ce qui, je le précise pour qu’il n’y ait aucune confusion sur ce point, rend encore plus cruciale la mobilisation actuelle, en forme d’ultime-bataille-jusqu’à-la-prochaine… Si les CDI de mission scientifique et les contrats de professeurs junior figurent dans la LPPR, donc, c’est parce que deux contraintes législatives bien spécifiques doivent être levées :

      Le « CDI de mission scientifique » a pour objet de contourner la règle de la transformation obligatoire en CDI des relations contractuelles d’une durée supérieure à six ans – une règle qui, il faut le rappeler, n’a été introduite en France en 2005 que parce qu’il s’agissait d’une obligation européenne (directive du 28 juin 1999). Dans la lignée du « CDI de chantier ou d’opération » d’ores et déjà applicable « dans les établissements publics de recherche à caractère industriel et commercial et les fondations reconnues d’utilité publique ayant pour activité principale la recherche publique » depuis la loi PACTE du 22 mai 2019 (cf. art. L. 431-4 du code de la recherche et décret du 4 octobre 2019 fixant la liste des établissements et fondations concernés : CEA, IFREMER, CNES, Institut Pasteur, Institut Curie, etc.), l’objectif n’est rien d’autre, autrement dit, que de créer un CDI — un CDI aux conditions de rupture particulièrement souples — permettant d’éviter d’avoir à cédéiser.
      Le « contrat de professeur junior », quant à lui, n’a pas seulement pour objet, comme le dit la ministre (séminaire des nouveaux directeurs et directrices d’unité, CNRS / CPU, 4 février 2020), de permettre le « recrutement de scientifiques sur une première période de 5 à 6 ans, en prévoyant des moyens d’environnement spécifiques », car s’il ne s’agissait que de cela, la LPPR serait parfaitement inutile (ce genre de contrat est déjà possible en droit public français). Si la LPPR intègre ces nouveaux contrats, c’est très précisément parce que l’objectif est de créer une « track » vers la « tenure », c’est-à-dire une procédure dérogatoire de titularisation en droit de la fonction publique, par la reconnaissance d’un privilège d’accès aux corps de maître de conférences et de professeur dans un établissement déterminé, et ce hors des voies d’accès normal à ces corps. Et cela, seule une loi, techniquement, peut le faire.

      J’en arrive donc au point principal de mon intervention : en dehors de ces deux « adaptations » qui nécessitent une loi — en l’occurrence : la LPPR — le cadre juridique de l’enseignement supérieur permet d’ores et déjà de recruter massivement par la voie contractuelle — et, grâce à cette voie, d’organiser, pour ce qui concerne spécifiquement les enseignants-chercheurs qui nous succéderont, le contournement de la procédure de qualification nationale, la modulation des tâches et en particulier des services d’enseignements, ou encore la variation des rémunérations. Autant de points qui sont précisément ceux contre lesquels nous nous mobilisons actuellement, mais qui — il est important d’en avoir conscience — ne seront donc pas introduits par la LPPR, puisqu’ils sont déjà là. C’est cela que je voudrais essayer de rappeler à présent.

      -- II.—

      Premier rappel : le recrutement contractuel illimité organisé par la loi du 6 août 2019 de transformation de la fonction publique.

      La loi du 6 août 2019 de transformation de la fonction publique a ouvert la possibilité d’un recrutement illimité (c’est-à-dire non plafonné) par la voie contractuelle dans les établissements publics de l’État, y compris dans les établissements publics à caractère scientifique, culturel et professionnel (EPSCP : les universités). De ce point de vue, cette loi franchit un seuil juridique : dans les établissements publics de l’État, le recours à des agents contractuels ou à des fonctionnaires devient indifférent, alors que jusqu’ici, l’occupation des emplois répondant à des besoins permanents par des fonctionnaires était le principe, et le recours aux agents contractuels, l’exception (et ce, quand bien même, depuis une vingtaine d’années, le champ de cette exception avait progressivement été étendu). Un point n’a pas suffisamment été signalé, à cet égard : le projet de loi de transformation de la fonction publique excluait initialement de la nouvelle règle « les emplois pourvus par les personnels de la recherche »4.

      Le champ exact d’une telle exclusion n’était pas tout à fait évident, mais on pouvait raisonnablement défendre que cette exclusion avait vocation à maintenir le principe du recours aux fonctionnaires pour les recrutements au CNRS ou à l’IRD, par exemple, mais aussi pour le recrutement des enseignants-chercheurs dans les universités. Aux derniers instants des débats du projet de loi5, cependant, l’exclusion des « emplois pourvus par les personnels de la recherche » fut reformulée in extremis : avec cette reformulation, la loi ne dit plus que les « emplois pourvus par les personnels de la recherche » sont exclus de la règle du recours indifférencié aux agents contractuels ou aux fonctionnaires dans les établissements publics de l’État, mais que la règle du recours indifférencié aux agents contractuels ou aux fonctionnaires s’applique « sous réserve des dispositions du code de la recherche pour les agents publics qui y sont soumis ».

      Cette reformulation apparemment anodine — sur l’origine de laquelle le rapport de la commission mixte paritaire ne s’explique pas, et à propos de laquelle on ne sait rien, si ce n’est qu’à l’évidence, elle a été initiée par un parlementaire bien informé des problématiques de l’enseignement supérieur et de la recherche — a deux conséquences importantes, qui, en réalité, ruinent le principe même de l’exclusion :

      La première conséquence est que les enseignants-chercheurs se trouvent exclus de l’exclusion (ils se trouvent, par voie de conséquence, inclus dans la règle du recours indifférencié aux agents contractuels ou aux fonctionnaires), dans la mesure où, s’ils pouvaient éventuellement être considérés comme entrant dans le champ de la qualification de « personnel de recherche » (du fait de leur obligation statutaire de recherche), il est incontestable qu’ils sont soumis aux dispositions du code de l’éducation, et non à celles du code de la recherche.
      La seconde conséquence, plus sournoise, est que les agents des établissements publics à caractère scientifique et technologique (EPST – différents des universités, qui sont des EPSCP), et en particulier les agents du CNRS, ne peuvent vraisemblablement plus, eux non plus, être considérés comme exclus de la règle du recours indifférencié aux agents contractuels ou aux fonctionnaires.
      La nouvelle formule (« sous réserve des dispositions du code de la recherche pour les agents publics qui y sont soumis ») permet en effet de renvoyer à un article bien spécifique du code de la recherche, l’article L. 431-2-1, qui autorise, lui, le recours illimité à des agents contractuels dans les EPST « pour occuper des fonctions techniques ou administratives correspondant à des emplois de catégorie A, B ou C » et « pour assurer des fonctions de recherche ». Sur le fondement de la loi du 6 août 2019, les universités qui le souhaitent peuvent donc recruter massivement par la voie contractuelle, quelles que soient les fonctions exercées.

      Dès lors que le recrutement de fonctionnaires n’est plus le principe et le recrutement de contractuels, l’exception, le choix a été fait de n’instituer aucun garde-fou juridique — et en particulier aucun plafonnement — de sorte qu’en réalité, les seules limites au recours aux contrats qui demeurent sont, premièrement, le nombre minimal de fonctionnaires dont la présence est obligatoire pour faire fonctionner les organes statutaires des établissements et, deuxièmement, la bonne volonté des universités et du ministère. Ce qui, chacun en conviendra, est bien peu.

      Il est, de ce fait, très vraisemblable que l’augmentation du nombre de personnels des universités soumis au régime contractuel va s’accentuer, et c’est la raison pour laquelle il est crucial de porter une attention soutenue aux conditions juridiques dans lesquelles ces contrats vont être mis en place : cf. les nouvelles règles du décret du 19 décembre 2019 relatif à la procédure de recrutement pour pourvoir les emplois permanents de la fonction publique ouverts aux agents contractuels, qui entre en vigueur au 1er janvier 2020, et celles du décret du 27 février 2020 relatif au contrat de projet dans la fonction publique, qui entre en vigueur au 29 février 2020. Il n’est pas anodin, à ce propos, que les huit présidents d’université auteurs de la tribune « La France a besoin d’une loi de programmation pluriannuelle de la recherche », publiée dans Le Monde le 4 mars 2020, évoquent d’ores et déjà le contrat de projet, en vigueur depuis quatre jours seulement, à la date de la tribune… et suggèrent une utilisation très large de celui-ci

      « Assurer par les contrats de projet le financement de doctorants, de post-doctorants, de techniciens ou d’ingénieurs sur la durée d’un contrat de recherche » (Le Monde, 4 mars 2020).

      -- III.—

      Deuxième rappel : le recrutement contractuel illimité organisé par la loi du 10 août 2017 relative aux libertés et responsabilités des universités

      Il convient, par ailleurs, de ne pas perdre de vue qu’indépendamment des modifications introduites par la loi du 6 août 2019 de transformation de la fonction publique, la libéralisation des recrutements par voie contractuelle a d’ores et déjà été rendue possible dans les universités il y a une douzaine d’années, par l’entremise d’un texte spécifique aux universités, la loi du 10 août 2007 relative aux libertés et responsabilités des universités

      « La possibilité offerte aux universités de recruter des contractuels est l’un des points les plus importants de ce texte », Benoît Apparu, rapporteur du projet de loi, Assemblée nationale, séance du 25 juillet 2007).

      L’article L. 954-3 du Code de l’Éducation autorise, en effet, les présidents d’universités à

      « recruter, pour une durée déterminée ou indéterminée, des agents contractuels : 1° Pour occuper des fonctions techniques ou administratives correspondant à des emplois de catégorie A ; 2° Pour assurer […] des fonctions d’enseignement, de recherche ou d’enseignement et de recherche […] ».

      La question de ces CDI/CDD dits « contrats LRU » est bien connue : si, durant les débats parlementaires de 2007, ces contrats avaient été présentés comme destinés à contourner « par le haut » la grille des rémunérations de la fonction publique (et, par suite, à faire concurrence aux universités étrangères pour « attirer les talents »), chacun sait qu’ils ont, en réalité, constitué le support juridique grâce auquel les universités court-circuitent l’ouverture de postes de fonctionnaires titulaires, au profit de recrutements contractuels aux conditions économiques et sociales très dégradées.

      L’encadrement juridique de ces contrats est presque inexistant, en effet6 — tout au plus existe-t-il une obligation de recueillir l’avis d’un comité de sélection pour recruter des enseignants-chercheurs, des enseignants ou des chercheurs (art. L. 954-3, 2°), mais une très grande liberté a été laissée sur ce point7. À cet égard, un épisode un peu perdu de vue — mais particulièrement significatif du rôle très actif joué par le ministère de l’Enseignement supérieur dans la contractualisation des recrutements — mérite d’être rappelé.

      Lors des débats parlementaires consacrés aux « contrats LRU », en 2007, il avait été décidé que la proportion de ces contrats par université serait plafonnée, et c’est très exactement la raison pour laquelle, depuis lors, l’article L. 712-9 du Code de l’Éducation prévoit que le contrat pluriannuel d’établissement conclu par chaque université avec l’État doit

      « fixer le pourcentage maximum de cette masse salariale que l’établissement peut consacrer au recrutement des agents contractuels mentionnés à l’article L. 954-3 »8.

      Or, il apparaît que le ministère de l’Enseignement supérieur a fait en sorte de « déréguler » dans toute la mesure du possible ces contrats.

      Premièrement, la direction générale de l’enseignement supérieur et de l’insertion professionnelle (DGESIP) a fait le choix de ne jamais appliquer ce plafonnement pourtant prévu par la loi : aucun pourcentage maximum de la masse salariale consacrée au recrutement par la voie de « contrats LRU » n’a été fixé dans les contrats successivement conclus entre les universités et l’État depuis la fin des années 2000, au risque de l’illégalité et au point de susciter l’étonnement de la — pourtant timide — Inspection générale de l’administration de l’éducation nationale et de la recherche9.
      Deuxièmement, comme le révèle ce même rapport de l’IGAENR (n°2016-036), la direction générale des ressources humaines (DGRH) du ministère a fait le choix de soutenir l’interprétation la plus « dure », socialement parlant, de l’article L.954-3 du code de l’éducation, au point de s’opposer, sur ce point, à la direction générale des finances publiques du ministère en charge du budget : alors que la DGFP soutenait, d’une part, que l’introduction des « contrats LRU » par la loi de 2007 ne remettait pas en cause le principe, applicable jusqu’à la loi du 6 août 201910 selon lequel les besoins permanents des universités devaient être pourvus par les fonctionnaires titulaires, et d’autre part, que l’éventuel recours à des « contrats LRU » ne signifiait pas, pour autant, que les conditions contractuelles pouvaient être librement fixées par les universités11, la DGRH décida que les « contrats LRU » seraient des outils parfaitement autonomes par rapport aux autres textes de droit de la fonction publique, et en déduisit que les conseils d’administration des établissements et, à défaut, les présidents d’université seraient seuls compétents pour fixer les règles applicables aux agents recrutés par cette voie contractuelle.

      -- IV.—

      Conséquences en l’état actuel du droit, indépendamment de l’adoption ou non de la LPPR
      Il résulte donc de la loi du 10 août 2007 et de la loi du 6 août 2019 que les universités peuvent, s’agissant des postes répondant, pourtant, à des besoins permanents, recruter par la voie contractuelle sans aucun plafonnement. À ce stade, la seule limite juridique à ces recrutements — qui a déjà été évoquée plus haut — est le nombre minimal de fonctionnaires dont la présence est rendue obligatoire par le Code de l’Éducation pour faire fonctionner les organes statutaires des établissements12. C’est la raison pour laquelle il importe d’être aujourd’hui beaucoup plus précis dans la critique de la LPPR : le recours aux différents contrats existants offre d’immenses libertés de recrutement pour les besoins permanents des universités, permettant d’ores et déjà d’organiser, pour ce qui concerne les enseignants-chercheurs, le contournement de la procédure de qualification nationale, la modulation des services d’enseignement et les variations de rémunérations.

      En ce qui concerne les procédures de recrutement, d’abord : la procédure de qualification nationale peut aujourd’hui être largement contournée pour les recrutements dans les universités (de même, d’ailleurs, que les simples conditions de diplômes). Tout au plus faut-il respecter les conditions minimales des « contrats LRU » (loi de 2007), évoquées plus haut, et, dans les autres cas (loi de 2019), les nouvelles règles, elles aussi légères, du décret du 19 décembre 2019 relatif à la procédure de recrutement pour pourvoir les emplois permanents de la fonction publique ouverts aux agents contractuels (procédure identique pour les candidats à un même emploi permanent, publication préalable des modalités de la procédure de recrutement, entretien de recrutement d’au moins deux personnes, etc.).
      En ce qui concerne la nature des missions, ensuite : la fixation des missions relève du champ contractuel, de sorte que des tâches administratives diverses, et en nombre illimité, peuvent être confiées à un enseignant-chercheur recruté par voie contractuelle, tout comme les services d’enseignement peuvent faire l’objet de modulations à la hausse ou à la baisse5 (c’est déjà le cas, comme chacun sait, avec les « contrats LRU »°).
      En ce qui concerne les rémunérations, enfin : la fixation des rémunérations est marquée par une très grande souplesse, aussi bien pour les « contrats LRU » (loi de 2007) que pour les autres contrats (décret du 17 janvier 1986 qui pose la règle générale selon laquelle « le montant de la rémunération est fixé par l’autorité administrative, en prenant en compte, notamment, les fonctions occupées, la qualification requise pour leur exercice, la qualification détenue par l’agent ainsi que son expérience »).

      Dans ces conditions, on comprend mieux pourquoi l’Inspection générale des finances et l’Inspection générale de l’administration de l’éducation nationale et de la recherche, dans leur récent rapport conjoint (« Le pilotage et la maîtrise de la masse salariale des universités », avril 2019) s’étonnent des scrupules des universités à recourir aux recrutements contractuels, et en particulier s’inquiètent du fait que « les universités n’ont que marginalement utilisé l’article L. 954-3 du Code de l’Éducation » (contrats LRU). Dans ce rapport, la position est énoncée sans fard :

      « dès lors que la plupart des besoins peuvent être indifféremment couverts par des contractuels ou des titulaires, compte tenu de la similitude de leurs profils, l’augmentation de la proportion d’emplois contractuels dans les effectifs d’une université a pour conséquence de lui donner davantage de leviers pour piloter ses ressources humaines, sa masse salariale et son GVT [glissement-vieillesse-technicité] » (p. 27).

      Manière on ne peut plus claire de dire une conviction profondément ancrée dans l’esprit des inspecteurs : le recours aux recrutements contractuels devrait être une évidence pour les universités si celles-ci étaient de bonnes gestionnaires des deniers publics. Et c’est ce raisonnement très particulier qui permet aux inspecteurs d’affirmer sans rougir – car le plus rationnellement du monde — que

      « bien que se situant, tout financement confondu, juste au-dessus de la moyenne des pays de l’OCDE les universités sont à ce jour globalement correctement dotées par le budget de l’État pour couvrir leur masse salariale au regard de la situation des finances publiques », p. 3.)

      Ceci est, me semble-t-il, un point très important à garder en tête dans la mobilisation actuelle : les présidences d’universités recourent beaucoup moins qu’elles ne le pourraient aux recrutements contractuels, pour des raisons qui sont très variables selon les établissements. Autrement dit, si le cadre juridique est à peu près en place pour un recrutement massif par la voie contractuelle, c’est donc que tout se joue désormais au niveau des choix de chaque établissement dans les recrutements — à moins, bien sûr, de parvenir à changer le droit, ce qui devrait d’ailleurs être l’un de nos objectifs : proposer une autre loi sur la recherche.

      C’est très exactement la raison pour laquelle la ministre de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation a estimé, lors des journées SHS organisées par l’Agence nationale de la recherche les 25 et 26 février 2020, que « Les emplois, ce n’est pas mon travail » : les emplois, c’est le travail des universités — toute l’hypocrisie résidant dans le fait que le ministère s’évertue, en revanche, à orienter ce « travail », en contraignant les établissements à recruter bien davantage par la voie contractuelle. C’est la principale raison du chantage actuel à la non-compensation du « Glissement vieillesse technicité » par le ministère13. Et ce sera la principale conséquence des nouvelles voies d’allocation des moyens prévues par la LPPR, et c’est pour cette raison que, quand bien même elle ne ferait que distribuer de l’argent, cette loi réorientera structurellement l’ESR.

      -- V.—

      Face à ce phénomène de précarisation de l’enseignement supérieur et de la recherche, il me semble que nous avons en tant qu’enseignants-chercheurs en droit, eu égard à notre objet de recherche, un rôle particulier à jouer : un rôle dans l’analyse des évolutions en cours et, donc, un rôle dans la contradiction à apporter à ce qui n’est jamais que le travail d’autres juristes14. Je ne pense pas, ici, aux réflexions qu’il nous faudrait avoir quant aux actions juridiques à mener pour contester ces évolutions — il est très clair, à cet égard, qu’il existe quelques faiblesses juridiques dans la mise en oeuvre des outils précédemment décrits, qui pourraient être exploitées —, mais simplement, déjà, à ce qui constitue le coeur de notre métier, à savoir la recherche en droit.

      De ce point de vue, une tâche importante à engager, me semble-t-il, serait de montrer que la contractualisation croissante des différentes fonctions dans les universités n’est pas seulement un problème de précarisation. C’est aussi un problème de précarisation — et quand bien même ce ne serait que cela, ce serait amplement suffisant pour se mobiliser — mais ce n’est pas que cela.

      J’enfonce une porte ouverte, mais il nous faut défendre fermement le point suivant : même si l’on ne proposait que des CDI à l’avenir dans les universités, le problème resterait entier, en ce sens que la contractualisation, même garantie dans sa stabilité par le recours exclusif au CDI, est un recul considérable par rapport à la situation statutaire. Non pas seulement un recul en termes de protection sociale, mais une perte en termes de liberté de la recherche. L’on ne rappelle pas suffisamment, en effet, que le problème des libertés universitaires ne se joue pas seulement au travers de l’affirmation de grands principes opposables devant les tribunaux, mais se joue d’abord et avant tout, et même principalement, au travers du statut. Le statut, autrement dit, est le premier des garde-fous des libertés universitaires, car il est celui grâce auquel on endigue en premier lieu la question hiérarchique et toutes les formes d’emprise.

      https://academia.hypotheses.org/20878

    • Quelques réponses aux questions fréquemment posées sur la loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR)

      Dans ce complément à notre billet sur le lien entre LPPR et réforme des retraites (http://www.groupejeanpierrevernant.info/#Desenfumage), nous répondons aux questions qui nous ont été posées sur le projet de loi de programmation pluriannuelle de la recherche (LPPR), ses initiateurs, son calendrier et les sommes en jeu à partir des informations dont nous disposons.

      http://www.groupejeanpierrevernant.info/#FAQLPPR

  • #Retraites : le #Conseil_d'Etat étrille le #gouvernement

    Manque de « précision », projections économiques « lacunaires »... Dans son #avis rendu public ce vendredi, la plus haute juridiction administrative estime en outre ne pas avoir eu « les délais de réflexion nécessaires pour garantir au mieux la #sécurité_juridique ».

    Voilà qui ne va pas arranger les affaires du gouvernement. A peine a-t-il fait adopter ce vendredi en Conseil des ministres ses deux projets de loi destinés à créer un régime universel de retraite par points que le Conseil d’Etat, dans son avis (https://www.conseil-etat.fr/ressources/avis-aux-pouvoirs-publics/derniers-avis-publies/avis-sur-un-projet-de-loi-organique-et-un-projet-de-loi-instituant-un-s) publié ce même jour dézingue la manière dont l’exécutif a bouclé ces deux textes qui doivent être examinés à partir du 3 février à l’Assemblée nationale. La majorité comptait dans les prochains jours s’appuyer sur l’imposante étude d’impact (plus de 1000 pages : https://www.liberation.fr/france/2020/01/24/travailler-plus-le-credo-social-douteux-du-gouvernement_1775134) pour enfin apporter des chiffres et convaincre du caractère « massivement redistributif » de cette réforme, elle va devoir, ces prochains jours, répondre aux mises en garde de la plus haute instance administrative française, pourtant peu connue pour sa rébellion…

    Cette fameuse « #étude_d’impact » ? Elle est jugée « insuffisante » pour « certaines dispositions », ne répondant pas « aux exigences générales d’#objectivité et de #sincérité » et manquant de « précision », pour notamment – et ce n’est pas rien – « vérifier que cette réforme est financièrement soutenable ». « Le Conseil d’Etat constate que les #projections_financières ainsi transmises restent lacunaires et que, dans certains cas, cette étude reste en deçà de ce qu’elle devrait être », peut-on lire dès les premières pages de l’avis. Et les conseillers de poursuivre : « Il incombe au gouvernement de l’améliorer encore avant le dépôt du #projet_de_loi au Parlement, poursuivent les magistrats, en particulier sur les différences qu’entraînent les changements législatifs sur la situation individuelle des assurés et des employeurs, l’impact de l’âge moyen plus avancé de départ à la retraite […] sur le taux d’emploi des seniors, les dépenses d’assurance-chômage et celles liées aux minima sociaux ». Rien que ça.

    Soufflante

    Par ailleurs, si les juristes se félicitent des longues « concertations » menées depuis le printemps 2018, ils regrettent l’« #urgence » des avis demandés aux différents organismes compétents en la matière et se couvrent en cas d’#inconstitutionnalité du texte. Selon eux, l’empressement du gouvernement à vouloir leur avis en trois semaines pour présenter ces projets de loi en Conseil des ministres cette semaine, ainsi que les nombreux ajouts en cours de route n’ont « pas mis à même (le Conseil d’Etat) de mener sa mission avec la sérénité et les délais de réflexion nécessaires pour garantir au mieux la sécurité juridique de l’examen auquel il a procédé ». « Cette situation est d’autant plus regrettable, poursuivent-ils, que les projets de loi procèdent à une réforme du système de retraite inédite depuis 1945 et destinée à transformer pour les décennies à venir un système social qui constitue l’une des composantes majeures du #contrat_social ». En langage juridique, c’est bel et bien une soufflante.

    Le Conseil d’Etat torpille au passage le #slogan_présidentiel (« chaque euro cotisé ouvre les mêmes droits pour tous ») : cet « objectif […] reflète imparfaitement la complexité et la diversité des #règles_de_cotisation ou d’ouverture de #droits définies par le projet de loi ». Il doute également de la « #lisibilité » revendiquée par le gouvernement puisque « le choix d’une détermination annuelle de chacun des paramètres du système […] aura pour conséquence de limiter la #visibilité des assurés proches de la retraite sur les règles qui leur seront applicables ». Enfin, il raye carrément l’engagement que comptait prendre le gouvernement dans ce texte d’une promesse de #revalorisations des #enseignants et des #chercheurs pour qu’ils ne figurent pas dans le camp des perdants de cette réforme. « Sauf à être regardées, par leur imprécision, comme dépourvues de toute valeur normative, ces dispositions (sont) contraires à la #Constitution ». Au revoir…

    « Le projet de loi ne crée pas un régime universel »

    Autre risque constitutionnel : le trop-plein d’#ordonnances (29 en tout). « S’en remettre » à un tel instrument pour définir des « éléments structurants du nouveau système de retraite fait perdre la visibilité d’ensemble qui est nécessaire à l’appréciation des conséquences de la réforme », disent les juges. Plus embêtant encore pour le gouvernement, l’institution bat en brèche l’idée d’un grand soir de l’#universalité : « Le projet de loi ne crée pas un "#régime_universel de retraite" qui serait caractérisé, comme tout régime de #sécurité_sociale, par un ensemble constitué d’une population éligible unique, de règles uniformes et d’une caisse unique ». Aïe… Si le gouvernement crée bien le même système pour les salariés du public et du privé, il maintient à l’intérieur « cinq #régimes » (salariés ; fonctionnaires, magistrats et militaires ; salariés agricoles ; non-salariés agricoles ; marins) et « à l’intérieur de chacun de ces régimes créés ou maintenus », il met en place des « #règles_dérogatoires à celles du système universel ».

    L’exécutif va donc devoir bien mieux « justifier » pourquoi il garde ces « #différences_de_traitement […] entre assurés relevant du système universel de retraite et rattachés, le cas échéant, à des régimes distincts ». En tout cas, les navigants aériens qui pensaient avoir sauvé leur caisse complémentaire pour financer des départs anticipés sont rattrapés par le #principe_d’égalité : elle « serait ainsi la seule à bénéficier d’une compensation apportée par les ressources du système universel afin de financer à l’avenir des avantages de retraites propres », fait remarquer le Conseil pour qui « aucune différence de situation ni aucun motif d’#intérêt_général ne justifi(e) une telle #différence_de_traitement ». Conclusion : « Elle ne peut être maintenue dans le projet de loi. »

    Le gouvernement pourra néanmoins se rassurer en se disant que le nouvel « #âge_d’équilibre » qu’il compte instituer, le fonctionnement « en #points » proposé, les durées de transitions définies, la fin des régimes spéciaux, les droits familiaux, les mécanismes de réversion ou encore les compétences offertes à la future « gouvernance » dirigée par les partenaires sociaux devraient – sauf surprises – passer sans problème le cut du #Conseil_constitutionnel. A condition de résister aux oppositions parlementaires qui, elles, vont se nourrir des arguments du Conseil d’Etat pour réclamer un report ou l’abandon de cette réforme.

    https://www.liberation.fr/france/2020/01/25/retraites-le-conseil-d-etat-etrille-le-gouvernement_1775182
    #retraite #constitutionnalité #justice

  • Le #Conseil_constitutionnel acte la #gratuité de l’enseignement supérieur

    La plus haute juridiction a précisé que les #droits_d’inscription universitaires doivent rester « modiques ». Il avait été saisi par des associations étudiantes opposées à l’#augmentation des frais pour les #étudiants_étrangers.

    L’écho devrait parvenir bien au-delà de nos frontières. Vendredi 11 octobre, le Conseil constitutionnel a rendu publique une décision très attendue entérinant le #principe_de_gratuité à l’université. L’annonce risque de constituer un sérieux revers pour le gouvernement qui avait décidé en novembre 2018 d’augmenter les droits d’inscription universitaires pour les étudiants étrangers extracommunautaires. Cette réforme avait entraîné une large contestation chez les étudiants, les enseignants ou encore les présidents d’université.
    « Le Conseil constitutionnel déduit de façon inédite du treizième alinéa du préambule de la Constitution du 27 octobre 1946 que l’exigence constitutionnelle de gratuité s’applique à l’enseignement supérieur public », indique l’institution.
    En juillet, celle-ci avait été saisie d’une question prioritaire de constitutionnalité, à la suite du #recours de plusieurs organisations étudiantes – l’Union nationale des étudiantes en droits, gestion, AES, sciences économiques, politiques et sociales (Unedesep), l’association du Bureau national des élèves ingénieurs et la Fédération nationale des étudiants en psychologie. Une démarche à laquelle s’étaient associés d’autres syndicats étudiants et enseignants.
    Les associations avaient attaqué, devant le Conseil d’Etat, l’arrêté du 19 avril 2019, qui fixe les nouveaux droits d’inscription pour les étudiants étrangers extra-européens, à hauteur de 2 770 euros en licence (contre 180 euros pour les étudiants français et européens) et 3 770 euros en master (contre 243 euros). La juridiction administrative avait décidé de surseoir à statuer, le 24 juillet, jusqu’à ce que le Conseil constitutionnel tranche la question de #constitutionnalité soulevée.
    « La Nation garantit l’égal accès de l’enfant et de l’adulte à l’instruction »
    Le Préambule de la Constitution du 27 octobre 1946 du prévoit en effet que « la Nation garantit l’égal accès de l’enfant et de l’adulte à l’instruction » et que « l’organisation de l’enseignement public gratuit et laïque à tous les degrés est un devoir de l’Etat », défendaient les associations étudiantes. Mais il n’avait jamais été, jusqu’ici, précisé si l’enseignement supérieur était concerné par ce principe, au même titre que l’enseignement primaire et secondaire, ni de quelle manière. C’est chose faite. La plus haute juridiction précise, pour la première fois, comment cette obligation de gratuité s’applique dans un monde universitaire particulier, puisque y sont pratiqués des droits d’inscription. « Cette exigence ne fait pas obstacle, pour ce degré d’enseignement, à ce que des droits d’inscription modiques soient perçus, écrivent les juges constitutionnels. En tenant compte, le cas échéant, des capacités financières des étudiants. » Prochaine
    étape sur le terrain juridique : le Conseil d’Etat devra examiner de nouveau cet arrêté au regard de l’exigence de gratuité fixée par le Conseil constitutionnel.
    Ce dernier, en revanche, n’a pas jugé inconstitutionnelles les dispositions contestées de la loi de finances de 1951, qui prévoient que le pouvoir réglementaire fixe les montants annuels des droits perçus par les établissements publics d’enseignement supérieur et acquittés par les étudiants. « Il juge qu’il appartient aux ministres compétents de fixer sous le contrôle du juge les montants de ces droits. »

    Sept universités ont mis en place des droits « différenciés »
    La stratégie « #Bienvenue_en_France », dans laquelle figure cette augmentation des droits, a été annoncée par le gouvernement en novembre 2018, avec l’objectif de développer l’attractivité de la France, et d’atteindre 500 000 étudiants internationaux à l’horizon – contre 324 000 actuellement.
    Seules sept universités (sur environ 75 établissements) ont mis en place dès cette rentrée des droits « différenciés » pour les étudiants extracommunautaires. La majorité des établissements ont choisi d’utiliser la possibilité d’exonération ouverte par un décret de 2013. Chaque université peut dispenser de droits d’inscription 10 % de ses étudiants. Un dispositif utilisable, si les établissements le décidaient, en faveur des étudiants extracommunautaires.
    L’inquiétude demeure de savoir si ce quota permettra encore aux universités qui le souhaitent d’exonérer leurs étudiants étrangers, l’an prochain. Encore plus en 2021.

    https://www.lemonde.fr/education/article/2019/10/11/le-conseil-constitutionnel-acte-la-gratuite-de-l-enseignement-superieur_6015
    #enseignement_supérieur #justice #université #frais_universitaires #taxes_universitaires #frais_d'inscription

    • Reçu par mail d’une amie juriste :

      Malheureusement, je pense qu’il faut rester prudent.e.s, le conseil constitutionnel n’a pas jugé inconstitutionnelle la disposition sur la hausse des frais d’inscription, il s’agit d’ailleurs de ce qu’ils appellent « une décision de conformité » (à la Constitution). Le Conseil constitutionnel fait seulement une sorte de rappel sur le principe de gratuité. Et en effet, la chose un peu bonne et nouvelle, c’est qu’il l’étend à l’enseignement supérieur mais par ailleurs, et toute de suite après, il fait une réponse toute pourrie en remplaçant ’gratuit’ par ’modique’... sans dire ce qu’il en advient.
      Il explique aussi qu’il n’y a pas vraiment de droits méconnus ... (quid du droit à l’éducation...?!)... laissant (selon moi) une certaine marge de manœuvre..
      Bref, c’est super mal rédigé et plein d’incertitudes planent !

      Donc, maintenant tout va se jouer devant le Conseil d’État qui prendra la mesure de cette décision QPC ou pas pour répondre au recours de l’union nationale des etudiant.e.s.

    • EDUCATION THAT LEADS TO LEGISLATION

      ‘Segregated By Design’ examines the forgotten history of how our federal, state and local governments unconstitutionally segregated every major metropolitan area in America through law and policy.

      Prejudice can be birthed from a lack of understanding the historically accurate details of the past. Without being aware of the unconstitutional residential policies the United States government enacted during the middle of the twentieth century, one might have a negative view today of neighborhoods where African Americans live or even of African Americans themselves.

      We can compensate for this unlawful segregation through a national political consensus that leads to legislation. And this will only happen if the majority of Americans understand how we got here. Like Jay-Z said in a recent New York Times interview, “you can’t have a solution until you start dealing with the problem: What you reveal, you heal.” This is the major challenge at hand: to educate fellow citizens of the unconstitutional inequality that we’ve woven and, on behalf of our government, accept responsibility to fix it.

      https://www.segregatedbydesign.com

    • The Color of Law

      This “powerful and disturbing history” exposes how American governments deliberately imposed racial segregation on metropolitan areas nationwide (New York Times Book Review).

      Widely heralded as a “masterful” (Washington Post) and “essential” (Slate) history of the modern American metropolis, Richard Rothstein’s The Color of Law offers “the most forceful argument ever published on how federal, state, and local governments gave rise to and reinforced neighborhood segregation” (William Julius Wilson). Exploding the myth of de facto segregation arising from private prejudice or the unintended consequences of economic forces, Rothstein describes how the American government systematically imposed residential segregation: with undisguised racial zoning; public housing that purposefully segregated previously mixed communities; subsidies for builders to create whites-only suburbs; tax exemptions for institutions that enforced segregation; and support for violent resistance to African Americans in white neighborhoods. A groundbreaking, “virtually indispensable” study that has already transformed our understanding of twentieth-century urban history (Chicago Daily Observer), The Color of Law forces us to face the obligation to remedy our unconstitutional past.


      https://books.wwnorton.com/books/detail.aspx?id=4294995609&LangType=1033
      #livre

  • Il decreto immigrazione cancellerà lo Sprar, «sistema modello» di accoglienza

    Le scelte del governo: stretta su rifugiati e nuove cittadinanze. Vie accelerate per costruire nuovi centri per i rimpatri. Permessi umanitari cancellati. Hotspot chiusi per 30 giorni anche i richiedenti asilo.

    Permessi umanitari cancellati. Stretta su rifugiati e nuove cittadinanze. Vie accelerate per costruire nuovi centri per i rimpatri. Possibilità di chiudere negli hotspot per 30 giorni anche i richiedenti asilo. Trattenimento massimo nei centri prolungato da 90 a 180 giorni. E poi addio alla rete Sprar. I 17 articoli e 4 capi dell’ultima bozza del decreto migranti, che il governo si prepara a varare, promettono di ridisegnare il volto del «pianeta immigrazione». Soprattutto sul fronte accoglienza, abrogando di fatto un modello, quello dello Sprar, che coinvolge oggi oltre 400 comuni ed è considerato un modello in Europa.

    A denunciarlo è l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): «Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni, destinato in caso di attuazione a produrre enormi conseguenze negative in tutta Italia, tanto nelle grandi città che nei piccoli centri, al Nord come al Sud».

    Ventitremila migranti accolti. «Lo Sprar - spiega a Repubblica Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi - è un sistema di accoglienza e protezione sia dei richiedenti asilo che dei titolari di protezione internazionale e umanitaria nato nel lontano 2002 con le modifiche al testo unico immigrazione della cosiddetta Bossi-Fini. Nei sedici anni della sua esistenza lo Sprar si è enormemente rafforzato passando da alcune decine di comuni coinvolti e meno di duemila posti di accoglienza nel 2002, ai circa ventitremila posti attuali con coinvolgimento di oltre 400 comuni».

    Un modello in Europa. «In ragione dei suoi successi nel gestire l’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati in modo ordinato con capacità di coinvolgimento dei territori, lo Sprar è sempre stato considerato da tutti i governi di qualunque colore politico il fiore all’occhiello del sistema italiano, da presentare in Europa in tutti gli incontri istituzionali, anche per attenuare agli occhi degli interlocutori, le gravi carenze generali dell’Italia nella gestione dei migranti».

    Il ruolo centrale dei comuni. «Il presupposto giuridico su cui si fonda lo Sprar è tanto chiaro quanto aderente al nostro impianto costituzionale: nella gestione degli arrivi e dell’accoglienza dei migranti allo Stato spettano gli aspetti che richiedono una gestione unitaria (salvataggio, arrivi e prima accoglienza, piano di distribuzione, definizione di standard uniformi), ma una volta che il migrante ha formalizzato la sua domanda di asilo la gestione effettiva dei servizi di accoglienza, protezione sociale, orientamento legale e integrazione non spetta più allo Stato, che non ha le competenze e l’articolazione amministrativa per farlo in modo adeguato, ma va assicurata (con finanziamenti statali) dalle amministrazioni locali, alle quali spettano in generale tutte le funzioni amministrative in materia di servizi socio-assistenziali nei confronti tanto della popolazione italiana che di quella straniera».
    Il business dei grandi centri. «Lo Sprar (gestito oggi da Comuni di centrosinistra come di centrodestra) ha assicurato ovunque una gestione dell’accoglienza concertata con i territori, con numeri contenuti e assenza di grandi concentrazioni, secondo il principio dell’accoglienza diffusa, di buona qualità e orientata ad inserire quanto prima il richiedente asilo nel tessuto sociale. Inoltre lo Sprar ha assicurato un ferreo controllo della spesa pubblica grazie a una struttura amministrativa centrale di coordinamento e all’applicazione del principio della rendicontazione in base alla quale non sono ammessi margini di guadagno per gli enti (associazioni e cooperative) che gestiscono i servizi loro affidati. Invece, da oltre un decennio, il parallelo sistema di accoglienza a diretta gestione statale-prefettizia, salvo isolati casi virtuosi, sprofonda nel caos producendo un’accoglienza di bassa o persino bassissima qualità con costi elevati, scarsi controlli e profonde infiltrazioni della malavita organizzata che ha ben fiutato il potenziale business rappresentato dalla gestione delle grandi strutture (come caserme dismesse, ex aeroporti militari) al riparo dai fastidiosi controlli sulla spesa e sulla qualità presenti nello Sprar».

    La fine dello Sprar. «Cancellare l’unico sistema pubblico di accoglienza che funziona appare come uno dei più folli obiettivi politici degli ultimi anni. Che ne sarà di quelle piccole e funzionanti strutture di accoglienza già esistenti e delle migliaia di operatori sociali, quasi tutti giovani, che con professionalità, lavorano nello Sprar? Qualcuno potrebbe furbescamente sostenere che in fondo lo Sprar non verrebbe interamente abrogato ma trasformato in un sistema di accoglienza dei soli rifugiati e non più anche dei richiedenti asilo i quali rimarrebbero confinati nei centri governativi. È una spiegazione falsa, che omette di dire che proprio la sua caratteristica di sistema unico di accoglienza sia dei richiedenti che dei rifugiati dentro un’unica logica di gestione territoriale è ciò che ha reso lo Sprar un sistema efficiente e razionale. Senza questa unità non rimane più nulla».

    https://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2018/09/21/news/migrazioni-206997314/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S2.4-T1
    #sprar (fin de -) #réfugiés #accueil #migrations #asile #Italie #hébergement #hotspot #décret #détention_administrative #rétention #protection_humanitaire #politique_d'asile #hotspots #it_has_begun #decreto_Salvini

    via @isskein

    • Publié sur la page FB de Filippo Furri :

      « Mi permetto di riprendere il commento della splendida Rosanna Marcato che è stata uno degli attori fondamentali di un percorso di sviluppo e crescita di un modello di accoglienza innovativo, che è alle fondamenta del mio lungo lavoro di ricerca sulla nozione di CITTà RIFUGIO : le città, le comunità locali, dove può realizzarsi la solidarietà concreta e reciproca, sono e devono rimanere luoghi di resistenza ai poteri fascisti che si diffondono dovunque, alla paranoia identitaria costruita a tavolino e iniettata nei cervelli e negli spiriti di spettatori impauriti e paranoici. lo SPRAR nasceva da forme di azione sperimentale «dal basso» e solidale (antifascista, antirazzista), che i governi autoritari e fascisti detestano e combattono.

      «L 11 settembre 2001 Venezia tra le prime città italiane ha dato il via ad un sistema di accoglienza (pna) che si è poi trasformato nello SPRAR. Era il frutto di esperienze di accoglienza, di saperi professionali e della volontà di costruire un sistema di accoglienza territoriale stabile e moderno. Un servizio sociale a tutti gli effetti con regole certe e rendicontazioni esatte e controllabili. Molte delle regole, degli strumenti e delle metodologie di lavoro che ancora funzionano furono elaborati da questa città e dal servizio che dirigevo. 27 anni di lavoro buttati nel cesso. Siate maledetti voi e anche quelli di prima che ci hanno ficcato in questa situazione di merda»

    • Immigrazione, Andrea Maestri: “Nel decreto Salvini tradisce il contratto di governo”

      Andrea Maestri critica il decreto Immigrazione: “Fino a oggi lo Sprar rappresentava un modello pubblico e trasparente nella gestione delle risorse. Chi adesso non rientra nel sistema Sprar non sparisce magicamente dal territorio. E quindi finirà nei Centri d’accoglienza straordinari, i Cas, che sono tutti privati”.

      Dopo aver licenziato l’atteso Dl Immigrazione, il ministro degli Interni Matteo Salvini, a proposito del futuro degli Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e del ridimensionamento di questi centri in favore dei Cas, ha dichiarato: «Il rischio è inesistente, anche qui viene messo ordine in un sistema. Da quando sono ministro abbiamo ridotto di circa 20 mila unità le presenze in tutti questi tipi di strutture. Coloro che sono nel giusto come amministratori locali e come profughi non hanno nulla a che temere da questo provvedimento». In conferenza stampa il ministro degli Interni ha spiegato che il sistema Sprar continua a sopravvivere «limitatamente ai casi di protezione internazionale e dei minori non accompagnati». Ma stanno davvero così le cose? Ne abbiamo parlato con Andrea Maestri, della segreteria nazionale di Possibile.

      Nel contratto di governo si parlava di una diminuzione della capacità d’azione dei privati nella gestione dell’accoglienza. Con questo decreto la promessa non è stata mantenuta.

      Assolutamente no. Credo che qualunque osservatore attento non possa che gridare allo scandalo per questo gravissimo inadempimento, nei confronti soprattutto dei cittadini che hanno creduto nella buona fede di chi ha firmato il contratto di governo. Secondo quel contratto sembrava si volesse puntare sul modello pubblico e diffuso. E’ in corso al contrario una privatizzazione hard del sistema dell’accoglienza. Fino a oggi lo Sprar, anche se in modo minoritario, coinvolgendo gli enti locali, rappresentava un modello pubblico e trasparente nella gestione delle risorse, che venivano rendicontate. Nel momento in cui diventa uno strumento ulteriormente residuale, perché si rivolge solo a coloro che hanno già ottenuto la protezione internazionale – si parla appunto solo dei ‘titolari’, non più di richiedenti asilo che hanno fatto domanda – comincia a riguardare solo un numero ridotto di persone. Ma chi non rientra nel sistema Sprar non sparisce magicamente dal territorio, e quindi bisognerà trovargli un’altra collocazione: cioè nei Centri d’accoglienza straordinari, i Cas, che sono appunto tutti privati, gestiti dalle prefetture, ognuna con modalità diverse di scelta del contraente, con modalità di rendicontazione a macchia di leopardo.

      Ma Salvini sostiene l’opposto, cioè che questo rischio è inesistente.

      Se avesse ragione Salvini aumenterebbe il numero di persone che vivono per strada in una condizione di fragilità sociale umana ed esistenziale: se questi migranti non vengono accolti dai Comuni all’interno degli Sprar, se non se ne occupano le prefetture attarverso gli appaltatori privati all’interno dei Cas, vorrà dire che saranno in giro. Sono persone prive di documenti, che non possono fare contratti regolari di locazione, e nemmeno condividere contratti di locazione con altri. E questo sì che farà aumentare l’irregolarità e la criminalità organizzata e disorganizzata. Con un’unica conseguenza: aumenterà la percezione di insicurezza diffusa.

      Nel testo definitivo, all’articolo 2 è confermata la norma sugli appalti per i lavori nei centri, che possono essere affidati senza previa pubblicazione del bando di gara. E’ in linea con la Costituzione?

      C’è questa norma, ma con alcuni ritocchi. In pratica la procedura negoziata, senza previa pubblicazione di un bando pubblico, può essere fatta per gli appalti sotto soglia comunitaria. Ma se si considera che la soglia comunitaria per lavori, dal primo gennaio 2018 è di circa 5 milioni e mezzo di euro, è evidente che con quella somma più che un Cas si può fare un vero e proprio carcere. Sono importi molto elevati che consentono al governo di fare procedure negoziate, limitando il confronto concorrenziale solo a 5 ditte scelte discrezionalmente dall’amministrazione. Qui c’è una lesione del principio di trasparenza e di concorrenza. Poi hanno scritto che verranno rispettati alcuni criteri, come quello di rotazione, però la sostanza rimane. L’articolo 63 del codice degli Appalti dovrebbe essere limitato a casi del tutto eccezionali: ad esempio una data amministrazione può avere l’interesse a trattare con un determinato soggetto se vuole commissionargli un’opera d’arte per una piazza pubblica; oppure sono previsti casi straordinari d’urgenza, in cui è ammissibile una deroga del genere. Ma non siamo in nessuno di questi due campi. Il governo per i prossimi tre anni sta stabilendo una procedura in deroga alle norme dell’evidenza pubblica. E’ piuttosto grave che si apra una parentesi del genere per un lasso così lungo di tempo. La prima bozza che era circolata negli ambienti dell’Anci, era spudorata, un colpo allo stomaco. Poi ci sarà stato un intervento da parte forse degli uffici ministeriali di Palazzo Chigi, o da parte dello stesso Presidente della Repubblica, che probabilmente hanno limitato un po’ il danno. Ma rimane uno degli aspetti più discutibili e negativi dell’intero provvedimento, perché è proprio uno di quegli ambiti su cui Salvini ha fatto sempre propaganda, contestando il modello del Cara di Mineo. Qui si sta dicendo che il ministero sta prospettando appalti senza evidenza publica. E la Corte Costituzionale se sarà chiamata a intervenire non mancherà di censurare quest’aspetto.

      Dal momento che il testo prevede il raddoppio dei tempi di trattenimento nei Cpr, da 90 a 180 giorni, vuol dire che ne serviranno di più? Qual è la ratio?

      E’ tutto collegato, c’è una coerenza, negativa ovviamente. Nel momento in cui tu trasformi lo Sprar, e lo snaturi, visto che non si tratta più di un sistema di accoglienza per i richiedenti asilo, ma solo per i rifugiati, avremo sempre più persone disperse nel territorio, o nei Cas. E quindi viene privilegiata una gestione emergenziale. Questo farà aumentare il numero delle persone espulse dal sistema, ma non dal territorio. Ci saranno sempre più persone irregolari, e quindi una maggiore necessità di Cpr. Quelli attuali sicuramente non basteranno, quindi se ne dovranno fare degli altri. Per alimentare la narrazione emergenziale si dirà che bisogna fare in fretta, e da qui proviene il vincolo dei tre anni per la deroga per i bandi di gara per le imprese. Quando costruiranno un nuovo centro sarà a quel punto interessante vedere quali aziende verranno chiamate a concorrere, e con quali criteri. Questa è l’economia dell’emergenza, che si deve autoalimentare non solo nella propaganda, ma anche nella sostanza.

      Cosa ne pensa del permesso di soggiorno per atti di valore civile?

      Siamo alla banalità del male. Togliendo la protezione umanitaria come istituto generale, tantissime persone che ricadevano in zone grigie, non facilmente ascrivibili ad una categoria giuridica, ma che rientravano comunque in quell’ambito di tutela ampia dei diritti umani fondamentali, si trovano adesso in difficoltà. E mi riferisco soprattutto a quelle persone vulnerabili, che arrivano in Italia deprivati, fisicamente e moralmente, dopo aver attraversato per esempio l’inferno libico. Adesso per loro non ci sarà più nessuna tutela. Ci sono al loro posto queste sei categorie molto rigide che lasciano poco spazio all’attenzione di cui necessitano invece alcuni casi particolari. Un po’ per caso, come in una lotteria, se uno è in una condizione di irregolarità, ma gli capita di salvare una persona durante un incidente stradale da una macchina in fiamme, o ipotizziamo, con un po’ di fantasia, se quest’immigrato salvasse il ministro Salvini che annaspa in mare, potrebbe ottenere il permesso di soggiorno in virtù della sua azione di valore civile. Mi sembrano delle restrizioni cieche e ottuse che non migliorano minimamente lo stato delle cose. Perché la via maestra sarebbe una riforma organica del testo unico sull’immigrazione, che rendesse trasparenti e legali i canali di ingresso in Italia. Sarebbe fortemente depotenziato il canale della protezione internazionale, che ovviamente è sotto pressione perché non esiste altro modo per entrare in Italia legalmente. Ma ovviamente questo decreto crea un consenso molto più immediato.

      https://www.fanpage.it/immigrazione-maestri-nel-decreto-salvini-tradisce-il-contratto-di-governo

    • Cosa prevede il decreto Salvini su immigrazione e sicurezza

      Il 24 settembre il consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità il cosiddetto decreto Salvini su immigrazione e sicurezza. Il decreto si compone di tre titoli: il primo si occupa di riforma del diritto d’asilo e della cittadinanza, il secondo di sicurezza pubblica, prevenzione e contrasto della criminalità organizzata; e l’ultimo di amministrazione e gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia.

      Nei giorni precedenti all’approvazione si erano diffuse delle voci su possibili dissidi tra i due partiti di maggioranza, Lega e Movimento 5 stelle, ma il ministro dell’interno Matteo Salvini durante la conferenza stampa a palazzo Chigi ha voluto sottolineare che i cinquestelle hanno approvato senza riserve il suo progetto di riforma.

      All’inizio i decreti avrebbero dovuto essere due: il primo sull’immigrazione e il secondo sulla sicurezza e sui beni confiscati alle mafie, poi nel corso dell’ultima settimana sono state fatte delle “limature” e i due decreti sono stati accorpati in un unico provvedimento. Il decreto dovrà ora essere inviato al presidente della repubblica Sergio Mattarella che a sua volta deve autorizzare che la norma sia presentata alle camere. Ecco in sintesi cosa prevede.

      Abolizione della protezione umanitaria. Il primo articolo contiene nuove disposizioni in materia della concessione dell’asilo e prevede di fatto l’abrogazione della protezione per motivi umanitari che era prevista dal Testo unico sull’immigrazione. Oggi la legge prevede che la questura conceda un permesso di soggiorno ai cittadini stranieri che presentano “seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello stato italiano”, oppure alle persone che fuggono da emergenze come conflitti, disastri naturali o altri eventi di particolare gravità in paesi non appartenenti all’Unione europea.

      La protezione umanitaria può essere riconosciuta anche a cittadini stranieri che non è possibile espellere perché potrebbero essere oggetto di persecuzione nel loro paese (articolo 19 della legge sull’immigrazione) o in caso siano vittime di sfruttamento lavorativo o di tratta. In questi casi il permesso ha caratteristiche differenti. La durata è variabile da sei mesi a due anni ed è rinnovabile. Questa tutela è stata introdotta in Italia nel 1998.

      https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2018/09/24/decreto-salvini-immigrazione-e-sicurezza

    • Italy: The security decree that makes everyone more insecure

      JRS Italy (Centro Astalli) is concerned about the effects that the new measures introduced by the ’Salvini decree’ on migration and security – unanimously approved on the 24th of September by the Italian Council of Ministers – will have on the lives of migrants and on the social cohesion of the whole country.

      The combination of the Security Decree and the Immigration Decree in a single piece of legislation is misleading as it associates security issues, such as organised crime and terrorism, with the issue of managing migration, in particular forced migration. This is particularly wrong knowing that a completely different legislative approach is needed to deal with migration challenges, particularly in terms of programmes, general management and migrants’ integration.

      For JRS Italy, the reform of the Protection System for Asylum Seekers and Refugees (SPRAR) foreseen by the decree represent a fundamental step back for the Italian reception system. By excluding applicants for international protection from this type of reception the reform is in clear contradiction with the principle that a successful integration process starts from the first reception, as the current Integration Plan for refugees of the Italian Ministry of the Interior also states.

      The SPRAR, recognized as a qualitative system also by international observers, is therefore cut down, despite being the only reception system that guarantees maximum transparency in the management of resources. At the same time, the large collective centres for asylum seekers are strengthened even though the experience on the ground largely shows that, also due to the lack of involvement of local administrations, establishing such centres often encounters resistance and generates social tensions.

      According to Camillo Ripamonti SJ, JRS Italy’s president, “It is a step backwards that does not take into account on the one hand the lives and stories of the people, and on the other hand the work that for decades many humanitarian organizations and civil society have done in close collaboration with the institutions - in particular with local authorities”.

      “Criminalising migrants” – Ripamonti concludes – “is not the right way to deal with the presence of foreign citizens in Italy. Enlarging grey zones that are not regulated by law and making legal procedures less accessible and more complicated, contributes to make our country less secure and more fragile."

      http://jrseurope.org/news_detail?TN=NEWS-20180925084854

    • Decreto Salvini, Mattarella firma ma ricorda a Conte gli obblighi fissati dalla Costituzione

      Il provvedimento è quello che riguarda sicurezza e immigrazione. Il presidente della Repubblica invia al premier una lettera in cui richiama l’articolo 10 della Carta. La replica di Salvini: «ciapa lì e porta a cà». Polemica dei medici sulla norma per i presidi sanitari

      https://www.repubblica.it/politica/2018/10/04/news/dl_sicurezza_mattarella_firma_lettera_a_conte_obblighi_costituzione-20814

    • “I grandi centri di accoglienza vanno superati”. Anzi no. Se Salvini contraddice se stesso

      Ad agosto il ministero dell’Interno ha trasmesso al Parlamento una relazione molto dura sul modello straordinario dei Cas, presentati come “luoghi difficili da gestire e da vivere che attirano gli interessi criminali”. Proponendo l’alternativa dello SPRAR. Ma nonostante le evidenze e gli elogi per il sistema di protezione diffuso, il “decreto immigrazione” va nella direzione opposta.

      grandi centri di accoglienza in Italia sono “luoghi difficili da gestire e da vivere”, producono “effetti negativi oltre che nell’impatto con le collettività locali anche sull’efficienza dei servizi forniti ai migranti”, e per il loro “rilevante onere finanziario” rappresentano una “fonte di attrazione per gli interessi criminali”. Per questo è necessario un loro “alleggerimento progressivo” puntando sulle “progettualità SPRAR” (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), autentico “ponte necessario all’inclusione e punto di riferimento per le reti territoriali di sostegno”. Garanzia di “processi più solidi e più facili di integrazione”.

      Recita così la “Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza predisposto al fine di fronteggiare le esigenze straordinarie connesse all’eccezionale afflusso di stranieri nel territorio nazionale”, relativa al 2017, trasmessa alla Camera dei deputati il 14 agosto di quest’anno e presentata da un ministro che sostiene pubblicamente il contrario: Matteo Salvini.

      Ad agosto, in quella relazione, il titolare dell’Interno ha infatti riconosciuto come nel circuito SPRAR, “oltre al vitto e alloggio”, venga “garantito ai richiedenti asilo un percorso qualificato, finalizzato alla conquista dell’autonomia individuale” grazie alla “realizzazione di progetti territoriali di accoglienza”. Un modello da promuovere per merito delle “qualità dei servizi resi ai beneficiari che non si limitano ad interventi materiali di base (vitto e alloggio) ma assicurano una serie di attività funzionali alla riconquista dell’autonomia individuale, come l’insegnamento della lingua italiana, la formazione e la qualificazione professionale, l’orientamento legale, l’accesso ai servizi del territorio, l’orientamento e l’inserimento lavorativo, abitativo e sociale, oltre che la tutela psico socio-sanitaria”. Ma ancora nel 2017, su 183.681 migranti ospitati nelle strutture temporanee, hotspot, centri di prima accoglienza e SPRAR, appena 24.471 occupavano l’accoglienza virtuosa del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati. Da lì la corretta intenzione di alleggerire i grandi centri a favore dell’approccio diffuso e integrato.

      Poi però il governo ha smentito se stesso: nonostante le riconosciute qualità dello SPRAR, l’esecutivo ha messo mano alla materia attraverso il recente decreto legge su immigrazione e sicurezza (Dl 113), licenziato dal governo ed emanato dal Capo dello Stato a inizio ottobre, puntando in direzione opposta. In quella che Gianfranco Schiavone, vice presidente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, ha definito la “destrutturazione del sistema di accoglienza”.

      L’articolo 12 del “decreto Salvini”, infatti, trasforma l’attuale SPRAR in un sistema per soli titolari di protezione internazionale, un terzo degli attuali accolti, tagliando fuori così i richiedenti asilo, i beneficiari di protezione umanitaria (sostanzialmente abrogata) e coloro che avessero fatto ricorso contro la decisione di diniego delle Commissioni territoriali sulla loro domanda. Per gli esclusi si apriranno le porte degli attuali centri governativi di prima accoglienza o dei centri di accoglienza straordinaria (CAS), proprio quelli di cui la relazione presentata dal ministro Salvini, poche settimane prima, auspicava il superamento.
      “La riforma pare fotografare la realtà della prassi precedente al decreto legge -ha evidenziato l’ASGI in un documento che mette in fila i profili di manifesta illegittimità costituzionale del decreto-. I CAS sono il ‘non’ sistema di accoglienza per la generalità dei richiedenti asilo, in violazione della Direttiva Ue sull’accoglienza che consente simili riduzioni di standard soltanto per periodi temporanei e per eventi imprevedibili, mentre le strutture dello SPRAR sono sempre più riservate a minori (non sempre), a titolari di protezione internazionale e spesso a chi si trova in condizioni (spesso familiari) disperate”.

      Non solo. Come ha ricordato l’Associazione nazionale dei Comuni italiani (ANCI), il 43% degli accolti nello SPRAR “ha concluso positivamente il proprio percorso di accoglienza ed ha raggiunto uno stato di autonomia, e un ulteriore 31% ha acquisito gli strumenti indispensabili per ‘camminare sulle proprie gambe’”. “Lo SPRAR riesce a rendere autonome le persone in un lasso di tempo indubbiamente inferiore rispetto a ciò che accade nei CAS. Nello SPRAR il tempo medio di permanenza è infatti di 6 mesi, questo significa che in un posto SPRAR vengono mediamente accolte all’anno 2 persone. Nei Comuni dove esiste un progetto SPRAR, i costi economici e sociali subiscono una notevole flessione”. Motivo per cui a metà ottobre l’ANCI ha presentato alcuni emendamenti in vista dell’iter parlamentare che porterà alla conversione del decreto. Uno di questi chiede proprio di consentire l’accesso dei “richiedenti asilo vulnerabili (compresi nuclei familiari con figli minori) all’interno dei progetti SPRAR, per evitare che ricadano, inevitabilmente, sui bilanci dei Comuni e delle Regioni i costi dei servizi socio-sanitari che sarà in ogni caso necessario erogare senza poter accedere ad alcun rimborso da parte dello Stato (stimati circa 286 milioni di euro annui”.

      Posto di fronte alla contraddizione tra la relazione di agosto e il decreto di ottobre, il ministero dell’Interno ha fatto sapere ad Altreconomia che la Relazione non è altro che un “adempimento richiesto dalla normativa” e che questa “si riferisce, nel merito, al periodo cui la stessa fa riferimento”. Come se nell’arco di otto mesi lo SPRAR fosse cambiato.

      Ed ecco quindi che il “ponte necessario all’inclusione” è diventato la “pacchia” da interrompere: la graduatoria dei progetti avanzati dagli enti locali ed esaminati dal Viminale, per ulteriori 3.500 posti da aggiungersi ai 32mila attualmente finanziati, di cui era prevista la pubblicazione a luglio 2018, non ha mai visto la luce. E le nuove richieste di adesione al Sistema da parte dei territori -altri 2.500 nuovi posti- non sono state nemmeno prese in considerazione. Il risultato è che 6mila potenziali nuovi posti SPRAR sono stati “sacrificati” sull’altare della linea Salvini. Quella di ottobre, però, non quella di agosto.

      https://altreconomia.it/decreto-salvini-cas

    • Beyond closed ports: the new Italian Decree-Law on Immigration and Security

      In the past months, Italian migration policies have been in the spotlight with regard to the deterrence measures adopted to prevent sea arrivals of migrants. After the closure of ports to vessels transporting migrants and the reduction of search and rescue operations at sea, the government adopted a restrictive approach to the internal norms, reforming the architecture of the Italian system of protection.

      On 24 September 2018, the Italian Council of Ministers unanimously adopted a new Decree-Law on Immigration and Security. Strongly endorsed by the Minister of the Interior Matteo Salvini, the final text of the Decree contains ‘urgent measures’ on international protection and immigration, as well as on public security, prevention of terrorism and organised crime. Following the approval of the President of Republic, the bill has come into force on October 5. The future of the Decree now lays in the hands of the Parliament, which will have to transpose it into law within sixty days of its publication or it will retrospectively lose its effect.

      The securitarian approach adopted sparked strong criticism within civil society and the President of the Republic himself accompanied his signature with an accompanying letter addressed to the President of the Council, reminding that all ‘constitutional and international obligations’ assumed by Italy remain binding, even if there is no explicit reference to them in the Decree. This blog post provides an overview of the first two Chapters of the Decree-Law, dedicated to immigration and asylum. It will further analyze their impact on the rights of protection seekers and their compatibility with European law, International law as well as the Italian Constitution.

      1. Provisions on humanitarian residence permits and fight against irregular migration

      1.1 The abrogation of ‘humanitarian protection’

      The main change introduced by the first Chapter of the Decree-Law concerns what is commonly referred to as ‘humanitarian protection’, namely a residence permit issued to persons who are not eligible to refugee status or subsidiary protection but cannot be expelled from the country because of ‘serious reasons of humanitarian nature, or resulting from constitutional or international obligations of the State’ (art. 5(6) of the Consolidated Act on Immigration).

      The humanitarian residence permit was introduced as a safeguard clause in the Italian legislation, complementing international protection within the meaning of article 10 paragraph 3 of the Constitution, which stipulates that: ‘[a] foreigner who, in his home country, is denied the actual exercise of the democratic freedoms guaranteed by the Italian Constitution shall be entitled to the right of asylum under the conditions established by law.’ The important role of ‘humanitarian protection’ has been further clarified by the Italian highest court (Court of Cassation), which stated that the right to be issued a humanitarian permit, together with refugee status and subsidiary protection, constitutes a fundamental part of the right of asylum enshrined in the Constitution (see for example judgement 22111/2014).

      In practice, humanitarian residence permits were a ‘flexible instrument’ which could cover several circumstances emerging from forced displacement where there was no sufficient evidence of an individual risk of persecution or serious harm. As explained by the Court of Cassation, prior to the entry into force of the Decree, humanitarian protection was granted to persons suffering from an ‘effective deprivation of human rights’ upon the fulfilment of two interrelated conditions: the ‘objective situation in the country of origin of the applicant’ and ‘the applicant’s personal condition that determined the reason for departure’ (see judgement 4455/2018). The Court further presented as possible example of human rights deprivation the situation of a person coming from a country where the political or environmental situation exposes her to extreme destitution and does not allow her to attain a minimum standard of dignified existence. As noted by the Court, the definition of environmental issues does not only contain natural disasters but it may also include non-contingent events, such as droughts or famines, which deprive the person from having a basic livelihood.

      However, as already mentioned, the grounds for obtaining humanitarian protection were relatively open and could be adjusted to other situations entailing a deprivation of basic human rights, such as the inability of the country of origin to protect the right to health of applicants affected by serious conditions, or the family situation of the applicant interpreted in light of article 8 of the European Convention on Human Rights. Also, the level of social integration reached by an applicant during her stay in Italy, together with the situation of poverty or instability in the country of origin, were also to be considered as a ground to grant humanitarian protection.

      By radically transforming article 5(6) and severely restricting the possibility for rejected asylum applicants to be granted residence permits in light of constitutional and international obligations or for humanitarian reasons, article 1 of the Decree-Law substantially abrogates ‘humanitarian protection’. Instead, the Decree provides for the creation of a ‘special protection’ residence permit, which can be issued only to those persons who cannot be expelled due to the non-refoulement obligations defined in article 19 of the Consolidated Act on Immigration unless the applicant can be returned to a country where she could receive ‘equivalent protection’.

      The first article of the Decree-Law further creates new residence permits that can be granted in restricted ‘special cases’, as for example: persons affected by ‘exceptionally serious’ medical conditions; persons who cannot return to their home countries due to ‘exceptional natural disasters’; and persons who have carried out ‘exceptional civil acts’. The Decree, however, does not modify the grounds for granting special residence permits to victims of trafficking, violence or labour exploitation, as already provided for in arts. 18 and 18-bis of the Consolidated Act on Immigration.

      The new Decree reduces not only the scope of protection and the number of potential beneficiaries but also the duration of the stay for third-country nationals falling into the above-mentioned ‘special’ categories. Whilst persons granted the ‘humanitarian’ status were provided with a two-year renewable residence permit, the permits issued in the new ‘special cases’ allow residence in Italy for shorter periods: six months for exceptional natural disasters or violence and one year in the other for ‘special protection’, ‘medical reasons’ and other ‘special cases’. Such permits are renewable and allow the holder to work but – differently from the humanitarian residence permit – they cannot be converted into a work permit when the circumstances for which they were issued cease to exist. Only in the event that the foreigner has accomplished exceptional civil acts, whose nature is not further specified, the person – at the discretion the Minister of the Interior – can be issued a residence permit lasting two years.

      A final important amendment contained in article 1 of the Decree is related to those persons who are already beneficiaries of humanitarian residence permits at the time in which the Decree enters into force: their permits will not be renewable anymore on humanitarian grounds, even if the circumstances for which the permit was granted in the first place still exist. Therefore, unless the beneficiary is granted a conversion of her humanitarian permit into a work or study permit, or she falls under the new special cases listed in the decree law, she will find herself in an irregular situation and will risk being returned.

      The abrogation of the ‘humanitarian’ residence permit is of particular concern as, since its creation in 1998, it has been an important legal instrument allowing to protect and regularise all third-country nationals who could not be returned to a third country. Suffice it to say that, in 2017 only, Italy has granted 20,166 residence permits on ‘humanitarian’ grounds, whereas only 6,827 persons were granted asylum and 6,880 subsidiary protection. To counter this trend, last July, the Minister of the Interior had already sent a letter to all administrative authorities involved in the asylum procedure, requesting them to adopt a stricter approach when granting protection on humanitarian grounds. Such decision has been justified with the rationale of conforming Italy to European standards, which do not provide for this third form of protection. Arguably, even if humanitarian protection is not harmonised at the EU level under the Qualification Directive, there are obligations imposed on all Member States by international refugee law and human rights law that prevent them from returning third-country nationals under certain circumstances. Looking at the practice of EU-28 Member States, in the course of 2017, 63 thousand asylum seekers were given authorisation to stay for humanitarian reasons under national law. This number could be even higher as it only encompasses first instance decisions for those persons who have been previously reported as asylum applicants, and does not take into account those who have been granted a permission to stay for humanitarian reasons without having lodged an asylum application.

      Moreover, the abrogation of humanitarian protection is likely to open a protection gap under article 10 paragraph 3 of the Italian Constitution. As noted by the Italian Association for Juridical Studies on Immigration (ASGI), the substitution of humanitarian protection with a restricted list of ‘special’ residence permits, means that the right to asylum set out by the Constitution is ‘no longer fully implemented by the legislator’. This could open the possibility to bring legal actions to ascertain the right of asylum guaranteed by article 10 – which can be invoked directly in front of an ordinary court even in the absence of implementing legislation – or raise questions of constitutionality.

      1.2 Making returns more effective

      The second part of the first Chapter of the Decree-Law focuses on improving returns and facilitating the return of third-country nationals in an irregular situation. In order to achieve these objectives, article 2 of the Decree extends the maximum duration of the foreigner’s detention in return centres from 90 to 180 days. Article 4 further foresees that, in case the reception capacity of pre-removal centres is exhausted and prior to authorization of a judicial authority, foreigners may also be held in other ‘appropriate facilities’ and in border offices. In addition, article 3 of the new Decree-Law modifies the Decree Implementing the Reception Conditions Directive and the Procedures Directive (Decree-Law 18 August 2015, n. 142), by expanding grounds for detention in hotspots. Thus, foreigners who have been found in an irregular situation on the national territory or rescued during search and rescue operations at sea may be subject to detention in order to determine their identity and nationality. The maximum duration of detention is set to 30 days. In case it is impossible to verify such information, the person concerned can be transferred in a return center for a maximum of 180 days. Finally, article 6 increments the funding for returns, providing for the re-allocation of 3,5 million euros between 2018 and 2020. These funds – originally provided for assisted voluntary return and reintegration – will now be allocated to facilitate not further described ‘return measures’.

      Even if the possibility to detain applicants for international protection in order to ascertain their identity and nationality is provided for in the Reception Conditions Directive, deprivation of liberty in such cases could be inconsistent with international refugee law read in conjunction with the Italian Constitution. According to ASGI, provisions connected to the deprivation of liberty in order to verify the identity and nationality are in violation of article 31 of the 1951 Geneva Convention and of article 13 of the Italian Constitution. In fact, since it is common to almost all asylum seekers not to possess valid documents proving their identity, such circumstances would not be proportionate to the ‘conditions of necessity and urgency’ required by article 13 of the Constitution to deprive someone of their liberty without judicial authorization. That been said, the debate on the lack of documentation to prove asylum seekers’ identity is likely to be of interest in the near future, as it is also fuelled by the European Commission recent proposal for a recast of the Return Directive, where the lack of documentation is included among the criteria establishing the existence of a risk of absconding to avoid return procedures.

      2. Provisions on international protection

      2.1 Provisions on asylum seekers who committed serious crimes

      The second chapter of the new Decree reforms, with a restrictive turn, the rules on the revocation of and exclusion from international protection. Article 7 extends the list of crimes that, in case of final conviction amount to the exclusion from or to the revocation of international protection. These include: production, trafficking and possession of drugs; injuries or threats made to officers in performance of their duties; serious personal injury offence; female genital mutilation; robbery, extortion, burglary and theft, if compounded by the possession of weapons or drugs; slavery; exploitation of child prostitution.

      Furthermore, article 10 of the new Decree introduces an accelerated procedure in the event that an asylum seeker is convicted – even prior to a final sentence – for one of the above-mentioned criminal offences and for the other serious crimes amounting to the exclusion from international protection already provided for in articles 12 and 16 Decree 251/2017. Thus, when the applicant is convicted in first instance, the Territorial Commissions for the Recognition of International Protection has to immediately examine the asylum claim and take a decision. In case the decision of the Commission rejects the request for international protection, the applicant is required to leave the country, even if the person concerned lodges an appeal against the asylum decision.

      The Decree Law, by abrogating the suspensive effect of the appeal for a person who has been convicted in first instance arguably goes against article 27 of the Italian Constitution, which considers the defendant not guilty ‘until a final sentence has been passed.’ Moreover, pursuant Article 45 Asylum Procedure Directive, as a general rule Member States shall allow applicants to remain in the territory pending the outcome of the remedy. An exception might be allowed under article 46(6)(a) of the Asylum Procedures Directive, if the application is determined to be unfounded on grounds that the applicant is ‘for serious reasons’ considered to be a danger to the national security or public order of the Member State. However, article 46(6) also stipulates that even in such case there is no automatism and the decision whether or not the applicant may remain on the territory of the Member State should be taken by a court or tribunal. Therefore, insofar as the Decree provides for the automatic return of rejected asylum seekers pending an appeal, without a judicial decision authorising their removal, it is incompatible with the right to an effective remedy provided for by the Procedures Directive and enshrined in article 47 of the EU Charter of Fundamental Rights.

      In any instance, the return of a person – regardless of the fact that she may have committed a crime – cannot be performed when the individual concerned is at risk of refoulement as defined by article 3 of the European Convention on Human Rights and Article 19 of the Charter of Fundamental Rights. As follows from the jurisprudence of the European Court of Human Rights (ECtHR), the prohibition of non-refoulement has an absolute character. The conduct of the person is irrelevant and even the involvement in serious crimes, such as terrorism, does not affect the prohibition to return individuals to states in which they faced a risk of torture, inhuman or degrading treatment (see ECtHR judgements in Saadi, Chahal, and Soering).

      2.2 Provisions on subsequent applications and border procedures

      Article 9 of the Decree implements into Italian legislation some restrictive provisions on subsequent applications that are allowed under the Asylum Procedures Directive (APD) but that had so far been regulated in a more favourable manner.

      First of all, the Decree provides for new grounds of exclusion from the right to remain in the Italian territory, following almost verbatim the exception from the right to remain contained in article 41 of the APD. This includes all persons who have lodged a first subsequent application merely in order to delay or frustrate the enforcement of a decision which would result in their imminent removal, or make another subsequent application after their first subsequent application has been considered inadmissible or unfounded.

      Secondly, article 9 establishes new rules on accelerated procedures for applicants who have introduced a subsequent application for international protection without new elements or findings supporting their claim. In case that the applicant was stopped following an attempt to elude border controls, this procedure also applies in border or transit zones. This is a novelty in Italian law, that until now did not provide for the possibility of carrying out the evaluation of an asylum claim at the border. According to the explanatory note to the Decree, this amendment follows the rationale of article 31(8)(g) APD. This article, however, provides for the possibility to apply accelerated and border procedure in case an application is lodged to avoid an earlier removal decision – which appears to be a stricter ground than the one provided for by the Italian decree.

      Also, the Decree sets out a new ground for the inadmissibility of an asylum application: a subsequent application is inadmissible if it is lodged to prevent the enforcement of a decision which would result in her imminent removal and it shall be dismissed without being further examined. This is not consistent with article 40 APD, which provides at least for a preliminary examination on the presence of new elements substantiating the asylum claim.

      Lastly, following the definitions of article 41 APD APD, the Decree limits the suspensive effect of appeals lodged in two circumstances. First, by all persons who have lodged a first subsequent application to delay the enforcement of a decision which would result in his or her imminent removal. Second, by asylum seekers whose application has been considered inadmissible as a subsequent application where no new elements or findings have arisen or have been presented by the applicant, whilst prior to the entry into force of the Decree-Law this only happened when an application was assessed as inadmissible for the second time.

      2.3 Reception conditions for asylum seekers

      One of the most discussed provisions of the Decree on immigration concerns the reception of asylum seekers, which undergoes substantive changes. The decree de facto abrogates the possibility for asylum seekers to access reception provided under the System for the Protection of Asylum Seekers and Refugees (SPRAR). The system, operated by local institutions, in cooperation with non-governmental and voluntary organizations, had not only the aim to provide basic reception but also to favour the social integration of asylum seekers and beneficiaries of protection. With the amendments introduced by article 12 of the new decree, only already recognized refugees and beneficiaries of subsidiary protection, as well as unaccompanied minors, will be granted accommodation within the SPRAR. Asylum seekers will, therefore, be only hosted in collective reception centres (CARA, CDA). In case of unavailability of places, applicants can also be hosted in temporary reception centres (CAS) where, according to the law, only basic levels of reception conditions have to be met.

      These amendments fail to take into account the pre-existent structure of the Italian reception system. As a matter of law, the SPRAR was the only durable solution provided for asylum seekers, while the other types of reception centres have been designed only for initial or temporary reception (see articles 9 and 11 of the Decree implementing the Reception Conditions Directive). Considering the length of asylum procedures in the country, asylum seekers will be left with no alternative than remaining for months (or in some cases even years) in facilities which are often inadequate in terms of both capacity and structural and safety conditions.

      This decision is of great concern as it is likely to put further strain on the Italian reception system, which already has a record of not providing an adequate standard of reception conditions to asylum applicants – as recognised in 2014 by the European Court of Human Rights. More recently, a Dutch court annulled a transfer to Italy pointing out that the new Decree raises questions about the structural deficiencies in the Italian reception system, in particular as it restricts access to adequate reception conditions to vulnerable asylum seekers.

      Final remarks

      Whilst the number of arrivals to Italy is at the lowest level registered in the past few years, the phenomenon of migration has reached the dimension of an emergency in the internal public debate, with the Decree-Law on Immigration and Security representing a major downturn in the architecture of the Italian system of protection.

      The implementation of further grounds for exclusion and withdrawal of protection, the reduction of procedural guarantees, and the general restrictive approach on the rights of migrants and asylum seekers adopted in the Decree generate serious concerns. Above all, some of the provisions contained in the Decree may entail a risk of violation of the principle of non–refoulement, which is not only a cornerstone of the international refugee regime but also a fundamental guarantee that protects all human beings from being subject to torture, inhuman or degrading treatment. What is more, some of the changes introduced with the Decree might have far-reaching practical consequences on the rights of the migrants who are already present or will arrive in the country. In particular, the repeal of ‘humanitarian’ residence permits, which have been widely used in the past years, is likely to have the unintended side-effect of increasing the number of migrants who will find themselves in an irregular situation. The new bill has been presented by the Interior Minister Matteo Salvini as ‘a step forward to make Italy safer’ – however it will arguably increase the number of cases of destitution, vulnerability, and exploitation.

      It remains to be seen whether the Parliament will confirm the text of the Decree when ultimately converting it into law. However, considering that the time for discussion is limited (60 days only) it is doubtful that the bill will undergo substantial improvement. Also, as the Decree has become one of the flagship measures of the current Government, it is unlikely that it will be repealed in toto. The choice itself of the Government to use a decree having force of law – rather than of the ordinary legislative procedure – does not seem to stem from a situation of ‘obvious necessity and urgency’ as provided for by the Constitution. Rather, it appears to be a shortcut to obtain immediate results on matters where it is difficult to achieve political consensus through democratic debate. Against this backdrop, the new bill on Immigration and Security – with questionable democratic legitimacy – restricts the rights of asylum seekers and people displaced, making protection increasingly inaccessible.

      http://eumigrationlawblog.eu/beyond-closed-ports-the-new-italian-decree-law-on-immigration-and

    • Decreto immigrazione, le brutte novità nascoste sotto la fiducia

      Il governo ha presentato in aula un “emendamento interamente sostitutivo” del testo finora discusso. La “sorpresa” sono elementi di gran lunga più restrittivi in tema di diritto d’asilo. Tra questi, la nozione di “Paesi di origine sicuri”, un “cavallo di Troia” per smontare il sistema della protezione internazionale, come denunciano studiosi dell’Asgi

      Con 163 voti a favore e 59 contrari, il 7 novembre il Senato della Repubblica ha approvato la fiducia al cosiddetto “decreto sicurezza e immigrazione” promosso in particolare dal ministro dell’Interno Matteo Salvini. Il testo votato da Palazzo Madama e inviato alla Camera, però, è stato modificato rispetto all’originario attraverso un “emendamento interamente sostitutivo” del Ddl (il numero 1.900), sulla cui approvazione il Governo aveva appunto posto la questione di fiducia 24 ore prima. Non si è trattato di interventi meramente formali quanto invece profondamente sostanziali. Tanto da non lasciare praticamente più nulla del precedente sistema di asilo, incardinato al principio costituzionale che all’articolo 10 della Carta riconosce quella tutela allo “straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”.

      Le 28 pagine di modifiche e integrazioni avanzate dall’esecutivo, secondo Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi, www.asgi.it), assumono infatti la forma di un “cavallo di Troia” -blindato dalla fiducia- utile a “introdurre novità di taglio iper restrittivo che nella prima versione del decreto non c’erano”. Creando così un provvedimento che è un “vero e proprio mostro”, senza peraltro dare troppo nell’occhio.
      Alla già nota abrogazione della protezione umanitaria, allo stravolgimento dell’ex Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR), alle illegittimità costituzionali già evidenziate nelle scorse settimane dall’Asgi, si aggiungono nuovi elementi preoccupanti.

      Schiavone ha il testo del maxi emendamento del governo sotto mano e scorre alle introdotte “Disposizioni in materia di Paesi di origine sicuri e manifesta infondatezza della domanda di protezione internazionale”.
      Il primo punto riguarda i “Paesi di origine sicuri”, il caso cioè di uno “Stato non appartenente all’Unione europea” che stando al nuovo articolato potrà “essere considerato Paese di origine sicuro se, sulla base del suo ordinamento giuridico, dell’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e della situazione politica generale, si può dimostrare che, in via generale e costante, non sussistono atti di persecuzione […] né tortura o altre forme di pena o trattamento inumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. La designazione di un Paese di origine sicuro può essere fatta con l’eccezione di parti del territorio o di categorie di persone”.

      Per “accertare” che uno Stato sia o meno “di origine sicuro” ed eventualmente iscriverlo nell’elenco adottato per decreto dal ministro degli Esteri (“Di concerto con i Ministri dell’Interno e della Giustizia) ci si dovrà basare “sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo”. La domanda di protezione del richiedente proveniente da quel Paese verrà sì esaminata ma, se rigettata sarà “considerata manifestamente infondata”.

      “Dove è stata introdotta, la nozione di Paese di origine sicuro, che le direttive europee prevedono quale misura normativa solo facoltativa per gli Stati -riflette Schiavone- ha sempre prodotto gravissimi problemi poiché le domande di protezione sono per definizione individuali ovvero legate alla condizione specifica di un richiedente. Esaminare invece una domanda ritenendo già che un Paese di origine sia ‘sicuro’ crea una situazione di pregiudizio sostanziale nell’esame della domanda stessa e dà ampi margini per l’esercizio di un’influenza politica molto forte del potere esecutivo sull’organo di valutazione”. Ciò vale soprattutto per l’Italia oggi. Perché? “Perché chi stabilisce che il Paese di origine sia ‘sicuro’ sarà di fatto la Commissione nazionale per il diritto d’asilo, che non è organo amministrativo indipendente ed è fortemente connesso per composizione e struttura organizzativa al potere politico”. Tradotto: il Governo di turno potrà decidere che un Paese venga considerato di “origine sicuro” con obiettivi di carattere politico che nulla hanno a che fare con le domande di protezione. Schiavone pensa a casi come il Bangladesh, la Tunisia, il Senegal e così via.
      Il rigetto della domanda per manifesta infondatezza comporta un forte indebolimento della tutela giurisdizionale -continua Schiavone- poiché il ricorso ha tempi di impugnazione più brevi e non c’è un’automatica sospensiva durante il contenzioso. Molte ragioni mi inducono a pensare, anche se ancora a caldo e riservandomi approfondimenti -conclude lo studioso- che la nozione di ‘Paese di origine sicuro’ sia del tutto estranea alla nozione di asilo delineata dalla nostra Costituzione”.

      Tra le altre “novità” rispetto all’originario “decreto Salvini” c’è poi quella della cosiddetta “protezione interna” nel Paese terzo di provenienza del richiedente. “Se in una parte del territorio del Paese di origine, il richiedente non ha fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corre rischi effettivi di subire danni gravi o ha accesso alla protezione contro persecuzioni o danni gravi e può legalmente e senza pericolo recarvisi ed essere ammesso e si può ragionevolmente supporre che vi si ristabilisca”, la sua domanda di protezione è “rigettata”. “Anche su questa norma, del tutto facoltativa nel diritto dell’Unione e che l’Italia, fin dal 2008, con saggezza, aveva evitato sono molti i dubbi di conformità rispetto all’articolo 10 della nostra Costituzione -riflette Schiavone-. È possibile segmentare un Paese in aree, evidenziando peraltro una situazione che è già di grande instabilità, visto che un Paese è diviso in due o più parti?. Cosa vuol dire in concreto che è ragionevole supporre che la persona si trasferisca nell’area del Paese considerata sicura? Quali i parametri di valutazione? È sufficiente solo la mancanza di rischio o è necessario che alla persona venga fornita una protezione effettiva e una assistenza materiale? La norma, genericissima, non fornisce alcuna risposta”. Ciò che è chiaro è che è scontata la tendenza, come ribadisce il vicepresidente Asgi, di considerare l’asilo come fosse una sorta di “extrema ratio” cui ricorrere quando nessuna altra soluzione, anche precaria e parziale all’interno di quel Paese sia possibile. “Che cosa ha a che fare tutto ciò con il diritto all’asilo garantito dalla Costituzione a coloro cui sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche? La distanza è abissale”.
      Utilizzare la nozione di area interna sicura nel Paese di origine è solo un altro modo per respingere domande di asilo che tradizionalmente vengono accolte. “Pensiamo al caso dei cittadini afghani o iracheni e riteniamo per l’appunto che le persone possano spostarsi in una presunta ‘area sicura’ del Paese. Quanto è sicura? Come si valuta? Per quanto tempo? Che tipo di stabilità e assistenza deve provvedere ad assicurare lo Stato allo sfollato interno? Domande che rimangono senza risposta”.

      Accanto al tema dei “Paesi di origine sicuri” e delle zone di “protezione interna”, il maxi emendamento interviene -come già il decreto 113- a proposito di cittadinanza. L’avvocato Livio Neri, socio di Asgi, elenca brevemente alcune delle misure del decreto legge governativo. “C’è l’aumento del contributo da versare per presentare ‘istanze o dichiarazioni di elezione, acquisto, riacquisto, rinuncia o concessione della cittadinanza’, che passa da 200 a 250 euro. C’è l’incredibile allungamento del ‘termine di definizione dei procedimenti’, da 24 a 48 mesi dalla data di presentazione della domanda. E c’è il brutto precedente della ‘revoca’ della cittadinanza prevista in caso di condanna definitiva per gravi reati”. Precedente che creerà peraltro nuova apolidia, dal momento che -come fa notare Neri- la norma così come è scritta (ed è rimasta) non prevede la circostanza che dopo la revoca sorga appunto una condizione di apolidia per l’interessato ed è perciò in contrasto con la Convenzione di New York sulla materia.

      L’emendamento del governo aggiunge a questi (e altri) elementi un termine di sei mesi per il rilascio di estratti e certificati di stato civile “occorrenti ai fini del riconoscimento della cittadinanza italiana”, che significa secondo Neri “che lo stesso documento (ad esempio il certificato di nascita di un congiunto, ndr) ha termini diversi a seconda di chi lo richiede”. E pone poi come condizione necessaria alla “concessione della cittadinanza” il “possesso, da parte dell’interessato, di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non inferiore al livello B1 del Quadro comune europeo di riferimento per le lingue (QCER)”, salvo per chi abbia sottoscritto l’accordo di integrazione o sia titolare di permesso di soggiorno Ue per “soggiornanti di lungo periodo”. “Questa previsione -commenta amaramente Neri- avrà un durissimo impatto sulle persone con minori strumenti culturali a disposizione e che per questo non saranno riusciti a imparare l’italiano”.

      https://altreconomia.it/decreto-immigrazione-novita

    • What will change for migrants under Italy’s new immigration and security decree?

      As the decree passed the Senate, Italy’s upper house, Matteo Salvini tweeted it was an “historic day.” The decree still needs to pass the lower house by the end of November before it is enshrined in law. At the moment, that looks likely, so what will change for migrants if it is passed?

      Like all decrees, Italy’s new security and immigration decree is composed of many complicated clauses and paragraphs. In short, it is intended to regulate immigration and public security. It has been pushed by Italy’s deputy prime minister and Minister of the Interior, Matteo Salvini, who is also leader of the anti-immigration party, La Lega (The Northern League).

      Essentially, it will change the laws under which foreign migrants have been staying in the country since 1998. It is set to repeal the right to stay for humanitarian reasons. “Humanitarian protection” is a lower level of asylum status that is based on Italian rather than international law. Up until now, this right has been conceded for up to two years on serious humanitarian grounds and allowed migrants and refugees to access the job market, health services and social welfare.

      The new decree will take this catch-all definition ’on humanitarian grounds’ away in favor of six new specific categories which applicants will need to fulfill. Has the applicant been smuggled or exploited? Are they subject to domestic violence? Do they need specific medical attention? Was there some kind of calamity in their country of origin or have they contributed in a special way to Italian civil society which would merit a right to stay?

      Article two of the law doubles the length of time that migrants can be kept in repatriation centers whilst their cases are looked at. It will allow the authorities to build more centers too. Repatriations are expected to increase with more money being assigned to making sure they happen; three and a half million euros in total up to 2020.

      Revoking refugee status

      There will be a longer list of crimes that, if committed will lead to a refugee being refused asylum or having their refugee status revoked. The crimes include murder, armed robbery, extortion, violence towards public officials, people found to be practicing genital mutilation, armed theft and burglary, possession of drugs, slavery, sexual violence or kidnapping. Anyone found guilty of terrorist acts or trying to overturn the constitution provides another reason for expulsion under the new law.

      The new decree is expected to weaken the SPRAR networks which were set up to protect refugees and asylum seekers in 2002. Only unaccompanied migrants and those who qualify for international protection will come under the future auspices of SPRAR. Everyone else will be sent to ’welcome centers’ or CARA (Welcome center for those requesting asylum). Social cooperatives assigned asylum seekers and migrants will be required to report to the authorities every three months with a list of people that they support. The decree is also expected to slash the budget assigned for food and lodging for migrants in CARA centers from 30 euros per person per day to 15 euros.

      Anyone who marries an Italian will now have to wait four years instead of the current two before applying for citizenship. In addition, like in Germany, migrants hoping to remain in Italy will be required to pass a B1 language test.

      Jubilation and condemnation

      Matteo Salvini was pictured looking jubilant as the decree was passed by the Senate with 163 votes to 59. Not everyone was happy though. Roberto Saviano, an anti-Mafia writer who opposes the current Italian government called the decree “criminal” saying it was “self harming, [and] suicidal.” He pointed out that it would be impossible to repatriate more than 500,000 migrants without papers who are currently present in the country. “Much better,” he said “give them papers and allow them to work and pay taxes to the state.” He said the law would only serve to increase the number of “irregular migrants” in the country feeding organized crime networks.

      The Democratic Party (PD) leader in the Senate, Andrea Marcucci contests the decree too. He was quoted in the left-leaning daily newspaper, La Repubblica, saying it “creates insecurity, not security and would make 100s of thousands more migrants clandestine in Italy.” He concluded: “This is a decree against Italy, against Italians and against security.”

      Salvini disagrees. In interviews prior to the Senate vote, he said that the decree was not just about immigration but increasing security for everyone in Italy. “It’s about strengthening the anti-mafia organizations and anti-racket laws. It will make everything more serious and rigorous. […] It is a decree which will bring more money and power to the police, to mayors; will introduce more surveillance cameras.” He added that once the law has passed, he will be looking to reform the justice system too. That way, cases dragging on for years, until they enter proscription, will be a thing of the past.

      The decree is scheduled to be put before the lower house on the November 22. With the Five Star Movement and the League holding a majority there too, (along with other right-leaning parties like Forza Italia and Fratelli D’Italia,) it is expected to pass without too many problems and enter law before the end of the year.


      http://www.infomigrants.net/en/post/13210/what-will-change-for-migrants-under-italy-s-new-immigration-and-securi

    • Message de Sara Prestianni, via la mailing-list Migreurop, 28.11.2018:

      Hier la Chambre des Deputé- avec un vote blindé de confiance - a approuvé le DL sécurité migration.
      Le #vote_de_confiance a permis au Gouvernement de le faire passer en toute vitesse et de balayer tout tentatif de l’opposition de faire des amendements qui pouvaient limiter les déjà tragiques dégâts.
      Nombreuses les déclaration préoccupé et les mobilisation des associations italiennes pour cette loi de la honte

      Ici le CP publié par ARCI -> Le secret loi immigration et sécurité est loi : Injustice est fait : https://www.arci.it/il-ddl-sicurezza-e-immigrazione-e-legge-ingiustizia-e-fatta

      où nous expliquons nos inquiétudes face aux dégâts sociaux d’une loi qui ne fera que créer encore plus de personnes sans documents qui seront exclu du système d’accueil en les rendant encore plus exploitables. Un énième, tragique, étape vers la violation systématique des droits de migrants et réfugiés.

      Ici les principaux changement dans le système italien (sorry only in FR) dont beaucoup intéressent les thématiques de travail du réseau :

      1- Abolition de la “#protection_humanitaire
      La protection humanitaire avait été introduit en 1998 et était attribué pour “serieux motivation de caractère humanitaire ou dérivant de obligation constitutionnels ou internationales de l’Etat Italien ; à ceux qui fuyaient des conflits, désastres naturels ou situations de particulières gravité dans les pays d’origine ou encore ceux qui ne pouvaient pas être expulsés ou encore à victime de traite ou autre type d’exploitation. En 2017 ont été présenté 130 000 demandes de protection en Italie : le 52% a été rejeté. Dans le 25% des cas a été attribué une protection humanitaire ; le 8% ont obtenu un statut de réfugié et un autre 8% la protection subsidiaire. Le 7% a obtenu un autre type de protection.
      Cela veut dire que ce permis ne sera plus donné mais aussi que ceux qui l’ont obtenu ne le pourront plus renouveler
      A sa place cette nouvelle loi a intégré un titre de séjour pour “#cas_spéciaux” : victimes de #violences_domestiques ou grave #exploitation du #travail ou pour des #raisons_médicales ou qui s’est distingué pour “actes de particulier valeur civile”. Ce permis aura une durée de deux ans et ne pourra pas être renouveler

      – Prolongation de la durée de détention dans les #CPR (centre pour le retour -> les cra italiens) -> Aujourd’hui les migrants peuvent être enfermé pour un max de 90 jours. La nouvelle loi prolonge la durée maximale de détention à 180 jours.

      – Permanence dans les #hotspot et points de frontière -> Selon l’article 3 de la nouvelle loi les demandeurs d’asile peuvent être enfermés pour une période de max 30 jours dans les hotspot et structure de “premier accueil” (#Cas et #Cara) pour l’identification. Si dans les 30 jours n’a pas été possible proceder à l’identification aussi les demandeurs d’asile pourront être enfermés dans un CPR pour 180 jours. De cette façon un demandeur d’asile pour être enfermé pour 210 jours pour vérifier et déterminer son identité. Cela sera aussi appliqué aux mineurs en famille.
      De plus est prévu que le juge de paix puisse valider la détention en “#locaux_adaptes” auprès les bureau de frontière jusqu’à’ l’expulsion pour max 48 heures.

      – Plus de fonds pour les expulsions -> A l’article 6 a été prévu un augmentation du budget pour les #expulsions : 500 000 euro en 2018 ; 1,5 million euro en 2019 et autre 1.5 millions en 2020.

      – Retrait ou refus de la protection international en cas de condamnation pour menaces ou violences à officiers public ; lésions personales graves ou vol

      – Ceux qui sont en procedure penale (meme si pas condamné en voi definitive verront leur demande d’asile analysé en procedure accelleré

      – Listes des pays sures -> La loi prévoit l’institution d’une liste de pays d’origine sure et la procedure de demande de protection internationale manifestement infondé. La liste sera stilé par le Ministere des Affaires Etrangers avec le Ministere de l’Interieur et de la Justice sur la base des info fournies par la Commissione Nationales du Droit d’Asile et les agences européennes et internationales. Les demandeurs d’asile en provenance d’un pays present dans la liste des pays sures devrait démontrer de avoir graves motivation qui justifient sa demande et elle sera analyse en procedure accellerée.

      – Restriction du système d’accueil -> Le système d’accueil pour demandeurs d’asile et réfugié (#SPRAR) - le système ordinaire géré par les mairies - sera limité à ceux qui sont déjà titulaire de protection internationales et aux mineurs isolés. Les autres demandeurs seront accueilli dans les CAS et CARA (en parallele le Gouvernement a annoncé une diminution des fonds pour demandeurs d’asile par jour de 35 à 19 euro rendent ainsi impossible donner aucun type de service - juridiques, sociale, intégration et psychologique - dans le parcours d’accueil)

      #pays_sûr #rétention #détention_administrative

    • L’Italie adopte la loi anti-migrants de Matteo Salvini

      Ce texte durcit la politique italienne en matière d’immigration, remplaçant les permis de séjour humanitaires par d’autres permis plus courts.

      L’Italie a adopté mercredi un décret-loi controversé durcissant sa politique d’immigration, voulu par Matteo Salvini, ministre de l’Intérieur et chef de la Ligue (extrême droite). La Chambre des députés a adopté le texte - après le Sénat début novembre et dans les mêmes termes - par 396 oui contre 99 non.

      Le gouvernement populiste formé par la Ligue et le Mouvement 5 Etoiles (M5S, antisystème) avait posé la question de confiance dans les deux chambres sur ce décret-loi. Quatorze députés du M5S n’ont pas pris part au vote mercredi.

      Le texte durcit la politique italienne en matière d’immigration. Il remplace en particulier les permis de séjour humanitaires, actuellement octroyés à 25% des demandeurs d’asile et d’une durée de deux ans, par divers autres permis, comme « protection spéciale », d’une durée d’un an, ou « catastrophe naturelle dans le pays d’origine », d’une durée de six mois, entre autres.
      Refus de signer le pacte de l’ONU sur les migrations

      Il prévoit une procédure d’urgence afin de pouvoir expulser tout demandeur se montrant « dangereux ». Il réorganise aussi le système d’accueil des demandeurs d’asile, qui étaient encore 146 000 fin octobre et seront regroupés dans de grands centres par mesures d’économies. Dans le volet sécurité, il généralise l’utilisation des pistolets électriques et facilite l’évacuation des bâtiments occupés.

      Le gouvernement italien a annoncé mercredi qu’il ne signerait pas le pacte de l’ONU sur les migrations (Global Compact for Migration) comme s’y était engagé en 2016 le précédent exécutif de centre-gauche dirigé à l’époque par Matteo Renzi.

      Le gouvernement ne participera pas au sommet prévu les 10 et 11 décembre à Marrakech où doit être définitivement adopté ce pacte « se réservant d’adhérer ou non au document seulement une fois que le parlement se sera prononcé », a déclaré le président du Conseil Giuseppe Conte. Non contraignant, ce texte de 25 pages, premier du genre sur ce sujet, vise à réguler les flux migratoires au plan mondial.

      https://www.letemps.ch/monde/litalie-adopte-loi-antimigrants-matteo-salvini

    • Il decreto immigrazione è legge: cambierà in peggio la vita di migliaia di persone.

      Con il voto di fiducia di ieri alla Camera, il decreto immigrazione è stato convertito in legge. Refugees Welcome Italia esprime nuovamente la propria contrarietà ad un provvedimento che cambia, in negativo, la vita di migliaia di persone, rendendole ancora più vulnerabili ed esponendole al rischio di vivere ai margini della società. Come già ribadito, lontano dal garantire “l’ordine e la sicurezza pubblica”, questo decreto va nella direzione opposta, acuendo il disagio sociale e aumentando l’insicurezza per tutta la popolazione, migrante e italiana, con pesanti ricadute anche sulla coesione sociale. Secondo alcune stime, la sola abolizione della protezione umanitaria – un permesso di soggiorno che lo Stato italiano riconosce a coloro che, pur non avendo i requisiti per ottenere la protezione internazionale, presentano comunque delle vulnerabilità tali da richiedere una forma di tutela – produrrà 60 mila nuovi irregolari nei prossimi due anni. Migliaia di nuovi senza tetto, persone senza diritti, che rischiano di diventare facile preda di sfruttamento e criminalità.
      “Un decreto di tale portata avrebbe meritato una discussione approfondita, in fase di approvazione, per tentare almeno di introdurre qualche miglioria, invece il testo è passato con la fiducia”, sottolinea Fabiana Musicco, presidente dell’associazione. “A pagare il prezzo di questo nuovo assetto normativo saranno, ad esempio, migliaia di ragazzi arrivati in Italia da minori soli che sono prossimi a compiere 18 anni. Molti di loro hanno fatto richiesta di asilo e qualora ricevessero un diniego di protezione internazionale, una volta diventati maggiorenni, non avrebbero alcun titolo per rimanere in modo regolare in Italia. Per non parlare dei tanti neo-maggiorenni che hanno già ottenuto la protezione umanitaria e che, non potendo accedere al sistema Sprar a causa del decreto, non hanno un posto dove andare. In questo ultimo mese ci sono arrivate diverse segnalazioni di ragazzi in questa situazione: diciottenni che si sono iscritti sul nostro sito per chiedere di essere ospitati in famiglia e proseguire il loro percorso di inclusione. Il rischio, per loro, è che finiscano per strada”.
      Oltre all’abolizione della protezione umanitaria, sono tante altre le misure discutibili che incideranno negativamente sull’architettura del sistema di accoglienza in Italia. Invece di potenziare l’accoglienza diffusa gestita dagli enti locali, che ha favorito, in questi anni, reali processi di inclusione per richiedenti asilo e titolari di protezione, si è scelto, con questo decreto, di rafforzare la logica emergenziale dei grandi centri che, oltre a non garantire alcuna integrazione, genera spesso, a causa dei pochi controlli, abusi e malversazioni. “Molte disposizioni del decreto, oltre a ridurre lo spazio di esercizio di alcuni diritti fondamentali, come quello all’asilo, sono contrarie al buon senso e renderanno il nostro Paese un posto meno sicuro per tutti, migranti e italiani”.

      https://refugees-welcome.it/decreto-immigrazione-legge-cambiera-peggio-la-vita-migliaia-persone

    • Azzariti: «Il Decreto sicurezza sarà bocciato dalla Consulta»

      Il costituzionalista critica il decreto Salvini votato al Senato, non celando la speranza che alla Camera venga modificato

      «Innanzitutto il provvedimento impressiona per il segno culturalmente regressivo perché appiattisce l’immigrazione ad un problema di esclusiva sicurezza pubblica: dalla legge Bossi Fini in poi c’è una progressione in questo senso di criminalizzazione del problema migratorio». Il costituzionalista Gaetano Azzariti critica il decreto Salvini votato al Senato, non celando la speranza che alla Camera venga modificato: «Così com’è è una summa di incostituzionalità, auspico si intervenga per cambiarlo in Parlamento».

      Professore, perché il decreto sicurezza sarebbe incostituzionale? Ci vuole spiegare le ragioni?
      Penso di peggio: nel testo ci sono una summa di incostituzionalità. Dallo strumento utilizzato, il decreto legge, al contenuto del provvedimento che va in conflitto coi principi della nostra Carta.

      Lei critica la formula del decreto perché dice che in questo momento non esiste un’emergenza tale da giustificare un provvedimento simile? Però posso ribattere, facendo l’avvocato del diavolo, che da anni è prassi che i nostri governi adottino la formula del decreto esautorando il Parlamento…
      C’è una sentenza della Corte Costituzionale del 2007 che ci spiega come non sia sufficiente che il governo dichiari la necessità di urgenza per emanare un decreto. Illegittimo è quindi l’uso del decreto legge per regolare fenomeni – quali le migrazioni – di natura strutturale che non rivestono alcun carattere di straordinarietà ed urgenza. In questo caso la palese mancanza dei requisiti costituzionali è dimostrata dal fatto di cui il governo si vanta di aver ridotto dell’80 per cento il problema dell’immigrazione. E allora non le sembra una contraddizione logica dichiarare l’emergenza quando lo stesso governo festeggia per i risultati ottenuti? Il governo ha pieno diritto di legiferare in materia, anche secondo il principio di contenimento dei flussi, ma tramite un disegno di legge.

      Al di là, quindi, della formula del decreto che lei reputa inopportuna, entrando nel merito, quali sono gli articoli della Costituzione che vengono violati?
      In primis, l’articolo 10 terzo comma stabilisce un diritto fondamentale che riguarda non i cittadini ma gli stranieri. A questi viene assegnato la possibilità di chiedere asilo politico allo Stato italiano. La stessa Cassazione, con diverse sentenze emesse dal 2012 al 2018, e le disposizioni internazionali ci parlano di permessi per “protezione umanitaria” come mezzi di attuazione della disposizione costituzionale. Bene, col decreto si passa all’eliminazione totale di questo status: la protezione umanitaria viene abrogata e sostituita da ipotesi specifiche. Cos’è questa se non una violazione dell’articolo 10 della nostra Carta?

      E che ne pensa della sospensione della concessione della domanda se si è sottoposti a procedimento penale?
      La presunzione di non colpevolezza è un principio di civiltà che è sancito dall’articolo 27 della nostra Costituzione. E non si fa certo differenza tra cittadini e stranieri (si riferisce in generale all’«imputato»). C’è poco altro da aggiungere: una sospensione della concessione della domanda mi sembra chiaramente violativa di questo principio.

      Si parla anche di revoca della cittadinanza in caso di condanna, anche questo aspetto secondo lei è incostituzionale?
      Si afferma per legge che qualora l’immigrato riuscisse, dopo il lungo iter burocratico, ad ottenere la cittadinanza italiana, non sarà comunque mai considerato alla pari degli altri. Come se dovesse pagare per l’eternità una pecca originaria. Questo aspetto è in contrasto con due principi: quello d’eguaglianza, introducendo nel nostro ordinamento una irragionevole discriminazione tra cittadini, e contravvenendo all’espressa indicazione di divieto della perdita della cittadinanza per motivi politici (articoli 3 e 22).

      In pratica, persone che commettono lo stesso reato avrebbero sanzioni diverse?
      Esatto, chi ha acquisito la cittadinanza è penalizzato rispetto a chi la tiene per ius sanguinis. Inoltre l’articolo 22 della Carta stabilisce che non si può perdere la cittadinanza per motivi politici. Ma se vuole continuo, gli elementi di incostituzionalità sono ancora altri.

      Ce li dica…
      Il decreto sicurezza estende la cosiddetta detenzione amministrativa cioè l’obbligo di stare in questi centri di permanenza e di rimpatrio da 90 a 180 giorni. Qui abbiamo una giurisprudenza con zone d’ombra ma che su un punto è chiarissima: la sentenza 105 del 2001 della Corte Costituzionale stabilisce che “il trattamento dello straniero presso i centri di permanenza temporanea è misura incidente sulla libertà personale”. Il governo dovrebbe dimostrare che in questi luoghi non ci sia limitazione di libertà personale, la vedo difficile.

      E sul taglio degli Sprar che ne pensa?
      È una delle parti più odiose del decreto. Si cancella quella normativa che definiva le politiche di integrazione cercando di realizzare anche un altro principio fondamentale: quello di solidarietà (articolo 2 della Costituzione).

      A questo punto, crede veramente che il testo verrà migliorato alla Camera oppure teme che Lega e M5S abbiano blindato il provvedimento con il voto di fiducia?
      La speranza è l’ultima a morire. Non posso auspicare che questa maggioranza cambi idea sull’ordine pubblico o sul nesso immigrazione-sicurezza o che faccia un provvedimento che regoli i flussi. Qui il tema di discussione non è l’indirizzo politico del governo ma il rispetto della Carta e dei limiti costituzionali. Ricordo, inoltre, che il presidente della Repubblica quando ha firmato il decreto, ha anche scritto una lettera a Conte rilevando nell’auspicio del rispetto dei principi internazionali. Il Parlamento ha l’onore di prendere in considerazione almeno questi moniti.

      E nel caso, invece, rimanga così com’è ci sarebbe l’altolà della Consulta? È un’ipotesi realistica?
      Sono certo che se dovesse essere approvato in questi termini, magari con l’aggravante della mancanza della discussione in Parlamento, tutta l’attenzione non politica ma costituzionale si riverserà sui due guardiani della Costituzione. In primo luogo sul Capo dello Stato in sede di promulgazione – che dovrà in qualche modo verificare se il Parlamento ha tenuto conto dei rilievi da lui stesso formulati – e in secondo luogo sulla Corte Costituzionale.

      La sento abbastanza convinto sulla possibilità che la Consulta bocci alcune parti del provvedimento…
      Gli elementi di incostituzionalità di questo decreto mi sembrano abbastanza evidenti.

      http://www.vita.it/it/article/2018/11/22/azzariti-il-decreto-sicurezza-sara-bocciato-dalla-consulta/149839

    • Italien verschärft seine Einwanderungsgesetze drastisch

      In Italien hat Innenminister Salvini sein Einwanderungsdekret durchgesetzt. Die Vergabe von humanitären Aufenthaltsgenehmigungen wird eingeschränkt, die Ausweisung von Migranten erleichtert.

      Drei Wochen nach dem italienischen Senat hat auch die Abgeordnetenkammer das umstrittene Einwanderungsdekret von Innenminister Matteo Salvini angenommen.

      Durch das Gesetz wird

      – die Vergabe von humanitären Aufenthaltsgenehmigungen massiv eingeschränkt und
      – die Ausweisung von Migranten erleichtert.
      – Auch die Verteilung und Unterbringung von Asylbewerbern wird neu geregelt: Die meisten sollen künftig in großen Auffangzentren untergebracht werden.
      – Als „gefährlich“ eingeschätzte Asylbewerber sollen in Eilverfahren abgeschoben werden können.
      – Migranten, die bereits die italienische Staatsbürgerschaft haben, sollen diese wieder verlieren, wenn sie in Terrorverfahren verurteilt werden.
      – Als sicherheitspolitische Neuerung ist in dem Gesetz unter anderem vorgesehen, den Einsatz von Elektroschockpistolen auszuweiten und die Räumung besetzter Gebäude zu erleichtern.

      Die Regierung hatte in beiden Parlamentskammern die Vertrauensfrage gestellt, um die Gesetzesänderung zügig durchzubringen. Einige Parlamentarier der populistischen Fünf-Sterne-Bewegung, die zusammen mit Salvinis fremdfeindlicher Lega-Partei regiert, hatten aus Protest gegen die geplanten Verschärfungen Dutzende Änderungsanträge eingereicht.

      396 Abgeordnete stimmten schließlich für die drastische Verschärfung des Einwanderungsrechts, 99 votierten dagegen. 14 Abgeordnete der Fünf-Sterne-Bewegung, die sich gegen die Pläne ausgesprochen hatten, nahmen nicht an der Abstimmung teil.

      „Ein denkwürdiger Tag“

      Salvini äußerte sich angesichts des Ergebnisses zufrieden. „Heute ist ein denkwürdiger Tag“, sagte der Innenminister, der zugleich Vizeregierungschef ist. Kritik an den Gesetzesverschärfungen wies er als Bedenken von Linken zurück, „die finden, dass illegale Einwanderung kein Problem ist“.

      Das Uno-Flüchtlingshilfswerks (UNHCR) hatte sich Anfang November besorgt zu den Gesetzesverschärfungen geäußert. Diese böten keine „angemessenen Garantien“, insbesondere für Menschen, die besonderer Fürsorge bedürften, etwa Opfer von Vergewaltigung oder Folter.

      Die italienische Regierung vertritt seit ihrem Amtsantritt im Sommer eine harte Haltung in der Flüchtlings- und Einwanderungspolitik. Schiffen mit geretteten Flüchtlingen an Bord verweigerte Salvini das Einlaufen in italienische Häfen. Der Schwerpunkt der Flüchtlingskrise im Mittelmeer hat sich seitdem stärker nach Spanien verlagert: Spanien ist in diesem Jahr zum Hauptankunftsland von Flüchtlingen in Europa geworden, weit vor Italien und Griechenland.

      http://www.spiegel.de/politik/ausland/fluechtlinge-italien-verschaerft-seine-einwanderungsgesetze-drastisch-a-1241

    • Decreto immigrazione e sicurezza, la circolare ai Prefetti del 18 dicembre 2018

      Il Gabinetto del ministero dell’Interno ha diramato in queste settimane ai Prefetti la CM del 18 dicembre 2018 per «illustrare… le principali disposizioni d’insieme» del DL 4 ottobre 2018, il cosiddetto decreto immigrazione e sicurezza. Il testo è disponibile a questo link: http://viedifuga.org/wp-content/uploads/2019/01/Circolare_m_18_12_2018.pdf. Il Viminale ha predisposto anche un documento divulgativo dal titolo Immigrazione e sicurezza pubblica. Le risposte per conoscere il nuovo decreto: qui (http://viedifuga.org/wp-content/uploads/2019/01/FAQ_Decreto_immigrazione_e_sicurezza_definitivo_3_1_2018.pdf) la versione aggiornata al 3 gennaio 2019.

      Qui invece (www.redattoresociale.it/Notiziario/Articolo/612656/Dl-Salvini-la-circolare-del-Viminale-che-tenta-di-rassicurare-i-sindaci), da Redattore sociale, il giudizio dell’ASGI sulla circolare ministeriale e le pericolose ricadute del DL (convertito in legge con la 132/2018: viedifuga.org/approvato-alla-camera-il-decreto-sicurezza-e-immigrazione-e-una-pessima-legge/) secondo Oxfam Italia e secondo l’ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale).

      http://viedifuga.org/decreto-immigrazione-e-sicurezza-la-circolare-ai-prefetti-del-18-dicembre

    • La stretta sulla residenza è uno dei problemi del decreto sicurezza

      Il decreto immigrazione e sicurezza, diventato legge il 27 novembre del 2018 con l’approvazione in parlamento, suscita divisioni e critiche sia all’interno della maggioranza sia tra le file dell’opposizione. Dopo l’attacco del sindaco di Palermo Leoluca Orlando e del sindaco di Napoli Luigi De Magistris – che hanno annunciato di non voler applicare la legge, perché “è un testo inumano che viola i diritti umani” – molti altri sindaci hanno detto che boicotteranno la norma. Una mappa compilata dalla ricercatrice Cristina Del Biaggio raccoglie tutte le adesioni degli amministratori locali contro il decreto, in totale un centinaio.

      Uno dei punti più contestati della legge è l’esclusione dei richiedenti asilo dall’iscrizione anagrafica. Leoluca Orlando, con una nota inviata al capoarea dei servizi al cittadino, ha chiesto d’indagare i profili giuridici anagrafici derivanti dall’applicazione del decreto sicurezza e di sospendere qualsiasi procedura “che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla procedura di iscrizione della residenza anagrafica”. Ma perché è così importante essere iscritti all’anagrafe e cosa comporta esserne esclusi? E infine, ha senso sospendere l’applicazione del decreto o basta applicare correttamente le norme esistenti?

      Cosa prevede il decreto
      La legge 113/2018 (anche detta decreto sicurezza e immigrazione o decreto Salvini) prevede delle modifiche all’articolo 4 del decreto legislativo 142/2015 attraverso un comma secondo cui “il permesso di soggiorno per richiesta d’asilo non costituisce titolo per l’iscrizione anagrafica”. Secondo Enrico Gargiulo, docente di fondamenti di politica sociale all’università Ca’ Foscari di Venezia, il decreto introduce una “rivoluzione nel campo del diritto all’anagrafe”, perché “per la prima volta si nega in maniera chiara a una categoria di persone un diritto soggettivo perfetto”, contravvenendo alla costituzione e ad altre norme generali sull’immigrazione come il Testo unico del 1998.

      Dello stesso orientamento l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) che in un comunicato ha ribadito l’incostituzionalità di questo punto e ha annunciato di aver già presentato diversi ricorsi, impugnando in sede giudiziaria alcuni dinieghi all’iscrizione anagrafica. “Riteniamo infatti che non sussista alcuna ragione che giustifichi sotto il profilo costituzionale una diversità di trattamento nell’iscrizione anagrafica che colpisce una sola categoria di stranieri legalmente soggiornanti (i titolari di permesso di soggiorno per richiesta di asilo), violando il principio di parità di trattamento coi cittadini italiani prevista dall’articolo 6 del Testo unico sull’immigrazione( legge 286/1998)”, si legge nel comunicato. I ricorsi che saranno portati davanti a un giudice chiameranno in causa la corte costituzionale per violazione dell’articolo 3 della costituzione. La consulta a sua volta dovrà stabilire se questa parte del decreto è in linea con la carta fondamentale.

      Di fatto nella norma non si vieta espressamente l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe

      Tuttavia alcuni giuristi invitano a un’interpretazione diversa del decreto. Le avvocate dell’Asgi Nazzarena Zorzella e Daniela Consolo ritengono che il decreto “non pone nessun esplicito divieto, ma si limita a escludere che la particolare tipologia di permesso di soggiorno possa essere documento utile per formalizzare la domanda di residenza”. Intervistata al telefono da Internazionale Zorzella ribadisce che “anche se il decreto ha come obiettivo l’esclusione dei richiedenti asilo dalla residenza, tuttavia di fatto nella norma non si vieta espressamente l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe, ma si sostiene che il permesso di soggiorno per richiesta di asilo non costituisca un titolo valido per l’iscrizione all’anagrafe”.

      Per l’avvocata, quindi, i sindaci potrebbero con una circolare informare gli uffici anagrafici di accettare come documento valido per l’iscrizione all’anagrafe il modulo C3 e cioè la domanda di asilo presentata in questura dal richiedente asilo al momento dell’arrivo in Italia, assumendo quel titolo come prova del soggiorno regolare del cittadino straniero in Italia. “Il decreto sicurezza coesiste con il Testo unico sull’immigrazione, in particolare con l’articolo 6 comma 7 che non è stato modificato dal decreto e prevede che allo straniero regolarmente soggiornante sia consentita l’iscrizione anagrafica”. Secondo l’avvocata i sindaci potrebbero provare a interpretare la norma in senso meno restrittivo, continuando a consentire l’iscrizione dei richiedenti asilo all’anagrafe usando un altro documento come prova del loro soggiorno nel paese.

      Cosa implica l’iscrizione all’anagrafe
      L’iscrizione anagrafica è necessaria per il rilascio del certificato di residenza e del documento d’identità. Questi due documenti di prassi sono il presupposto per il godimento di alcuni servizi pubblici, in particolare dei servizi sociali, per esempio la presa in carico da parte degli assistenti sociali, l’accesso all’edilizia pubblica, la concessione di eventuali sussidi, per l’iscrizione al servizio sanitario nazionale (per la fruizione dei servizi ordinari come il medico di base, mentre l’assistenza sanitaria d’urgenza è per principio garantita anche agli irregolari), per l’iscrizione a un centro per l’impiego. Inoltre un documento d’identità valido è richiesto per sottoscrivere un contratto di lavoro, per prendere in affitto una casa o per aprire un conto corrente bancario. La situazione in realtà è molto disomogenea sul territorio italiano, da anni molti comuni hanno stabilito che sia necessaria la residenza per accedere a questi servizi, mentre in altri municipi è consentito accedere ai servizi con il domicilio o la residenza fittizia, ma il decreto introdurrà ancora più ambiguità in questa materia e c’è da aspettarsi un aumento dei contenziosi. “Chi non ha accesso ai diritti anagrafici diventa invisibile, è una specie di fantasma dal punto di vista amministrativo”, afferma il ricercatore Enrico Gargiulo. “Anche se una persona rimane titolare di certi diritti, senza l’iscrizione anagrafica di fatto ne è esclusa”, conclude il ricercatore.

      Anche su questo punto le avvocate dell’Asgi, Zorzella e Consolo, ritengono che l’iscrizione all’anagrafe non sia necessaria per garantire l’accesso ai servizi dei richiedenti asilo. Zorzella e Consolo ricordano che lo stesso decreto sicurezza prevede che sia assicurato agli stranieri “l’accesso ai servizi comunque erogati sul territorio ai sensi delle norme vigenti”. In questo senso, secondo loro, i sindaci e gli amministratori locali dovrebbero chiarire in una circolare che è sufficiente il domicilio per accedere ai servizi pubblici territoriali senza dover esibire l’iscrizione all’anagrafe, e lo stesso varrebbe per i servizi privati (banche, poste, assicurazioni, agenzie immobiliari).

      https://www.internazionale.it/bloc-notes/annalisa-camilli/2019/01/09/residenza-anagrafe-decreto-sicurezza

    • La delibera per iscrivere all’anagrafe i richiedenti asilo. Dalle parole ai fatti, smontiamo il decreto Salvini

      Il 2019 è iniziato con numerosi Sindaci che hanno manifestato la loro volontà di disobbedire al decreto legge “immigrazione e sicurezza” di Salvini.
      Tra tutti, Leoluca Orlando, sindaco di Palermo con una nota inviata al Capo Area dei Servizi al Cittadino, ha conferito mandato per indagare i profili giuridici anagrafici derivanti dall’applicazione della legge n.132/2018 e, nelle more, ha impartito di sospendere qualsiasi procedura “che possa intaccare i diritti fondamentali della persona con particolare, ma non esclusivo, riferimento alla procedura di iscrizione della residenza anagrafica”.

      Si tratta del primo vero atto che tenta di opporsi alle previsioni contenute nel d.l. n. 113/2018 dopo la sua conversione in legge. Precedentemente, infatti, alcuni Comuni avevano dichiarato di sospendere gli effetti del decreto ma solo fino alla sua approvazione definitiva.
      In ogni caso, il fronte che, speriamo, si stia aprendo a livello territoriale contro questo provvedimento è di fondamentale importanza.

      Le leggi razziste, securitarie e repressive come, prima, i decreti di Minniti ed , ora, il decreto di Salvini agiscono anche e soprattutto sullo spazio delle nostre città, creano sacche di esclusione e di diritti negati.

      Dalle nostre città, dunque, deve partire una nuova resistenza.

      Per questo abbiamo pensato di elaborare un primo modello di delibera che smonti un pezzetto della legge n.113/2018 proprio nella parte in cui prevedendo l’impossibilità per il richiedente, titolare di un permesso di soggiorno per richiesta asilo, di iscriversi all’anagrafe si pone in piena violazione dell’articolo 26 della Convenzione di Ginevra e comporta una grave limitazione al godimento di quei diritti che la nostra Carta Costituzionale individua come diritti fondamentali.
      L’iscrizione all’anagrafe, infatti, rimane lo strumento tramite il quale si consente ai poteri pubblici di pianificare i servizi da erogare alla popolazione; inoltre essa è da sempre presupposto per l’accesso ad altri diritti sociali e civili, come l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale; l’accesso all’assistenza sociale e concessione di eventuali sussidi previsti dagli enti locali.

      Nel modello di delibera si richiama la competenza comunale in materia di istituzione di un albo anagrafico (art. 14 del d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267), i casi in cui i Comuni hanno già esercitato tale potere istitutivo (si vedano i registri per le unioni civili); la Convezione di Ginevra; gli articoli della nostra Costituzione che tutelano l’iscrizione anagrafica e la consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha riconosciuto un diritto alla residenza qualificato come “diritto soggettivo”.
      Il tutto per dire una sola cosa alle istituzioni locali: se volete, avete tutto il potere di istituire quest’albo e garantire ai richiedenti asilo l’iscrizione anagrafica. Avete dalla vostra, la forza della ragione e la forza del Diritto.

      Si tratta, dunque, di un modello di delibera che mettiamo nelle mani dei Comuni solidali che realmente vogliono contrastare gli effetti di questo decreto.
      Un modello di delibera che mettiamo nelle mani degli attivisti e degli abitanti delle nostre città, piccole o grandi che siano, per fare pressione sui loro governanti e sfidarli ad istituire l’albo per l’iscrizione dei richiedenti asilo.

      Un modello di delibera che è solo uno dei tanti strumenti che intendiamo mettere a disposizione di questa battaglia per la giustizia e la dignità.
      La partita per la gestione dei centri Sprar e per i regolamenti di polizia locale dei nostri Comuni è ,infatti, ancora aperta.
      Anche in quel caso gli amministratori potranno decidere da che parte stare: se dalla parte della cieca obbedienza a delle leggi disumane, che condannano migliaia di persone alla marginalità rendendole carne da cannone per le Mafie, oppure dalla parte della “sicurezza dei diritti” di tutti e tutte noi.

      https://www.meltingpot.org/La-delibera-per-iscrivere-all-anagrafe-i-richiedenti-asilo.html

    • Une nouvelle loi anti-immigration controversée adoptée en Italie

      Le parlement italien a adopté une loi introduisant des restrictions pour les demandeurs d’asile, mais aussi des mesures pour la sécurité publique et contre les mafias. Un article d’Euroefe.

      La Chambre des représentants a approuvé le projet de loi par 336 voix pour et 249 abstentions, concluant ainsi sa trajectoire après son approbation au Sénat le 7 novembre par 163 voix pour, 59 contre et 19 abstentions.

      Cette mesure a été amenée par le chef de file de la Ligue de l’extrême droite et ministre de l’Intérieur, Matteo Salvini, et présentée dans les deux chambres parlementaires comme une motion de confiance au gouvernement, une technique utilisée pour éviter les amendements et écourter leur approbation.

      Quelque 200 personnes ont manifesté devant le parlement pour manifester leur rejet de cette loi controversée, et ont organisé des funérailles pour les droits, dénonçant le racisme.

      Salvini célèbre sa loi controversée

      Matteo Salvini a exprimé lors d’une conférence de presse sa « grande satisfaction, non pas en tant que ministre, mais en tant que citoyen italien », car, a-t-il assuré, la loi « donnera plus de tranquillité, d’ordre, de règles et de sérénité aux villes ».

      La nouvelle loi repose sur trois piliers : l’immigration, la sécurité publique et la lutte contre la criminalité organisée.

      Dans le domaine de l’immigration, les permis de séjour pour des raisons humanitaires seront suspendus. Ceux-ci ont été accordés pour deux ans et ont permis aux réfugiés d’accéder au monde du travail et à la sécurité sociale. Au lieu de cela, des permis de « protection spéciale » d’un an seront octroyés.

      En outre, la protection internationale sera refusée ou rejetée en cas de condamnation définitive de l’immigré, notamment pour viol, vente de drogue, vol ou extorsion. La mutilation génitale est mentionnée dans le texte et considérée comme « crime particulièrement alarmant ».

      La nouvelle loi allongera de 90 à 180 jours la période pendant laquelle les immigrants pourront rester dans les centres d’identification, période que le gouvernement du Mouvement 5 étoiles et la Ligue considère appropriée pour identifier le demandeur.

      Par ailleurs, davantage de fonds sont prévus pour le rapatriement volontaire des immigrants et la protection sera retirée à ceux qui retournent dans leur pays d’origine, sinon pour des « raisons graves et avérées ».

      Utilisation expérimentale du Taser

      En matière de sécurité publique, la nouvelle loi stipule que les sociétés de location de voitures communiquent à la police les données de leurs clients pour vérifier leurs antécédents et éviter ainsi d’éventuels attentats à la voiture bélier comme ce fut le cas à Nice, Berlin ou Londres.

      Elle permettra aussi aux agents des villes de plus de 100 000 habitants d’expérimenter le pistolet électrique Taser, et les clubs de football devront accroître leur contribution, en allouant entre 5 et 10 % des ventes de billets à la sécurité des stades.

      La loi étend par ailleurs le « Daspo », l’interdiction d’accès aux manifestations sportives aux foires, marchés et hôpitaux pour les personnes qui ont manifesté un comportement agressif ou dangereux.

      Enfin, en ce qui concerne la mafia, les nouvelles mesures augmentent les ressources destinées à l’entité qui gère les biens saisis aux criminels et libéralise ces biens, qui peuvent désormais être achetés par des particuliers « avec des contrôles rigoureux » afin qu’ils ne reviennent pas entre les mains des clans.

      https://www.euractiv.fr/section/migrations/news/une-nouvelle-loi-anti-immigration-controversee-adoptee-en-italie

    • Decreto immigrazione e sicurezza: tutti i dubbi sulla costituzionalità

      Le Regioni contro il decreto Salvini. Piemonte, Umbria, Toscana, Emilia Romagna, Lazio, Marche, Basilicata. Di ora in ora si allarga la squadra dei governatori contro il decreto sicurezza e immigrazione di Matteo Salvini.

      La strada passa per il ricorso alla Corte costituzionale e a guidare il tutto sarà la Regione Piemonte, che ha dato mandato al docente di Diritto internazionale, Ugo Mattei, e all’avvocatura della Regione di preparare il ricorso che “

      seguirà l’esempio di quanto fatto da Apple, Facebook, Google, e altri colossi della Silicon Valley quando presero posizione e presentarono ricorso contro il decreto attuativo anti-immigrazione e il blocco dei visti voluto dal Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump” ha spiegato l’assessora all’immigrazione della regione Piemonte Monica Cerutti

      “Ugo Mattei, insieme all’avvocatura della Regione Piemonte, si occuperà del ricorso in Corte Costituzionale contro il decreto sicurezza che rischia di creare un danno all’economia piemontese” ha spiegato Monica Cerutti. “Il decreto farà finire nell’irregolarità migliaia di migranti che quindi non potranno più contribuire alla vita economica del territorio”.

      “La nostra avvocatura sta anche lavorando con le avvocature delle altre ‘regioni rosse’” ha aggiunto l’assessora della Regione Piemonte “perché ci sia coordinamento nella presentazione dei ricorsi. Stiamo infatti pensando di aggiungere un nuovo profilo di incostituzionalità, che va sommarsi a quelli che riguardano le competenze regionali in materia di sanità e politiche sociali. Questo decreto manda del resto a gambe all’aria tutto il lavoro fatto sull’immigrazione in questi anni, rendendo inutili gli investimenti messi in campo dalla nostra Regione”.

      Il professor Mattei, si precisa dalla Regione, “si è reso disponibile a portare avanti questa battaglia a titolo gratuito. Quindi il suo intervento non costituirà una spesa per il Piemonte”.

      In precedenza anche il Quirinale aveva valutato eventuali profili di incostituzionalità del decreto, ponendo l’accento – nonostante la firma arrivata dopo la fiducia ottenuta alla Camera mercoledì 28 novembre 2018 – su alcune questioni.

      Vediamo quali sono:

      Necessità e urgenza – Il primo nodo è sulla natura dello strumento scelto dal governo. Secondo la Costituzione, il decreto deve rispettare i criteri di necessità e urgenza, oltre a non essere palesemente incostituzionale. La presidenza della Repubblica aveva già manifestato le proprie perplessità sull’urgenza di un intervento del governo su questa materia.

      Revoca del diritto d’asilo – Si allunga l’elenco di reati che comportano la sospensione della domanda di asilo e causano l’espulsione immediata dello straniero. Tra questi sono stati inclusi la violenza sessuale, la detenzione e il traffico di stupefacenti, il furto, la minaccia o la violenza a pubblico ufficiale. Nel decreto è prevista la revoca dello status dopo la sola condanna di primo grado: nella nostra Costituzione è però prevista la presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio. Questa disposizione potrebbe essere in contrasto con i principi costituzionali.

      Revoca della cittadinanza – È prevista la revoca della cittadinanza italiana acquisita dagli stranieri condannati in via definitiva per reati di terrorismo. La revoca sarà possibile entro tre anni dalla condanna definitiva, per decreto del presidente della Repubblica su proposta del ministro dell’Interno. Anche questa norma è in contrasto con principi della Corte Costituzionale, che considera la cittadinanza un diritto inviolabile.

      Inizialmente i decreti dovevano essere due, uno sull’immigrazione e uno sulla sicurezza e i beni confiscati alle mafie. Poi sono stati accorpati in un unico provvedimento. Ecco gli altri punti del documento:

      Abolizione della protezione umanitaria – Il decreto prevede l’abolizione della concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari previsto dal Testo unico sull’immigrazione (legge 286/98).

      Trattenimento nei Cpr – Gli immigrati con i documenti non in regola potranno essere trattenuti nei Centri per il rimpatrio fino a 180 giorni. Ad oggi il limite era 90 giorni.

      Sicurezza urbana – Viene prevista la sperimentazione dei taser di parte della municipale nei comuni con più di 100 mila abitanti e inasprite le pene contro chi promuove o organizza occupazioni.

      Lotta alle mafie – Per contrastare le infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione, il decreto prevede la nomina di un Commissario straordinario in caso di segnalazioni di situazioni anomale o di condotte illecite da parte di un Prefetto.

      https://www.tpi.it/2019/01/08/decreto-sicurezza-incostituzionalita-regioni/amp
      #constitutionnalité

    • Protezione umanitaria, la pronuncia della Cassazione n. 4890/2019

      Pubblichiamo la decisione n. 4890/2019 della Corte di cassazione, che risolve i dubbi in tema di regime intertemporale della nuova disciplina sulla protezione umanitaria.

      In argomento, questa Rubrica ha già ospitato la requisitoria del procuratore generale presso la Corte di cassazione, l’articolo di Carlo Padula (Quale sorte per il permesso di soggiorno umanitario dopo il dl 113/2018?) contenente l’orientamento dei Tribunali di Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Catania, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Torino, Trento e della dottrina in punto di regime intertemporale della nuova disciplina della protezione umanitaria.

      http://questionegiustizia.it/articolo/protezione-umanitaria-la-pronuncia-della-cassazione-n-48902019_19
      #protection_humanitaire

  • Un couple poursuivi pour avoir refusé de faire vacciner ses enfants
    http://www.franceinfo.fr/vie-quotidienne/sante/article/poursuivis-en-justice-pour-avoir-refuse-de-faire-vacciner-leurs-enfants-5

    Dans l’Yonne, un couple est poursuivi par la justice car il refuse de faire vacciner ses jeunes enfants. Les parents, accusés de maltraitance, comparaissent ce jeudi après-midi devant le tribunal de grande instance d’Auxerre. En France, entre 3% et 5% des enfants ne sont pas vaccinés contre le tétanos, la poliomyélite et la diphtérie, pourtant obligatoires.

    #vaccin #liberté_de_vaccination #justice #constitutionnalité

    • il est éminemment défendable pour des parents de permettre à leurs enfants d’avoir la liberté de choper la polio… espérons que la justice les aidera en ce sens

    • Très malin comme réponse, et pas du tout inattendue. Des doutes j’en ai eus, notamment sur le fameux Gardasil. Ce que j’ose suggérer, au risque du rebrousse-poil, c’est que, au moins sur le DTP, nos amis anti-vaccination sont un tout petit peu plus proches du déni que du doute. Si tu veux me dépeindre en scientiste arrogant, so be it. La question reste posée.

    • Désolée mais je vais continuer à me documenter sur ce sujet apparemment tabou car je connais un peu trop de parents criminels clandestins ou de personnes atteintes de sclérose en plaques suite aux vaccinations obligatoires pour ne pas m’intéresser à la doxa des bienfaits des vaccins mais aussi aux politiques coercitives de santé.

    • Je connais autant de personnes atteintes de polyomélites que de personnes atteintes de sclérose en plaques. Les secondes sont jeunes, les premières le sont moins.
      Je ne pense pas qu’il y ait le moindre doute sur le fait que certains vaccins ont une efficacité douteuse. Et dans un monde normal, il devrait exister des systèmes pour éviter les bourrages de crânes incitant à la vaccination à tort et à travers. Mais il est important cependant de ne pas commettre l’abus inverse, de rejeter les vaccinations dans leur ensemble. Il y a des vaccinations indispensables et faire croire le contraire n’est pas raisonnable.

      Je suis cependant frustré que le débat sur les adjuvants n’est pas plus étoffé que ce qu’il est actuellement. Les fabricants de vaccins semblent tous puissants et la puissance publique semble ne pouvoir que suivre... et faire avec ce qui existe sur le marché...

    • Merci @biggrizzly d’avoir mis le lien.
      « Je ne peux pas » parce que @allergie m’a bloqué, pour tout dire il avait eu le même sort un jour où j’étais énervée, mais le voila de nouveau libre de venir se crêper sur mes posts :)

    • Je suis un peu étonnée de voir monter au créneau autant de défenseurs de la vaccination, prêts pour défendre la santé publique à faire taire ces parents irresponsables et criminels et ces journalistes inconscients. J’espère qu’ils seront aussi nombreux le jour où il faudra imposer aux voitures de ne rouler qu’un jour par semaine.

      Les moqueries sur la remise en cause individuelle de l’obligation vaccinale évitent de questionner frontalement notre rapport à la santé comme les décisions politiques de vaccination obligatoire. J’espère pouvoir m’intéresser à ceux qui ont des doutes ou sont contre les vaccins sans me faire houspiller. Pour ceux qui ne veulent pas du tout faire vacciner leurs enfants (il y a peu le BCG était obligatoire) en france, (parce que je ne vais pas aborder d’autres environnements beaucoup plus à risques) c’est l’amende ou la prison, ce qui les poussent à agir de façon clandestine, illégale et individuelle.
      Que cela dérange que des personnes choisissent de ne pas vacciner leurs enfants, obligation ou pas, soit, il n’empêche qu’il y a entre 3% et 5% d’enfants non vaccinés en france, ça fait vraiment beaucoup et cela devrait interroger un peu plus que de mettre un couvercle dessus en vitupérant que les vaccins c’est le bien.

      Dommage, je ne retrouve pas la précédente conversation sur les vaccins que j’ai eu sur seenthis.
      Seulement http://seenthis.net/messages/41265 sur la possible implication du vaccin anti-polio (reins de singes, virus et un peu de formol) dans l’épidémie du sida.

    • http://www.liberation.fr/societe/2014/10/09/des-parents-devant-la-justice-pour-avoir-refuse-de-vacciner-leur-enfant_1

      …les seuls vaccins aujourd’hui disponibles combinent le DTP à d’autres comme la coqueluche, l’hépatite B ou la méningite, qui eux, ne sont pas obligatoires.

      Début septembre, le Haut conseil de la Santé publique, qui conseille le ministère, a estimé que le maintien ou non de « l’obligation vaccinale en population générale » relevait « d’un choix sociétal méritant un débat que les autorités de santé se doivent d’organiser », soulignant que parmi les pays industrialisés, seules la France et l’Italie imposent encore des vaccins.

    • Moi aussi ça m’intéresse de voir comment l’État essaie d’imposer des politiques de santé publique, y compris allant à l’encontre de libertés individuelles. Par exemple, les « chasses à l’homme » pour récupérer les malades (victimes et infectieux) de tuberculose ultra-résistante, qui s’évadent d’hôpitaux où ils sont retenus contre leur gré ou celui de leur famille (ou encore ce qu’on voit actuellement avec Ebola). Je t’encourage donc sincèrement et absolument à continuer de documenter ces faits. (Et ça n’oblige en rien d’être raccord sur le bien-fondé médical de ces politiques ou des idées réfractaires, ni sur leur mise en application.)

    • Je suis un peu étonnée de voir monter au créneau autant de défenseurs de la vaccination, prêts pour défendre la santé publique à faire taire ces parents irresponsables et criminels et ces journalistes inconscients.

      Mais qu’est-ce que c’est que cette façon d’envisager le débat ? Désolé mais ça me hérisse le poil ce genre de réactions. Qui, justement, est monté au créneau dernièrement sur la question de la vaccination ? Qui remet sur le tapis sans arrêt cette affirmation selon laquelle les vaccins ne servent à rien au lieu de nous foutre la paix et de se battre pour des combats UTILES ? Oui, les vaccins (au moins ceux qui sont obligatoires) sont efficaces et il y aura toujours des gens pour les défendre, sur la base d’arguments rationnels, à l’encontre de la sacro-sainte « liberté individuelle » mise en avant par ces croyants et qui n’est bien souvent qu’un égocentrisme grossier couplé à une culture scientifique proche de zéro. Ces gens là nous font perdre notre temps en vérité.

    • Ah c’est donc ça qui justifie que tu viennes déverser ta bile sur mon post, j’ai cru à un moment que tu n’arrivais pas à bien lire ce que j’écrivais ou que tes certitudes t’aveuglaient.

    • Je ne déverse pas ma bile, j’exprime mon opinion (d’une manière certes radicale), mais si tu ne veux pas être embêtée sur « tes » posts tu n’as qu’à bloquer les gens qui ne sont pas d’accord avec toi, apparemment c’est quelque chose que tu ne rechignes pas à pratiquer. C’est quand même pas compliqué de comprendre que sur cette question il n’y a pas d’avis « moyen », on ne peut pas dire « je ne suis ni pour ni contre, faites bien comme vous voulez, vaccinez vous ou non c’est votre liberté », soit on accepte que les gens fassent ce qu’ils veulent, ce qui interdit toute politique de santé digne de ce nom, soit on impose certaines choses et ceux qui ne veulent pas s’y soumettre sont sanctionnés (donc on ne pleurniche pas pour ces martyres de pauvres parents qui défendent leur liberté individuelle d’être inconséquent, SVP) ou vont voir ailleurs (ça s’appelle un contrat social ça). Bref, fin du débat pour ma part.

    • Ah ah ah, @rastapopoulos donc les questions posées sur la constitutionnalité de l’obligation vaccinale française et le discours « antivaccins rentrez dans votre pays »
      sont à mettre au même niveau ?
      #misère

      …soit on impose certaines choses et ceux qui ne veulent pas s’y soumettre sont sanctionnés (donc on ne pleurniche pas pour ces martyres de pauvres parents qui défendent leur liberté individuelle d’être inconséquent, SVP) ou vont voir ailleurs …

       ?

      Relis bien la logique sous-tendue, et face à quoi et à qui ? juste ma pomme qui se pose des questions, face à des interlocuteurs persuadés de détenir la seule et unique vérité et qui n’ont même pas, à part il me semble @fil, compris de quoi je parle. Et personne n’ose questionner les raisons de cette vindicte populaire ? et pourtant je me suis gardée d’émettre un jugement pour ou contre, le négationnisme ne serait pas pire que là où je suis acculée, représentante d’on ne sait quelle angoisse à faire taire.
      Je vais t’écrire la traduction de cette vérité si tu n’as pas bien lu : les antivaccins sont à punir, ou doivent être expulsés.
      Je sais pas pour toi, mais quand j’entends ça, j’ai aucune envie de discuter … pourtant c’est bien la suite normale de la logique gouvernementale mise en place.

      J’attends donc de voir quand le virus Ebola sera en france, quelle sera la gestion politique, et comment vont se gérer les arrestations et les obligations de santé publique, particulièrement sur ces 5% récalcitrants. Et bienvenue chez les progressistes de gauche.

    • Il y a 6 ans. #Up #question_en_cours #déni

      J’attends donc de voir quand le virus (…) sera en france, quelle sera la gestion politique, et comment vont se gérer les arrestations et les obligations de santé publique, particulièrement sur ces 5% récalcitrants. Et bienvenue chez les progressistes de gauche.

    • Et c’est pour qui/quoi le déni du coup ? J’ai vu des articles hautement ridicules dans la presse militante (notamment le monde Libertaire, https://monde-libertaire.net/index.php?articlen=4566) parlant de « propagande » et à demi mot de complot mondial concernant le fameux coronavirus, qui serait bien moins grave qu’une grippe d’après ces grands spécialistes. S’il faut parler de déni en tout cas je le place là.

    • @alexcorp merci de changer de ton, ton agressivité est déplacée.

      Le déni de démocratie qui n’a jamais voulu aborder avant le vivre ensemble en cas de pandémie et a même éludé totalement la question sociale de comment fait-t-on avec les récalcitrants. (A part envoyer l’armée où les renvoyer chez eux comme il fut suggéré)

    • Ah mais ce déni là il est partout, y compris chez les plus grands démocrates qui soient. On en a vu des milieux « autogérés » ou autonomes, bref tout ce qu’il y de bien en terme de gestion collective (je le dis sans ironie) jeter des « récalcitrants » hors du groupe, parce que c’était le dernier choix qui semblait le plus valable ou sinon c’était la mise en danger du groupe. Bien malin cependant qui trouvera une réponse nette à cette question. (et sinon je ne pensais pas mon ton si agressif que ça, désolé)

    • Ok @alexcorp c’est plus facile de débattre sans animosité :)
      Je ne vois pas trop où tu veux en venir.

      Pas certaine non plus que l’on parle du même type de démocratie, voire les écrits de Dupuis-Déri sur son dévoiement notamment par les « grands démocrates » et l’instauration du système actuel « d’aristocratie élective » essentiellement motivée à perpétuer ses pouvoirs.

      Que reste-t-il comme espace à la démocratie qui consiste à débattre et décider de ce que l’on fait ensemble, et de préférence en anticipant les problèmes ?

      Je ne vois pas bien le rapport entre un groupe autogéré qui exclut un de ses membres et un Etat qui a participé à faire sombrer le système de soins et dont l’incurie mène à une crise sanitaire majeure.

      Je n’arrive pas à accepter qu’il n’y ait eu aucune anticipation de pandémie (et ce fil remonte à 6 ans) pour protéger la population avant d’en arriver à ces extrémités militaires.
      La mise en danger du groupe comme extrémité pour gouverner.
      C’est cela qui m’interroge profondément.

      Et la question éludée de ceux qu’on a transformé en riens, des surnuméraires, des marginaux, des migrants, des emprisonné·es, et tout celleux qui refuseront de se plier à un système cœrcitif.

    • Que les choses soient claires, je ne considère pas notre système actuel comme étant très démocrate, il ne l’est très partiellement (ce qui est mieux que rien évidemment).
      Je ne suis pas sûr de bien comprendre ton point sur le « déni » (c’est d’où partait ma réaction). La solution du confinement généralisé est à mon avis la bonne et cela demande une discipline collective assez forte et sans doute d’inévitables moyens coercitifs pour la faire respecter. Est-ce que cela veut dire que ceux qui nous gouvernent sont à la hauteur ? Non évidemment, ne serait-ce parce qu’ils ont, par incompétence ou peur de troubler « le monde des affaires », beaucoup trop tardé à prendre les bonnes décisions (et encore avec des pincettes, Macron n’a pas été capable de prononcer le mot confinement). Il y a un bon dossier de la CNT-AIT sur l’incompétence de notre personnel politique qui semble être une constante : http://mondialisme.org/spip.php?article2860

    • Le déni, c’est une capacité psychologique de l’inconscient qui permet d’éviter de faire face à la réalité en refusant de la voir, c’est aussi ce qui est à l’œuvre quand on est capable d’énoncer dans une même phrase (ou dans une politique) tout son contraire.

      « pas démocrate mais mieux que rien » sérieux ? Ce que j’explique plus haut sur le déni de démocratie qui ne va pas s’arrêter en si bon chemin, est éludé au profit d’un soutien à ceux qui ne seraient pas forcément à la hauteur des moyens cœrcitifs qu’ils ont mis en place. Pas envie d’expliquer comment fonctionne un Etat sans démocratie ni d’approuver la nouvelle organisation militaire parce que c’est quand même la seule solution si on veut s’en sortir.

      J’essaye justement de voir comment échapper à ce déni et je ne vois pas l’intérêt de s’épuiser à ce genre de non conversation.

      J’ai rouvert ce post d’il y a 6 ans pour souligner que refuser de répondre en amont ensemble (démocratiquement) à la question politique d’une crise sanitaire majeure à tout lieu de mener à l’impasse actuelle.
      Pas de démocratie = pas de démocratie, c’est pas de saupoudrage démocratique dont je parle, c’est la possibilité d’anticiper un autre type de gouvernance. Mais je me répète.

      Et la question éludée de ceux qu’on a transformé en riens, des surnuméraires, des marginaux, des migrants, des emprisonné·es, et tout celleux qui refuseront de se plier à un système cœrcitif.

      #impasse

    • Je n’ai pas dit « pas démocrate mais mieux que rien », j’ai dit « un peu démocrate et c’est mieux que rien ». Je ne comprends toujours pas bien de quel déni tu veux parler. Evidemment que dans un système plus démocrate, tout ça aurait été discuté en amont et peut-être que de meilleures décisions auraient été prises, peut-être plus rapidement (ou pas). Et la question que tu poses, si je comprends bien, c’est : dans un système beaucoup plus démocrate, que fait-on des récalcitrants à des mesures coercitives de santé publique ?

  • Blog de Paul Jorion » DEXIA : C’EST LA RÉPUBLIQUE QUI EST POIGNARDÉE…, par Zébu
    http://www.pauljorion.com/blog/?p=59631

    Peut-on tout à la fois sauver des banques en faillite qui ont spéculé et perdu, respecter l’indépendance de la justice et garantir l’application des fondamentaux de la Constitution française, comme par exemple se protéger de l’arbitraire du pouvoir politique ou de l’intérêt privé ? C’est à une question à plusieurs milliards d’euros que l’article 60 du projet de Loi de Finances 2014 se propose de répondre, car celui-ci ne propose rien moins que de « sécuriser » légalement certains contrats de prêts dits toxiques pour des collectivités locales : plus clairement, de modifier rétroactivement la loi pour permettre d’éteindre un risque juridique que la justice – cette aveugle ! – fait porter non seulement à certaines banques mais aussi à l’État.

    Pour savoir de quoi il s’agit, il faut remonter au 8 février 2013, jour où le Tribunal de Grande Instance de Nanterre se prononça sur les plaintes du Conseil général de Seine-Saint-Denis concernant des contrats d’emprunts toxiques de DEXIA et de sa filiale spécialisée dans le crédit aux collectivités (DMA, Dexia Municipal Agency). Le juge, bien qu’il statua en faveur de DEXIA (contrat de prêt et non produit dérivé, non défaut de conseil) prononça aussi un manquement sur l’affichage du TEG (Taux Effectif Global) sur les fax des contrats définitifs, comme doit le stipuler tout contrat de prêt. Ce faisant, il requalifia cette absence de TEG en taux légal, soit à 0,04 % d’intérêt et une perte sèche potentielle pour DEXIA de plusieurs millions d’euros, mais pas seulement pour la banque.

    #économie
    #bankers
    #banksters
    #DEXIA
    #République
    #constitution
    #interdiction-des-paris-sur-les-fluctuations-de-prix
    #loi-de-finance-2014
    #constitutionnalité
    #P-Jorion
    #Julien-Alexandre