• Piemonte, corsa alle nuove miniere : da #Usseglio al Pinerolese si cercano nichel, cobalto, grafite e litio

    Scatta la corsa alle terre rare: la Regione deve vagliare le richieste delle multinazionali su una decina di siti

    Nei prossimi anni il Piemonte potrebbe trasformarsi in una grande miniera per soddisfare le esigenze legate alla costruzione degli apparecchi digitali e all’automotive elettrico. È un futuro fatto di cobalto, titanio, litio, nichel, platino e associati. E non mancano nemmeno oro e argento. Un grande business, infatti oggi si parla di «forti interessi» di aziende estrattive nazionali e straniere. Anche perché la Commissione Europea ha stabilito che «almeno il 10% del consumo di materie prime strategiche fondamentali per la transizione green e per le nuove tecnologie dovrebbe essere estratto nell’Ue, il 15% del consumo annuo di ciascuna materia prima critica dovrebbe provenire dal riciclaggio e almeno il 40% dovrebbe essere raffinato in Europa». In questo contesto il Piemonte è considerato un territorio strategico. Anche perché l’anno scorso il mondo ha estratto 280mila tonnellate di terre rare, circa 32 volte di più rispetto alla metà degli anni 50. E la domanda non farà che aumentare: entro il 2040, stimano gli esperti, avremo bisogno di sette volte più terre rare rispetto a oggi. Quindi potrebbero essere necessarie più di 300 nuove miniere nel prossimo decennio per soddisfare la domanda di veicoli elettrici e batterie di accumulo di energia, secondo lo studio condotto da Benchmark Mineral Intelligence.

    «Al momento abbiamo nove permessi di ricerca in corso, ma si tratta di campionature in superficie o all’interno di galleria già esistenti, come è avvenuto a Punta Corna, sulle montagne di Usseglio – analizza Edoardo Guerrini, il responsabile del settore polizia mineraria, cave e miniere della Regione -. C’è poi in istruttoria di via al ministero dell’Ambiente un permesso per la ricerca di grafite nella zona della Val Chisone». Si tratta di un’area immensa di quasi 6500 ettari si estende sui comuni di Perrero, Pomaretto, San Germano Chisone, Perosa Argentina, Pinasca, Villar Perosa, Pramollo, Roure e Inverso Pinasca che interessa all’australiana Energia Minerals (ramo della multinazionale Altamin). E un’altra società creata da Altamin, la Strategic Minerals Italia, nella primavera prossima, sulle montagne di Usseglio, se non ci saranno intoppi, potrà partire con le operazioni per 32 carotaggi nel Vallone del Servin con una profondità variabile da 150 a 250 metri. Altri 25 sondaggi verranno invece effettuati nel sito di Santa Barbara, ma saranno meno profondi. E, ovviamente, ambientalisti e amanti della montagna, hanno già espresso tutti i loro timori perché temono uno stravolgimento del territorio. «Nelle settimane scorse ho anche ricevuto i rappresentati di una società svedese interessati ad avviare degli studi di valutazione in tutto il Piemonte con l’obiettivo di estrarre minerali – continua Guerrini – anche perché l’Unione Europea spinge per la ricerca di materie prime indispensabili per la conversione ecologica e quindi l’autosufficienza energetica».

    È la storia che ritorna anche perché il Piemonte è stata sempre una terra di estrazione. Basti pensare che, solo nel Torinese, la cavi attive «normali» sono 66. E ora, a parte Usseglio e il Pinerolese, ci sono richieste per cercare nichel in Valle Anzasca, rame, platino e affini nel Verbano Cusio Ossola, dove esiste ancora una concessione non utilizzata per cercare oro a Ceppo Morelli nella Val d’Ossola (anche se il giacimento più sfruttato per l’oro è sempre stato quello del massiccio del Rosa) e la richiesta di poter coltivare il boro nella zona di Ormea. E pensare che, dal 2013 al 2022, le aziende che si occupano di estrazione di minerali da cave e miniere in Piemonte sono scese da 265 a 195. «Il settore estrattivo continua a essere fonte di occupazione – riflette l’assessore regionale Andrea Tronzano -. Con il piano regionale in via di definizione vogliamo dare certezze agli imprenditori e migliorare l’attuale regolamentazione in modo che ci siano certezze ambientali e più facilità nel lavorare. Le miniere su materie prime critiche sono oggetto di grande attenzione e noi vorremmo riattivare le nostre potenzialità come ci chiede la Ue. Ci stiamo lavorando con rispetto per tutti, anche perché qui non siamo nè in Cina nè in Congo. Vedremo le aziende che hanno chiesto di fare i carotaggi che cosa decideranno. Noi le ascolteremo».

    https://www.lastampa.it/torino/2023/08/06/news/piemonte_nuove_miniere_usseglio_nichel_cobalto-12984408

    #extractivisme #Italie #mines #nickel #cobalt #graphite #lithium #Alpes #montagnes #Piémont #Pinerolo #terres_rares #multinationales #transition_énergétique #Punta_Corna #Val_Chisone #Energia_Minerals #Altamin #Strategic_Minerals_Italia #Vallone_del_Servin #Santa_Barbara #Valle_Anzasca #Verbano_Cusio_Ossola #cuivre #platine #Ceppo_Morelli #Val_d'Ossola #or #Ormea

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    ajouté à la métaliste sur l’#extraction de #terres_rares dans les #Alpes :
    https://seenthis.net/messages/1013289

  • #Ressources_minières #Environnement #Platine #Nickel

    Single atoms as a catalyst
    https://phys.org/news/2021-01-atoms-catalyst.html

    Entirely new possibilities arise in single-atom catalysis that are not available when using ordinary metal particles: “Depending on the surface on which we place the metal atoms and which atomic bonds they form, we can change the reactivity of the atoms,” explains Parkinson.

    In some cases, particularly expensive metals like platinum are no longer necessarily the best choice. “Individual nickel atoms show great promise for carbon monoxide oxidation. If we understand the atomic mechanisms of single atom catalysis, we have a lot more leeway to influence the chemical processes,” says Parkinson.

    Eight different metals were precisely analyzed in this way at TU Wien—the results fit perfectly with the theoretical models that have now been developed in a collaboration with Prof. Cesare Franchini at the University of Vienna.

    “Catalysts are very important in many areas, especially when it comes to chemical reactions that play a major role in attempts to develop a renewable energy economy,” emphasizes Gareth Parkinson. “Our new approach shows that it doesn’t always have to be platinum.” The decisive factor is the local environment of the atoms—and if you choose it correctly, you can develop better catalysts and at the same time save resources and costs.

  • Deep-sea mining  : Les industriels veulent forer les fonds marins Laurie Debove - 5 septembre 2019 - La relève et la peste
    https://lareleveetlapeste.fr/deep-sea-mining-les-industriels-veulent-forer-les-fonds-marins

    Alors que les minerais sont de plus en plus difficiles et coûteux à extraire du sol, les industriels veulent maintenant forer les fonds marins. Après avoir ravagé la terre, l’exploitation minière pourrait bien devenir le plus grand danger existant pour les océans.

    L’explosion de la demande en minerais
    Nos sociétés industrielles hyperconnectées utilisent de plus en plus de minerais et métaux rares pour leurs infrastructures. Secteur automobile, technologies de l’information et de la communication, énergies renouvelables, ils sont partout. Une seule éolienne contient 500 kilogrammes de #nickel, une tonne de #cuivre et une tonne de #métaux_rares. Un seul smartphone est fait avec 30 métaux rares différents, dont beaucoup de #cobalt. Au cours de sa vie, chaque personne occidentale consomme en moyenne deux tonnes de cuivre et 700 kilogrammes de #zinc.

    A l’heure actuelle, les mines terrestres ont encore des réserves. Mais la demande en ressources minérales devrait au minimum doubler d’ici 2050 selon une étude de l’#Ademe https://www.ademe.fr/sites/default/files/assets/documents/epuisement-metaux-mineraux-201706-fiche-technique.pdf datant de 2017.

    Dans un précédent rapport, publié en juin 2014, l’#Ifremer et le #CNRS prévoyaient déjà qu’il n’y aura plus de zinc en 2025, d’#étain en 2028, de #plomb en 2030 ou de cuivre en 2039. Cette raréfaction des ressources entraîne une hausse des prix et de nombreuses tensions géopolitiques comme pour le cobalt, essentiellement produit en République du Congo. La Chine, elle, contrôle plus de 90 % du marché mondial des terres rares.

    L’exploitation minière sous-marine, ou deep-sea mining
    Face à cet appétit vorace, les industriels se tournent maintenant vers les fonds marins, qui débutent à plus de 200 mètres de profondeur. En couvrant 65% de sa surface, les fonds marins sont le plus grand écosystème de la planète. Ils sont aussi l’une des dernières zones inoccupées par l’humain. Seulement 10 % d’entre eux ont été topographiés, et moins d’1 % a été recherché et exploré à l’heure actuelle. On y trouve trois formes de métaux. 

    Dans les plaines abyssales, entre 4.000 et 6.000 mètres de profondeur, gisent les #nodules_polymétalliques, de gros cailloux brun-noir de 5 à 10 cm de diamètre qui contiennent principalement du fer et du manganèse avec du zinc, du cuivre et du #baryum. Sur les monts sous-marins, à une profondeur située entre 400 et 4.000 mètres, se trouvent les encroûtements cobaltifères qui recèlent divers minerais comme l’oxyde de #fer, le #manganèse, le cobalt, le #platine, mais également des terres rares. Enfin, les sulfures polymétalliques, aussi appelés fumeurs noirs, sont de grandes cheminées situées près des sources hydrothermales le long des dorsales océaniques, entre 1.500 et 5.000 mètres de profondeur.

    Pour l’instant, l’exploitation minière sous-marine n’a pas encore creusé son premier trou. L’industrie en est à l’étape d’exploration. Cette année, l’International Seabed Authority (ISA) a ainsi accordé 29 licences d’exploration à plusieurs pays tels que la Chine, la Corée, le Royaume-Uni, la France, l’Allemagne et la Russie sur une zone d’environ 1,5 million de km2, environ la taille de la Mongolie, dans l’Atlantique, le Pacifique et l’océan Indien. 

    L’océan en danger
    Problème : l’ISA accepte toutes les demandes de licence, sans modération, même dans des endroits aussi fragiles que la Cité perdue dans l’océan Atlantique. Et les premières extractions pourraient très vite commencer, comme en Papouasie #Nouvelle-Guinée où elles sont prévues en 2020. Face à la précipitation des industriels, des ONG, institutions internationales et scientifiques tirent l’alarme. Elles appellent à un moratoire, basé sur le respect du principe de précaution, pour empêcher toute exploitation minière pendant au moins 10 ans, le temps que les scientifiques puissent mieux connaître les impacts que pourrait avoir une telle industrialisation des fonds marins.

    L’une des inquiétudes de la communauté scientifique concerneles stocks de carbone présents dans les sédiments des fonds marins. S’ils étaient touchés, cela réduirait la capacité de l’océan à absorber le #dioxyde_de_carbone et à atténuer les effets de la crise climatique. Mais ce sont aussi les fonds marins entiers et les êtres vivants qu’ils abritent qui pourraient pâtir à jamais de l’empreinte humaine.

    « Les profondeurs marines sont un habitat dans lequel tout, absolument tout, se passe très, très lentement. Les traces laissées par un équipement en provenance des premières expéditions dans les fonds marins dans les années 80 sont encore visibles à présent comme si elles avaient été faites hier. Il faut un million d’années aux nodules de manganèse, ces pépites de métal précieux du fond des océans, pour grandir ne serait-ce que de 5 à 20 millimètres. Les écologistes préviennent que tout ce qui est détruit ne se régénèrera pas avant longtemps, et peut-être même jamais. » nous avertit ainsi la Fondation Heinrich-Böll-Stiftung dans son atlas 2018 sur l’Océan.

    Les fonds marins abritent des êtres vivants incroyables comme Casper, la petite pieuvre albinos. Les scientifiques ont identifié 250 000 espèces différentes y évoluant, et ce n’est que le début ! Ils estiment qu’il pourrait y en des millions d’autres ! Les fonds marins sont indispensables au bon fonctionnement des océans, eux-mêmes indispensables aux conditions de vie actuelles sur Terre, et de toutes les espèces qui y vivent. 

    Pour l’instant, nous pouvons encore préserver ces havres de vie en repensant radicalement nos modes de vie, mettant en place une sobriété énergétique, favorisant le recyclage et la ré-utilisation des minerais déjà en circulation. Mais aussi en mettant un place un traité international contraignant avec la création de 30 % d’Aires Marines Protégées, qui devront rester intactes de toute activité humaine. Refuser cette industrialisation des fonds marins serait le premier apprentissage pour vivre en respectant les limites planétaires, et prendre au sérieux la protection de l’océan.

    L’exploitation minière sous-marine deviendra-t-elle le dernier choix de la civilisation thermo-industrielle ? Continuerons-nous à extraire sans nous soucier des conséquences pour le vivant ? Ou allons-nous lutter pour protéger nos écosystèmes ? La dernière bataille pour le maintien de la vie sur Terre pourrait bien avoir commencé.

    #minerais #Océans #Mers #fonds_marins #matières_premières #extractivisme #environnement #pollution #multinationales #ressources_naturelles #pollutions #écologie

  • #Paywall : The Business of Scholarship

    Paywall: The Business of Scholarship, produced by #Jason_Schmitt, provides focus on the need for open access to research and science, questions the rationale behind the $25.2 billion a year that flows into for-profit academic publishers, examines the 35-40% profit margin associated with the top academic publisher Elsevier and looks at how that profit margin is often greater than some of the most profitable tech companies like Apple, Facebook and Google. For more information please visit: Paywallthemovie.com


    https://vimeo.com/273358286

    #édition_scientifique #université #documentaire #film #elsevier #profit #capitalisme #savoir #impact_factor #open_access
    signalé par @fil, que je remercie

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    Quelques citations du tirés du film...

    John Adler, prof. Standford University :

    “Publishing is so profitable, because the workers dont’ get paid”

    Paul PETERS, CEO #Hindawi :

    “The way we are adressing the problem is to distinguish the assessment of an academic from the journals in which they publish. And if you’re able to evaluate academics based on the researchers they produce rather than where their research has been published, you can then start to allow researchers to publish in journals that provide better services, better access”

    Paul PETERS, CEO Hindawi :

    “Journals that are highly selective reject work that is perfectly publishable and perfectly good because it is not a significant advance, it’s not gonna made the headline as papers on disease or stemcells”

    Alexandra Elbakyan :

    “Regarding the company itself (—> Elsevier), I like their slogan ’Making Uncommon Knowledge Common’ very much. But as far as I can tell, Elsevier has not mastered this job well. And sci-hub is helping them, so it seems, to fulfill their mission”

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    ajouté à la métaliste sur l’éditions scientifique :
    https://seenthis.net/messages/1036396

    • je suis tres surpris par un point mentionne plusieurs fois : il faut que la recherche sur la sante, le rechauffement climatique, etc, bref, tout ce qui a « un vrai impact » soit ouvert, parce qu’il y a des vrais problemes, et donc il faut du monde pour y participer.... Mais je n’ai pas entendu grand chose sur la recherche fondamentale... Je ne sais pas si ca tient du fait que la recherche fondamentale etant moins « remuneratrice », le probleme est moins flagrant... Mais ca me met mal a l’aise cette separation entre « les vrais problemes de la vie » et les questions fondamentales qui n’interessent pas grand monde....

    • The Oligopoly of Academic Publishers in the Digital Era

      The consolidation of the scientific publishing industry has been the topic of much debate within and outside the scientific community, especially in relation to major publishers’ high profit margins. However, the share of scientific output published in the journals of these major publishers, as well as its evolution over time and across various disciplines, has not yet been analyzed. This paper provides such analysis, based on 45 million documents indexed in the Web of Science over the period 1973-2013. It shows that in both natural and medical sciences (NMS) and social sciences and humanities (SSH), Reed-Elsevier, Wiley-Blackwell, Springer, and Taylor & Francis increased their share of the published output, especially since the advent of the digital era (mid-1990s). Combined, the top five most prolific publishers account for more than 50% of all papers published in 2013. Disciplines of the social sciences have the highest level of concentration (70% of papers from the top five publishers), while the humanities have remained relatively independent (20% from top five publishers). NMS disciplines are in between, mainly because of the strength of their scientific societies, such as the ACS in chemistry or APS in physics. The paper also examines the migration of journals between small and big publishing houses and explores the effect of publisher change on citation impact. It concludes with a discussion on the economics of scholarly publishing.

      https://journals.plos.org/plosone/article?id=10.1371/journal.pone.0127502

    • L’accès ouvert, un espoir qui donne le vertige…

      Les années 2018 et 2019 marquent une étape importante dans la politique scientifique de l’accès ouvert. Avec #Horizon_2020, l’Europe a annoncé l’obligation d’assurer le libre accès aux publications issues des projets de recherche qu’elle finance. En septembre 2018 #cOALition_S, un consortium européen d’établissements de financement de la recherche (l’ANR pour la France), soutenu par la commission européenne et l’ERC, publie les 10 principes de son Plan S. L’objectif est clairement désigné : “d’ici 2020, les publications scientifiques résultant de recherches financées par des subventions publiques accordées par les conseils de recherche et organismes de financement nationaux et européens participants doivent être publiées dans des journaux Open Access conformes ou sur des plates-formes Open Access conformes.”

      Le problème est que l’expression « #open_access » peut recouvrir des modèles économiques très différents : le “#green_open_access” (auto-archivage par l’auteur de ses travaux), le “#gold_open_access”, avec toute l’ambiguïté qu’il comporte puisque pour Couperin, il inclut aussi bien les articles dans des revues à comité de lecture en accès ouvert pour les lecteurs, payé par les auteurs avec des APC (Article processing charges) que le modèle Freemium OpenEdition, sans coût pour les auteurs ou encore les revues intégralement en accès ouvert[i]. C’est la raison pour laquelle a été introduit un nouvel intitulé dans les modèles celui de la voie “#diamant” ou “#platine” en opposition précisément à la voie “dorée” de plus en plus identifiée comme la voie de l’auteur/payeur (#APC).

      Alors que l’objectif ne concerne à ce stade que les articles scientifiques et non les ouvrages, chapitres d’ouvrages etc., les dissensions s’affichent au grand jour et dans les médias. Pour nombre de chercheurs, le Plan S de l’Union européenne ne va pas assez loin. Ils n’hésitent pas à dénoncer ouvertement les pratiques “anticoncurrentielles” d’Elsevier en saisissant la Direction générale de la commission européenne[ii]. La maison d’édition s’est en effet engagée depuis plusieurs années dans le « tout accès ouvert »[iii]. Il faut traduire ce que signifie ce « gold open access » ainsi promu : si les lecteurs ont accès aux articles gratuitement, les auteurs paient pour être publiés des APC (« author processing charges ») dont le montant, variable, engendre des profits inédits.

      De l’autre côté, logiquement, des associations d’éditeurs et les sociétés commerciales d’édition scientifique se sont élevées contre ce plan qui semble menacer leurs intérêts. Ils ont été soutenus par au moins 1700 chercheurs qui ont signé une Lettre ouverte[iv] lancée le 28 novembre à l’Union européenne contre le plan S. En France, d’autres ont publié en octobre 2018 une tribune dans Le Monde[v] contre ce même plan, non sans quelques confusions tellement la complexité du paysage est savamment entretenue, avec des arguments plus recevables qu’on ne l’aurait pensé. Qui croire ?

      Le Consortium national des bibliothèques françaises Couperin[vi] nous apporte une information utile sur les APC sur le site d’OpenAPC qui ont été versées aux éditeurs commerciaux en 2017, par chacun des 39 grands établissements de recherche enquêtés. Au total, 4 660 887 euros ont été dépensés par ces établissements pour publier 2635 articles, soit environ 1769 euros par article[vii]. Cela vient s’ajouter aux abonnements aux bouquets de revues et aux accès aux bases de données bibliométriques (Scopus d’Elsevier, WOS de Clarivate) dont les coûts, négociés, ne sont pas publiés.

      On mesure le bénéfice que les éditeurs retirent pour chaque article en comparant ces montants avec ceux estimés pour traiter un article dans l’alternative Freemium. A Cybergeo , en incluant les coûts d’un ingénieur CNRS qui encadre l’activité de la revue, du temps moyen investi par les évaluateurs, les correcteurs bénévoles et l’éditeur, ainsi que les coûts de la maintenance de la plateforme éditoriale, nous sommes parvenus à un coût moyen de 650 euros pour un article… Si Cybergeo appliquait le coût moyen des APC, elle en retirerait un revenu de près de 100 000 euros/an !

      Le plus extraordinaire dans ces calculs est que ni les APC ni cette dernière estimation “frugale” de 650 euros/article ne prennent en compte la vraie valeur ajoutée des articles, les savoir et savoir-faire scientifiques dépensés par les auteurs et par les évaluateurs. Voilà qui devrait confirmer, s’il en était encore besoin, que la “production scientifique” est bien une activité qui ne peut décidément se réduire aux “modèles économiques” de notre système capitaliste, fût-il avancé…

      L’exigence de mise en ligne des articles en accès ouvert financés sur des fonds publics s’est donc institutionnalisée, mais on peut se demander si, loin d’alléger les charges pour la recherche publique, cette obligation ne serait pas en train d’ouvrir un nouveau gouffre de dépenses sans aucun espoir de retour sur investissement. Les bénéfices colossaux et sans risques de l’édition scientifique continuent d’aller aux actionnaires. Et le rachat en 2017 par Elsevier (RELX Group) de Bepress la plate-forme d’archives ouvertes, créée en 1999 sous le nom de Berkeley Electronic Press par deux universitaires américains de l’université de Berkeley, pour un montant estimé de 100 millions d’euros, n’est pas non plus pour nous rassurer sur le devenir du “green open access” (archives ouvertes) dans ce contexte.

      https://cybergeo.hypotheses.org/462

    • Open APC

      The #Open_APC initiative releases datasets on fees paid for Open Access journal articles by universities and research institutions under an Open Database License.

      https://treemaps.intact-project.org
      #database #base_de_données #prix #statistiques #chiffres #visualisation

      Pour savoir combien paient les institutions universitaires...


      https://treemaps.intact-project.org/apcdata/openapc/#institution

      12 millions d’EUR pour UCL selon ce tableau !!!!!!!!!!!!!!!!!

    • Communiqué de presse : L’#Académie_des_sciences soutient l’accès gratuit et universel aux #publications_scientifiques

      Le 4 juillet 2018, le ministère de l’Enseignement supérieur, de la Recherche et de l’Innovation a publié un plan national pour la science ouverte, dans lequel « la France s’engage pour que les résultats de la recherche scientifique soient ouverts à tous, chercheurs, entreprises et citoyens, sans entrave, sans délai, sans paiement ». Le 4 septembre 2018, onze agences de financement européennes ont annoncé un « Plan cOAlition S(cience) » indiquant que dès 2020, les publications issues de recherches financées sur fonds publics devront obligatoirement être mises en accès ouvert.

      En 2011, 2014, 2016 et 2017, l’Académie des sciences a déjà publié des avis mentionnant la nécessité de faciliter l’accès aux publications (voir ci-dessous « En savoir plus »). Elle soutient les principes généraux de ces plans et recommande la prise en charge des frais de publications au niveau des agences de financement et des institutions de recherche. Toutefois, la mise en place concrète de ces mesures imposera au préalable des changements profonds dans les modes de publication. L’Académie des sciences attire l’attention sur le fait que ces changements dans des délais aussi courts doivent tenir compte des spécificités des divers champs disciplinaires et de la nécessaire adhésion à ces objectifs de la communauté scientifique. De nombreux chercheurs rendent déjà publiques les versions préliminaires de leurs articles sur des plates-formes ouvertes dédiées comme HAL (Hyper Articles en Ligne).

      Il est important de noter que le processus d’accès ouvert des publications ne doit pas conduire à une réduction du processus d’expertise qui assure la qualité des articles effectivement acceptés pour publication. Sans une évaluation sérieuse des publications par des experts compétents, une perte de confiance dans les journaux scientifiques serait à craindre.

      Un groupe de l’Académie des sciences travaille actuellement sur les questions soulevées par la science ouverte et un colloque sera organisé sur ce thème le 2 avril 2019 pour en débattre.


      https://www.academie-sciences.fr/fr/Communiques-de-presse/acces-aux-publications.html
      #résistance

    • Lancement de la fondation #DOAB : vers un #label européen pour les livres académiques en accès ouvert

      OpenEdition et OAPEN (Open Access Publishing in European Network, fondation implantée aux Pays-Bas) créent la fondation DOAB (Directory of Open Access Books). Cette fondation permettra de renforcer le rôle du DOAB, index mondial de référence répertoriant les ouvrages académiques en accès ouvert, et ce, notamment dans le cadre de la stratégie européenne pour le projet d’infrastructure OPERAS (Open access in the European research area through scholarly communication).


      Depuis plusieurs années les pratiques de publication en accès ouvert se multiplient en Europe du fait d’une plus grande maturité des dispositifs (archives ouvertes, plateformes de publication) et de la généralisation de politiques coordonnées au niveau des États, des financeurs de la recherche et de la Commission européenne. Ce développement du libre accès s’accompagne d’une multiplication des initiatives et des publications dont la qualité n’est pas toujours contrôlée.

      En 2003, l’Université de Lundt a créé le Directory of Open Access Journals (DOAJ). Devenu une référence mondiale, le DOAJ garantit la qualité technique et éditoriale des revues en accès ouvert qui y sont indexées.

      En 2012 la fondation OAPEN a créé l’équivalent du DOAJ pour les livres : le Directory of Open Access Books (DOAB). Ce répertoire garantit que les livres qui y sont indexés sont des livres de recherche académique (évalués par les pairs) et en accès ouvert. Le DOAB s’adresse aux lecteurs, aux bibliothèques mais aussi aux financeurs de la recherche qui souhaitent que les critères de qualité des publications en accès ouvert soient garantis et certifiés. Il indexe aujourd’hui plus de 16 500 livres en accès ouvert provenant de 315 éditeurs du monde entier.

      En Europe, les plateformes OAPEN et OpenEdition Books structurent largement le paysage par leur étendue internationale et leur masse critique. Leur alliance constitue un événement majeur dans le champ de la science ouverte autour de la labellisation des ouvrages.

      Via la fondation DOAB, le partenariat entre OpenEdition et OAPEN permettra d’asseoir la légitimité et d’étendre l’ampleur du DOAB en Europe et dans le monde, en garantissant qu’il reflète et prenne en compte la variété des pratiques académiques dans les différents pays européens en particulier. Les deux partenaires collaborent déjà au développement technique du DOAB grâce au projet HIRMEOS financé par l’Union Européenne dans le cadre de son programme Horizon 2020.
      La création de la fondation est une des actions du Plan national pour la science ouverte adopté en 2018 par la ministre française de la Recherche, Frédérique Vidal.

      OpenEdition et OAPEN forment avec d’autres partenaires le noyau dur d’un projet de construction d’une infrastructure européenne sur leur domaine de compétence : OPERAS – Open access in the European research area through scholarly communication. Avec un consortium de 40 partenaires en provenance de 16 pays européens, OPERAS vise à proposer une offre de services stables et durables au niveau européen dont le DOAB est une part essentielle.

      Selon Eelco Ferwerda, directeur d’OAPEN : « Le DOAB est devenu une ressource essentielle pour les livres en accès ouvert et nous nous en réjouissons. Je tiens à remercier Lars Bjørnshauge pour son aide dans le développement du service et Salam Baker Shanawa de Sempertool pour avoir fourni la plateforme et soutenu son fonctionnement. Notre collaboration avec OpenEdition a été très précieuse dans l’élaboration du DOAB. Nous espérons à présent atteindre un niveau optimal d’assurance qualité et de transparence ».

      Marie Pellen, directrice d’OpenEdition déclare : « L’engagement d’OpenEdition à soutenir le développement du DOAB est l’un des premiers résultats concrets du Plan national français pour la science ouverte adopté par la ministre de la Recherche, Frédérique Vidal. Grâce au soutien conjoint du CNRS et d’Aix-Marseille Université, nous sommes heureux de participer activement à une plateforme internationale cruciale pour les sciences humaines et sociales ».

      Pour Pierre Mounier, directeur adjoint d’OpenEdition et coordinateur d’OPERAS : « La création de la Fondation DOAB est une occasion unique de développer une infrastructure ouverte dans le domaine de la publication scientifique, qui s’inscrit dans le cadre de l’effort européen d’OPERAS, pour mettre en œuvre des pratiques scientifiques ouvertes dans les sciences humaines et sociales ».
      OpenEdition

      OpenEdition rassemble quatre plateformes de ressources électronique en sciences humaines et sociales : OpenEdition Books (7 000 livres au catalogue), OpenEdition Journals (500 revues en ligne), Hypothèses (3 000 carnets de recherche), Calenda (40 000 événements publiés). Depuis 2015, OpenEdition est le représentant du DOAB dans la francophonie.

      Les principales missions d’OpenEdition sont le développement de l’édition électronique en libre accès, la diffusion des usages et compétences liées à l’édition électronique, la recherche et l’innovation autour des méthodes de valorisation et de recherche d’information induites par le numérique.
      OAPEN

      La Fondation Open Access Publishing in European Networks (OAPEN) propose une offre de dépôt et de diffusion de monographies scientifiques en libre accès via l’OAPEN Library et le Directory of Open Access Books (DOAB).

      OpenEdition et OAPEN sont partenaires pour un programme d’interopérabilité sur leur catalogue respectif et une mutualisation des offres faites par chacun des partenaires aux éditeurs.

      https://leo.hypotheses.org/15553

    • About #Plan_S

      Plan S is an initiative for Open Access publishing that was launched in September 2018. The plan is supported by cOAlition S, an international consortium of research funders. Plan S requires that, from 2020, scientific publications that result from research funded by public grants must be published in compliant Open Access journals or platforms.

      https://www.coalition-s.org

    • Les #rébellions pour le libre accès aux articles scientifiques

      Les partisans du libre accès arriveront-ils à créer une brèche définitive dans le lucratif marché de l’édition savante ?

      C’est plus fort que moi : chaque fois que je lis une nouvelle sur l’oligopole de l’édition scientifique, je soupire de découragement. Comment, en 2018, peut-on encore tolérer que la diffusion des découvertes soit tributaire d’une poignée d’entreprises qui engrangent des milliards de dollars en exploitant le labeur des scientifiques ?

      D’une main, cette industrie demande aux chercheurs de lui fournir des articles et d’en assurer la révision de façon bénévole ; de l’autre main, elle étrangle les bibliothèques universitaires en leur réclamant des sommes exorbitantes pour s’abonner aux périodiques savants. C’est sans compter le modèle très coûteux des revues « hybrides », une parade ingénieuse des éditeurs qui, sans sacrifier leurs profits, se donnent l’apparence de souscrire au libre accès − un mouvement qui prône depuis 30 ans la diffusion gratuite, immédiate et permanente des publications scientifiques.

      En effet, les journaux hybrides reçoivent un double revenu : l’abonnement et des « frais de publication supplémentaires » versés par les chercheurs qui veulent mettre leurs articles en libre accès. Autrement, leurs travaux restent derrière un mur payant, inaccessibles au public qui les a pourtant financés, en tout ou en partie, par l’entremise de ses impôts. Les grands éditeurs comme Elsevier, Springer Nature et Wiley ont ainsi pris en otage la science, dont le système entier repose sur la nécessité de publier.

      Au printemps dernier, on a assisté à une rebuffade similaire quand plus de 3 300 chercheurs en intelligence artificielle, dont Yoshua Bengio, de l’Université de Montréal, se sont engagés à ne pas participer à la nouvelle revue payante Nature Machine Intelligence.

      Un consortium universitaire allemand, Projekt DEAL, a tenté d’ébranler les colonnes du temple. Depuis deux ans, ses membres négocient avec Elsevier pour mettre fin au modèle traditionnel des abonnements négociés à la pièce, derrière des portes closes. Collectivement, les membres de Projekt DEAL veulent payer pour rendre accessibles, à travers le monde, tous les articles dont le premier auteur est rattaché à un établissement allemand. En échange, ils auraient accès à tous les contenus en ligne de l’éditeur. L’entente devrait obligatoirement être publique.

      Évidemment, cela abaisserait les prix des abonnements. Pour l’instant, Elsevier refuse toute concession et a même retiré l’accès à ses revues à des milliers de chercheurs allemands l’été dernier. La tactique pourrait toutefois se révéler vaine. Pour obtenir des articles, les chercheurs peuvent toujours demander un coup de main à leurs collègues d’autres pays, recourir à des outils gratuits comme Unpaywall qui fouillent le Web pour trouver une version en libre accès ou encore s’en remettre à Sci-Hub, un site pirate qui contourne les murs payants.

      Mais plus que la perte de ses clients, c’est l’exode de ses « fournisseurs » qui écorcherait à vif Elsevier. Déjà, des scientifiques allemands ont juré qu’ils ne contribueraient plus à son catalogue de publications – qui contient pourtant des titres prestigieux comme The Lancet et Cell.

      Au printemps dernier, on a assisté à une rebuffade similaire quand plus de 3300 chercheurs en intelligence artificielle, dont Yoshua Bengio, de l’Université de Montréal, se sont engagés à ne pas participer à la nouvelle revue payante Nature Machine Intelligence. Partisans du libre accès, ils la considèrent comme « un pas en arrière » pour l’avenir de leur discipline.

      Et puis il y a le « plan S » : début septembre, 11 organismes subventionnaires européens ont annoncé que, à partir de 2020, ils ne financeront que les scientifiques promettant de diffuser leurs résultats dans des revues en libre accès. Le plan S exclurait d’office environ 85 % des journaux savants, y compris Nature et Science.

      Ces petites rébellions déboucheront-elles sur une véritable révolution de l’édition scientifique ? Difficile à dire, mais c’est suffisant pour passer du découragement à l’espoir.

      https://www.quebecscience.qc.ca/edito/rebellions-libre-acces-articles-scientifiques

    • Le business très juteux des revues scientifiques

      Les chercheurs produisent et révisent gratuitement des articles publiés dans des journaux dont l’accès est ensuite facturé très cher aux organismes de recherche dont ils dépendent.

      La crise sanitaire a mis les grands noms de l’édition scientifique sur le devant de la scène. Au début du mois de mars, la majorité des journaux scientifiques ont choisi de diffuser gratuitement les articles en lien avec le coronavirus, afin d’accélérer la recherche. Philanthropes ? Pas vraiment...

      En temps normal, les connaissances scientifiques se monnaient très cher. Les quelques maisons d’édition qui possèdent l’essentiel de ces revues sont parmi les entreprises les plus rentables au monde, affichant des marges de 30 % à 40 %. C’est plus que le géant de l’informatique Apple, qui enregistre une marge de 21 % sur ces dix dernières années. Le secret des éditeurs scientifiques réside en grande partie dans le fait qu’ils vendent des produits obtenus sans dépenser un sou... ou presque. Au sein de la communauté scientifique, les voix sont de plus en plus nombreuses à dénoncer ce système, source de profits considérables au détriment des fonds publics. Jeudi, le prestigieux Institut de technologie du Massachusetts (MIT) annonçait ainsi mettre fin aux négociations avec le leader du secteur, Elsevier.

      Le système est ainsi construit : un chercheur a tout intérêt à proposer des articles, puisque sa carrière (obtention d’un poste, de financements...) dépend étroitement du nombre d’articles qu’il publie et du prestige des journaux dans lesquels il publie. Lorsque le comité éditorial d’une revue est intéressé par un article qui lui a été proposé, il le soumet à des scientifiques spécialistes du domaine, qui sont chargés de l’évaluer. Ce travail essentiel, appelé « révision par les pairs » dans le jargon de l’édition scientifique, est réalisé bénévolement. Si l’article est accepté, le chercheur est alors contraint d’en céder les droits à l’éditeur, à titre exclusif et gracieux. L’entreprise revend ensuite aux bibliothèques universitaires et aux laboratoires de recherche des abonnements permettant d’accéder à ces articles. « Des personnes non rémunérées par l’éditeur produisent et évaluent gratuitement des résultats scientifiques que leurs institutions doivent ensuite acheter à l’éditeur » , résume Didier Torny, spécialiste de l’économie politique de la publication scientifique au CNRS. « Les profits arrivent ensuite dans la poche des actionnaires, c’est la poule aux oeufs d’or » , poursuit Marie Farge, mathématicienne et physicienne, directrice de recherche émérite au CNRS.

      Le secteur se porte mieux que jamais. En 2018, le marché pesait 25,7 milliards de dollars, selon l’Association internationale des éditeurs scientifiques, contre 21 milliards de dollars en 2010. Elsevier (désormais RELX), qui possède plus de 2 500 revues dont The Lancet et Cell , affichait en 2019 un chiffre d’affaires de 7,87 milliards d’euros (dont un tiers provient de l’édition), soit 5 % de plus qu’en 2018. Un succès qui s’explique notamment par l’augmentation des montants facturés aux clients. Lors des négociations, le rapport de force n’est pas en faveur des bibliothèques. « Nous étions contents quand nous arrivions à négocier une hausse de 12 % au lieu de 15 % » , se souvient Bernard Rentier, recteur de l’université de Liège (Belgique) entre 2005 et 2014. « Si nous refusions le contrat, nous nous entendions dire que notre établissement allait devenir un petit trou de province, faute de pouvoir accéder à cette littérature , poursuit l’universitaire, auteur de Science ouverte, le défi de la transparence (Éditions de l’Académie royale de Belgique). Ce sont des requins assumés, mais je ne leur jette pas la pierre : ils ont pour oeuvre de gagner de l’argent. On ne peut que reprocher aux clients d’être clients. »

      Actuellement, la France dépense environ 62 millions d’euros par an pour l’accès aux revues électroniques. Entre les années 1990 et 2018, la facture aurait augmenté annuellement de 2 % à 4 %, d’après une source proche du dossier. Mais il est difficile de le savoir précisément car la transparence n’est pas de mise. Jusqu’à récemment, les contrats noués entre Couperin (le consortium représentant plus de 250 acteurs de l’enseignement supérieur et de la recherche en France) et les éditeurs étaient confidentiels, à la demande de ces derniers. « Les négociations se font à la tête du client, et comme les contrats sont secrets, personne ne sait combien paient les autres » , dénonce Marie Farge. Pour la première fois en France, le contrat négocié avec la firme Elsevier en octobre 2019 a été divulgué officiellement (certains ont déjà fuité par le passé) : pendant quatre ans, 227 établissements de recherche et d’enseignement supérieur pourront accéder à 2 300 revues et services pour 34,7 millions d’euros par an en moyenne.

      Pendant longtemps, les frais d’édition semblaient tout à fait justifiés et n’étaient pas remis en cause par la communauté scientifique. « Au moment de l’essor des revues spécialisées, au XIXe siècle, les sociétés savantes ont délégué le travail d’édition, d’impression et de diffusion à des libraires et des éditeurs , rapporte Valérie Tesnière, spécialiste des pratiques et politiques éditoriales scientifiques contemporaines à l’École des hautes études en sciences sociales. Le modèle économique a été conçu à un moment où les auteurs et les rédactions des journaux avaient bien du mal à écrire en anglais (pour les Européens) et à assurer les mises aux normes des données qui facilitent la circulation internationale de l’information. Les éditeurs ont fait payer ce service et plus il était performant, plus les marges ont été confortables, car un bon service se paie. »

      Le développement d’internet aurait pu signer la fin de ce système, mais c’est tout le contraire qui s’est produit. Et certains chercheurs estiment désormais que les prix pratiqués sont excessifs. « Bien sûr, il y a encore des frais liés aux serveurs, à la main-d’oeuvre, aux stockages des données , concède Laurette Tuckerman, physicienne à l’École supérieure de physique et de chimie industrielles à Paris, mais la distribution se fait désormais essentiellement par voie électronique et ce sont souvent les chercheurs eux-mêmes qui s’occupent de la mise en page. » « Les coûts ne sont pas si nuls , conteste Valérie Tesnière. Les éditeurs fournissent aussi d’autres services aux chercheurs. Ils assurent en outre une diffusion internationale, organisée et immédiate via des systèmes d’information élaborés, qui leur font gagner du temps. »

      Mais l’escalade des prix s’explique en grande partie par un autre phénomène : la mise en place d’un oligopole, qui peut donc dicter à sa guise les lois du marché. « En trente ans, nous avons assisté à l’émergence de grands consortiums par fusions et acquisitions » , rapporte Bernard Rentier. Sur les quelque 12 000 éditeurs dans le monde, cinq se partagent 40 % du chiffre d’affaires. Autre raison de cette hausse spectaculaire, la nature des biens échangés. « En principe, si une entreprise vend un bien trop cher, les consommateurs vont se tourner vers ses concurrents. Mais en sciences, c’est impossible car les biens sont uniques » , explique Laurette Tuckerman. En économie, on parle de « demande inélastique » : la consommation n’est pas modifiée - ou très peu - par l’augmentation des prix. Cette spécificité du secteur n’est pas passée inaperçue aux yeux des investisseurs. Dès le début des années 2000, la banque d’investissement Morgan Stanley constatait que « la nature de niche du marché et la croissance rapide du budget des bibliothèques universitaires ont fait du marché de la publication scientifique le secteur de l’industrie des médias le plus florissant de ces quinze dernières années » .

      Pour justifier ces hausses répétées des prix, les éditeurs se sont mis à proposer des bouquets de revues (les « big deals » ) à des tarifs plus intéressants que la vente à l’unité, puis à augmenter le nombre de revues (et donc d’articles). Plus récemment, ils ont développé une autre stratégie, calquée sur une idée chère à la communauté scientifique : l’accès libre, gratuit pour tous... sauf pour les auteurs. Depuis le milieu des années 2000, ils proposent aux chercheurs de payer des frais de publication (les Article Publishing Charges, ou APC) afin que leur travail soit diffusé gratuitement. « Les établissements de recherche déboursent deux fois , résume Florence Audier, chercheuse à l’université Panthéon-Sorbonne, dans un article publié en 2018 dans la revue La Vie de la recherche scientifique . D’un côté en payant les frais de publication open access et de l’autre en maintenant l’abonnement à ces mêmes revues. »

      Si les frais d’abonnement commencent tout juste à s’infléchir - comme l’atteste la baisse des coûts de 13,3 % négociée lors du dernier contrat entre la France et Elsevier -, les APC connaissent une croissance très importante. D’après le consortium Couperin, les charges demandées par article par les éditeurs ont augmenté de 12 % en France entre 2015 et 2017, passant de 1 500 à 1 700 euros. Ces frais peuvent s’élever jusqu’à 7 000 dollars pour certains journaux. Des sommes souvent décorrélées des coûts de publication : « Les coûts réels pour publier un article uniquement en ligne peuvent être estimés entre 260 et 870 dollars, selon la qualité du travail d’édition et de relecture. Pour une version imprimée, c’est 1 300 à 2 000 dollars » , indique Samuel Alizon, directeur de recherche au CNRS. Pour Marie Farge, ces pratiques « relèvent plus du droit de péage que de la tarification de services apportés aux auteurs et aux lecteurs des articles publiés électroniquement » . Contacté par Le Figaro , Elsevier n’a pas répondu aux questions soulevées dans cet article.

      Depuis une dizaine d’années, les initiatives se multiplient pour lutter contre ce système. Certains chercheurs refusent désormais de publier dans des revues commerciales ou de réviser les articles qui y sont soumis, des comités éditoriaux démissionnent pour protester contre l’augmentation des coûts de publication, et des bras de fer entre les éditeurs et les universités ont lieu un peu partout. Après tout, si les chercheurs quittaient la table des négociations, que deviendraient les éditeurs ?

      https://www.lefigaro.fr/sciences/le-business-tres-juteux-des-revues-scientifiques-20200612

    • Le business très juteux des revues scientifiques

      Les chercheurs produisent et révisent gratuitement des articles publiés dans des journaux dont l’accès est ensuite facturé très cher aux organismes de recherche dont ils dépendent.

      La crise sanitaire a mis les grands noms de l’édition scientifique sur le devant de la scène. Au début du mois de mars, la majorité des journaux scientifiques ont choisi de diffuser gratuitement les articles en lien avec le coronavirus, afin d’accélérer la recherche. Philanthropes ? Pas vraiment...

      En temps normal, les connaissances scientifiques se monnaient très cher. Les quelques maisons d’édition qui possèdent l’essentiel de ces revues sont parmi les entreprises les plus rentables au monde, affichant des marges de 30 % à 40 %. C’est plus que le géant de l’informatique Apple, qui enregistre une marge de 21 % sur ces dix dernières années. Le secret des éditeurs scientifiques réside en grande partie dans le fait qu’ils vendent des produits obtenus sans dépenser un sou... ou presque. Au sein de la communauté scientifique, les voix sont de plus en plus nombreuses à dénoncer ce système, source de profits considérables au détriment des fonds publics. Jeudi, le prestigieux Institut de technologie du Massachusetts (MIT) annonçait ainsi mettre fin aux négociations avec le leader du secteur, Elsevier.

      Le système est ainsi construit : un chercheur a tout intérêt à proposer des articles, puisque sa carrière (obtention d’un poste, de financements...) dépend étroitement du nombre d’articles qu’il publie et du prestige des journaux dans lesquels il publie. Lorsque le comité éditorial d’une revue est intéressé par un article qui lui a été proposé, il le soumet à des scientifiques spécialistes du domaine, qui sont chargés de l’évaluer. Ce travail essentiel, appelé « révision par les pairs » dans le jargon de l’édition scientifique, est réalisé bénévolement. Si l’article est accepté, le chercheur est alors contraint d’en céder les droits à l’éditeur, à titre exclusif et gracieux. L’entreprise revend ensuite aux bibliothèques universitaires et aux laboratoires de recherche des abonnements permettant d’accéder à ces articles. « Des personnes non rémunérées par l’éditeur produisent et évaluent gratuitement des résultats scientifiques que leurs institutions doivent ensuite acheter à l’éditeur » , résume Didier Torny, spécialiste de l’économie politique de la publication scientifique au CNRS. « Les profits arrivent ensuite dans la poche des actionnaires, c’est la poule aux oeufs d’or » , poursuit Marie Farge, mathématicienne et physicienne, directrice de recherche émérite au CNRS.

      Le secteur se porte mieux que jamais. En 2018, le marché pesait 25,7 milliards de dollars, selon l’Association internationale des éditeurs scientifiques, contre 21 milliards de dollars en 2010. Elsevier (désormais RELX), qui possède plus de 2 500 revues dont The Lancet et Cell , affichait en 2019 un chiffre d’affaires de 7,87 milliards d’euros (dont un tiers provient de l’édition), soit 5 % de plus qu’en 2018. Un succès qui s’explique notamment par l’augmentation des montants facturés aux clients. Lors des négociations, le rapport de force n’est pas en faveur des bibliothèques. « Nous étions contents quand nous arrivions à négocier une hausse de 12 % au lieu de 15 % » , se souvient Bernard Rentier, recteur de l’université de Liège (Belgique) entre 2005 et 2014. « Si nous refusions le contrat, nous nous entendions dire que notre établissement allait devenir un petit trou de province, faute de pouvoir accéder à cette littérature , poursuit l’universitaire, auteur de Science ouverte, le défi de la transparence (Éditions de l’Académie royale de Belgique). Ce sont des requins assumés, mais je ne leur jette pas la pierre : ils ont pour oeuvre de gagner de l’argent. On ne peut que reprocher aux clients d’être clients. »

      Actuellement, la France dépense environ 62 millions d’euros par an pour l’accès aux revues électroniques. Entre les années 1990 et 2018, la facture aurait augmenté annuellement de 2 % à 4 %, d’après une source proche du dossier. Mais il est difficile de le savoir précisément car la transparence n’est pas de mise. Jusqu’à récemment, les contrats noués entre Couperin (le consortium représentant plus de 250 acteurs de l’enseignement supérieur et de la recherche en France) et les éditeurs étaient confidentiels, à la demande de ces derniers. « Les négociations se font à la tête du client, et comme les contrats sont secrets, personne ne sait combien paient les autres » , dénonce Marie Farge. Pour la première fois en France, le contrat négocié avec la firme Elsevier en octobre 2019 a été divulgué officiellement (certains ont déjà fuité par le passé) : pendant quatre ans, 227 établissements de recherche et d’enseignement supérieur pourront accéder à 2 300 revues et services pour 34,7 millions d’euros par an en moyenne.

      Pendant longtemps, les frais d’édition semblaient tout à fait justifiés et n’étaient pas remis en cause par la communauté scientifique. « Au moment de l’essor des revues spécialisées, au XIXe siècle, les sociétés savantes ont délégué le travail d’édition, d’impression et de diffusion à des libraires et des éditeurs , rapporte Valérie Tesnière, spécialiste des pratiques et politiques éditoriales scientifiques contemporaines à l’École des hautes études en sciences sociales. Le modèle économique a été conçu à un moment où les auteurs et les rédactions des journaux avaient bien du mal à écrire en anglais (pour les Européens) et à assurer les mises aux normes des données qui facilitent la circulation internationale de l’information. Les éditeurs ont fait payer ce service et plus il était performant, plus les marges ont été confortables, car un bon service se paie. »

      Le développement d’internet aurait pu signer la fin de ce système, mais c’est tout le contraire qui s’est produit. Et certains chercheurs estiment désormais que les prix pratiqués sont excessifs. « Bien sûr, il y a encore des frais liés aux serveurs, à la main-d’oeuvre, aux stockages des données , concède Laurette Tuckerman, physicienne à l’École supérieure de physique et de chimie industrielles à Paris, mais la distribution se fait désormais essentiellement par voie électronique et ce sont souvent les chercheurs eux-mêmes qui s’occupent de la mise en page. » « Les coûts ne sont pas si nuls , conteste Valérie Tesnière. Les éditeurs fournissent aussi d’autres services aux chercheurs. Ils assurent en outre une diffusion internationale, organisée et immédiate via des systèmes d’information élaborés, qui leur font gagner du temps. »

      Mais l’escalade des prix s’explique en grande partie par un autre phénomène : la mise en place d’un oligopole, qui peut donc dicter à sa guise les lois du marché. « En trente ans, nous avons assisté à l’émergence de grands consortiums par fusions et acquisitions » , rapporte Bernard Rentier. Sur les quelque 12 000 éditeurs dans le monde, cinq se partagent 40 % du chiffre d’affaires. Autre raison de cette hausse spectaculaire, la nature des biens échangés. « En principe, si une entreprise vend un bien trop cher, les consommateurs vont se tourner vers ses concurrents. Mais en sciences, c’est impossible car les biens sont uniques » , explique Laurette Tuckerman. En économie, on parle de « demande inélastique » : la consommation n’est pas modifiée - ou très peu - par l’augmentation des prix. Cette spécificité du secteur n’est pas passée inaperçue aux yeux des investisseurs. Dès le début des années 2000, la banque d’investissement Morgan Stanley constatait que « la nature de niche du marché et la croissance rapide du budget des bibliothèques universitaires ont fait du marché de la publication scientifique le secteur de l’industrie des médias le plus florissant de ces quinze dernières années » .

      Pour justifier ces hausses répétées des prix, les éditeurs se sont mis à proposer des bouquets de revues (les « big deals » ) à des tarifs plus intéressants que la vente à l’unité, puis à augmenter le nombre de revues (et donc d’articles). Plus récemment, ils ont développé une autre stratégie, calquée sur une idée chère à la communauté scientifique : l’accès libre, gratuit pour tous... sauf pour les auteurs. Depuis le milieu des années 2000, ils proposent aux chercheurs de payer des frais de publication (les Article Publishing Charges, ou APC) afin que leur travail soit diffusé gratuitement. « Les établissements de recherche déboursent deux fois , résume Florence Audier, chercheuse à l’université Panthéon-Sorbonne, dans un article publié en 2018 dans la revue La Vie de la recherche scientifique . D’un côté en payant les frais de publication open access et de l’autre en maintenant l’abonnement à ces mêmes revues. »

      Si les frais d’abonnement commencent tout juste à s’infléchir - comme l’atteste la baisse des coûts de 13,3 % négociée lors du dernier contrat entre la France et Elsevier -, les APC connaissent une croissance très importante. D’après le consortium Couperin, les charges demandées par article par les éditeurs ont augmenté de 12 % en France entre 2015 et 2017, passant de 1 500 à 1 700 euros. Ces frais peuvent s’élever jusqu’à 7 000 dollars pour certains journaux. Des sommes souvent décorrélées des coûts de publication : « Les coûts réels pour publier un article uniquement en ligne peuvent être estimés entre 260 et 870 dollars, selon la qualité du travail d’édition et de relecture. Pour une version imprimée, c’est 1 300 à 2 000 dollars » , indique Samuel Alizon, directeur de recherche au CNRS. Pour Marie Farge, ces pratiques « relèvent plus du droit de péage que de la tarification de services apportés aux auteurs et aux lecteurs des articles publiés électroniquement » . Contacté par Le Figaro , Elsevier n’a pas répondu aux questions soulevées dans cet article.

      Depuis une dizaine d’années, les initiatives se multiplient pour lutter contre ce système. Certains chercheurs refusent désormais de publier dans des revues commerciales ou de réviser les articles qui y sont soumis, des comités éditoriaux démissionnent pour protester contre l’augmentation des coûts de publication, et des bras de fer entre les éditeurs et les universités ont lieu un peu partout. Après tout, si les chercheurs quittaient la table des négociations, que deviendraient les éditeurs ?

      https://www.lefigaro.fr/sciences/le-business-tres-juteux-des-revues-scientifiques-20200612

    • Privés de savoir ?

      Dans le monde de la recherche scientifique, publier ses travaux est un passage obligé. Cela permet aux chercheuses et chercheurs de faire connaître leur travail mais aussi d’être identifié par leurs pairs et pourquoi pas d’obtenir un poste, à condition d’être publié dans
      les bonnes revues. Sauf que cette mécanique de publication - qui permettait à la base de faire circuler le savoir - est devenue une vraie chasse gardée économique : celle des éditeurs scientifiques. Quelques grands noms comme le neerlandais Elsevier ou le groupe Springer/Nature se partagent un marché juteux et privatisent au passage des travaux scientifiques la plupart du temps financés par des fonds publics.

      https://www.youtube.com/watch?v=WnxqoP-c0ZE

      voir aussi ce fil de discussion dans lequel ce film est cité :

      On turning down poorly-paid, limited value, academic work

      https://seenthis.net/messages/653533

  • #Miners_Shot_Down

    In August 2012, mineworkers in one of South Africa’s biggest platinum mines began a wildcat strike for better wages. Six days into the strike, the police used live ammunition to brutally suppress the strike, killing 34 and injuring many more.The police insisted that they shot in self- defense. Miners Shot Down tells a different story, one that unfolds in real time over seven days, like a ticking time bomb.

    The film weaves together the central point-of-view of three strike leaders, Mambush, Tholakele and Mzoxolo, with compelling police footage, TV archive and interviews with lawyers representing the miners in the ensuing commission of inquiry into the massacre. What emerges is a tragedy that arises out of the deep fault lines in South Africa’s nascent democracy, of enduring poverty and a twenty year old, unfulfilled promise of a better life for all. A campaigning film, beautifully shot, sensitively told, with a haunting soundtrack, Miners Shot Down reveals how far the African National Congress has strayed from its progressive liberationist roots and leaves audiences with an uncomfortable view of those that profit from minerals in the global South.


    http://www.minersshotdown.co.za
    #Afrique_du_sud #film #documentaire #mines #extractivisme #violences_policières #histoire #massacre #Marikana_commission_for_inquiry #grève #Lonmin #travail #pauvreté #platine #massacre_de_Marikan #syndicat #Cyril_Ramaphosa #National_union_of_mine_workers (#NUM) #AMCU #matières_premières #violence #Lonmin_mining_company #Greg_Marinovich #police #impunité

  • Sur la côte sud-africaine, conflit sanglant autour d’un projet de mine de titane
    http://www.lemonde.fr/planete/visuel/2016/05/23/sur-la-cote-sud-africaine-conflit-sanglant-autour-d-un-projet-de-mine-de-tit

    Il l’a appelée le soir même. « Sois très prudente, une liste de gens à abattre circule, je suis le premier nom, tu es le deuxième. » Sur une dune de sable face à l’océan Indien, Nomhle Mbuthuma répète d’une voix triste les mots de son ami Sikhosiphi Rhadebe, prononcés le 22 mars. « Une heure plus tard, son frère m’appelait pour me dire qu’il avait été tué. » De huit balles dans la tête. Deux hommes s’étaient présentés chez lui comme policiers et lui avaient demandé de les suivre.

    A la tête du comité de crise Amadiba (ACC), Sikhosiphi Rhadebe, 52 ans, luttait depuis des années avec abnégation contre l’implantation d’une #mine de #titane sur la Côte sauvage de Xolobeni, dans la région sud-africaine du Cap oriental. La compagnie australienne Mineral Commodities (#MRC) a démenti toute implication dans le meurtre du militant. Le gouvernement sud-africain a appelé au calme. En 2003, 2008 et 2015, trois autres opposants au projet sont morts dans des circonstances troubles. L’un d’entre eux par #empoisonnement.

    Le conflit est révélateur des tensions croissantes en #Afrique_du_Sud, entre une #industrie_minière historiquement puissante mais déclinante et une société civile de plus en plus soucieuse des conséquences sociales et environnementales de ces méga-projets d’#extraction. La rédaction par le gouvernement d’une nouvelle #charte_minière suscite actuellement un vif débat dans le pays, premier producteur mondial de #platine et de #manganèse. Le texte en discussion veut imposer aux compagnies minières de dépenser 1 % de leur chiffre d’affaires pour le développement des communautés locales, et d’attribuer 26 % des parts du projet à des actionnaires sud-africains noirs.

    @fil

  • Ally Mobbs transforme des platines en Spirograph musicaux | The Creators Project
    http://thecreatorsproject.vice.com/fr/blog/artist-turns-a-record-player-into-an-automatic-illustrator

    Vous avez récupéré la platine que papa stockait au grenier mais n’avez jamais pris le temps de la remettre en marche ? Vous vous êtes ensuite rendu compte que les vinyles coutaient vachement plus cher que les mp3s sur Pirate Bay ? Le bel outil trône donc dans votre salon, sans vie, entre un polaroid et une Super-8. La question se pose donc : qu’est ce qu’une platine sait faire d’autre que jouer de la musique ?

    Il semblerait que le projet Turntablism For The Hard Of Hearing : Harmonic Motion d’Ally Mobbs, apporte quelques éléments de réponse. L’artiste du Kyoto-by-the-way-of-England a prit à la lettre le sens de tourne-disque et se sert de son mouvement circulaire pour traduire la musique en de magnifiques graphismes. En gros, lorsque les machines font des gribouillages, c’est sacrément la classe.

    http://vimeo.com/39146037

    #machine_art #platine #dj #ellipse

  • The murder fields of Marikana
    http://dailymaverick.co.za/article/2012-08-30-the-murder-fields-of-marikana-the-cold-murder-fields-of-

    It is becoming clear to this reporter that heavily armed police hunted down and killed the miners in cold blood. A minority were killed in the filmed event where police claim they acted in self-defence. The rest was murder on a massive scale.

    (...) “Tsepo said many people had been killed at the small koppie and it had never been covered (by the media). He agreed to take us to the small koppie, because that is where many, many people died,” Mmope said.

    After the shooting began, Tsepo said, he was among many who ran towards the small koppie. As the police chased them, someone among them said, “Let us lie down, comrades, they will not shoot us then.”

    (...) It took several days for police to release the number of those killed. The number 34 surprised most of us. With only about a dozen bodies recorded by the media, where exactly had the remaining miners been killed, and how did they die?

    Most journalists and others did not interrogate this properly. The violence of the deaths we could see, again and again, was enough to contend with. The police certainly did not mention what happened outside of the view of the cameras.

    The toll of 112 mineworkers (34 dead and 78 wounded) at Marikana is one of those few bitter moments in our bloody history that has been captured by the unblinking eye of the lens. Several lenses, in fact, and from various viewpoints.

    This has allowed the actions and reactions of both the strikers and the police to be scrutinised in ways that undocumented tragedies can never be. Therefore, while the motives and rationale of both parties will never be completely clear, their deeds are quite apparent. 

    Thus developed a dominant narrative within the public discourse. The facts have been fed by the police, various state entities and by the media that the strikers provoked their own deaths by charging and shooting at the forces of law and order. Indeed, the various images and footage can be read to support this claim.

    The contrary view is that the striking miners were trying to escape police rubber bullets and tear gas when they ran at the heavily armed police task team (our version of SWAT). The result was the horrific images of a dozen or so men gunned down in a fusillade of automatic fire.

    http://dailymaverick.co.za/photo/resize/2012-08-30-cfakepathgreg-marikana-murders-02-465-609/465/609

    It is possible to interpret what happened in the filmed events as an over-reaction by the police to a threat. What happened afterwards, 400 metres away at Small Koppie, is quite different. That police armoured vehicles drove over prostrate miners cannot be described as self-defence or as any kind of public order policing.

    #afrique_du_sud #police #répression #massacre #cdp