• La siccità e le politiche israeliane assetano i contadini palestinesi

    La crisi idrica ha stravolto l’economia del villaggio di #Furush_Beit_Dajan, in Cisgiordania: la tradizionale coltivazione di limoni ha lasciato spazio a serre di pomodori. E lo sfruttamento intensivo rischia di impoverire ulteriormente la terra

    Il telefono squilla incessantemente nello studio di Azem Hajj Mohammed. Il sindaco di Furush Beit Dajan, un villaggio agricolo nel Nord della Cisgiordania, ha lavorato tutta la notte per cercare di identificare due uomini del vicino villaggio di Jiftlik che, sfruttando l’oscurità, si sarebbero allacciati illegalmente alla rete di distribuzione idrica. Secondo la regolamentazione di epoca ottomana, gli abitanti di Furush Beit Dajan hanno diritto al 10% dell’acqua estratta dal pozzo artesiano situato a Nord del villaggio, mentre il 90% spetta a Jiftlik. Ma quando la pressione dell’acqua è bassa, alcuni residenti che ritengono di non riceverne abbastanza si allacciano illegalmente ai tubi, generando tensioni in questa comunità dove l’agricoltura è la principale fonte di reddito per nove abitanti su dieci.

    “Devo individuare rapidamente i responsabili e trovare una mediazione prima che il furto sfoci in un conflitto tra famiglie e che intervenga l’esercito israeliano -spiega il sindaco in un momento di pausa tra due chiamate-. Nessuno vuole autodenunciarsi. Dovrò visionare i filmati delle telecamere di sorveglianza, trovarli e andare a parlarci”, dice a un suo collaboratore. Il viso è segnato dalle occhiaie, dalla fatica e dallo stress accumulati per amministrare un villaggio la cui esistenza affoga in un paradosso: nonostante sorga su una ricca falda, l’acqua è centellinata goccia per goccia. Le restrittive politiche israeliane in materia, aggravate dalla siccità nella Valle del Giordano, hanno causato una profonda crisi idrica che ha stravolto l’economia del luogo, portando i contadini a optare per l’agricoltura intensiva.

    Se Azem Hajj Mohammed è così preoccupato è perché l’accesso all’acqua garantisce la pace sociale a Furush Beit Dajan. Il villaggio si era costruito una reputazione e una posizione sul mercato agricolo palestinese grazie alle floride distese di alberi di limone, piante molto esigenti in termini di fabbisogni idrici. “Il profumo avvolgeva il villaggio come una nuvola. L’acqua sgorgava liberamente, alimentava i campi e un mulino. I torrenti erano così tumultuosi che i bambini rischiavano di annegare”, ricorda l’agricoltore ‘Abd al-Hamid Abu Firas. Aveva diciannove anni quando nel 1967 gli israeliani consolidarono il loro controllo sul territorio e le risorse idriche in Cisgiordania dopo la Guerra dei sei giorni. Da allora, l’acqua ha iniziato a ridursi.

    Nel 1993 gli Accordi di Oslo hanno di fatto conferito a Israele la gestione di questa risorsa, che oggi controlla l’80% delle riserve idriche della Cisgiordania. Le Nazioni Unite stimano che gli israeliani, compresi i coloni, abbiano accesso in media a 247 litri d’acqua al giorno, mentre i palestinesi che vivono all’interno dell’Area C, sotto controllo militare, si devono accontentare di venti litri. Solo un quinto del minimo raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità.

    Il progressivo esaurimento delle falde e le crescenti esigenze idriche delle vicine colonie israeliane di Hamra e Mekhora hanno spinto gli agricoltori a una scelta radicale: abbandonare le varietà di limoni autoctone per sostituirle gradualmente con le coltivazioni verticali e pomodori in serra, che presentano un rapporto tra produttività e fabbisogno idrico più alto. Secondo l’istituto olandese di Delft, specializzato su questi temi, per produrre una tonnellata di pomodori sono necessari mediamente 214 metri cubi d’acqua. La stessa quantità di limoni ne richiederebbe tre volte di più. L’acqua, tuttavia, ci sarebbe. La vicina colonia di Hamra -illegale secondo il diritto internazionale e costruita nel 1971 su terreni confiscati ai palestinesi- possiede una coltivazione di palme da dattero di 40 ettari: per produrre una tonnellata di questi frutti servono 2.300 metri cubi d’acqua, quasi dieci volte la quantità necessaria per la stessa quantità di pomodori.

    Le distese di campi di limoni hanno lasciato il posto a quelle che Rasmi Abu Jeish chiama le “case di plastica”. Il paesaggio è radicalmente mutato: il bianco delle serre ha sostituito il verde delle piante. Dei suoi 450 alberi di limone, il contadino ne ha lasciati in piedi soltanto 30 per onorare la tradizione familiare. Il resto dei suoi 40 dunum di terre (unità di misura di origine ottomana corrispondente a circa mille metri quadrati) sono occupate da serre.

    La diminuzione dell’acqua per l’irrigazione ha generato un cambiamento nei metodi di produzione, portando gli agricoltori ad aumentare le quantità di pomodori prodotte per assicurarsi entrate sufficienti. “Le monocolture rendono i contadini più vulnerabili alle fluttuazioni dei prezzi, più inclini a usare pesticidi e fertilizzanti per assicurarsi entrate stabili. Sul lungo termine questo circolo vizioso rende il terreno infertile e inutilizzabile per l’agricoltura”, avverte Muqbel Abu-Jaish, del Palestinian agricultural relief committees, che accompagna gli agricoltori del villaggio nella gestione delle risorse idriche.

    Senza l’ombra degli alberi di agrumi, anche le temperature registrate all’interno del villaggio sono aumentate, rendendo la vita ancora più difficile d’estate, quando nella Valle del Giordano si superano i 40 gradi. La mancanza di accesso all’acqua e la politica espansionistica dei coloni israeliani, aggravate dalla crisi climatica, hanno portato così l’agricoltura a contribuire soltanto al 2,6% del Prodotto interno lordo della Cisgiordania.

    Il cambiamento di produzione è stato affrontato con più elasticità dalla nuova generazione di agricoltori, non senza difficoltà. “Nonostante questa situazione abbiamo deciso di continuare. Il lavoro è diminuito molto ma qui non abbiamo altre possibilità. È come se senza l’acqua fosse sparita anche la vita. Dobbiamo adattarci”, racconta Saeed Abu Jaish, 25 anni, la cui famiglia ha ridotto i terreni coltivati da 15 a due dunum convertendoli interamente alla coltivazione di pomodori in serra. Oggi il villaggio fornisce circa l’80% dei bisogni del mercato palestinese di questo prodotto.

    Le difficoltà sono accentuate dall’impossibilità di costruire infrastrutture, anche leggere, per la raccolta e lo stoccaggio di acqua piovana. Tutto il villaggio si trova in Area C, sotto controllo amministrativo e militare israeliano, dove ogni attività agricola e di costruzione è formalmente vietata. Quando, nel 2021, il sindaco di Furush Beit Dajan ha fatto installare un serbatoio d’acqua per uso agricolo l’esercito israeliano si è mobilitato per smantellarlo nel volgere di poche ore. Come era accaduto ad altri 270 impianti idrici negli ultimi cinque anni.

    Il sindaco non può nemmeno avviare lavori di ammodernamento della rete idrica, risalente al mandato britannico terminato nel 1948. Dei nove pozzi da cui dipendeva il villaggio, la metà si sono prosciugati, mentre il flusso d’acqua di quelli restanti è diminuito inesorabilmente, passando da duemila metri cubi all’ora prima del 1967, a soli 30 metri cubi oggi, secondo il sindaco Azem Hajj Mohammed.

    Le restrizioni sull’erogazione dell’acqua in Cisgiordania hanno anche un’altra conseguenza, cruciale sul lungo periodo, in questo territorio conteso. Una legge risalente all’epoca ottomana e incorporata dal sistema legislativo israeliano permette infatti allo Stato ebraico di dichiarare “terra di Stato” tutti i campi palestinesi lasciati incolti per almeno tre anni. La carenza d’acqua, i costi, e la disperazione spingono così i contadini palestinesi ad abbandonare il loro terreni che, senza la possibilità di essere irrigati, non producono reddito e pesano sulle finanze familiari. “Non vedo possibilità di miglioramento nell’attuale status quo, con gli Accordi di Oslo che conferiscono il controllo dell’acqua ad Israele. Il numero di coloni aumenta costantemente mentre l’acqua diminuisce. Senza un cambiamento, la situazione non può che peggiorare”, analizza Issam Khatib, professore di Studi idrici e ambientali dell’Università di Birzeit.

    Adir Abu Anish ha 63 anni e coltiva ormai soltanto un sesto dei 50 dunum che possiede. Oltre alle serre di pomodoro, si è concesso di piantare delle viti che afferma essere destinate a seccarsi in un paio d’anni. Il torrente da cui si approvvigionava è contaminato dalle acque reflue provenienti dalla vicina città di Nablus, un caso di inquinamento che il sindaco ha portato in tribunale. All’ombra del suo vigneto, Abu Anish sospira: “Di solito i genitori lasciano in eredità ai loro figli possedimenti e ricchezze. Noi lasciamo campi secchi”.

    https://altreconomia.it/la-siccita-e-le-politiche-israeliane-assetano-i-contadini-palestinesi

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  • Nelle serre in provincia di #Ragusa i diritti non esistono

    Nella cosiddetta Fascia trasformata migliaia di braccianti irregolari lavorano in condizioni terribili nell’indifferenza delle istituzioni

    Mohamed trascorre le sue giornate tra le serre dove lavora e la baracca dove vive. Ogni giorno per almeno otto ore raccoglie verdura a Marina di Acate, in provincia di Ragusa, nella parte più a sud della Sicilia. Inizia alle 7 del mattino e finisce alle 16, se tutto va bene. Guadagna pochissimo: 35 euro al giorno. È un lavoro duro e alla lunga logorante. Si sta per ore chinati, accovacciati, si sollevano e si trasportano casse di legno pesanti, colme di verdura, e d’estate fa caldissimo.

    Mohamed raccoglie soprattutto pomodori, a volte zucchine e melanzane. “L’oro verde”, veniva chiamato fino a pochi anni fa. Ha una maglietta rossa lisa, la faccia e le mani sporche di terra. È tunisino, ha 28 anni. È arrivato in Italia dal Mediterraneo, sette anni fa. È sbarcato a Pozzallo insieme a un centinaio di persone e non ha i documenti. «Vai via. Se ti vede il padrone si incazza», dice in modo sbrigativo, ma con un mezzo sorriso.

    La sua non è una storia unica o particolarmente sfortunata: nelle serre del Ragusano ci sono migliaia di persone come lui. Lavorano in condizioni proibitive, senza contratti, senza documenti, senza tutele e sicurezza, facili prede di caporali che le ricattano e le sfruttano come se fossero loro proprietà. Qui le leggi e i diritti non esistono.

    Molte persone probabilmente non hanno mai sentito parlare della Fascia trasformata, ma quasi certamente hanno assaggiato qualcosa che proviene da questa zona. È una fascia coltivata lunga 80 chilometri tra le province di Siracusa, Ragusa e Caltanissetta, lungo la costa sud occidentale della Sicilia, dove negli ultimi 70 anni le serre hanno coperto oltre 10mila ettari di terreno. Oggi nella sola provincia di Ragusa viene coltivato il 25 per cento della produzione italiana di pomodoro in serra.

    Dall’alto la trasformazione che dà il nome a questo territorio è evidente: la campagna nei comuni di Gela, Acate, Vittoria e Santa Croce Camerina è quasi completamente nascosta dalle serre, “plastificata” fino al mare. È facile perdere l’orientamento perché le serre sono tutte uguali, una accanto all’altra. La presenza di estranei non passa inosservata. Le strade tra i campi sono lunghe, tortuose, e per lo più inaccessibili: cancelli e recinzioni servono a proteggere un sistema economico che si regge sull’irregolarità e sull’abusivismo.

    Fino alla fine degli anni Quaranta questa zona veniva coltivata con metodi tradizionali. Negli anni Cinquanta, grazie all’intraprendenza di alcuni contadini di Vittoria e all’intuizione di tecnici agronomi, vennero costruite le prime serre che consentivano di sfruttare terreni sabbiosi vicino al mare. I risultati furono sorprendenti: in una stagione si riusciva a ottenere una resa fino a sette volte superiore rispetto al passato. La superficie coperta dalla serre passò dai 34 ettari del 1960 ai 2.000 del 1970, cioè 20 chilometri quadrati.

    L’opportunità di lavoro attirò moltissimi braccianti da molte città siciliane e anche dall’estero. Allo sviluppo del settore, tuttavia, non seguì un analogo progresso sociale: nei paesi vennero costruiti interi quartieri abusivi, senza servizi essenziali come acqua, fogne e strade. Macconi, come viene chiamato un insieme di case sparse nei campi di Marina di Acate, è tra questi.

    Alla fine degli anni Settanta la produzione, fino ad allora riservata ai mesi invernali per la coltivazione delle cosiddette primizie, venne estesa a tutto l’anno. La scelta garantì nuovi guadagni, ma allo stesso tempo un peggioramento delle condizioni lavorative e ambientali. Si scavarono centinaia di pozzi per soddisfare l’ingente richiesta di acqua, e vennero introdotti prodotti chimici, fitofarmaci e diserbanti. D’estate, nelle serre, il caldo torrido causava moltissimi malori: morirono decine di lavoratori e lavoratrici.

    Negli anni Settanta nelle serre iniziarono a lavorare persone emigrate dal Marocco e dalla Tunisia. I prezzi dei terreni, delle strutture e del trasporto della merce aumentarono grazie a un’espansione capitalistica incontrollata, senza regole. L’arrivo continuo di nuova manodopera consentì agli agricoltori, nel frattempo diventati imprenditori, di sfruttare i lavoratori imponendo salari sempre più bassi, l’equivalente di 15 euro al giorno.

    La crescita economica della Fascia trasformata attirò l’attenzione della criminalità organizzata. La Stidda, “stella” in siciliano, nacque all’inizio degli anni Ottanta: è nota come la quinta mafia o la mafia dei ribelli, perché si sviluppò in contrasto a Cosa Nostra.

    All’inizio degli anni Novanta il collaboratore di giustizia Leonardo Messina rivelò che la Stidda era nata in provincia di Caltanissetta su iniziativa di alcuni mafiosi che erano stati messi “fuori confidenza”, cioè erano stati espulsi da Cosa Nostra, con cui iniziò una guerra che causò un centinaio di omicidi tra il 1987 e il 1990. Uno degli elementi caratteristici della Stidda è proprio il ricorso alla violenza, decisivo nello sviluppo rapido delle carriere criminali e nell’affermazione di giovani mafiosi emergenti.

    Il controllo dell’economia da parte della criminalità organizzata limitò ulteriormente i diritti. L’ingresso in Sicilia di lavoratori provenienti dalla Romania, negli anni Novanta, alimentò una sorta di concorrenza al ribasso con stipendi ancora più miseri. Lo stesso fenomeno è stato osservato negli ultimi anni con uno sfruttamento illegale e sempre maggiore di migliaia di persone arrivate dal Mediterraneo e ospitate nei Cas, i centri di accoglienza straordinaria.

    Secondo gli ultimi dati disponibili, nelle 5.200 aziende agricole della Fascia trasformata lavorano 28mila persone, prevalentemente stranieri. Sono numeri poco indicativi, parziali, che non tengono conto delle migliaia di lavoratori e lavoratrici irregolari. La Caritas stima che solo ad Acate siano cinquemila, la metà dei residenti ufficiali.

    Molti sono assunti in nero perché senza documenti. Altri, in condizioni leggermente migliori, rientrano nel cosiddetto lavoro grigio: vengono assunti regolarmente al massimo per 102 giornate lavorative e in questo modo possono chiedere la disoccupazione agricola, ma in realtà lavorano almeno il doppio, a volte tutto l’anno senza riposo.

    Moltissime famiglie vivono dentro le aziende in casolari accanto ai campi, in garage o baracche, senz’acqua e servizi. Le case, se così si possono chiamare, si riconoscono per via dei vestiti stesi fuori ad asciugare.

    L’isolamento vissuto da queste famiglie è per certi versi totalizzante. Non si spostano mai, non incontrano nessuno se non i proprietari delle aziende. Lavorano e basta: è un modo piuttosto efficace per impedirne l’emancipazione. Negli ultimi anni lo sfruttamento e la mancanza di condizioni dignitose di vita e di lavoro sono state denunciate da inchieste giornalistiche e della magistratura.

    Gli interventi delle istituzioni sono stati trascurabili, in parte volutamente non decisivi per non compromettere la precaria stabilità di questo sistema economico da cui dipendono i guadagni di migliaia di persone. Da anni non cambia nulla, anzi con la pandemia le cose sono peggiorate.

    Jilani Gasmi ha iniziato a lavorare dopo essere sbarcato a Lampedusa. È in Italia da 13 anni e da allora sta aspettando i documenti, senza i quali non può tornare in Tunisia per rivedere la mamma, la sorella e la nipote. Il padre è morto di coronavirus. Gasmi, senza documenti, non è potuto tornare a casa per il funerale. «Lavoro tutto l’anno, ma l’estate è il periodo più duro», dice. Ha accompagnato un amico alla clinica mobile di Emergency, l’unico vero presidio sanitario della zona che dal giugno del 2019 offre gratuitamente servizi di medicina di base, educazione sanitaria e ascolto psicologico. Il camper rosso si muove nei paesi della Fascia trasformata: il lunedì e il giovedì è a Marina di Acate, il mercoledì a Santa Croce Camerina, il martedì e il venerdì a Vittoria, dove c’è anche un ambulatorio.

    Ogni giorno, dalle 16:30 – l’ora in cui le persone finiscono il turno di lavoro nelle serre – medici, infermieri, psicologi e mediatori culturali assistono i lavoratori che hanno subìto infortuni o hanno problemi di salute. Maria Perri, medica, è arrivata nella Fascia trasformata lo scorso gennaio dopo alcune esperienze all’estero, sempre con Emergency. Dice che tra i principali motivi di accesso ci sono problemi muscoloscheletrici dovuti ai carichi elevati e agli orari di lavoro eccessivi. La maggior parte riguarda uomini tra i 20 e i 60 anni.

    Prima del 2019 queste persone erano abbandonate a loro stesse. In caso di infortunio, infatti, non vengono allertati i soccorsi per evitare denunce. I lavoratori, inoltre, non riescono a raggiungere farmacie e ospedali a causa dell’isolamento e dell’assenza di mezzi di trasporto pubblici.

    I cosiddetti caporali dei servizi, cioè taglieggiatori che sfruttano le condizioni disumane in cui vengono tenuti i braccianti e le loro famiglie, chiedono decine o addirittura centinaia di euro per passaggi in auto verso le strutture sanitarie. «Andare in pronto soccorso può costare anche 100 euro», spiega Perri, che ogni giorno assiste e ascolta decine di lavoratori. «Sembra di essere in una zona staccata da tutto il resto del mondo, in cui domina lo sfruttamento: di fatto siamo in un ghetto molto esteso».

    Due settimane fa alla clinica mobile si è presentata una famiglia con sei figli. Nessuno di loro era mai stato visitato da un pediatra. Senza cure di base, è difficile individuare e curare persone con malattie croniche: diabetici e ipertesi non vengono sottoposti a esami e terapie. Lo stesso vale per chi ha malattie più gravi che imporrebbero un’assistenza continua. Prevale la paura di perdere il lavoro, di essere sostituiti da altri stranieri sfruttati, e per questo anche problemi in teoria banali come le punture degli insetti, se trascurati, possono portare a conseguenze serie.

    Prima dell’alba, sulle poche strade che portano da Vittoria a Marina di Acate, si vedono molti braccianti in bicicletta. È un viaggio pericoloso: le carreggiate sono strette, l’asfalto pieno di buche, non c’è illuminazione. Qualcuno indossa un gilet catarifrangente, probabilmente uno dei tanti donati dai sindacati di base dopo la morte di Fodie Dianka, conosciuto come Fodè, un lavoratore originario del Mali. All’inizio di febbraio del 2021 Dianka fu investito mentre stava andando al lavoro in bici, da un’auto che non si era fermata. L’uomo rimase per ore al lato della strada, prima di morire.

    Ogni giorno centinaia di braccianti percorrono in bicicletta quello stesso tratto di strada. Chi non abita nelle baracche vicino alle serre non ha alternative, se non pagare un caporale per un passaggio in auto. Costa molto, come racconta Youssef, 29 anni, che ogni settimana è costretto a pagare 25 euro per essere accompagnato al lavoro. È un prezzo esoso, ingiustificato. «Siamo come animali», dice sconsolato Youssef, tornato in Sicilia dopo aver tentato di migliorare le sue condizioni in altre zone d’Italia. È stato a Salerno e al Nord, ma non è andata come avrebbe voluto e ha deciso di tornare da dove era partito.

    Giovanni Di Natale, sindaco di Acate, assicura che il comune sta cercando in qualche modo di rimediare alla carenza di mezzi pubblici. Gli sforzi, al momento, sono insufficienti: è stata istituita soltanto una navetta che una volta al giorno collega Marina di Acate ad Acate. «Facciamo il possibile», dice il sindaco allargando le braccia. Le tante sollecitazioni fatte negli ultimi anni non sono servite: nessun’altra istituzione è intervenuta e questa zona è diventata un ghetto diffuso.

    Un’altra grave mancanza imputabile alla scarsa attenzione istituzionale riguarda la raccolta dei rifiuti prodotti dalle aziende agricole. In sostanza, è inesistente. Quando fa buio, l’orizzonte si riempie di colonne di fumo. Sono le cosiddette fumarole, prodotte dall’incenerimento dei rifiuti delle attività agricole. Vengono bruciati contenitori di plastica, tiranti, tubazioni per l’irrigazione, reti antigrandine, contenitori in polistirolo, teli di copertura, fascette e corde di nylon, cassette di legno. È molto semplice: si scava una buca, si buttano dentro i rifiuti e si dà fuoco. È ovviamente illegale e pericoloso per la salute.

    L’aria, la sera, diventa spesso irrespirabile. Nemmeno la brezza del mare riesce a portare via la puzza.

    Negli anni la plastica è stata buttata ovunque, perfino sulla spiaggia di Marina di Acate dove si notano quelle che all’apparenza sembrano dune: in realtà un sottile strato di sabbia nasconde tonnellate di rifiuti abbandonati. «Le mafie e le ecomafie hanno capito che si possono fare molti soldi anche con i rifiuti», dice Riccardo Zingaro, ambientalista, ex carabiniere, da tempo impegnato nel denunciare i danni ambientali nella Fascia trasformata. «A Marina di Acate si consuma un’enorme quantità di fitofarmaci anche grazie all’importazione illegale di prodotti dall’estero, non controllati. Siamo in una terra di nessuno».

    Nel novembre 2019 a Riccardo Zingaro è arrivato un messaggio piuttosto chiaro: gli è stata bruciata l’auto parcheggiata sotto casa.

    L’assenza di servizi basilari non condiziona soltanto il lavoro dei braccianti, ma anche la vita dei loro familiari. I bambini che abitano nelle campagne, in baracche o magazzini lontani chilometri dalla prima strada asfaltata, difficilmente riescono ad andare a scuola. È considerata un’incombenza, un fastidio, invece che un’opportunità di riscatto.

    Il primo problema che queste famiglie devono affrontare è economico. Il costo dello scuolabus, per esempio, non è indifferente: fino allo scorso anno il trasporto scolastico costava 2 euro e 80 centesimi al giorno, ora è stato portato a 2 euro. Sempre troppo per chi guadagna poche decine di euro al giorno.

    Tra il 2016 e il 2017 la Chiesa Valdese ha finanziato un pulmino per consentire a 15 bambini di origine rumena di raggiungere l’istituto comprensivo Giovanni XXIII di Vittoria. Molti di loro, tra cui alcuni già adolescenti, non erano mai andati a scuola: non erano in grado di leggere, né di scrivere, nemmeno il proprio nome e cognome. Erano ignari della loro età e non sapevano il giorno del loro compleanno. «Bambini invisibili, dimenticati dalle istituzioni, fantasmi», sono stati definiti dalla dirigente scolastica Vittoria Lombardo. «Si è cercato di rendere la loro vita migliore, di dare loro una chance, un’opportunità».

    I pochi progressi fatti tra il 2015 e il 2020 sono stati spazzati via dalla pandemia. Vincenzo La Monica è il responsabile del Progetto Presidio della Caritas, nato nel 2014 con l’obiettivo di assistere i lavoratori e in questo modo cercare di opporsi al loro sfruttamento. Dice che la pandemia è stato «un acceleratore di difficoltà».

    La didattica a distanza (DAD) ha ampliato il già preoccupante divario scolastico. «Di fatto la DAD si è tradotta in una non-scuola», spiega La Monica. «Molti genitori hanno colto l’occasione per imporre ai figli di aiutarli nelle serre. I pochi studenti che si collegavano alla lezione tenevano la telecamera spenta per non far vedere ai compagni che vivevano in un’unica stanza insieme agli altri familiari, con i materassi per terra come letti».

    Dall’ottobre del 2020 la Caritas ha avviato un doposcuola che ha consentito a molti bambini di recuperare i mesi persi. Sono stati coinvolti due educatori, una mediatrice culturale di lingua araba, un insegnante volontario. Sempre volontarie sono state le iniziative di insegnanti e dirigenti scolastici che durante la pandemia hanno cercato di raggiungere le case degli studenti, in campagna, per portare loro dei tablet. Dal gennaio del 2022 diverse associazioni tra cui Caritas hanno avviato anche un progetto di inclusione sociale chiamato “Trasformare la Fascia trasformata”, finanziato dalla fondazione Con il Sud.

    Qui la marginalità e il disagio accompagnano le persone fin dai primi anni di vita. Ma compromettono presto anche chi arriva in Italia dall’Africa, in fuga dai conflitti e dalle scarse opportunità. All’inizio i pochi guadagni garantiti dal lavoro nella Fascia trasformata vengono accolti come una sorta di speranza. Tuttavia, con il passare del tempo, le serre diventano un limbo da cui è complicato uscire.

    In queste condizioni di incertezza strutturale emergono significative conseguenze psicologiche condivise da molti braccianti. Alla clinica mobile di Emergency si presentano persone con patologie post traumatiche da stress oppure di tipo ansioso-depressivo.

    Alessandro Di Benedetto, psicologo e psicoterapeuta del progetto di Emergency, dice che la maggior parte dei lavoratori che si rivolgono alla clinica mobile vive situazioni depressive: sono persone che si sentono perennemente sospese, non riconosciute. «Molti dicono che ogni giorno è come se fosse il primo in cui sono arrivati in Italia», spiega Di Benedetto. «Vivono nella paura costante di perdere il lavoro e per questo non si curano. L’assunzione di alcol, droghe o psicofarmaci diventa una forma di autocura. Per un ragazzo o una ragazza di 20 o 30 anni vivere in una situazione abitativa e igienico sanitaria precaria ha un impatto sul benessere psicofisico».

    Durante la pandemia le associazioni che operano nella Fascia trasformata hanno segnalato un peggioramento delle condizioni lavorative, un aumento degli orari di lavoro, un calo della retribuzione. In altre parole, l’emergenza coronavirus ha reso i braccianti ancora più sfruttati, deboli e ricattabili.

    Le donne sono più a rischio. Già nel 2017 un’inchiesta giornalistica del Guardian e prima ancora un analogo lavoro dell’Espresso denunciarono le violenze sessuali a cui erano sottoposte le donne, soprattutto rumene. All’epoca, secondo la cooperativa sociale Proxima, il 20 per cento degli aborti segnalati in provincia di Ragusa veniva chiesto da donne rumene, che rappresentavano il 4 per cento della popolazione femminile.

    Michele Mililli dell’USB, un sindacato di base, il più vicino ai lavoratori della Fascia trasformata, sostiene che queste condizioni di sfruttamento e illegalità siano tollerate, nascoste anche se conosciute da tutti, in un certo senso sopportate come un male minore.

    L’indifferenza, dice, è totale, come se quest’area fosse un pezzo di Italia dove non esistono le istituzioni, non c’è una classe politica o partiti, non sono ancora nati i sindacati, non esistono strade illuminate, servizi sanitari e strutture che consentano di fare di un semplice paese un paese civile. Fare sindacato qui significa diffondere la consapevolezza che certe condizioni di lavoro e di vita sono intollerabili, come fecero le Camere del lavoro alla fine dell’Ottocento.

    Negli ultimi anni i sindacati confederali hanno perso la capacità di coinvolgere i braccianti nelle rivendicazioni e nelle lotte. Quello spazio, lasciato per lo più vuoto, è stato occupato dai sindacati di base e in particolare dall’USB. Ne sono un esempio le partecipate manifestazioni organizzate per chiedere la verità sul caso di Daouda Diane, un mediatore culturale scomparso in un cementificio di Acate lo scorso 2 luglio.

    «Non c’è nessun partito politico che abbia messo nella propria agenda la questione bracciantile, nessun sindaco che alza la voce per chiedere aiuto alle istituzioni, nessun sindacato che decida di attivare una vertenza generale su questi temi», dice Mililli. «L’unica iniziativa che possa dare realmente risposte concrete a questi lavoratori è un forte movimento sindacale che coinvolga direttamente i lavoratori stessi, organizzati attorno a un sindacato che sia il loro sindacato, che difenda i loro interessi e che possa connettere le loro lotte con quelle di tutti i lavoratori sfruttati».

    Non è un obiettivo semplice, perché spesso tra i braccianti manca questo senso di urgenza. Molti in passato hanno vissuto in contesti talmente pericolosi da non percepire lo sfruttamento. Vincenzo La Monica di Caritas la definisce una «catena al ribasso della coscienza dei diritti». Paradossalmente l’emancipazione comporta anche dei rischi. «Ora le cose sono un po’ migliorate, ma in passato chi denunciava non era tutelato», spiega La Monica. Molti dei braccianti irregolari che hanno provato a ribellarsi sono scomparsi nel nulla, come è successo a Daouda Diane.

    Finora nessuno è riuscito a ribaltare o quanto meno migliorare questo sistema economico che si regge sullo sfruttamento. Oltre al disinteresse più o meno voluto delle istituzioni locali o regionali, uno dei grossi limiti è rappresentato dall’indifferenza dei consumatori, quasi sempre ignari del processo iniquo che ha portato quei prodotti sulle loro tavole.

    La verdura che viene coltivata nella Fascia trasformata viene comprata a prezzi irrisori imposti dalla cosiddetta GDO, la grande distribuzione organizzata, prima di finire tra i banchi dei supermercati, prevalentemente nelle regioni del Nord. In questa filiera così opaca il prezzo all’origine viene decuplicato senza controlli e tutele, senza la garanzia di un giusto compenso per gli agricoltori e soprattutto senza alcun rispetto per i diritti delle persone che quella verdura l’hanno coltivata e raccolta.

    https://www.ilpost.it/2022/12/12/serre-ragusa-diritti-braccianti
    #agriculture #serres #Italie #Sicile

  • Main basse sur les terres agricoles

    Un producteur de #fraises, un sulfureux homme d’affaires marseillais spécialisé dans les #énergies_renouvelables, un fonds d’investissement allemand, l’ancien président du conseil départemental. Tels sont les acteurs de la rocambolesque histoire des #serres_photovoltaïques de #Bourgneuf-en-Mauges. Ou la preuve que lorsque les financiers veulent faire main basse sur l’#agriculture, tout part souvent en déconfiture.

    https://latopette.fr
    #terres #accaparement_des_terres #France

    C’est dans le numéro de septembre, où il y a aussi un article sur les #aires_d'accueil, d’ailleurs...

    ping @odilon

  • De plastique et d’os | Benoît Godin
    http://cqfd-journal.org/De-plastique-et-d-os

    Bon élève autoproclamé de la transition verte, le Portugal a autorisé en octobre 2019 l’extension de monocultures intensives sous plastique en plein milieu d’un parc naturel. La surface des sols occupés par d’interminables serre-tunnels pourrait bientôt y tripler. Encore une fois, la défense d’intérêts financiers ouvre le champ, en toute connaissance de cause, à un désastre écologique. Tout autant qu’humains. Ici comme ailleurs, l’espoir vient des populations qui, localement, organisent la lutte. Source : CQFD

  • ’We pick your food’ : migrant workers speak out from Spain’s ’Plastic Sea’

    In #Almería’s vast farms, migrants pick food destined for UK supermarkets. But these ‘essential workers’ live in shantytowns and lack PPE as Covid cases soar.

    It is the end of another day for Hassan, a migrant worker from Morocco who has spent the past 12 hours under a sweltering late summer sun harvesting vegetables in one of the vast greenhouses of Almería, southern Spain.

    The vegetables he has dug from the red dirt are destined for dinner plates all over Europe. UK supermarkets including Tesco, Sainsbury’s, Asda, Lidl and Aldi all source fruit and vegetables from Almería. The tens of thousands of migrant workers working in the province are vital to the Spanish economy and pan-European food supply chains. Throughout the pandemic, they have held essential worker status, labouring in the fields while millions across the world sheltered inside.

    Yet tonight, Hassan will return to the squalor and rubbish piles of El Barranquete, one of the poorest of 92 informal worker slums that have sprung up around the vast farms of Almería and which are now home to an estimated 7,000-10,000 people.

    Here, in the middle of Spain’s Mar del Plastico (Plastic Sea), the 31,000 hectares (76,600 acres) of farms and greenhouses in the region of Andalucía known as “Europe’s garden”, many of El Barranquete’s inhabitants don’t have electricity, running water or sanitation.

    Hassan’s house, like all the others in El Barranquete, is constructed from whatever he could find on rubbish dumps or the side of the road; pieces of plastic foraged from the greenhouses, flaps of cardboard and old hosing tied around lumps of wood. Under Spain’s blazing sun, the temperature can reach 50C – at night the plastic sheeting releases toxic carcinogenic fumes while he sleeps.

    When he first arrived in Spain, Hassan was stunned by how the workers were treated on the farms. Like other workers in El Barranquete, Hassan says he earns only about €5 (£4.50) an hour, well under the legal minimum wage. “The working conditions are terrible,” he says. “Sometimes we work from sunup to sundown in extreme heat, with only a 30-minute break in the whole day.”

    Now, as Almería faces a wave of Covid-19 infections, workers say they have been left completely unprotected. “We pick your food,” says Hassan. “But our health doesn’t matter to anyone.”

    In August, the Observer interviewed more than 45 migrants employed as farm workers in Almería. A joint supply chain investigation by Ethical Consumer magazine has linked many of these workers to the supply chains of UK supermarkets including Tesco, Sainsbury’s, Asda, Lidl and Aldi.

    All claimed to be facing systemic labour exploitation before and throughout the pandemic such as non-payment of wages and being kept on illegal temporary contracts. Many described being forced to work in a culture of fear and intimidation. Some of those who complained about conditions said they had been sacked or blacklisted.

    Workers employed by Spanish food companies linked to UK supermarkets also claimed that throughout the pandemic they have been denied access to adequate personal protective equipment (PPE) that under Spanish law they are entitled to as essential workers. Many said they were not given enough face masks, gloves or hand sanitiser and have been unable to socially distance at work.

    One man employed at a big food company supplying the UK says that he has only been given two face masks in six months.

    In response to the investigation, the British Retail Consortium – members of which include Sainsbury’s, Asda, Lidl and Aldi – released a statement calling on the Spanish government to launch an inquiry.

    Commenting on the Observer’s findings, Olivier De Schutter, the United Nations special rapporteur on extreme poverty, says the situation facing migrant workers in southern Spain is a human tragedy.

    “The pandemic has exacerbated the unacceptable conditions facing migrant workers and the Spanish government must urgently act. But two-thirds of all fruit and vegetables consumed across Europe and the UK come from these greenhouses and all the companies and retailers up these supply chains have a responsibility to these workers as well,” he says.

    Spain is experiencing the highest numbers of new Covid-19 infections in Europe, with the province of Almería recording more than 100 new cases a day.

    Despite the local government in Almería claiming that the virus has not reached the plastic settlements, there have been multiple outbreaks on farms across the province and in the cortijos, the dilapidated housing blocks near the farms in which workers live.

    As Covid-19 infections rise, medical charities such as as Médicos del Mundo are supplying masks, gloves and temperature checks in the settlements in scenes more reminiscent of a disaster zone than one of the richest countries in the world.

    “People want to protect themselves, but they cannot”, says Almudena Puertas from the NGO Cáritas. “They are here because there is work and we need them.”

    In the past month, the local government in Andalucía has allocated €1.1m to create better health and safety conditions, but critics say they have yet to see any significant improvements.

    “I do not understand why these people are not being rehoused in better accommodation. Do we have to wait for them to get Covid instead of looking for a much more dignified place, with adequate hygienic conditions?” says, Diego Crespo, a Forward Andalucía party MP.

    Hassan knows that his work and living conditions make him vulnerable to becoming infected with Covid-19. When asked whether he is supplied with PPE at work, Hassan laughs. “Gloves and face masks in the greenhouse? Temperature checks?” he says. “They don’t give you anything.”

    Like many of the people living in the settlements, he say he is more scared of not being able to work than they of becoming ill. If he can’t send money home, his children don’t eat.

    One groups of workers say that they lost their jobs after testing positive for Covid-19 and quarantining at home. Muhammad, a farm worker from Morocco, said that when he and others had recovered and returned to work, some of them were told there was no work for them.

    “When I contracted Covid-19, I’d already spent two years working for this company without papers and two years on a temporary contract, but when I came back they said there is nothing for me here,” he says. He says he and the other workers who did not get their jobs back also did not receive the sick pay they were entitled to as essential workers.

    The Soc-Sat union, which represents agricultural workers across Almería, says the failure to provide farm workers with basic PPE speaks to the culture of impunity that surrounds the mistreatment of Spain’s migrant workforce.

    “Around 80% of fruit companies in Almería are breaking the law,” says José García Cuevas, a Soc-Sat union leader. The union says that across the region, widespread fraud is being perpetrated on the farm workers. “People will work 25 days but their employers will only count 10,” he says. “Or when you look at the payslips, it says €58 a day, which is minimum wage but that’s not what the worker is receiving.” He says that according to figures from the General Union of Workers, workers lose out on up to €50m of wages every year.

    For decades, the exploitation and abuse of migrant workers in Spain has been widely condemned by UN officials and human rights campaigners, but to little effect.

    Soc-Sat says that in 2019 it dealt with more than 1,000 complaints from migrant workers about exploitation and working conditions. This year it also says it has helped workers file legal complaints against food companies in Almería for breaching labour laws and not providing adequate PPE.

    “If, under normal conditions, health and safety regulations are not followed, you can imagine what’s happening in the current situation with a pandemic,” says García Cuevas.

    In its statement, the British Retail Consortium (BRC) says its members have zero tolerance for labour exploitation: “Many grocery members have funded and supported the Spain Ethical Trade Supplier Forums ... We call on the Spanish government to launch an investigation into labour conditions in the Almería region to help our members stamp out any exploitative practices.”

    In a separate statement, Tesco says it was aware of the issues surrounding migrant workers in Southern Spain and that the company worked closely with growers, suppliers and Spanish ethical trade forums to ensure good standards.

    The Andalucían Ministry for Labour, Training and Self-Employment in Andalucía said that it had delivered training for businesses on how to protect workers against Covid-19. In a statement it says, “You cannot criminalise an entire sector that is subject to all kinds of controls by the labour, health and other authorities and that must also abide by strict regulations regarding the protection of workers’ rights and prevention and occupational health.”

    In two weeks, the greenhouses of Almería will be at their busiest as the high season for tomatoes, peppers and salad begins. Ali, a farm worker who has been in Spain for more than 15 years, doesn’t expect his situation to improve.

    “If you complain, they will say: ‘If you don’t want to work here then go home,’” he says. “Every worker here has a family, a wife and children, but the only thing that matters is that we work to get the vegetables to Germany or the UK. It’s like they have forgotten we are also human beings.”

    https://www.theguardian.com/global-development/2020/sep/20/we-pick-your-food-migrant-workers-speak-out-from-spains-plastic-sea
    #Espagne #agriculture #exploitation #asile #migrations #travail #alimentation #plastique #supermarchés #grande_distribution #migrants_marocains #serres #légumes #Tesco #Sainsbury’s #Asda #Lidl #Aldi #El_Barranquete #Mar_del_Plastico #Andalucía #Andalucia #travail #conditions_de_travail #esclavage_moderne #covid-19 #coronavirus #logement #hébergement #Soc-Sat #British_Retail_Consortium (#BRC) #Spain_Ethical_Trade_Supplier_Forums

    ping @isskein @karine4 @thomas_lacroix

  • OP-ed : La guerre faite aux migrants à la frontière grecque de l’Europe par #Vicky_Skoumbi

    La #honte de l’Europe : les #hotspots aux îles grecques
    Devant les Centres de Réception et d’Identification des îles grecques, devant cette ‘ignominie à ciel ouvert’ que sont les camps de Moria à Lesbos et de Vathy à Samos, nous sommes à court de mots ; en effet il est presque impossible de trouver des mots suffisamment forts pour dire l’horreur de l’enfermement dans les hot-spots d’hommes, femmes et enfants dans des conditions abjectes. Les hot-spots sont les Centres de Réception et d’Identification (CIR en français, RIC en anglais) qui ont été créés en 2015 à la demande de l’UE en Italie et en Grèce et plus particulièrement dans les îles grecques de Lesbos, Samos, Chios, Leros et Kos, afin d’identifier et enregistrer les personnes arrivantes. L’approche ‘hot-spots’ introduite par l’UE en mai 2015 était destinée à ‘faciliter’ l’enregistrement des arrivants en vue d’une relocalisation de ceux-ci vers d’autres pays européens que ceux de première entrée en Europe. Force est de constater que, pendant ces cinq années de fonctionnement, ils n’ont servi que le but contraire de celui initialement affiché, à savoir le confinement de personnes par la restriction géographique voire par la détention sur place.

    Actuellement, dans ces camps, des personnes vulnérables, fuyant la guerre et les persécutions, fragilisées par des voyages longs et éprouvants, parmi lesquels se trouvent des victimes de torture ou de naufrage, sont obligées de vivre dans une promiscuité effroyable et dans des conditions inhumaines. En fait, trois quart jusqu’à quatre cinquième des personnes confinées dans les îles grecques appartiennent à des catégories reconnues comme vulnérables, même aux yeux de critères stricts de vulnérabilité établis par l’UE et la législation grecque[1], tandis qu’un tiers des résidents des camps de Moria et de Vathy sont des enfants, qui n’ont aucun accès à un circuit scolaire. Les habitants de ces zones de non-droit que sont les hot-spots, passent leurs journées à attendre dans des files interminables : attendre pour la distribution d’une nourriture souvent avariée, pour aller aux toilettes, pour se laver, pour voir un médecin. Ils sont pris dans un suspens du temps, sans aucune perspective d’avenir de sorte que plusieurs d’entre eux finissent par perdre leurs repères au détriment de leur équilibre mental et de leur santé.

    Déjà avant l’épidémie de Covid 19, plusieurs organismes internationaux comme le UNHCR[2] avaient dénoncé les conditions indignes dans lesquelles étaient obligées de vivre les demandeurs d’asile dans les hot-spots, tandis que des ONG comme MSF[3] et Amnesty International[4] avaient à plusieurs reprises alerté sur le risque que représentent les conditions sanitaires si dégradées, en y pointant une situation propice au déclenchement des épidémies. De son côté, Jean Ziegler, dans son livre réquisitoire sorti en début 2020, désignait le camp de #Moria, le hot-spot de Lesbos, comme la ‘honte de l’Europe’[5].

    Début mars 2020, 43.000 personnes étaient bloquées dans les îles dont 20.000 à Moria et 7.700 à Samos pour une capacité d’accueil de 2.700 et 650 respectivement[6]. Avec les risques particulièrement accrus de contamination, à cause de l’impossibilité de respecter la distanciation sociale et les mesures d’hygiène, on aurait pu s’attendre à ce que des mesures urgentes de décongestion de ces camps soient prises, avec des transferts massifs vers la Grèce continentale et l’installation dans des logements touristiques vides. A vrai dire c’était l’évacuation complète de camps si insalubres qui s’imposait, mais étant donné la difficulté de trouver dans l’immédiat des alternatives d’hébergement pour 43.000 personnes, le transfert au moins des plus vulnérables à des structures plus petites offrant la possibilité d’isolement- comme les hôtels et autres logements touristiques vides dans le continent- aurait été une mesure minimale de protection. Au lieu de cela, le gouvernement Mitsotakis a décidé d’enfermer les résidents des camps dans les îles dans des conditions inhumaines, sans qu’aucune mesure d’amélioration des conditions sanitaires ne soit prévue[7].

    Car, les mesures prises le 17 mars par le gouvernement pour empêcher la propagation du virus dans les camps, consistaient uniquement en une restriction des déplacements au strict minimum nécessaire et même en deça de celui-ci : une seule personne par famille aura désormais le droit de sortir du camp pour faire des courses entre 7 heures et 19 heures, avec une autorisation fournie par la police, le nombre total de personnes ayant droit de sortir par heure restant limité. Parallèlement l’entrée des visiteurs a été interdite et celle des travailleurs humanitaires strictement limitée à ceux assurant des services vitaux. Une mesure supplémentaire qui a largement contribué à la détérioration de la situation des réfugiés dans les camps, a été la décision du ministère d’arrêter de créditer de fonds leur cartes prépayés (cash cards ) afin d’éviter toute sortie des camps, laissant ainsi les résidents des hot-spots dans l’impossibilité de s’approvisionner avec des produits de première nécessité et notamment de produits d’hygiène. Remarquez que ces mesures sont toujours en vigueur pour les hot-spots et toute autre structure accueillant des réfugiés et des migrants en Grèce, en un moment où toute restriction de mouvement a été déjà levée pour la population grecque. En effet, après une énième prolongation du confinement dans les camps, les mesures de restriction de mouvement ont été reconduites jusqu’au 5 juillet, une mesure d’autant plus discriminatoire que depuis cinq semaines déjà les autres habitants du pays ont retrouvé une entière liberté de mouvement. Etant donné qu’aucune donnée sanitaire ne justifie l’enfermement dans les hot-spots où pas un seul cas n’a été détecté, cette extension de restrictions transforme de facto les Centres de Réception et Identification (RIC) dans les îles en centres fermés ou semi-fermés, anticipant ainsi à la création de nouveaux centres fermés, à la place de hot-spots actuels –voir ici et ici. Il est fort à parier que le gouvernement va étendre de prolongation en prolongation le confinement de RIC pendant au moins toute la période touristique, ce qui risque de faire monter encore plus la tension dans les camps jusqu’à un niveau explosif.

    Ainsi les demandeurs d’asile ont été – et continuent toujours à être – obligés de vivre toute la période de l’épidémie, dans une très grande promiscuité et dans des conditions sanitaires qui suscitaient déjà l’effroi bien avant la menace du Covid-19[8]. Voyons de plus près quelles conditions de vie règnent dans ce drôle de ‘chez soi’, auquel le Ministre grec de la politique migratoire invitait les réfugiés à y passer une période de confinement sans cesse prolongée, en présentant le « Stay in camps » comme le strict équivalent du « Stay home », pour les citoyens grecs. Dans l’extension « hors les murs » du hotspot de Moria, vers l’oliveraie, repartie en Oliveraie I, II et III, il y a des quartiers où il n’existe qu’un seul robinet d’eau pour 1 500 personnes, ce qui rend le respect de règles d’hygiène absolument impossible. Dans le camp de Moria il n’y a qu’une seule toilette pour 167 personnes et une douche pour 242, alors que dans l’Oliveraie, 5 000 personnes n’ont aucun accès à l’électricité, à l’eau et aux toilettes. Selon le directeur des programmes de Médecins sans Frontières, Apostolos Veizis, au hot-spot de Samos à Vathy, il n’y a qu’une seule toilette pour 300 personnes, tandis que l’organisation MSF a installé 80 toilettes et elle fournit 60 000 litres d’eau par jour pour couvrir, ne serait-ce que partiellement- les besoins de résidents à l’extérieur du camp.

    Avec la restriction drastique de mouvement contre le Covid-19, non seulement les sorties du camp, même pour s’approvisionner ou pour aller consulter, étaient faites au compte-goutte, mais aussi les entrées, limitant ainsi dramatiquement les services que les ONG et les collectifs solidaires offraient aux réfugiés. La réduction du nombre des ONG et l’absence de solidaires a créé un manque cruel d’effectifs qui s’est traduit par une désorganisation complète de divers services et notamment de la distribution de la nourriture. Ainsi, dans le camp de Moria en pleine pandémie, ont eu lieu des scènes honteuses de bousculade effroyable où les réfugiés étaient obligés de se battre pour une portion de nourriture- voir la vidéo et l’article de quotidien grec Ephimérida tôn Syntaktôn. Ces scènes indignes ne sauraient que se multiplier dans la mesure où le gouvernement en imposant aux ONG un procédé d’enregistrement très complexe et coûteux a réussi à exclure plus que la moitié de celles qui s’activent dans les camps. Car, par le processus de ‘régulation’ d’un domaine censément opaque, imposé par la récente loi sur l’asile, n’ont réussi à passer que 18 ONG qui elles seules auront désormais droit d’entrée dans les hot-spots[9]. En fait, l’inscription des ONG dans le registre du Ministère s’avère un procédé plein d’embûches bureaucratiques. Qui plus est le Ministre peut décider à son gré de refuser l’inscription des organisations qui remplissent tous les critères requis, ce qui serait une ingérence flagrante du pouvoir dans le domaine humanitaire.

    Car, il faudrait aussi savoir que les réfugiés enfermés dans les camps se trouvent à la limite de la survie, après la décision du Ministère de leur couper, à partir du début mars, les aides –déjà très maigres, 90 euros par mois pour une personne seule- auxquelles ils avaient droit jusqu’à maintenant. En ce qui concerne la couverture sociale de santé, à partir de juillet dernier les demandeurs ne pouvaient plus obtenir un numéro de sécurité sociale et étaient ainsi privés de toute couverture santé. Après des mois de tergiversation et sous la pression des organismes internationaux, le gouvernement grec a enfin décidé de leur accorder un numéro provisoire de sécurité sociale, mais cette mesure reste pour l’instant en attente de sa pleine réalisation. Entretemps, l’exclusion des demandeurs d’asile du système national de santé a fait son effet : non seulement, elle a conduit à une détérioration significative de la santé des requérant, mais elle a également privé des enfants réfugiés de scolarisation, car, faute de carnet de vaccination à jour, ceux-ci ne pouvaient pas s’inscrire à l’école.

    En d’autres termes, au lieu de déployer pendant l’épidémie une politique de décongestion avec transferts massifs à des structures sécurisées, le gouvernement a traité les demandeurs d’asile comme porteurs virtuels du virus, à tenir coûte que coûte à l’écart de la société ; non seulement les réfugiés et les migrants n’ont pas été protégés par un confinement sécurisé, mais ils ont été enfermés dans des conditions sanitaires mettant leur santé et leur vie en danger. La preuve, si besoin est, ce sont les mesures prises par le gouvernement dans des structures d’accueil du continent où des cas de coronavirus ont été détectés ; par ex. la gestion catastrophique de la quarantaine dans une structure d’accueil hôtelière à Kranidi en Péloponnèse où une femme enceinte a été testée positive en avril. Dans cet hôtel géré par l’IOM qui accueille 470 réfugiés de l’Afrique sub-saharienne, après l’indentification de deux cas (une employée et une résidente), un dépistage généralisé a été effectué et le 21 avril 150 cas ont été détectés ; très probablement le virus a été ‘importé’ dans la structure par les contacts des réfugiés et du personnel avec les propriétaires de villas voisines installés dans la région pour la période de confinement et qui les employaient pour divers services. Après une quarantaine de trois semaines, trois nouveaux cas ont été détectés avec comme résultat que toutes les personnes testées négatives ont été placées en quarantaine avec celles testées positives au même endroit[10].

    Exactement la même tactique a été adoptée dans les camps de Ritsona (au nord d’Athènes) et de Malakassa (à l’est d’Attique), où des cas ont été détectés. Au lieu d’isoler les porteurs du virus et d’effectuer un dépistage exhaustif de toute la population du camp, travailleurs compris, ce qui aurait pu permettre d’isoler tout porteur non-symptomatique, les camps avec tous leurs résidents ont été mis en quarantaine. Les autorités « ont imposé ces mesures sans prendre de dispositions nécessaires …pour isoler les personnes atteintes du virus à l’intérieur des camps, ont déclaré deux travailleurs humanitaires et un résident du camp. Dans un troisième cas, les autorités ont fermé le camp sans aucune preuve de la présence du virus à l’intérieur, simplement parce qu’elles soupçonnaient les résidents du camp d’avoir eu des contacts avec une communauté voisine de Roms où des gens avaient été testés positifs [11] » [il s’agit du camp de Koutsohero, près de Larissa, qui accueille 1.500 personnes][12].

    Un travailleur humanitaire a déclaré à Human Rights Watch : « Aussi scandaleux que cela puisse paraître, l’approche des autorités lorsqu’elles soupçonnent qu’il pourrait y avoir un cas de virus dans un camp consiste simplement à enfermer tout le monde dans le camp, potentiellement des milliers de personnes, dont certaines très vulnérables, et à jeter la clé, sans prendre les mesures appropriées pour retracer les contacts de porteurs du virus, ni pour isoler les personnes touchées ».

    Il va de soi qu’une telle tactique ne vise nullement à protéger les résidents de camp, mais à les isoler tous, porteurs et non-porteurs, ensemble, au risque de leur santé et de leur vie. Au fond, la stratégie du gouvernement a été simple : retrancher complètement les réfugiés du reste de la population, tout en les excluant de mesures de protection efficiantes. Bref, les réfugiés ont été abandonnés à leur sort, quitte à se contaminer les uns les autres, pourvu qu’ils ne soient plus en contact avec les habitants de la région.

    La gestion par les autorités de la quarantaine à l’ancien camp de Malakasa est également révélatrice de la volonté des autorités non pas de protéger les résidents des camps mais de les isoler à tout prix de la population locale. Une quarantaine a été imposée le 5 avril suite à la détection d’un cas. A l’expiration du délai réglementaire de deux semaines, la quarantaine n’a été que très partiellement levée. Pendant la durée de la quarantaine l’ancien camp de Malakasa abritant 2.500 personnes a été approvisionné en quantité insuffisante en nourriture de basse valeur nutritionnelle, et pratiquement pas du tout en médicaments et aliments pour bébés. Le 22 avril un nouveau cas a été détecté et la quarantaine a été de nouveau imposée à l’ensemble de 2.500 résidents du camp. Entretemps quelques tests de dépistage ont été faits par-ci et par-là, mais aucune mesure spécifique n’a été prise pour les cas détectés afin de les isoler du reste de la population du camp. Pendant cette nouvelle période de quarantaine, la seule mesure prise par les autorités a été de redoubler les effectifs de police à l’entrée du camp, afin d’empêcher toute sortie, et ceci à un moment critique où des produits de première nécessité manquaient cruellement dans le camp. Ni dépistage généralisé, ni visite d’équipes médicales spécialisées, ni non plus séparation spatiale stricte entre porteurs et non-porteurs du virus n’ont été mises en place. La quarantaine, avec une courte période d’allégement de mesures de restriction, dure déjà depuis deux mois et demi. Car, le 20 juin elle a été prolongée jusqu’au 5 juillet, transformant ainsi de facto les résidents du camp en détenus[13].

    La façon aussi dont ont été traités les nouveaux arrivants dans les îles depuis le début de la période du confinement et jusqu’à maintenant est également révélatrice de la volonté du gouvernement de ne pas faire le nécessaire pour assurer la protection des demandeurs d’asile. Non seulement ceux qui sont arrivés après le début mars n’ont pas été mis à l’abri pour y passer la période de quarantaine de 14 jours dans des conditions sécurisées, mais ils ont été systématiquement ‘confinés en plein air’ à la proximité de l’endroit où ils ont débarqué : les nouveaux arrivants, femmes enceintes et enfants compris, ont été obligés de vivre en plein air, exposés aux intempéries dans une zone circonscrite placée sous la surveillance de la police, pendant deux, trois voire quatre semaines et sans aucun accès à des infrastructures sanitaires. Le cas de 450 personnes arrivées début mars est caractéristique : après avoir été gardées en « quarantaine » dans une zone entourée de barrières au port de Mytilène, elles ont été enfermées pendant 13 jours dans des conditions inimaginables dans un navire militaire grec, où ils ont été obligés de dormir sur le sol en fer du navire, vivant littéralement les uns sur les autres, sans même qu’on ne leur fournisse du savon pour se laver les mains.

    Cet enfermement prolongé dans des conditions abjectes, en contre-pied du confinement sécurisé à la maison, que la plupart d’entre nous, citoyens européens, avons connu, transforme de fait les demandeurs en détenus et crée inévitablement des situations explosives avec une montée des incidents violents, des affrontements entre groupes ethniques, des départs d’incendies à Lesbos, à Chios et à Samos. Ne serait-ce qu’à Moria, et surtout dans l’Oliveraie qui entoure le camp officiel, dès la tombée de la nuit l’insécurité règne : depuis le début de l’année on y dénombre au moins 14 agressions à l’arme blanche qui ont fait quatre morts et 14 blessés[14]. Bref aux conditions de vie indignes et dangereuses pour la santé, il faudrait ajouter l’insécurité croissante, encore plus pesante pour les femmes, les personnes LGBT+ et les mineurs isolés.

    Affronté aux réactions des sociétés locales et à la pression des organismes internationaux, le gouvernement grec a fini par reconnaître la nécessité de la décongestion des îles par le biais du transfert de réfugiés et des demandeurs d’asile vulnérables au continent. Mais il s’en est rendu compte trop tard ; entretemps le discours haineux qui présente les migrants comme une menace pour la sécurité nationale voire pour l’identité de la nation, ce poison qu’elle-même a administré à la population, a fait son effet. Aujourd’hui, le ministre de la politique migratoire a été pris au piège de sa propre rhétorique xénophobe haineuse ; c’est au nom justement de celle-ci que les autorités régionales et locales (et plus particulièrement celles proches à la majorité actuelle), opposent un refus catégorique à la perspective d’accueillir dans leur région des réfugiés venant des hot-spots des îles. Des hôtels où des familles en provenance de Moria auraient dû être logées ont été en partie brûlés, des cars transportant des femmes et des enfants ont été attaqués à coup de pierres, des tenanciers d’établissements qui s’apprêtaient à les accueillir, ont reçu des menaces, la liste des actes honteux ne prend pas fin[15].

    Mais le ministre grec de la politique migratoire n’est jamais en court de moyens : il a un plan pour libérer plus que 10.000 places dans les structures d’accueil et les appartements en Grèce continentale. A partir du 1 juin, les autorités ont commencé à mettre dans la rue 11.237 réfugiés reconnus comme bénéficiaires de protection internationale, un mois après l’obtention de leur carte de réfugiés ! Evincés de leurs logements, ces réfugiés, femmes, enfants et personnes vulnérables compris, se retrouveront dans la rue et sans ressources, car ils n’ont plus le droit de recevoir les aides qui ne leur sont destinées que pendant les 30 jours qui suivent l’obtention de leur carte[16]. Cette décision du ministre Mitarakis a été mise sur le compte d’une politique moins accueillante, car selon lui, les aides, assez maigres, par ailleurs, constituaient un « appel d’air » trop attractif pour les candidats à l’exil ! Le comble de l’affaire est que tant le programme d’hébergement en appartements et hôtels ESTIA que les aides accordées aux réfugiés et demandeurs d’asile sont financées par l’UE et des organismes internationaux, et ne coûtent strictement rien au budget de l’Etat. Le désastre qui se dessine à l’horizon a déjà pointé son nez : une centaine de réfugiés dont une quarantaine d’enfants, transférés de Lesbos à Athènes, ont été abandonnés sans ressources et sans toit en pleine rue. Ils campent actuellement à la place Victoria, à Athènes.

    Le dernier cercle de l’enfer : les PROKEKA

    Au moment où est écrit cet article, les camps dans les îles fonctionnent cinq, six voire dix fois au-dessus de leur capacité d’accueil. 34.000 personnes sont actuellement entassées dans les îles, dont 30.220 confinées dans les conditions abjectes de hot-spots prévus pour accueillir 6 000 personnes au grand maximum ; 750 en détention dans les centres de détention fermés avant renvoi (PROΚEΚA), et le restant dans d’autres structures[17].

    Plusieurs agents du terrain ont qualifié à juste titre les camps de Moria à Lesbos et celui de Vathy à Samos[18] comme l’enfer sur terre. Car, comment désigner autrement un endroit comme Moria où les enfants – un tiers des habitants du camp- jouent parmi les ordures et les déjections et où plusieurs d’entre eux touchent un tel fond de désespoir qu’ils finissent par s’automutiler et/ou par commettre de tentatives de suicide[19], tandis que d’autres tombent dans un état de prostration et de mutisme ? Comment dire autrement l’horreur d’un endroit comme le camp de Vathy où femmes enceintes et enfants de bas âge côtoient des serpents, des rats et autres scorpions ?

    Cependant, il y a pire, en l’occurrence le dernier cercle de l’Enfer, les ‘Centres de Détention fermés avant renvoi’ (Pre-moval Detention Centers, PROKEKA en grec), l’équivalent grec des CRA (Centre de Rétention Administrative) en France[20]. Aux huit centres fermés de détention et aux postes de police disséminés partout en Grèce, plusieurs milliers de demandeurs d’asile et d’étrangers sans-papiers sont actuellement détenus dans des conditions terrifiantes. Privés même des droits les plus élémentaires de prisonniers, les détenus restent presque sans soins médicaux, sans contact régulier avec l’extérieur, sans droit de visite ni accès assuré à une aide judiciaire. Ces détenus qui sont souvent victimes de mauvais traitements de la part de leurs gardiens, n’ont pas de perspective de sortie, dans la mesure où, en vertu de la nouvelle loi sur l’asile, leur détention peut être prolongée jusqu’à 36 mois. Leur maintien en détention est ‘justifié’ en vue d’une déportation devenue plus qu’improbable – qu’il s’agisse d’une expulsion vers le pays d’origine ou d’une réadmission vers un tiers pays « sûr ». Dans ces conditions il n’est pas étonnant qu’en désespoir de cause, des détenus finissent par attenter à leur jours, en commettant des suicides ou des tentatives de suicide.

    Ce qui est encore plus alarmant est qu’à la fin 2018, à peu près 28% des détenus au sein de ces centres fermés étaient des mineurs[21]. Plus récemment et notamment fin avril dernier, Arsis dans un communiqué de presse du 27 avril 2020, a dénoncé la détention en tout point de vue illégale d’une centaine de mineurs dans un seul centre de détention, celui d’Amygdaleza en Attique. D’après les témoignages, c’est avant tout dans les préfectures et les postes de police où sont gardés plus que 28% de détenus que les conditions de détention virent à un cauchemar, qui rivalise avec celui dépeint dans le film Midnight Express. Les cellules des commissariats où s’entassent souvent des dizaines de personnes sont conçus pour une détention provisoire de quelques heures, les infrastructures sanitaires sont défaillantes, et il n’y a pas de cour pour la promenade quotidienne. Quant aux policiers, ils se comportent comme s’ ils étaient au-dessus de la loi face à des détenus livrés à leur merci : ils leur font subir des humiliations systématiques, des mauvais traitements, des violences voire des tortures.

    Plusieurs témoignages concordants dénoncent des conditions horribles dans les préfectures et les commissariats : les détenus peuvent être privés de nourriture et d’eau pendant des journées entières, plusieurs entre eux sont battus et peuvent rester entravés et ligotés pendant des jours, privés de soins médicaux, même pour des cas urgents. En mars 2017, Ariel Rickel (fondatrice d’Advocates Abroad) avait découvert dans le commissariat du hot-spot de Samos, un mineur de 15 ans, ligoté sur une chaise. Le jeune homme qui avait été violement battu par les policiers, avait eu des côtes cassées et une blessure ouverte au ventre ; il était resté dans cet état ligoté trois jours durant, et ce n’est qu’après l’intervention de l’ombudsman, sollicité par l’avocate, qu’il a fini par être libéré.[22] Le cas rapporté par Ariel Rickel à Valeria Hänsel n’est malheureusement pas exceptionnel. Car, ces conditions inhumaines de détention dans les PROKEKA ont été à plusieurs reprises dénoncées comme un traitement inhumain et dégradant par la Cour Européenne de droits de l’homme[23] et par le Comité Européen pour la prévention de la torture du Conseil de l’Europe (CPT).

    Il faudrait aussi noter qu’au sein de hot-spot de Lesbos et de Kos, il y a de tels centres de détention fermés, ‘de prison dans les prisons à ciel ouvert’ que sont ces camps. Un rapport récent de HIAS Greece décrit les conditions inhumaines qui règnent dans le PROKEKA de Moria où sont détenus en toute illégalité des demandeurs d’asile n’ayant commis d’autre délit que le fait d’être originaire d’un pays dont les ressortissants obtiennent en moyenne en UE moins de 25% de réponses positives à leurs demandes d’asile (low profile scheme). Il est évident que la détention d’un demandeur d’asile sur la seule base de son pays d’origine constitue une mesure de ségrégation discriminatoire qui expose les requérants à des mauvais traitements, vu la quasi inexistence de services médicaux et la très grande difficulté voire l’impossibilité d’avoir accès à l’aide juridique gratuite pendant la détention arbitraire. Ainsi, p.ex. des personnes ressortissant de pays comme le Pakistan ou l’Algérie, même si ils/elles sont LGBT+, ce qui les exposent à des dangers graves dans leur pays d’origine, seront automatiquement détenus dans le PROKEKA de Moria, étant ainsi empêchés d’étayer suffisamment leur demande d’asile, en faisant appel à l’aide juridique gratuite et en la documentant. Début avril, dans deux centres de détention fermés, celui au sein du camp de Moria et celui de Paranesti, près de la ville de Drama au nord de la Grèce, les détenus avaient commencés une grève de la faim pour protester contre la promiscuité effroyable et réclamer leur libération ; dans les deux cas les protestations ont été très violemment réprimées par les forces de l’ordre.

    La déclaration commune UE-Turquie

    Cependant il faudrait garder à l’esprit qu’à l’origine de cette situation infernale se trouve la décision de l’UE en 2016 de fermer ses frontières et d’externaliser en Turquie la prise en charge de réfugiés, tout en bloquant ceux qui arrivent à passer en Grèce. C’est bien l’accord UE-Turquie du 18 mars 2016[24] – en fait une Déclaration commune dépourvue d’un statut juridique équivalent à celui d’un accord en bonne et due forme- qui a transformé les îles grecques en prison à ciel ouvert. En fait, cette Déclaration est un troc avec la Turquie où celle-ci s’engageait non seulement à fermer ses frontières en gardant sur son sol des millions de réfugiés mais aussi à accepte les réadmissions de ceux qui ont réussi à atteindre l’Europe ; en échange une aide de 6 milliards lui serait octroyée afin de couvrir une partie de frais générés par le maintien de 3 millions de réfugiés sur son sol, tandis que les ressortissants turcs n’auraient plus besoin de visa pour voyager en Europe. En fait, comme le dit un rapport de GISTI, la nature juridique de la Déclaration du 18 mars a beau être douteuse, elle ne produit pas moins les « effets d’un accord international sans en respecter les règles d’élaboration ». C’est justement le statut douteux de cette déclaration commune, que certains analystes n’hésitent pas de désigner comme un simple ‘communiqué de presse’, qui a fait que la Cour Européenne a refusé de se prononcer sur la légalité, en se déclarant incompétente, face à un accord d’un statut juridique indéterminé.

    Or, dans le cadre de la mise en œuvre de cet accord a été introduite par l’article 60(4) de la loi grecque L 4375/2016, la procédure d’asile dite ‘accélérée’ dans les îles grecques (fast-track border procedure) qui non seulement réduisaient les garanties de la procédure au plus bas possible en UE, mais qui impliquait aussi comme corrélat l’imposition de la restriction géographique de demandeurs d’asile dans les îles de première arrivée. Celle-ci fut officiellement imposée par la décision 10464/31-5-2017 de la Directrice du Service d’Asile, qui instaurait la restriction de circulation des requérant, afin de garantir le renvoi en Turquie de ceux-ci, en cas de rejet de leurs demandes. Rappelons que ces renvois s’appuient sur la reconnaissance -tout à fait infondée-, de la Turquie comme ‘pays tiers sûr’. Même des réfugiés Syriens ont été renvoyés en Turquie dans le cadre de la mise en application de cette déclaration commune.

    La restriction géographique qui contraint les demandeurs d’asile de ne quitter sous aucun prétexte l’île où ils ont déposé leur demande, jusqu’à l’examen complet de celle-ci, conduit inévitablement au point où nous sommes aujourd’hui à savoir à ce surpeuplement inhumain qui non seulement crée une situation invivable pour les demandeurs, mais a aussi un effet toxique sur les sociétés locales. Déjà en mai 2016, François Crépeau, rapporteur spécial de NU aux droits de l’homme de migrants, soulignait que « la fermeture de frontières de pays au nord de la Grèce, ainsi que le nouvel accord UE-Turquie a abouti à une augmentation exponentielle du nombre de migrants irréguliers dans ce pays ». Et il ajoutait que « le grand nombre de migrants irréguliers bloqués en Grèce est principalement le résultat de la politique migratoire de l’UE et des pays membres de l’UE fondée exclusivement sur la sécurisation des frontières ».

    Gisti, dans un rapport sur les hotspots de Chios et de Lesbos notait également depuis 2016 que, étant donné l’accord UE-Turquie, « ce sont les Etats membres de l’UE et l’Union elle-même qui portent l’essentiel de la responsabilité́ des mauvais traitements et des violations de leurs droits subis par les migrants enfermés dans les hotspots grecs.

    La présence des agences européennes à l’intérieur des hotspots ne fait que souligner cette responsabilité ». On le verra, le rôle de l’EASO est crucial dans la décision finale du service d’asile grec. Quant au rôle joué par Frontex, plusieurs témoignages attestent sa pratique quotidienne de non-assistance à personnes en danger en mer voire sa participation à des refoulements illégaux. Remarquons que c’est bien cette déclaration commune UE-Turquie qui stipule que les demandeurs déboutés doivent être renvoyés en Turquie et à cette fin être maintenus en détention, d’où la situation actuelle dans les centres de détention fermés.

    Enfin la situation dans les hot-spots s’est encore plus aggravée, en raison de la décision du gouvernement Mitsotakis de geler pendant plusieurs mois tout transfert vers la péninsule grecque, bloquant ainsi même les plus vulnérables sur place. Sous le gouvernement précédent, ces derniers étaient exceptés de la restriction géographique dans les hot-spots. Mais à partir du juillet 2020 les transferts de catégories vulnérables -femmes enceintes, mineurs isolés, victimes de torture ou de naufrages, personnes handicapées ou souffrant d’une maladie chronique, victimes de ségrégations à cause de leur orientation sexuelle, – avaient cessé et n’avaient repris qu’au compte-goutte début janvier, plusieurs mois après leurs suspension.

    Le dogme de la ‘surveillance agressive’ des frontières

    Les refoulements groupés sont de plus en plus fréquents, tant à la frontière maritime qu’à la frontière terrestre. A Evros cette pratique était assez courante bien avant la crise à la frontière gréco-turque de mars dernier. Elle consistait non seulement à refouler ceux qui essayaient de passer la frontière, mais aussi à renvoyer en toute clandestinité ceux qui étaient déjà entrés dans le territoire grec. Les faits sont attestés par plusieurs témoignages récoltés par Human Rights 360 dans un rapport publié fin 2018 : "The new normality : Continuous push-backs of third country nationals on the Evros river" (https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/1028-the-new-normality-continuous-push-backs-of-third-country-nationals-on-the-e). Les « intrus » qui ont réussi à passer la frontière sont arrêtés et dépouillés de leur biens, téléphone portable compris, pour être ensuite déportés vers la Turquie, soit par des forces de l’ordre en tenue, soit par des groupes masqués et cagoulés difficiles à identifier. En effet, il n’est pas exclu que des patrouilles paramilitaires, qui s’activent dans la région en se prenant violemment aux migrants au vu et au su des autorités, soient impliquées à ses opérations. Les réfugiés peuvent être gardés non seulement dans des postes de police et de centres de détention fermés, mais aussi dans des lieux secrets, sans qu’ils n’aient la moindre possibilité de contact avec un avocat, le service d’asile, ou leurs proches. Par la suite ils sont embarqués de force sur des canots pneumatiques en direction de la Turquie.

    Cette situation qui fut dénoncée par les ONG comme instaurant une nouvelle ‘normalité’, tout sauf normale, s’est dramatiquement aggravée avec la crise à la frontière terrestre fin février et début mars dernier[25]. Non seulement la frontière fut hermétiquement fermée et des refoulements groupés effectués par la police anti-émeute et l’armée, mais, dans le cadre de la soi-disant défense de l’intégrité territoriale, il y a eu plusieurs cas où des balles réelles ont été tirées par les forces grecques contre les migrants, faisant quatre morts et plusieurs blessés[26].

    Cependant ces pratiques criminelles ne sont pas le seul fait des autorités grecques. Depuis le 13 mars dernier, des équipes d’Intervention Rapide à la Frontière de Frontex, les Rapid Border Intervention Teams (RABIT) ont été déployées à la frontière gréco-turque d’Evros, afin d’assurer la ‘protection’ de la frontière européenne. Leur intervention qui aurait dû initialement durer deux mois, a été entretemps prolongée. Ces équipes participent elles, et si oui dans quelle mesure, aux opérations de refoulement ? Il faudrait rappeler ici que, d’après plusieurs témoignages récoltés par le Greek Council for Refugees, les équipes qui opéraient les refoulements en 2017 et 2018 illégaux étaient déjà mixtes, composées des agents grecs et des officiers étrangers parlant soit l’allemand soit l’anglais. Il n’y a aucune raison de penser que cette coopération en bonne entente en matière de refoulement, entre forces grecques et celles de Frontex ait cessé depuis, d’autant plus que début mars la Grèce fut désignée par les dirigeants européens pour assurer la protection de l’Europe, censément menacée par les migrants à sa frontière.

    Plusieurs témoignages de réfugiés refoulés à la frontière d’Evros ainsi que des documents vidéo attestent l’existence d’un centre de détention secret destiné aux nouveaux arrivants ; celui-ci n’est répertorié nulle part et son fonctionnement ne respecte aucune procédure légale, concernant l’identification et l’enregistrement des arrivants. Ce centre, fonctionnant au noir, dont l’existence fut révélée par un article du 10 mars 2020 de NYT, se situe à la proximité de la frontière gréco-turque, près du village grec Poros. Les malheureux qui y échouent, restent détenus dans cette zone de non-droit absolu[27], car, non seulement leur existence n’est enregistrée nulle part mais le centre même n’apparaît sur aucun registre de camps et de centres de détention fermés. Au bout de quelques jours de détention dans des conditions inhumaines, les détenus dépouillés de leurs biens sont renvoyés de force vers la Turquie, tandis que plusieurs d’entre eux ont été auparavant battus par la police.

    La situation est aussi alarmante en mer Egée, où les rapports dénonçant des refoulements maritimes violents mettant en danger la vie de réfugiés, ne cessent de se multiplier depuis le début mars. D’après les témoignages il y aurait au moins deux modes opératoires que les garde-côtes grecs ont adoptés : enlever le moteur et le bidon de gasoil d’une embarcation surchargée et fragile, tout en la repoussant vers les eaux territoriaux turques, et/ou créer des vagues, en passant en grande vitesse tout près du bateau, afin d’empêcher l’embarcation de s’approcher à la côte grecque (voir l’incident du 4 juin dernier, dénoncé par Alarm Phone). Cette dernière méthode de dissuasion ne connaît pas de limites ; des vidéos montrent des incidents violents où les garde-côtes n’hésitent pas à tirer des balles réelles dans l’eau à côté des embarcations de réfugiés ou même dans leurs directions ; il y a même des vidéos qui montrent les garde-côtes essayant de percer le canot pneumatique avec des perches.

    Néanmoins, l’arsenal de garde-côtes grecs ne se limite pas à ces méthodes extrêmement dangereuses ; ils recourent à des procédés semblables à ceux employés en 2013 par l’Australie pour renvoyer les migrants arrivés sur son sol : ils obligent des demandeurs d’asile à embarquer sur des life rafts -des canots de survie qui se présentent comme des tentes gonflables flottant sur l’eau-, et ils les repoussent vers la Turquie, en les laissant dériver sans moteur ni gouvernail[28].

    Des incidents de ce type ne cessent de se multiplier depuis le début mars. Victimes de ce type de refoulement qui mettent en danger la vie des passagers, peuvent être même des femmes enceintes, des enfants ou même des bébés –voir la vidéo glaçante tournée sur un tel life raft le 25 mai dernier et les photographies respectives de la garde côtière turque.

    Ce mode opératoire va beaucoup plus loin qu’un refoulement illégal, car il arrive assez souvent que les personnes concernées aient déjà débarqué sur le territoire grec, et dans ce cas ils avaient le droit de déposer une demande d’asile. Cela veut dire que les garde-côtes grecs ne se contentent pas de faire des refoulements maritimes qui violent le droit national et international ainsi que le principe de non-refoulement de la convention de Genève[29]. Ioannis Stevis, responsable du média local Astraparis à Chios, avait déclaré au Guardian « En mer Egée nous pouvions voir se dérouler cette guerre non-déclarée. Nous pouvions apercevoir les embarcations qui ne pouvaient pas atteindre la Grèce, parce qu’elles en étaient empêchées. De push-backs étaient devenus un lot quotidien dans les îles. Ce que nous n’avions pas vu auparavant, c’était de voir les bateaux arriver et les gens disparaître ».

    Cette pratique illégale va beaucoup plus loin, dans la mesure où les garde-côtes s’appliquent à renvoyer en Turquie ceux qui ont réussi à fouler le sol grec, sans qu’aucun protocole ni procédure légale ne soient respectés. Car, ces personnes embarquées sur les life rafts, ne sont pas à strictement parler refoulées – et déjà le refoulement est en soi illégal de tout point de vue-, mais déportées manu militari et en toute illégalité en Turquie, sans enregistrement ni identification préalable. C’est bien cette méthode qui explique comment des réfugiés dont l’arrivée sur les côtes de Samos et de Chios est attestée par des vidéos et des témoignages de riverains, se sont évaporés dans la nature, n’apparaissant sur aucun registre de la police ou des autorités portuaires[30]. Malgré l’existence de documents photos et vidéos attestant l’arrivée des embarcations des jours où aucune arrivée n’a été enregistrée par les autorités, le ministre persiste et signe : pour lui il ne s’agirait que de la propagande turque reproduite par quelques esprits malveillants qui voudraient diffamer la Grèce. Néanmoins les photographies horodatées publiées sur Astraparis, dans un article intitulé « les personnes que nous voyons sur la côte Monolia à Chios seraient-ils des extraterrestres, M. le Ministre ? », constituent un démenti flagrant du discours complotiste du Ministre.

    Question cruciale : quelle est le rôle exact joué par Frontex dans ces refoulements ? Est-ce que les quelques 600 officiers de Frontex qui opèrent en mer Egée dans le cadre de l’opération Poséidon, y participent d’une façon ou d’une autre ? Ce qui est sûr est qu’il est quasi impossible qu’ils n’aient pas été de près ou de loin témoins des opérations de push-back. Le fait est confirmé par un article du Spiegel sur un incident du 13 mai, un push-back de 27 réfugiés effectué par la garde côtière grecque laquelle, après avoir embarqué les réfugiés sur un canot de sauvetage, a remorqué celui-ci en haute mer. Or, l’embarcation de réfugiés a été initialement repéré près de Samos par les hommes du bateau allemand Uckermark faisant partie des forces de Frontex, qui l’ont ensuite signalé aux officiers grecs ; le fait que cette embarcation ait par la suite disparu sans laisser de trace et qu’aucune arrivée de réfugiés n’ait été enregistrée à Samos ce jour-là, n’a pas inquiété outre-mesure les officiers allemands.

    Nous savons par ailleurs, grâce à l’attitude remarquable d’un équipage danois, que les hommes de Frontex reçoivent l’ordre de ne pas porter secours aux réfugiés navigant sur des canots pneumatiques, mais de les repousser ; au cas où les réfugiés ont déjà été secourus et embarqués à bord d’un navire de Frontex, celui-ci reçoit l’ordre de les remettre sur des embarcations peu fiables et à peine navigables. C’est exactement ce qui est arrivé début mars à un patrouilleur danois participant à l’opération Poséidon, « l’équipage a reçu un appel radio du commandement de Poséidon leur ordonnant de remettre les [33 migrants qu’ils avaient secourus] dans leur canot et de les remorquer hors des eaux grecques »[31], ordre, que le commandant du navire danois Jan Niegsch a refusé d’exécuter, estimant “que celui-ci n’était pas justifiable”, la manœuvre demandée mettant en danger la vie des migrants. Or, il n’y aucune raison de penser que l’ordre reçu -et fort heureusement non exécuté grâce au courage du capitaine Niegsch et du chargé de l’unité danoise de Frontex, Jens Moller- soit un ordre exceptionnel que les autres patrouilleurs de Frontex n’ont jamais reçu. Les officiers danois ont d’ailleurs confirmé que les garde-côtes grecs reçoivent des ordres de repousser les bateaux qui arrivent de Turquie, et ils ont été témoins de plusieurs opérations de push-back. Mais si l’ordre de remettre les réfugiés en une embarcation non-navigable émanait du quartier général de l’opération Poséidon, qui l’avait donc donné [32] ? Des officiers grecs coordonnant l’opération, ou bien des officiers de Frontex ?

    Remarquons que les prérogatives de Frontex ne se limitent pas à la surveillance et la ‘protection’ de la frontière européenne : dans une interview que Fabrice Leggeri avait donné en mars dernier à un quotidien grec, il a révélé que Frontex était en train d’envisager avec le gouvernement grec les modalités d’une action communes pour effectuer les retours forcés des migrants dits ‘irréguliers’ à leurs pays d’origine. « Je m’attends à ce que nous ayons bientôt un plan d’action en commun. D’après mes contacts avec les officiers grecs, j’ai compris que la Grèce est sérieusement intéressée à augmenter le nombre de retours », avait-il déclaré.

    Tout démontre qu’actuellement les sauvetages en mer sont devenus l’exception et les refoulements violents et dangereux la règle. « Depuis des années, Alarm Phone a documenté des opérations de renvois menées par des garde-côtes grecs. Mais ces pratiques ont considérablement augmenté ces dernières semaines et deviennent la norme en mer Égée », signale un membre d’Alarm Phone à InfoMigrants. De sorte que nous pouvons affirmer que le dogme du gouvernement Mitsotakis consiste en une inversion complète du principe du non-refoulement : ne laisser passer personne en refoulant coûte que coûte. D’ailleurs, ce nouveau dogme a été revendiqué publiquement par le ministre de Migration et de l’Asile Mitarakis, qui s’est vanté à plusieurs reprises d’avoir réussi à créer une frontière maritime quasi-étanche. Les quatre volets de l’approche gouvernementale ont été résumés ainsi par le ministre : « protection des frontières, retours forcés, centres fermés pour les arrivants, et internationalisation des frontières »[33]. Dans une émission télévisée du 13 avril, le même ministre a déclaré que la frontière était bien gardée, de sorte qu’aujourd’hui, les flux sont quasi nuls, et il a ajouté que “l’armée et des unités spéciaux, la marine nationale et les garde-côtes sont prêts à opérer pour empêcher les migrants en situation irrégulière d’entrer dans notre pays’’. Bref, des forces militaires sont appelées de se déployer sur le front de guerre maritime et terrestre contre les migrants. Voilà comment est appliqué le dogme de zéro flux dont se réclame le Ministre.

    Le Conseil de l’Europe a publié une déclaration très percutante à ce sujet le 19 juin. Sous le titre Il faut mettre fin aux refoulements et à la violence aux frontières contre les réfugiés, la commissaire aux droits de l’homme Dunja Mijatović met tous les états membres du Conseil de l’Europe devant leurs responsabilités, en premier lieu les états qui commettent de telles violations de droits des demandeurs d’asile. Loin de considérer que les refoulements et les violences à la frontière de l’Europe sont le seul fait de quelques états dont la plupart sont situés à la frontière externe de l’UE, la commissaire attire l’attention sur la tolérance tacite de ces pratiques illégales, voire l’assistance à celles-ci de la part de la plupart d’autres états membres. Est responsable non seulement celui qui commet de telles violations des droits mais aussi celui qui les tolère voire les encourage.

    Asile : ‘‘mission impossible’’ pour les nouveaux arrivants ?

    Actuellement en Grèce plusieurs dizaines de milliers de demandes d’asile sont en attente de traitement. Pour donner la pleine mesure de la surcharge d’un service d’asile qui fonctionne actuellement à effectifs réduits, il faudrait savoir qu’il y a des demandeurs qui ont reçu une convocation pour un entretien en…2022 –voir le témoignage d’un requérant actuellement au camp de Vagiohori. En février dernier il y avait 126.000 demandes en attente d’être examinées en première et deuxième instance. Entretemps, par des procédures expéditives, 7.000 demandes ont été traitées en mars et 15 000 en avril, avec en moyenne 24 jours par demande pour leur traitement[34]. Il devient évident qu’il s’agit de procédures expéditives et bâclées. En même temps le pourcentage de réponses négatives en première instance ne cesse d’augmenter ; de 45 à 50% qu’il était jusqu’à juillet dernier, il s’est élevé à 66% en février[35], et il a dû avoir encore augmenté entre temps.

    Ce qui est encore plus inquiétant est l’ambition affichée du Ministre de la Migration de réaliser 11000 déportations d’ici la fin de l’année. A Lesbos, à la réouverture du service d’asile, le 18 mai dernier, 1.789 demandeurs ont reçu une réponse négative, dont au moins 1400 en première instance[36]. Or, ces derniers n’ont eu que cinq jours ouvrables pour déposer un recours et, étant toujours confinés dans l’enceinte de Moria, ils ont été dans l’impossibilité d’avoir accès à une aide judiciaire. Ceux d’entre eux qui ont osé se déplacer à Mytilène, chef-lieu de Lesbos, pour y chercher de l’aide auprès du Legal Center of Lesbos ont écopé des amendes de 150€ pour violation de restrictions de mouvement[37] !

    Jusqu’à la nouvelle loi votée il y a six semaines au Parlement Hellénique, la procédure d’asile était un véritable parcours du combattant pour les requérants : un parcours plein d’embûches et de pièges, entaché par plusieurs clauses qui violent les lois communautaires et nationales ainsi que les conventions internationales. L’ancienne loi, entrée en vigueur seulement en janvier 2020, introduisait des restrictions de droits et un raccourcissement de délais en vue de procédures encore plus expéditives que celles dites ‘fast-track’ appliquées dans les îles (voir ci-dessous). Avant la toute nouvelle loi adoptée le 8 mai dernier, Gisti constatait déjà des atteintes au droit national et communautaire, concernant « en particulier le droit d’asile, les droits spécifiques qui doivent être reconnus aux personnes mineures et aux autres personnes vulnérables, et le droit à une assistance juridique ainsi qu’à une procédure de recours effectif »[38]. Avec la nouvelle mouture de la loi du 8 mai, les restrictions et la réduction de délais est telle que par ex. la procédure de recours devient vraiment une mission impossible pour les demandeurs déboutés, même pour les plus avertis et les mieux renseignés parmi eux. Les délais pour déposer une demande de recours se réduisent en peau de chagrin, alors que l’aide juridique au demandeur, de même que l’interprétariat en une langue que celui-ci maîtrise ne sont plus assurés, laissant ainsi le demandeur seul face à des démarches complexes qui doivent être faites dans une langue autre que la sienne[39]. De même l’entretien personnel du requérant, pierre angulaire de la procédure d’asile, peut être omis, si le service ne trouve pas d’interprète qui parle sa langue et si le demandeur vit loin du siège de la commission de recours, par ex. dans un hot-spot dans les îles ou loin de l’Attique. Le 13 mai, le ministre Mitarakis avait déclaré que 11.000 demandes ont été rejetées pendant les mois de mars et avril, et que ceux demandeurs déboutés « doivent repartir »[40], laissant entendre que des renvois massifs vers la Turquie pourraient avoir lieu, perspective plus qu’improbable, étant donné la détérioration grandissante de rapport entre les deux pays. Ces demandeurs déboutés ont été sommés de déposer un recours dans l’espace de 5 jours ouvrables après notification, sans assistance juridique et sous un régime de restrictions de mouvements très contraignant.

    En vertu de la nouvelle loi, les personnes déboutées peuvent être automatiquement placées en détention, la détention devenant ainsi la règle et non plus l’exception comme le stipule le droit européen. Ceci est encore plus vrai pour les îles. Qui plus est, selon le droit international et communautaire, la mesure de détention ne devrait être appliquée qu’en dernier ressort et seulement s’il y a une perspective dans un laps de temps raisonnable d’effectuer le renvoi forcé de l’intéressé. Or, aujourd’hui et depuis quatre mois, il n’y a aucune perspective de cet ordre. Car les chances d’une réadmission en Turquie ou d’une expulsion vers le pays d’origine sont pratiquement inexistantes, pendant la période actuelle. Si on tient compte que plusieurs dizaines de milliers de demandes restent en attente d’être traitées et que le pourcentage de rejet ne cesse d’augmenter, on voit avec effroi s’esquisser la perspective d’un maintien en détention de dizaines de milliers de personnes pour un laps de temps indéfini. La Grèce compte-t-elle créer de centres de détention pour des dizaines de milliers de personnes, qui s’apparenteraient par plusieurs traits à des véritables camps de concentration ? Le fera-t-elle avec le financement de l’UE ?

    Nous savons que le rôle de EASO, dont la présence en Grèce s’est significativement accrue récemment,[41] est crucial dans ces procédures d’asile : c’est cet organisme européen qui mène le pré-enregistrement de la demande d’asile et qui se prononce sur sa recevabilité ou pas. Jusqu’à maintenant il intervenait uniquement dans les îles dans le cadre de la procédure dite accélérée. Car, depuis la Déclaration de mars 2016, dans les îles est appliquée une procédure d’asile spécifique, dite procédure fast-track à la frontière (fast-track border procedure). Il s’agit d’une procédure « accélérée », qui s’applique dans le cadre de la « restriction géographique » spécifique aux hotspots »,[42] en application de l’accord UE-Turquie de mars 2016. Dans le cadre de cette procédure accélérée, c’est bien l’EASO qui se charge de faire le premier ‘tri’ entre les demandeurs en enregistrant la demande et en effectuant un premier entretien. La procédure ‘fast-track’ aurait dû rester une mesure exceptionnelle de courte durée pour faire face à des arrivées massives. Or, elle est toujours en vigueur quatre ans après son instauration, tandis qu’initialement sa validité n’aurait pas dû dépasser neuf mois – six mois suivis d’une prolongation possible de trois mois. Depuis, de prolongation en prolongation cette mesure d’exception s’est installée dans la permanence.

    La procédure accélérée qui, au détriment du respect des droits des réfugiés, aurait pu aboutir à un raccourcissement significatif de délais d’attente très longs, n’a même pas réussi à obtenir ce résultat : une partie des réfugiés arrivés à Samos en août 2019, avaient reçu une notification de rendez-vous pour l’entretien d’asile (et d’admissibilité) pour 2021 voire 2022[43] ! Mais si les procédures fast-track ne raccourcissent pas les délais d’attente, elles raccourcissent drastiquement et notamment à une seule journée le temps que dispose un requérant pour qu’il se prépare et consulte si besoin un conseiller juridique qui pourrait l’assister durant la procédure[44]. Dans le cas d’un rejet de la demande en première instance, le demandeur débouté ne dispose que de cinq jours après la notification de la décision négative pour déposer un recours en deuxième instance. Bref, le raccourcissement très important de délais introduits par la procédure accélérée n’affectait jusqu’à maintenant que les réfugiés qui sont dans l’impossibilité d’exercer pleinement leurs droits, et non pas le service qui pouvait imposer un temps interminable d’attente entre les différentes étapes de la procédure.

    Cependant l’implication d’EASO dépasse et de loin le pré-enregistrement, car ce sont bien ses fonctionnaires qui, suite à un entretien de l’intéressé, dit « interview d’admission », établissent le dossier qui sera transmis aux autorités grecques pour examen[45]. Or, nous savons par la plainte déposée contre l’EASO par les avocats de l’ONG European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR), en 2017, que les agents d’EASO ne consacrait à l’interrogatoire du requérant que 15 minutes en moyenne,[46] et ceci bien avant que ne monte en flèche la pression exercée par le gouvernement actuel pour accélérer encore plus les procédures. La même plainte dénonçait également le fait que la qualité de l’interprétation n’était point assurée, dans la mesure où, au lieu d’employer des interprètes professionnels, cet organisme européen faisait souvent recours à des réfugiés, pour faire des économies. A vrai dire, l’EASO, après avoir réalisé un entretien, rédige « un avis (« remarques conclusives ») et recommande une décision à destination des services grecs de l’asile, qui vont statuer sur la demande, sans avoir jamais rencontré » les requérants[47]. Mais, même si en théorie la décision revient de plein droit au Service d’Asile grec, en pratique « une large majorité des recommandations transmises par EASO aux services grecs de l’asile est adoptée par ces derniers »[48]. Or, depuis 2018 les compétences d’EASO ont été étendues à tout le territoire grec, ce qui veut dire que les officiers grecs de cet organisme européen ont le droit d’intervenir même dans le cadre de la procédure régulière d’asile et non plus seulement dans celui de la procédure accélérée. Désormais, avec le quadruplication des effectifs en Grèce continentale prévue pour 2020, et le dédoublement de ceux opérant dans les îles, l’avis ‘consultatif’ de l’EASO va peser encore plus sur les décisions finales. De sorte qu’on pourrait dire, que le constat que faisait Gisti, bien avant l’extension du domaine d’intervention d’EASO, est encore plus vrai aujourd’hui : l’UE, à travers ses agences, exerce « une forme de contrôle et d’ingérence dans la politique grecque en matière d’asile ». Si avant 2017, l’entretien et la constitution du dossier sur la base duquel le service grec d’asile se prononce étaient faits de façon si bâclée, que va—t-il se passer maintenant avec l’énorme pression des autorités pour des procédures fast-track encore plus expéditives, qui ne respectent nullement les droits des requérants ? Enfin, une fois la nouvelle loi mise en vigueur, les fonctionnaires européens vont-ils rédiger leurs « remarques conclusives » en fonction de celle-ci ou bien en respectant la législation européenne ? Car la première comporte des clauses qui ne respectent point la deuxième.

    La suspension provisoire de la procédure d’asile et ses effets à long terme

    Début mars, afin de dissuader les migrants qui se rassemblaient à la frontière gréco-turque d’Evros, le gouvernement grec a décidé de suspendre provisoirement la procédure d’asile pendant la durée d’un mois[49]. L’acte législatif respectif stipule qu’à partir du 1 mars et jusqu’au 30 du même mois, ceux qui traversent la frontière n’auront plus le droit de déposer une demande d’asile. Sans procédure d’identification et d’enregistrement préalable ils seront automatiquement maintenus en détention jusqu’à leur expulsion ou leur réadmission en Turquie. Après une cohorte de protestations de la part du Haut-Commissariat, des ONG, et même d’Ylva Johansson, commissaire aux affaires internes de l’UE, la procédure d’asile suspendue a été rétablie début avril et ceux qui sont arrivés pendant la durée de sa suspension ont rétroactivement obtenu le droit de demander la protection internationale. « Le décret a cessé de produire des effets juridiques à la fin du mois de mars 2020. Cependant, il a eu des effets très néfastes sur un nombre important de personnes ayant besoin de protection. Selon les statistiques du HCR, 2 927 personnes sont entrées en Grèce par voie terrestre et maritime au cours du mois de mars[50]. Ces personnes automatiquement placées en détention dans des conditions horribles, continuent à séjourner dans des établissements fermés ou semi-fermés. Bien qu’elles aient finalement été autorisées à exprimer leur intention de déposer une demande d’asile auprès du service d’asile, elles sont de fait privées de toute aide judiciaire effective. La plus grande partie de leurs demandes d’asile n’a cependant pas encore été enregistrée. Le préjudice causé par les conditions de détention inhumaines est aggravé par les risques sanitaires graves, voire mortels, découlant de l’apparition de la pandémie COVID-19, qui n’ont malheureusement pas conduit à un réexamen de la politique de détention en Grèce ».[51]

    En effet, les arrivants du mois de mars ont été jusqu’à il y a peu traités comme des criminels enfreignant la loi et menaçant l’intégrité du territoire grec ; ils ont été dans un premier temps mis en quarantaine dans des conditions inconcevables, gardés par la police en zones circonscrites, sans un abri ni la moindre infrastructure sanitaire. Après une période de quarantaine qui la plupart du temps durait plus longtemps que les deux semaines réglementaires, ceux qui sont arrivés pendant la suspension de la procédure, étaient transférés, en vue d’une réadmission en Turquie, à Malakassa en Attique, où un nouveau camp fermé, dit ‘le camp de tentes’, fut créé à proximité de de l’ancien camp avec les containeurs.

    700 d’entre eux ont été transférés au camp fermé de Klidi, à Serres, au nord de la Grèce, construit sur un terrain inondable au milieu de nulle part. Ces deux camps fermés présentent des affinités troublantes avec des camps de concentration. Les conditions de vie inhumaines au sein de ces camps s’aggravaient encore plus par le risque de contamination accru du fait de la très grande promiscuité et des conditions sanitaires effrayantes (coupures d’eau sporadiques à Malakassa, manque de produits d’hygiène, et approvisionnement en eau courante seulement deux heures par jour à Klidi)[52]. Or, après le rétablissement de la procédure d’asile, les 2.927 personnes arrivées en mars, ont obtenu–au moins en théorie- le droit de déposer une demande, mais n’ont toujours ni l’assistance juridique nécessaire, ni interprètes, ni accès effectif au service d’asile. Celui-ci a rouvert depuis le 18 mars, mais fonctionne toujours à effectif réduit, et est submergé par les demandes de renouvellement des cartes. Actuellement les réfugiés placés en détention sont toujours retenus dans les même camps qui sont devenus des camps semi-fermés sans pour autant que les conditions de vie dégradantes et dangereuses pour la santé des résidents aient vraiment changé. Ceci est d’autant plus vrai que le confinement de réfugiés et de demandeurs d’asile a été prolongé jusqu’au 5 juillet, ce qui ne leur permet de circuler que seulement avec une autorisation de la police, tandis que la population grecque est déjà tout à fait libre de ses mouvements. Dans ces conditions, il est pratiquement impossible d’accomplir des démarches nécessaires pour le dépôt d’une demande bien documentée.

    Refugee Support Aegean a raison de souligner que « les répercussions d’une violation aussi flagrante des principes fondamentaux du droit des réfugiés et des droits de l’homme ne disparaissent pas avec la fin de validité du décret, les demandeurs d’asile concernés restant en détention arbitraire dans des conditions qui ne sont aucunement adaptées pour garantir leur vie et leur dignité. Le décret de suspension crée un précédent dangereux pour la crédibilité du droit international et l’intégrité des procédures d’asile en Grèce et au-delà ».

    Cependant, nous ne pouvons pas savoir jusqu’où pourrait aller cette escalade d’horreurs. Aussi inimaginable que cela puisse paraître , il y a pire, même par rapport au camp fermé de Klidi à Serres, que Maria Malagardis, journaliste à Libération, avait à juste titre désigné comme ‘un camp quasi-militaire’. Car les malheureux arrêtés à Evros fin février et début mars, ont été jugés en procédure de flagrant délit, et condamnés pour l’exemple à des peines de prison de quatre ans ferme et des amendes de 10.000 euros -comme quoi, les autorités grecques peuvent revendiquer le record en matière de peine pour entrée irrégulière, car même la Hongrie de Orban, ne condamne les migrants qui ont osé traverser ses frontières qu’à trois ans de prison. Au moins une cinquantaine de personnes ont été condamnées ainsi pour « entrée irrégulière dans le territoire grec dans le cadre d’une menace asymétrique portant sur l’intégrité du pays », et ont été immédiatement incarcérées. Et il est fort à parier qu’aujourd’hui, ces personnes restent toujours en prison, sans que le rétablissement de la procédure ait changé quoi que ce soit à leur sort.

    Eriger l’exception en règle

    Qui plus est la suspension provisoire de la procédure laisse derrière elle des marques non seulement aux personnes ayant vécu sous la menace de déportation imminente, et qui continuent à vivre dans des conditions indignes, mais opère aussi une brèche dans la validité universelle du droit international et de la Convention de Genève, en créant un précédent dangereux. Or, c’est justement ce précédent que M. Mitarakis veut ériger en règle européenne en proposant l’introduction d’une clause de force majeure dans la législation européenne de l’asile[53] : dans le débat pour la création d’un système européen commun pour l’asile, le Ministre grec de la politique migratoire a plaidé pour l’intégration de la notion de force majeure dans l’acquis européen : celle-ci permettrait de contourner la législation sur l’asile dans des cas où la sécurité territoriale ou sanitaire d’un pays serait menacée, sans que la violation des droits de requérants expose le pays responsable à des poursuites. Pour convaincre ses interlocuteurs, il a justement évoqué le cas de la suspension par le gouvernement de la procédure pendant un mois, qu’il compte ériger en paradigme pour la législation communautaire. Cette demande fut réitérée le 5 juin dernier, par une lettre envoyée par le vice-ministre des Migrations et de l’Asile, Giorgos Koumoutsakos, au vice-président Margaritis Schinas et au commissaire aux affaires intérieures, Ylva Johansson. Il s’agit de la dite « Initiative visant à inclure une clause d’état d’urgence dans le Pacte européen pour les migrations et l’asile », une initiative cosignée par Chypre et la Bulgarie. Par cette lettre, les trois pays demandent l’inclusion au Pacte européen d’une clause qui « devrait prévoir la possibilité d’activer les mécanismes d’exception pour prévenir et répondre à des situations d’urgence, ainsi que des déviations [sous-entendu des dérogations au droit européen] dans les modes d’action si nécessaire ».[54] Nous le voyons, la Grèce souhaite, non seulement poursuivre sa politique de « surveillance agressive » des frontières et de violation des droits de migrants, mais veut aussi ériger ces pratiques de tout point de vue illégales en règle d’action européenne. Il nous faudrait donc prendre la mesure de ce que laisse derrière elle la fracture dans l’universalité de droit d’asile opérée par la suspension provisoire de la procédure. Même si celle-ci a été bon an mal an rétablie, les effets de ce geste inédit restent toujours d’actualité. L’état d’exception est en train de devenir permanent.

    Une rhétorique de la haine

    Le discours officiel a changé de fond en comble depuis l’arrivée au pouvoir du gouvernement Mitsotakis. Des termes, comme « clandestins » ont fait un retour en force, accompagnés d’une véritable stratégie de stigmatisation visant à persuader la population que les arrivants ne sont point des réfugiés mais des immigrés économiques censés profiter du laxisme du gouvernement précédent pour envahir le pays et l’islamiser. Cette rhétorique haineuse qui promeut l’image des hordes d’étrangers envahisseurs menaçant la nation et ses traditions, ne cesse d’enfler malgré le fait qu’elle soit démentie d’une façon flagrante par les faits : les arrivants, dans leur grande majorité, ne veulent pas rester en Grèce mais juste passer par celle-ci pour aller ailleurs en Europe, là où ils ont des attaches familiales, communautaires etc. Ce discours xénophobe aux relents racistes dont le paroxysme a été atteint avec la mise en avant de l’épouvantail du ‘clandestin’ porteur du virus venant contaminer et décimer la nation, a été employé d’une façon délibérée afin de justifier la politique dite de la « surveillance agressive » des frontières grecques. Il sert également à légitimer la transformation programmée des actuels CIR (RIC en anglais) en centres fermés ‘contrôlés’, où les demandeurs n’auront qu’un droit de sortie restreint et contrôlé par la police. Le ministre Mitarakis a déjà annoncé la transformation du nouveau camp de Malakasa, où étaient détenus ceux qui sont arrivés pendant la durée de la suspension d’asile, un camp qui était censé s’ouvrir après la fin de validité du décret, en camp fermé ‘contrôlé’ où toute entrée et sortie seraient gérées par la police[55].

    Révélateur des intentions du gouvernement grec, est le projet du Ministre de la politique migratoire d’étendre les compétences du Service d’Asile bien au-delà de la protection internationale, et notamment aux …expulsions ! D’après le quotidien grec Ephimérida tôn Syntaktôn, le ministre serait en train de prospecter pour la création de trois nouvelles sections au sein du Service d’Asile : Coordination de retours forcés depuis le continent et retours volontaires, Coordination des retours depuis les îles, Appels et exclusions. Bref, le Service d’Asile grec qui a déjà perdu son autonomie, depuis qu’il a été attaché au Secrétariat général de la politique de l’Immigration du Ministère, risque de devenir – et cela serait une première mondiale- un service d’asile et d’expulsions. Voilà comment se met en œuvre la consolidation du rôle de la Grèce en tant que « bouclier de l’Europe », comme l’avait désigné début mars Ursula von der Leyden. Voilà ce qu’est en train d’ériger l’Europe qui soutient et finance la Grèce face à des personnes persécutées fuyant de guerres et de conflits armés : un mur fait de barbelés, de patrouilles armés jusqu’aux dents et d’une flotte de navires militaires. Quant à ceux qui arrivent à passer malgré tout, ils seront condamnés à rester dans les camps de la honte.

    Que faire ?

    Certaines analyses convoquent la position géopolitique de la Grèce et le rapport de forces dans l’UE, afin de présenter cette situation intolérable comme une fatalité dont on ne saurait vraiment échapper. Mais face à l’ignominie, dire qu’il n’y aurait rien ou presque à faire, serait une excuse inacceptable. Car, même dans le cadre actuel, des solutions il y en a et elles sont à portée de main. La déclaration commune UE-Turquie mise en application le 20 mars 2016, n’est plus respectée par les différentes parties. Déjà avant février 2020, l’accord ne fut jamais appliqué à la lettre, autant par les Européens qui n’ont pas fait les relocalisations promises ni respecté leurs engagements concernant la procédure d’intégration de la Turquie en UE, que par la Turquie qui, au lieu d’employer les 6 milliards qu’elle a reçus pour améliorer les conditions de vie des réfugiés sur son sol, s’est servi de cet argent pour construire un mur de 750 km dans sa frontière avec la Syrie, afin d’empêcher les réfugiés de passer. Cependant ce sont les récents développements de mars 2020 et notamment l’afflux organisé par les autorités turques de réfugiés à la frontière d’Evros qui ont sonné le glas de l’accord du 18 mars 2016. Dans la mesure où cet accord est devenu caduc, avec l’ouverture de frontières de la Turquie le 28 février dernier, il n’y plus aucune obligation officielle du gouvernement grec de continuer à imposer le confinement géographique dans les îles des demandeurs d’asile. Leur transfert sécurisé vers la péninsule pourrait s’effectuer à court terme vers des structures hôtelières de taille moyenne dont plusieurs vont rester fermées cet été. L’appel international Évacuez immédiatement les centres d’accueil – louez des logements touristiques vides et des maisons pour les réfugiés et les migrants ! qui a déjà récolté 11.500 signatures, détaille un tel projet. Ajoutons, que sa réalisation pourrait profiter aussi à la société locale, car elle créerait des postes de travail en boostant ainsi l’économie de régions qui souvent ne dépendent que du tourisme pour vivre.

    A court et à moyen terme, il faudrait qu’enfin les pays européens honorent leurs engagements concernant les relocalisations et se mettent à faciliter au lieu d’entraver le regroupement familial. Quelques timides transferts de mineurs ont été déjà faits vers l’Allemagne et le Luxembourg, mais le nombre d’enfants concernés est si petit que nous pouvons nous pouvons nous demander s’il ne s’agirait pas plutôt d’une tentative de se racheter une conscience à peu de frais. Car, sans un plan large et équitable de relocalisations, le transfert massif de requérants en Grèce continentale, risque de déplacer le problème des îles vers la péninsule, sans améliorer significativement les conditions de vie de réfugiés.

    Si les requérants qui ont déjà derrière eux l’expérience traumatisante de Moria et de Vathy, sont transférés à un endroit aussi désolé et isolé de tout que le camp de Nea Kavala (au nord de la Grèce) qui a été décrit comme un Enfer au Nord de la Grèce, nous ne faisons que déplacer géographiquement le problème. Toute la question est de savoir dans quelles conditions les requérants seront invités à vivre et dans quelles conditions les réfugiés seront transférés.

    Les solutions déjà mentionnées sont réalisables dans l’immédiat ; leur réalisation ne se heurte qu’au fait qu’elles impliquent une politique courageuse à contre-pied de la militarisation actuelle des frontières. C’est bien la volonté politique qui manque cruellement dans la mise en œuvre d’un plan d’urgence pour l’évacuation des hot-spots dans les îles. L’Europe-Forteresse ne saurait se montrer accueillante. Tant du côté grec que du côté européen la nécessité de créer des conditions dignes pour l’accueil de réfugiés n’entre nullement en ligne de compte.

    Car, même le financement d’un tel projet est déjà disponible. Début mars l’UE s’est engagé de donner à la Grèce 700 millions pour qu’elle gère la crise de réfugiés, dont 350 millions sont immédiatement disponibles. Or, comme l’a révélé Ylva Johansson pendant son intervention au comité LIBE du 2 avril dernier, les 350 millions déjà libérés doivent principalement servir pour assurer la continuation et l’élargissement du programme d’hébergement dans le continent et le fonctionnement des structures d’accueil continentales, tandis que 35 millions sont destinés à assurer le transfert des plus vulnérables dans des logements provisoires en chambres d’hôtel. Néanmoins la plus grande somme (220 millions) des 350 millions restant est destinée à financer de nouveaux centres de réception et d’identification dans les îles (les dits ‘multi-purpose centers’) qui vont fonctionner comme des centres semi-fermés où toute sortie sera règlementée par la police. Les 130 millions restant seront consacrés à financer le renforcement des contrôles – et des refoulements – à la frontière terrestres et maritime, avec augmentation des effectifs et équipement de la garde côtière, de Frontex, et des forces qui assurent l’étanchéité des frontières terrestres. Il aurait suffi de réorienter la somme destinée à financer la construction des centres semi-fermés dans les îles, et de la consacrer au transfert sécurisé au continent pour que l’installation des requérants et des réfugiés en hôtels et appartements devienne possible.

    Mais que faire pour stopper la multiplication exponentielle des refoulements à la frontière ? Si Frontex, comme Fabrice Leggeri le prétend, n’a aucune implication dans les opérations de refoulement, si ses agents n’y participent pas de près ou de loin, alors ces officiers doivent immédiatement exercer leur droit de retrait chaque fois qu’ils sont témoins d’un tel incident ; ils pouvaient même recevoir la directive de ne refuser d’appliquer tout ordre de refoulement, comme l’avait fait début mars le capitaine danois Jan Niegsch. Dans la mesure où non seulement les témoignages mais aussi des documents vidéo et des audio attestent l’existence de ces pratiques en tous points illégales, les instances européennes doivent mettre une condition sine qua non à la poursuite du financement de la Grèce pour l’accueil de migrants : la cessation immédiate de ces types de pratiques et l’ouverture sans délai d’une enquête indépendante sur les faits dénoncés. Si l’Europe ne le fait pas -il est fort à parier qu’elle n’en fera rien-, elle se rend entièrement responsable de ce qui se passe à nos frontières.

    Car,on le voit, l’UE persiste dans la politique de la restriction géographique qui oblige réfugiés et migrants à rester sur les îles pour y attendre la réponse définitive à leur demande, tandis qu’elle cautionne et finance la pratique illégale des refoulements violents à la frontière. Les intentions d’Ylva Johansson ont beau être sincères : une politique qui érige la Grèce en ‘bouclier de l’Europe’, ne saurait accueillir, mais au contraire repousser les arrivants, même au risque de leur vie.

    Quant au gouvernement grec, force est de constater que sa politique migratoire du va dans le sens opposé d’un large projet d’hébergement dans des structures touristiques hors emploi actuellement. Révélatrice des intentions du gouvernement actuel est la décision du ministre Mitarakis de fermer 55 à 60 structures hôtelières d’accueil parmi les 92 existantes d’ici fin 2020. Il s’agit de structures fonctionnant dans le continent qui offrent un niveau de vie largement supérieur à celui des camps. Or, le ministre invoque un argument économique qui ne tient pas la route un seul instant, pour justifier cette décision : pour lui, les structures hôtelières seraient trop coûteuses. Mais ce type de structure n’est pas financé par l’Etat grec mais par l’IOM, ou par l’UE, ou encore par d’autres organismes internationaux. La fermeture imminente des hôtels comme centres d’accueil a une visée autre qu’économique : il faudrait retrancher complètement les requérants et les réfugiés de la société grecque, en les obligeant à vivre dans des camps semi-fermés où les sorties seront limitées et contrôlées. Cette politique d’enfermement vise à faire sentir tant aux réfugiés qu’à la population locale que ceux-ci sont et doivent rester un corps étranger à la société grecque ; à cette fin il vaut mieux les exclure et les garder hors de vue.

    Qui plus est la fermeture de deux tiers de structures hôtelières actuelles ne pourra qu’aggraver encore plus le manque de places en Grèce continentale, rendant ainsi quasiment impossible la décongestion des îles. Sauf si on raisonne comme le Ministre : le seul moyen pour créer des places est de chasser les uns – en l’occurrence des familles de réfugiés reconnus- pour loger provisoirement les autres. La preuve, les mesures récentes de restrictions drastiques des droits aux allocations et à l’hébergement des réfugiés, reconnus comme tels, par le service de l’asile. Ceux-ci n’ont le droit de séjourner aux appartements loués par l’UNHCR dans le cadre du programme ESTIA, et aux structures d’accueil que pendant un mois (et non pas comme auparavant six) après l’obtention de leur titre, et ils ne recevront plus que pendant cette période très courte les aides alloués aux réfugiés qui leur permettraient de survivre pendant leur période d’adaptation, d’apprentissage de la langue, de formation etc. Depuis la fin du mois de mai, les autorités ont entrepris de mettre dans la rue 11.237 personnes, dont la grande majorité de réfugiés reconnus, afin de libérer des places pour la supposée imminente décongestion des îles. Au moins 10.000 autres connaîtront le même sort en juillet, car en ce moment le délai de grâce d’un mois aura expiré pour eux aussi. Ce qui veut dire que le gouvernement grec non seulement impose des conditions de vie inhumaines et de confinements prolongés aux résidants de hot-spots et aux détenus en PROKEKA (les CRA grecs), mais a entrepris à réduire les familles de réfugiés ayant obtenu la protection internationale en sans-abri, errant sans toit ni ressources dans les villes.

    La dissuasion par l’horreur

    De tout ce qui précède, nous pouvons aisément déduire que la stratégie du gouvernement grec, une stratégie soutenue par les instances européennes et mise en application en partie par des moyens que celles-ci mettent à la disposition de celui-là, consiste à rendre la vie invivable aux réfugiés et aux demandeurs d’asile vivant dans le pays. Qui plus est, dans le cadre de cette politique, la dérogation systématique aux règles du droit et notamment au principe de non-refoulement, instauré par la Convention de Genève est érigée en principe régulateur de la sécurisation des frontières. Le maintien de camps comme Moria à Lesbos et Vathy à Samos témoignent de la volonté de créer des lieux terrifiants d’une telle notoriété sinistre que l’évocation même de leurs noms puisse avoir un effet de dissuasion sur les candidats à l’exil. On ne saurait expliquer autrement la persistance de la restriction géographique de séjour dans les îles de dizaines de milliers de requérants dans des conditions abjectes.

    Nous savons que l’Europe déploie depuis plusieurs années en Méditerranée centrale la politique de dissuasion par la noyade, une stratégie qui a atteint son summum avec la criminalisation des ONG qui essaient de sauver les passagers en péril ; l’autre face de cette stratégie de la terreur se déploie à ma frontière sud-est, où l’Europe met en œuvre une autre forme de dissuasion, celle effectuée par l’horreur des hot-spots. Aux crimes contre l’humanité qui se perpétuent en toute impunité en Méditerranée centrale, entre la Libye et l’Europe, s’ajoutent d’autres crimes commis à la frontière grecque[56]. Car il s’agit bien de crimes : poursuivre des personnes fuyant les guerres et les conflits armés par des opérations de refoulement particulièrement violentes qui mettent en danger leurs vies est un crime. Obliger des personnes dont la plus grande majorité est vulnérable à vivoter dans des conditions si indignes et dégradantes en les privant de leurs droits, est un acte criminel. Ceux qui subissent de tels traitement n’en sortent pas indemnes : leur santé physique et mentale en est marquée. Il est impossible de méconnaître qu’un séjour – et qui plus est un séjour prolongé- dans de telles conditions est une expérience traumatisante en soi, même pour des personnes bien portantes, et à plus forte raison pour celles et ceux qui ont déjà subi des traumatismes divers : violences, persécutions, tortures, viols, naufrages, pour ne pas mentionner les traumas causés par des guerres et de conflits armés.

    Gisti, dans son rapport récent sur le hotspot de Samos, soulignait que loin « d’être des centres d’accueil et de prise en charge des personnes en fonction de leurs besoins, les hotspots grecs, à l’image de celui de Samos, sont en réalité des camps de détention, soustraits au regard de la société civile, qui pourraient n’avoir pour finalité que de dissuader et faire peur ». Dans son rapport de l’année dernière, le Conseil Danois pour les réfugiés (Danish Refugee Council) ne disait pas autre chose : « le système des hot spots est une forme de dissuasion »[57]. Que celle-ci se traduise par des conditions de vie inhumaines où des personnes vulnérables sont réduites à vivre comme des bêtes[58], peu importe, pourvu que cette horreur fonctionne comme un repoussoir. Néanmoins, aussi effrayant que puisse être l’épouvantail des hot-spots, il n’est pas sûr qu’il puisse vraiment remplir sa fonction de stopper les ‘flux’. Car les personnes qui prennent le risque d’une traversée si périlleuse ne le font pas de gaité de cœur, mais parce qu’ils n’ont pas d’autre issue, s’ils veulent préserver leur vie menacée par la guerre, les attentats et la faim tout en construisant un projet d’avenir.

    Quoi qu’il en soit, nous aurions tort de croire que tout cela n’est qu’une affaire grecque qui ne nous atteint pas toutes et tous, en tout cas pas dans l’immédiat. Car, la stratégie de « surveillance agressive » des frontières, de dissuasion par l’imposition de conditions de vie inhumaines et de dérogation au droit d’asile pour des raisons de « force majeure », est non seulement financée par l’UE, mais aussi proposée comme un nouveau modèle de politique migratoire pour le cadre européen commun de l’asile en cours d’élaboration. La preuve, la récente « Initiative visant à inclure une clause d’état d’urgence dans le Pacte européen pour les migrations et l’asile » lancée par la Grèce, la Bulgarie et Chypre.

    Il devient clair, je crois, que la stratégie du gouvernement grec s’inscrit dans le cadre d’une véritable guerre aux migrants que l’UE non seulement cautionne mais soutient activement, en octroyant les moyens financiers et les effectifs nécessaires à sa réalisation. Car, les appels répétés, par ailleurs tout à fait justifiés et nécessaires, de la commissaire Ylva Johansson[59] et de la commissaire au Conseil de l’Europe Dunja Mijatović[60] de respecter les droits des demandeurs d’asile et de migrants, ne servent finalement que comme moyen de se racheter une conscience, devant le fait que cette guerre menée contre les migrants à nos frontières est rendue possible par la présence entre autres des unités RABIT à Evros et des patrouilleurs et des avions de Frontex et de l’OTAN en mer Egée. La question à laquelle tout citoyen européen serait appelé en son âme et conscience à répondre, est la suivante : sommes-nous disposés à tolérer une telle politique qui instaure un état d’exception permanent pour les réfugiés ? Car, comment désigner autrement cette ‘situation de non-droit absolu’[61] dans laquelle la Grèce sous la pression et avec l’aide active de l’Europe maintient les demandeurs d’asile ? Sommes-nous disposés à la financer par nos impôts ?

    Car le choix de traiter une partie de la population comme des miasmes à repousser coûte que coûte ou à exclure et enfermer, « ne saurait laisser intacte notre société tout entière. Ce n’est pas une question d’humanisme, c’est une question qui touche aux fondements de notre vivre-ensemble : dans quel type de société voulons-nous vivre ? Dans une société qui non seulement laisse mourir mais qui fait mourir ceux et celles qui sont les plus vulnérables ? Serions-nous à l’abri dans un monde transformé en une énorme colonie pénitentiaire, même si le rôle qui nous y est réservé serait celui, relativement privilégié, de geôliers ? [62] » La commissaire aux droits de l’homme au Conseil de l’Europe, avait à juste titre souligné que les « refoulements et la violence aux frontières enfreignent les droits des réfugiés et des migrants comme ceux des citoyens des États européens. Lorsque la police ou d’autres forces de l’ordre peuvent agir impunément de façon illégale et violente, leur devoir de rendre des comptes est érodé et la protection des citoyens est compromise. L’impunité d’actes illégaux commis par la police est une négation du principe d’égalité en droit et en dignité de tous les citoyens... »[63]. A n’importe quel moment, nous pourrions nous aussi nous trouver du mauvais côté de la barrière.

    Il serait plus que temps de nous lever pour dire haut et fort :

    Pas en notre nom ! Not in our name !

    https://migration-control.info/?post_type=post&p=63932
    #guerre_aux_migrants #asile #migrations #réfugiés #Grèce #îles #Evros #frontières #hotspot #Lesbos #accord_UE-Turquie #Vathy #Samos #covid-19 #coronavirus #confinement #ESTIA #PROKEKA #rétention #détention_administrative #procédure_accélérée #asile #procédure_d'asile #EASO #Frontex #surveillance_des_frontières #violence #push-backs #refoulement #refoulements #décès #mourir_aux_frontières #morts #life_rafts #canots_de_survie #life-raft #Mer_Egée #Méditerranée #opération_Poséidon #Uckermark #Klidi #Serres

    ping @isskein

    • The new normality: Continuous push-backs of third country nationals on the Evros river

      The Greek Council for Refugees, ARSIS-Association for the Social Support of Youth and HumanRights360 publish this report containing 39 testimonies of people who attempted to enter Greece from the Evros border with Turkey, in order to draw the attention of the responsible authorities and public bodies to the frequent practice of push-backs that take place in violation of national, EU law and international law.

      The frequency and repeated nature of the testimonies that come to our attention by people in detention centres, under protective custody, and in reception and identification centres, constitutes evidence of the practice of pushbacks being used extensively and not decreasing, regardless of the silence and denial by the responsible public bodies and authorities, and despite reports and complaints denouncements that have come to light in the recent past.
      The testimonies that follow substantiate a continuous and uninterrupted use of the illegal practice of push-backs. They also reveal an even more alarming array of practices and patterns calling for further investigation; it is particularly alarming that the persons involved in implementing the practice of push-backs speak Greek, as well as other languages, while reportedly wearing either police or military clothing. In short, we observe that the practice of push-backs constitutes a particularly wide-spread practice, often employing violence in the process, leaving the State exposed and posing a threat for the rule of law in the country.
      Τhe organizations signing this report urge the competent authorities to investigate the incidents described, and to refrain from engaging in any similar action that violates Greek, EU law, and International law.

      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/1028-the-new-normality-continuous-push-backs-of-third-country-nationals-on-the-e

      Pour télécharger le #rapport:


      https://www.gcr.gr/en/news/press-releases-announcements/item/download/492_22e904e22458d13aa76e3dce82d4dd23

  • During and After Crisis : Evros Border Monitoring Report

    #HumanRights360 documents the recent developments in the European land border of Evros as a result of the ongoing policy of externalization and militarization of border security of the EU member States. The report analyses the current state of play, in conjunction with the constant amendments of the Greek legislation amid the discussions pertaining to the reform of the Common European Asylum System (CEAS) and the Return Directive.

    https://www.humanrights360.org/during-and-after-crisis-evros-border-monitoring-report

    #rapport #Evros #migrations #réfugiés #Grèce #frontières #2019 #militarisation_des_frontières #loi_sur_l'asile #Kleidi #Serres #covid-19 #coronavirus #Turquie #push-backs #refoulements #refoulement #push-back #statistiques #passages #chiffres #frontière_terrestre #murs #barrières_frontalières #Kastanies #violence #Komotini #enfermement #détention #rétention_administrative #Thiva #Fylakio #transferts

    –------
    Pour télécharger le rapport


    https://www.humanrights360.org/wp-content/uploads/2020/05/During-After-Crisis-Evros.pdf

    ping @luciebacon

  • How my dream of freedom died in Greece’s ‘holding pens’

    https://www.theguardian.com/world/2020/apr/05/how-my-dream-of-freedom-died-on-the-road-to-greeces-gulag

    Via Migreurop

    Dans un article du Guardian sont décrites les conditions de vie inhumaines et les violations systématiques de droits fondamentaux dans les centres fermés de Malakassa et Serres. Ces centres ont été créés récemment pour que ceux et celles qui sont arrivés après le 1 mars y sont détenus en vue d’une expulsion ou d’un renvoi forcé vers la Turquie. Il s’agit de véritables prisons à ciel ouvert, où le manque d’eau courante et l’absence totale de toute mesure d’hygiène créent les conditions idéales pour une propagation généralisée de coronavirus. Le camp à l’endroit dit Klidi de Serres, construit au milieu de nulle part sur le lit d’une rivière asséchée, expose les personnes qui y sont détenus même au risque d’inondation. Vu l’extrême urgence de la situation- en Grèce les derniers jours des très fortes pluies sont tombées

    #Covid-19 #Migration #Migrant #Balkans #Grèce #Camp #Malakassa #Serres #Klidi

  • #Grèce : un cas de #coronavirus dans un deuxième camp de migrants

    Le camp de #Malakasa, non loin d’#Athènes, a été placé en « confinement sanitaire total ».

    Un deuxième camp de migrants près d’Athènes a été placé dimanche 5 avril en quarantaine par les autorités grecques après un test au coronavirus qui s’est révélé positif pour un ressortissant afghan, a annoncé le ministère des Migrations.

    Le camp de Malakasa, à quelque 38 km au nord-est d’Athènes, a été placé « en confinement sanitaire total » pour 14 jours, avec interdiction d’y entrer ou d’en sortir.

    Selon le ministère, un Afghan âgé de 53 ans, souffrant déjà d’une maladie, s’est présenté de lui-même au dispensaire du camp après avoir ressenti des symptômes du Covid-19. Il a été emmené dans un hôpital d’Athènes où il a été testé positif au nouveau coronavirus. Sa famille a été placée à l’isolement et un examen complet du camp est en cours, a ajouté le ministère.

    Les camps de migrants qu’abrite la Grèce accueillent des dizaines de milliers de demandeurs d’asile dans des conditions précaires. Un foyer d’infection avait été repéré jeudi dans celui de Ritsona, à 80 km au nord d’Athènes, où 23 personnes ont jusqu’à présent été testées positives. Aucun membre du personnel du camp ne semblait touché par le virus, selon « le Monde ». « Nous alertons depuis des mois sur le manque d’hygiène dans les camps des îles. Face à cette épidémie, il devient urgent de transférer au plus vite les personnes les plus vulnérables vers le continent, vers des hébergements adaptés », estimait Boris Cheshirkov, porte-parole du Haut-Commissariat des Nations unies pour les réfugiés en Grèce, cité par le quotidien du soir.

    https://www.nouvelobs.com/coronavirus-de-wuhan/20200405.OBS27087/grece-un-cas-de-coronavirus-dans-un-deuxieme-camp-de-migrants.html
    #confinement #confinement_sanitaire_total #asile #migrations #réfugiés #covid-19 #camp_de_réfugiés

    Sur le camp de Ritsona :
    https://seenthis.net/messages/838008

    ping @luciebacon

    • Coronavirus : dans le camp de Malakasa en quarantaine, « personne ne manque de nourriture »

      Le camp de Malakasa, situé à 38 kilomètres au nord-est d’Athènes, a été placé en “confinement sanitaire total” pour 14 jours après qu’un cas de coronavirus y a été détecté. Les autorités grecques et l’OIM doivent assurer l’approvisionnement des résidents en nourriture et produits d’hygiène. Des tests sont également effectués.

      Plus personne n’entre ni ne sort du camp de Malakasa, en Grèce. Installé près d’un terrain militaire, à quelque 38 kilomètres au nord-est d’Athènes, ce camp – normalement ouvert – a été placé dimanche 5 avril en "confinement sanitaire total" pour 14 jours.

      Un migrant afghan y a été testé positif au Covid-19, a annoncé le ministère des Migrations. Cet homme de 53 ans, souffrant déjà d’une maladie, s’est présenté de lui-même au dispensaire du camp après avoir ressenti des symptômes du Covid-19.

      Il a été emmené dans un hôpital d’Athènes où il a été testé positif au nouveau coronavirus. Sa famille a été placée à l’isolement et un examen complet du camp est en cours, a ajouté le ministère.

      Interrogée par InfoMigrants, Christine Nikilaidou, responsable des informations publiques de l’Organisation internationale des migrations (OIM) – qui gère le camp – confirme que les résidents sont soumis à des tests. Si elle affirme ne pas savoir exactement combien de tests ont déjà été effectués, elle avance que l’entourage proche de l’Afghan malade a été testé en priorité.
      Distribution de nourriture et kits d’hygiène

      L’immense majorité des 1 611 personnes qui vivent dans le camp de Malakasa est originaire d’Afghanistan. En temps normal, les allées de graviers du camp grouillent d’enfants qui courent. Mais, ces jours-ci, le camp semble désert. La pluie tombe en permanence et l’OIM incite les familles à rester à l’intérieur de leur conteneur.

      Dans ces petits bâtiments posés sur le sol, les familles disposent de l’eau courante et de l’électricité mais les murs sont tachés d’humidité et le manque d’espace est criant.

      Jusqu’à la fermeture du camp, les résidents pouvaient aller faire leurs courses dans les commerces de la ville ou à Athènes. Toute sortie étant désormais interdite, l’OIM assure se coordonner avec les autorités grecques pour permettre des distributions de nourriture et de kits d’hygiène aux résidents du camp.

      "Ces distributions commenceront dans quelques jours. Les kits sont prêts mais nous attendons de recevoir les résultats des tests déjà effectués. Nous savons que, pour le moment, tout le monde a des provisions et personne ne manque de nourriture", affirme Christine Nikilaidou.

      Le camp de Malakasa est le deuxième camp de migrant en Grèce à être placé en quarantaine en raison du coronavirus. Un foyer d’infection avait déjà été repéré jeudi dans le camp de Ritsona, à 80 km au nord d’Athènes, où 23 personnes ont jusqu’à présent été testées positives.

      Comme de nombreux autres pays européens, la Grèce a imposé à sa population des mesures de confinement depuis le 23 mars. Les autorités grecques ont annoncé samedi qu’elles seraient étendues pour trois semaines, jusqu’au 27 avril.

      https://www.infomigrants.net/fr/post/23905/coronavirus-dans-le-camp-de-malakasa-en-quarantaine-personne-ne-manque
      https://seenthis.net/messages/839727

    • Greece Quarantines Second Migrant Camp After COVID-19 Case Confirmed

      Greece has quarantined a second migrant facility on its mainland after a 53-year-old man tested positive for the new coronavirus, the migration ministry said on Sunday.

      The Afghan man lives with his family at the Malakasa camp, just north of Athens, along with hundreds of asylum seekers. He has been transferred to a hospital in Athens and tests on his contacts will continue as authorities try to trace the route of the virus.

      Greece confirmed 62 new cases of COVID-19 later in the day, bringing the total in the country to 1,735 since its first case was reported in February. Seventy three people have died.

      Last week, the Ritsona camp in central Greece was sealed off after 20 tested positive for the new coronavirus. It was the first such facility in the country to be hit since the outbreak of the disease. [L8N2BQ1V9]

      Greece has been the main gateway into the European Union for people fleeing conflict in the Middle East and beyond. More than a million people reached its shores from Turkey in 2015-16.

      At least 110,000 people currently live in migrant facilities - 40,000 of them in overcrowded camps on five islands.

      “The number (of migrants and refugees) is very large, therefore it is a given, mathematically, that there will be confirmed cases,” Migration Minister Notis Mitarachi told Skai TV. “We have an emergency plan in place ... But it is more difficult to implement it on the islands.”

      No cases have been recorded in camps on Greek islands so far.

      The conservative government wants to replace all existing camps on islands with enclosed detention centers, but its plans have been met with resistance from local authorities and residents who want all facilities shut.

      To contain the spread of the virus the government also wants new arrivals isolated from the rest of the migrants but most islands have not designated areas of accommodation, ministry officials said. About 120 people who recently arrived on Lesbos have not yet found a shelter, according to sources.
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      Aid groups have urged Greece to evacuate the camps, warning the risk of the fast-moving virus spreading among people living in squalid conditions is high and containing an outbreak in such settings would be “impossible”.

      The camp in Malakasa, 40 km (25 miles) northeast of Athens, will be put into quarantine for two weeks, the ministry said on Sunday, adding that police guarding the site would be reinforced to ensure the restrictions are implemented.

      A separate, enclosed facility started operating last month for migrants who arrived after March 1, the ministry said.

      Greece has imposed a nationwide lockdown and banned arrivals from non-EU countries as well as Germany, Britain, Italy and Spain. The measures have hit its economy which is relying on tourism for a recovery after a decade-long debt crisis.

      https://www.nytimes.com/reuters/2020/04/05/world/europe/05reuters-health-coronavirus-greece-camp.html?searchResultPosition=5

    • COVID-19 : Διαμαρτυρία μεταναστών στη Μαλακάσα

      Στο προσφυγικό κέντρο της Μαλακάσας μετανάστες διαμαρτύρηθηκαν και ζητούν να υποβληθούν σε τεστ για τον COVID-19. Η κυβέρνηση αποφάσισε τον υγειονομικό αποκλεισμό του κέντρου για 14 ημέρες, αφού ένας 53χρονος Αγφανός βρέθηκε θετικός στον ιό. Στο μεταξύ, ο Εθνικός Οργανισμός Δημόσιας Υγείας συνεχίζει την ιχνηλάτηση με στόχο τον εντοπισμό άλλων κρουσμάτων εντός της δομής φιλοξενίας, ενώ ειδικά συνεργεία απολυμαίνουν τους κοινόχρηστους χώρους.

      Οι υγιείς μετανάστες και πρόσφυγες διαμένουν σε χώρο πλήρως απομονωμένο, ενώ η αστυνομία έχει ενισχύσει την παρουσία της στην περίμετρο του χώρου φιλοξενίας. Μετά την Ριτσώνα, η παλιά δομή της Μαλακάσας είναι το δεύτερο προσφυγικό κέντρο που μπαίνει σε καραντίνα με στόχο να περιοριστεί η εξάπλωσης της πανδημίας.


      https://gr.euronews.com/2020/04/06/covid-19-diamartyria-metanaston-sti-maklakasa

      –-> Commentaire de Vicky Skoumbi reçu via mail via la mailing-list Migreurop :

      Aujourd’hui, c’était le deuxième jour d’une quarantaine de quatorze jours pour l’ancien camp de réception de Malakasa – celui qui se trouve juste à côté du nouveau camp fermé destinés à ceux qui sont arrivés après le 1 mars. A cet ancien camp géré par l’OIM mis sous quarantaine suite au recensement d’un cas de coronavirus -voir mail précédent- les migrants ont organisé une protestation juste derrière les barbelés pour réclamer un dépistage généralisé dans le camp –voir la vidéo sur https://gr.euronews.com/2020/04/06/covid-19-diamartyria-metanaston-sti-maklakasa

      Jusqu’à maintenant les seules personnes dépistées ont été la famille du malade et quelques contacts. 1.611 personnes habitent dans le camp, la plupart en containers de six personnes, mais il y a 133 personnes qui sont logés dans des espaces communs et 116 dans des abris de fortunes- voir photo.

      Pour les personnes qui ne sont pas logés en containers, il y 30 toilettes chimiques et 16 douches, tandis que chaque container dispose de sa propre toilette et d’une douche.

      D’après le quotidien grec Journal de Rédacteurs (Efimerida tôn Syntaktôn : https://www.efsyn.gr/ellada/ygeia/237999_poly-liga-kai-poly-arga-ta-metra-kai-sti-malakasa) les autorités ont fait trop peu et trop tard. Trois jours avant que le malade de 53 ne soit transféré à Athènes, un cas suspect d’une femme enceinte présentant tous les symptômes n’a pas été dépisté et aucune mesure n’a été prise.

    • How my dream of freedom died in Greece’s ‘holding pens’

      Ahmed fled Syria only to end up in the Malakasa refugee camp, where more than 1,000 people are being denied basic human rights.

      When Ahmed landed in darkness on the Greek island of Lesbos he was convinced that the road ahead could not be as hard as the one he had just travelled.

      But, instead of the volunteers and blankets that have met hundreds of thousands of asylum seekers before him, he was greeted by a jeering crowd of locals and had to be rescued by police. “It was the worst feeling I’ve ever had,” he said. “I felt that my dream of Greece was a false one.”

      Ahmed was among the more than 2,000 refugees who have arrived in Greece since the beginning of March, when the country suspended all access to asylum.

      Their experiences, from seeing their children drowned at sea to being attacked by angry islanders, separated from family and dumped in remote detention camps, offer a month-long, nightmarish vision of what Europe would look like with no asylum rights.

      Greece shut off access after Turkey opened its borders in February and encouraged refugees to cross in a bid to pressure the European Union for more aid money in support of its military involvement against Russia and the Assad regime over the Syrian enclave of Idlib.

      Born in Syria’s capital, Damascus, Ahmed fled his home to escape military service with the regime. The 30-year-old told his story from inside the Malakasa detention camp in central Greece.

      He spent the past four years in Turkey, where he met and married his wife, Hanin. Their precarious life and their wedding were documented in a Guardian photo essay last year.

      But the couple were unable to make ends meet and Hanin, by now pregnant, made the journey by dinghy to Lesbos six months ago, with Ahmed promising to follow. She arrived safely and gave birth to their daughter, who is now two months old. Ahmed has yet to meet his child.

      His first week on Lesbos was spent camping in a fenced-off area of the port city of Mytilene before he was shipped off, along with 450 other new arrivals, on a Greek navy vessel.

      Amelia Cooper, a case worker at the Lesbos Legal Centre who spoke to some of those detained at the port, said: “The suspension of the right to seek asylum was followed by deliberate attempts to isolate new arrivals and prevent their access to lawyers, journalists and members of the European parliament.”

      In the middle of last month, Greek authorities began work on two sites, one in Malakasa, where 1,340 people have been sent, and another near the border with Bulgaria in Serres, which is housing 600 people. A video of Malakasa shows white tents behind a chainlink fence topped with razor wire. A Greek contractor who posted the video on 28 March, with construction work still going on, acts as narrator: “The money is flowing. These illegal strays are good business.”

      “These sites are fundamentally different,” said Belkis Wille from Human Rights Watch. “They are open-air prisons, filled with people who have been denied their basic rights and are being held as de facto detainees without any legal framework.”

      Most people in Malakasa and Serres are thought to be holding a deportation order from the Greek police. Refugees say they were forced to sign this Greek-language document despite being unable to read it. Under European law everyone is entitled to an individual assessment of their claim for protection but these documents declare that the accused must be deported for illegally entering Greece.

      For the past four years, the larger flow of people across the eastern Aegean has been reduced by an arrangement between the EU and Ankara that saw Turkey get €6bn in aid in return for restricting crossings. Under this deal, Greece has returned 2,000 new arrivals. Since early March, Turkey has stated that even this deal is dead.

      Ahmed said the uncertainty of the situation was unbearable: “I lived through four years of war in Syria. This month is worse than those four years: can you imagine?”

      Conditions at the Serres site, where tents are packed tightly together behind fences on a dry riverbed, are even worse than at Malakasa. Detainees say they have no electricity to even charge a phone. The Serres police union said in a statement that the site was “totally unsuitable”.

      Spyros Leonidas, mayor of the nearest village, Promaxonas, said the camp was “unfit for animals, let alone people”. “There are newborns and pregnant women among the people. And there is no hot water,” he said.

      The fate of those in detention remains unclear.

      The Greek government has said that the suspension of asylum will be lifted , and the EU home affairs commissioner, Ylva Johansson, said last week she had received assurances that those who arrived in March would be able to apply for asylum.

      However, Greece’s migration and asylum minister, Notis Mitarakis, subsequently said that people who had been issued with deportation orders would not be granted an asylum process.

      None of the detainees reached by the Observer had been notified of any change in their access to asylum. The Greek asylum service is closed until 10 April 10 because of the Covid-19 crisis.

      Vassilis Papadopoulos, a lawyer and former senior official at the migration ministry under the previous government, said that Ahmed and the other detainees were “being made an example of” to show there was a tough new policy.

      “What happened in March brought the numbers [of crossings] down so they’re going to keep doing it, even if they say something different,” he added.

      https://www.theguardian.com/world/2020/apr/05/how-my-dream-of-freedom-died-on-the-road-to-greeces-gulag

      –-> commentaire de Vicky Skoumbi reçu via mail, le 06.04.2020:

      Dans un article du Guardian sont décrites les conditions de vie inhumaines et les violations systématiques de droits fondamentaux dans les centres fermés de Malakassa et Serres. Ces centres ont été créés récemment pour que ceux et celles qui sont arrivés après le 1 mars y sont détenus en vue d’une expulsion ou d’un renvoi forcé vers la Turquie. Il s’agit de véritables prisons à ciel ouvert, où le manque d’eau courante et l’absence totale de toute mesure d’hygiène créent les conditions idéales pour une propagation généralisée de coronavirus. Le camp à l’endroit dit Klidi de Serres, construit au milieu de nulle part sur le lit d’une rivière asséchée, expose les personnes qui y sont détenus même au risque d’inondation. Vu l’extrême urgence de la situation- en Grèce les derniers jours des très fortes pluies sont tombées- j’aimerais vous rappeler l’appel à fermer immédiatement ce camp (en grec) et dont la traduction en français se trouve en PJ. Merci de partager.

      #Malakassa #Serres #Klidi

    • Coronavirus en Grèce : deux camps de réfugiés en quarantaine

      Ritsona et Malakasa, deux camps de réfugiés de la région d’Athènes, ont été mis en quarantaine après le dépistage de plusieurs cas de coronavirus. Les ONG craignent la propagation du virus dans des lieux pas du tout adaptés aux règles d’hygiène ni de distanciation sociale.

      « Les paniers repas distribués ne sont pas suffisants et ne couvrent pas les besoins nutritionnels de la population », explique Parwana, une réfugiée afghane, dans une vidéo publiée sur le groupe facebook (https://www.facebook.com/watch/?ref=external&v=969395506808816) d’une initiative solidaire. « Nous manquons également de médicaments, alors que des personnes vulnérables qui ont besoin de suivre des traitements résident dans le camp. »

      Depuis jeudi, le camp de Ritsona, au nord-est d’Athènes, où vit cette adolescente, a été mis en quarantaine après le dépistage de 23 cas de coronavirus parmi les demandeurs d’asile. Les tests ont été effectués après qu’une résidente du camp, une Camerounaise de 22 ans, a été détectée positive au lendemain de son accouchement le 28 mars dans un hôpital athénien. Les 23 demandeurs d’asile atteints du virus ont été mis à l’isolement pour éviter la contamination des autres résidents.

      L’accès au camp est désormais interdit, sauf au personnel de l’agence sanitaire publique et de l’Organisation International des migrations (OIM) en charge du camp. Les demandeurs d’asile ne peuvent plus sortir et reçoivent des paniers repas et des objets de première nécessité distribués par l’OIM, alors qu’en temps normal ils reçoivent une assistance financière du Haut-Commissariat aux Réfugiés (UNHCR) et peuvent aller faire leurs courses à la ville la plus proche, qui se trouve à huit kilomètres...

      À Ritsona, les conditions de vie ne sont pas les plus mauvaises parmi les 30 camps établis en Grèce continentale : quelque 2700 personnes logent dans 195 conteneurs et 222 dans des petits appartements qui disposent d’une cuisine, d’une douche et de toilettes. La quarantaine, l’absence d’activités, les paniers repas peu fournis, le manque de médicaments, les difficultés à voir un médecin et le report des rendez-vous pour la demande d’asile rendent toutefois le quotidien des demandeurs d’asile de plus en plus éprouvant.

      Malakasa, « une bombe à retardement »

      Dimanche, un deuxième camp a été mis en quarantaine, celui de Malakasa à 38 km au nord-est d’Athènes. Un Afghan de 53 ans qui s’était présenté de lui-même dans la clinique du camp, toussant et avec de la fièvre, a été diagnostiqué positif au coronavirus après avoir été transporté dans un hôpital athénien.

      La famille du réfugié a été mise à l’isolement et le camp bouclé par des renforts de police. Selon Human Rights Watch (HRW), les conditions sont déplorables dans ce centre où ont notamment été transférées toutes les personnes arrivées après le 1er mars sur les îles grecques en face de la Turquie. La Grèce avait alors suspendu le droit d’asile face à la menace d’Ankara de laisser passer les réfugiés en Europe. D’après HRW, qui a recueilli plusieurs témoignages, dans chaque tente vivent jusqu’à dix demandeurs d’asile. Les mesures de distanciation sociale et les gestes barrières ne peuvent donc pas être appliqués. Dans un communiqué du 26 mars, le syndicat de la police d’Athènes et de l’Attique dénonce aussi le manque d’hygiène à Malakasa. « C’est une bombe à retardement, tous les moyens sanitaires de base manquent… »

      https://www.courrierdesbalkans.fr/deux-camps-de-refugies-en-quarantaine-en-Grece

    • Via Migreurop

      Il me semble qu’en ce qui concerne le camp de Malakasa, il y a une erreur due au fait qu’actuellement à Malakasa il y a deux camps, un camp fermé destiné à ceux qui sont arrivés après le 1 mars et où en effet les conditions sont terribles, et un camp plus ancien, le camp ouvert géré par l’OIM où la grande majorité est dans de containers pour 6 personnes avec toilette et douche. Comme je vous ai écrit dans un mail précédent
      1.611 personnes habitent dans le camp, la plupart en containers de six personnes, mais il y a 133 personnes qui sont logés dans des espaces communs et 116 dans des abris de fortunes
      Et c’est bien ce camp ouvert qui a été mis en quarantaine, il ne faudrait pas confondre les deux camps
      Merci de transmettre

    • Il me semble qu’en ce qui concerne le camp de Malakasa, il y a une erreur due au fait qu’actuellement à Malakasa il y a deux camps, un camp fermé destiné à ceux qui sont arrivés après le 1 mars et où en effet les conditions sont terribles, et un camp plus ancien, le camp ouvert géré par l’#OIM où la grande majorité est dans de #containers pour 6 personnes avec toilette et douche.
      1’611 personnes habitent dans le camp, la plupart en containers de six personnes, mais il y a 133 personnes qui sont logés dans des espaces communs et 116 dans des abris de fortunes
      Et c’est bien ce camp ouvert qui a été mis en quarantaine, il ne faudrait pas confondre les deux camps

      –-> Commentaire de Vicky Skoumbi, reçu via la mailing-list Migreurop, le 08.04.2020

    • Greece’s Malakasa migrant camp: What life is like during the coronavirus lockdown

      On April 5, the Malakasa camp near Athens was placed in “full sanitary isolation” for 14 days, after a migrant tested positive for the novel coronavirus. Greek authorities and the UN migration agency are providing the camp’s residents with both food and hygiene products. But residents told us: “We feel like we’ve been completely abandoned.”

      For the next 14 days, no one is allowed to enter or leave Greece’s Malakasa migrant camp. Located on a vast military field, 38 kilometers northeast of Athens, the camp has been placed in “full sanitary isolation” after an Afghan migrant living there tested positive for COVID-19, Greece’s ministry of migration announced earlier this week.

      The 53-year-old man, who was already suffering from another illness, visited the camp clinic after experiencing COVID-19 symptoms. The man was then taken to a hospital in Athens where he tested positive for the coronavirus. The ministry said that his family had been placed in quarantine, and that officials were screening the camp to get a full overview of the gravity of the situation.

      Christine Nikilaidou, a spokewoman for the UN migration agency (IOM), told InfoMigrants that all camp residents were currently being tested. She could not specify exactly how many tests had been carried out so far, but she said that the people who had been in contact with the ill Afghan had been given priority.

      ‘Feel completely abandoned’

      The vast majority of the 1,611 people living in the Malakasa camp are from Afghanistan. Under normal circumstances, the gravel paths that run through the camp are full of children playing with each other. But after the lockdown went into force, the camp feels totally deserted. For days, rain has been pouring down non-stop, and the IOM has told all camp residents to stay inside.

      Although residents live in fitted shipping containers that contain both running water and electricity, the space inside them is cramped and the walls are often stained with mold from the humidity.

      Souad* lives with her husband and three children in one of the containers. On Sunday, she abruptly woke to the sound of loudspeakers. “I went to the window and saw police cars driving through the camp and a voice announcing that we had been placed in lockdown and wouldn’t be allowed to go out anymore,” she told InfoMigrants.

      Souad, who comes from a Middle Eastern country she did not want to identify, said that aside from that, the camp’s residents have not received much information about the situation. “We are completely isolated and no one has told us what we should do, we feel like we’ve been completely abandoned. My husband has health problems related to high blood pressure and diabetes, and we don’t have enough medication,” she said.

      Food distribution and hygiene kits

      Prior to the lockdown, camp residents would either do their grocery shopping in Malakasa village, or in Athens. But after the camp went into lockdown and all outings were banned, IOM and Greek authorities are in charge of providing the camp’s residents with both food and hygiene products.

      “These distributions will start in a few days. The kits are ready but we are waiting to receive the results of the tests that we’ve already carried out. We know that for the moment, everyone has provisions, and no one is running out of food,” Nikilaidou said.

      Souad confirmed that her family has enough food to last them for at least another few days, but said their biggest concern is the lack of access to medication and protective gear, such as gloves and masks. “They don’t let us out and they don’t provide us with what we need to protect ourselves from COVID-19. All they did was give each family a bottle that contained a cleaning liquid, that’s all I have with my husband and my three children to deal with the virus,” she said.

      Malakasa is the second migrant camp in Greece to have been placed in full lockdown due to the coronavirus. Last Thursday, an outbreak was detected in the Ritsona camp, 80 kilometers north of Athens, where 23 people have tested positive so far.

      Like many other European countries, Greece went into lockdown on March 23. On Saturday, April 4, the government announced the lockdown would be extended for another three weeks, until April 27.

      https://www.infomigrants.net/en/post/24010/greece-s-malakasa-migrant-camp-what-life-is-like-during-the-coronaviru

  • #Biorégions_2050

    Biorégions 2050 est le résultat d’un atelier de #prospective sur l’#Île-de-France #post-effondrement, téléchargeable gratuitement. Nous sommes presque en 2050. L’Île-de-France a subi une #fragmentation forcée résultant du #Grand_Effondrement. À partir de 2019, les effets du #dérèglement_climatique sont devenus de plus en plus perceptibles, obligeant une partie de la population francilienne – la plus aisée – à quitter la région. En raison d’une #crise_économique liée à l’interruption erratique des flux de la #mondialisation, la carte des activités a dû être redessinée et la capacité d’autoproduction renforcée. Le tissu des bassins de vie s’est redéployé autour de localités plutôt rurales et s’est profondément relocalisé. La vie quotidienne a retrouvé une forme de #convivialité de #proximité, à base d’#entraide et de #solidarité. Les #hypermarchés ont disparu, démontés pour récupérer le #fer et l’#aluminium. Certains #centres_commerciaux ont été transformés en #serres de #pépinières. Le #périphérique a été couvert de verdure et transpercé de radiales cyclistes et pédestres qui conduisent aux #biorégions limitrophes. La fin des #moteurs_thermiques, liée à la pénurie de #pétrole et à des décisions politiques, a induit une atmosphère nouvelle. L’#ozone_atmosphérique et les #microparticules ne polluent plus l’#air. Les #cyclistes peuvent pédaler sans s’étouffer. Mais les épisodes de #chaleurs_extrêmes interdisent encore la circulation sur de grandes distances par temps estival.


    http://fr.forumviesmobiles.org/publication/2019/03/27/bioregions-2050-12915
    #pollution #climat #changement_climatique #collapsologie #effondrement #scénario

    Le pdf :
    http://fr.forumviesmobiles.org/sites/default/files/editor/bioregions_2050.pdf

  • Serres chauffées dans le bio : la FNSEA mise en minorité
    https://www.mediapart.fr/journal/france/150719/serres-chauffees-dans-le-bio-la-fnsea-mise-en-minorite

    Le 11 juillet, la réunion du Comité national de l’agriculture biologique (CNAB) de l’Institut national de l’origine et de la qualité (Inao) a mis en minorité la FNSEA sur le dossier des serres chauffées. Le ministre Didier Guillaume a lui-même défendu un compromis condamné par le syndicat majoritaire.

    #France #Serres_chauffées,_FNSEA,_INAO,_CNAB,_Didier_Guillaume

  • Les nocives #aurores_boréales de l’#agriculture

    La #Bretagne n’est pas réputée pour sa #chaleur et son #ensoleillement mais elle est pourtant la première région productrice de #tomates en #France, le légume-fruit le plus consommé des français. Les grands exploitants de tomates cultivent principalement #hors-sol, sous #serres chauffées et compensent le peu d’ensoleillement avec un éclairage artificiel. C’est de ces serres que proviennent ces #lumières nocturnes fantastiques, qui ne sont évidemment pas sans impact pour l’#environnement.

    https://www.liberation.fr/france/2019/06/02/les-nocives-aurores-boreales-de-l-agriculture_1730627
    #pollution_lumineuse

  • Fermes-usines : Greenpeace et la Confédération paysanne n’ont pas la même définition
    https://reporterre.net/Greenpeace-denombre-plus-de-4-400-fermes-usines-en-France

    1 % des fermes françaises produisent plus de la moitié des porcs, poulets et œufs produits en France. C’est le constat dressé par Greenpeace France, qui a rendu public lundi 26 novembre une carte interactive des fermes-usines du pays.

    L’ONG s’est basée sur les données du ministère de la Transition écologique et solidaire, et relève que 4.413 fermes-usines sont réparties dans 2.340 communes françaises, comprenant les Outre-mer. On retrouve des fermes-usines dans 90 % des départements français avec des régions plus ou moins impactées, la Bretagne étant la plus concernée. Par ailleurs, Greenpeace a calculé que 1.470 des 4.413 fermes usines identifiées ont touché 48 millions d’euros de la Politique agricole commune pour les derniers paiements.[...]

    Pour le syndicat, qui avait publié une carte similaire en 2015, « l’industrialisation des fermes ne peut se résumer au seul critère environnemental ICPE (Installations Classées pour la Protection de l’Environnement) » retenu par l’ONG. « Une ferme importante en nombre d’animaux est classée ICPE mais n’est pas pour autant une ferme-usine. A l’inverse, ce critère ignore les #fermes-usines en végétal, comme des #serres_géantes de tomates », a précisé la Confédération paysanne, en parlant d’une « caricature regrettable » destinée à « faire le buzz ».

    oui, on parle de fermes-usines pour l’#élevage #cartographie

  • 1. #Andalousie : les fruits de la colère (Rediffusion)

    Ils sont plus de 100 000 venus de toute l’Afrique à vivre dans des conditions misérables autour des serres productives de fruits et de légumes à #Almeria en #Espagne. Mal payés, maltraités au nom de la rentabilité économique d’un modèle agricole européen qui s’essouffle. Reportage à Almeria d’Alice Milot.

    http://www.rfi.fr/emission/20160820-1-andalousie-fruits-legumes-rentabilite-economique-conditions-miserable
    #agriculture #exploitation #travail

    • L’autre soir, reportage sur le ramassage des melons en Charente. Je souris intérieurement, car les premières secondes ne montrent que des noirs et des maghrébins en train de travailler. Je me dis « c’est en Espagne ? », et non, je vois un texte à l’écran indiquant que c’est une exploitation charentaise (ou à côté, je ne sais plus précisément). Et enfin, on a le responsable de l’exploitation qui parle, il est bien français, pas espagnol. Le reportage était centré sur le fait que l’arrière saison est difficile pour ces exploitants, car les consommateurs considèrent le melon comme un produit de début de saison et tout et tout...

      Bref, visiblement, même pour ramasser le melon, et comme en Espagne, les étrangers « volent » le travail aux vrais français laïcs (la laïcité, c’est aussi d’avoir la bonne couleur de peau... on leur montre l’exemple, et même ça ils ne sont pas capables de le respecter). J’espère au moins que les agents de l’état viennent vérifier dans les exploitations qu’il n’y a pas de vêtements ostentatoires (faute de vérifier qu’ils sont bien déclarés, payés au dessus du salaire minimum et dans le respect de ce qu’il reste du code du travail...).

      Désolé pour la grosse louche de cynisme... Les informations de ce mois d’août sont consternantes... :-/

    • #El_Ejido, la loi du profit

      Espagne : Almeria, province côtière de l’Andalousie et ancien désert transformé en 20 ans en la plus importante concentration de cultures sous serres au monde, le potager artificiel de l’Europe été comme hiver.
      En février 2000, à El Ejido, son chef-lieu, a eu lieu un véritable #pogrom : l’assassinat d’une Espagnole et l’arrestation de son meurtrier marocain vont mettre le feu aux poudres. La population espagnole a fait la chasse à la communauté immigrée, à ses journaliers clandestins ou en voie de régularisation qui hantent les #serres...
      Six ans après, rien n’a changé. Ou bien si, Équatoriens, Colombiens, Lithuaniens, Roumains et, nouveauté, des Russes ont rejoint Marocains, Maliens, Sénégalais et l’internationale de la misère. Ils fuient la #misère de leurs contrées et viennent s’agglutiner par dizaines de milliers dans cet « Eldorado » que représente El Ejido et ses 17 000 hectares de terre bâchée. Mais le rêve est rarement au rendez-vous, l’eldorado européen se transforme très vite en enfer.


      http://www.film-documentaire.fr/4DACTION/w_fiche_film/16975_1
      #film_documentaire #film

    • La #santé des migrants internationaux dans la province d’#Almería : indicateur de différenciations et d’inégalités.

      Cet article vise à interpréter les inégalités de la santé à travers l’étude des migrants internationaux installés dans la province d’Almería (Andalousie, Espagne). Basé sur l’#agriculture_intensive sous serre et les services (tourisme), le système économique régional produit et juxtapose des modes migratoires hétérogènes, voire opposés, intrinsèquement liés aux dynamiques de la #mondialisation économique contemporaine (migrations socio-professionnelles (il)légales, migrations de retraites, etc.). La santé des migrants est utilisée ici comme un indicateur révélateur des processus de #différenciation du monde contemporain : les frontières politico-administratives se mobilisent, se déplacent et se réorganisent dans le lieu d’accueil. Au différentiel socio-économique des pays d’origine s’ajoute l’inégal rôle joué par les frontières politico-administratives. Ce travail repose sur une enquête menée auprès des quatre principaux groupes représentés (464 enquêtés) dans la province (Marocains, Roumains, Britanniques et un groupe agrégé provenant d’Afrique de l’Ouest). L’observation participante réalisée en collaboration avec la Croix-Rouge d’Almería a permis de dépasser le décalage observé entre les populations officielles et réelles (Forbes & Wainwright, 2001). L’examen des données empiriques, sanitaires et épidémiologiques ainsi que l’analyse des politiques sanitaires publiques (nationales, régionales, locales) indiquent la reconstitution locale de la mosaïque mondiale des états. Dès lors, les paysages de santé dans lesquels évoluent localement les #migrants dans la province d’Almería offre un miroir des inégalités socio-économiques globales.

      https://journals.openedition.org/espacepolitique/3526
      #migrations

  • Une mer de #plastique en #Espagne
    http://www.laboiteverte.fr/une-mer-de-plastique-en-espagne

    La comarque de Poniente almeriense, dans la province d’#Almería, en Espagne est surnommée « La mer de plastique ».
    Ce nom vient du fait que la région vit essentiellement de l’agriculturre intensive et qu’elle est presque complètement recouverte de serres en bâches plastiques.

    Le photographe aérien allemand Bernhard Lang a survolé et photographié la région pour dévoiler avec ces images l’étendue des serres.
    Vous pouvez voir le reste des photos sur son site ou ici.

    Et donc ici
    https://www.behance.net/gallery/22272681/AERIAL-VIEWS-MAR-DEL-PLASTICO


    #agriculture_industrielle #serres #paysage

  • L’acculture en Serres, un excellent article sur le numérisme | Forum Démocratique
    http://forumdemocratique.fr/2013/11/08/lacculture-en-serres-un-excellent-article-sur-le-numerisme

    Quand l’optimisme numérique devient mortifère

    Depuis son grand discours, prononcé le 1er mars 2011 devant l’Académie française, et son essai Petite Poucette publié en 2012, la pensée paradoxale de Michel Serres, si bienveillante à l’égard des nouvelles générations et si confiante dans les nouvelles technologies, est devenue pour les activistes du numérique à l’école et les grands groupes technologiques, la caution intellectuelle et morale idéale pour précipiter les élèves dans le tout-numérique, présenté comme le levier magique de la refondation de l’école.

    Depuis lors, Michel Serres est omniprésent dans les médias et bien peu osent porter la contradiction à cette figure de la sagesse philosophique, âgée de quatre-vingt deux ans mais débordant encore d’un enthousiasme juvénile.

    Pour Michel Serres, la révolution numérique représente bien plus qu’une simple évolution technique : s’inscrivant dans le prolongement d’autres révolutions du XXe siècle – démographiques, économiques, médicales, épistémologiques – la révolution numérique serait avant tout une aventure humaine. Pour incarner sa pensée d’un « nouvel humain », Michel Serres a choisi une figure proche de nous, celle de « petite Poucette », dont il nous fait, en grand-père attendri, dans une langue qui se veut simple et accessible, le portrait naïf.

    Or il est du devoir de ceux qui croient encore dans l’école républicaine de ne pas se laisser intimider par les bons sentiments et la fausse ingénuité de Michel Serres et de lui porter, autant que nous le pouvons, la contradiction. Au nom d’une certaine idée de la transmission et de la mission de l’école républicaine.

    Car, disons-le, le modèle d’acculture que propose Michel Serres est de nature à désespérer les enseignants.

    N’ayons donc pas peur de montrer en quoi son optimisme numérique constitue – à bien y regarder – moins une audace qu’un renoncement....

    L’ #acculture en #Serres, un excellent article sur le #numérisme

  • Le triomphe de la technique sans culture et de la rationalité du rendement... Un monde suffocant, clinique, productiviste désincarné, et déshumanisé !
    Cela donne une résonance vide et glaciale dans notre rapport à ce que nous produisons.
    Le film est suffocant, esthétisant jusqu’à l’excès mais le résultat est fascinant comme pris dans une spirale ou ce que l’on nous donne à voir n’est rien d’autre que le monde tel qui se construit et s’impose à tous ?

    Notre pain quotidien(2007) un film documentaire de Nikolaus Geyrhalter
    http://www.dailymotion.com/video/xfuup9_notre-pain-quotidien-1-5_news?search_algo=2

    Une analyse du documentaire par Cédric Mal
    http://cinemadocumentaire.wordpress.com/2011/02/10/notre-pain-quotidien-nikolaus-geyrhalter

    La #production #alimentaire #industrielle, cela va de soi dans nos #sociétés #modernes, connaît ce qu’il se fait de mieux en matière technologique. Question de #rentabilité #économique. Nikolaus Geyrhalter s’équipe aussi de ce qu’il se fait de mieux de matériel numérique Haute Définition pour dépeindre en de puissants tableaux ces lieux étranges, beaux et horribles à la fois, dans lesquels se fabrique chaque jour #notre_pain _quotidien. Des #élevages de poulets aux #abattoirs, des #serres aux #usines de #conditionnement de #fruits, c’est l’intégralité du #processus de #transformation #alimentaire qui défile dans ce #film dénué de commentaires et d’interviews.
    A l’extérieur, le grand angle systématique laisse le champ libre à l’horizon pour composer des #plans terriblement ouverts. Le #cinéaste filme des #paysages monumentaux qui s’étendent à perte de vue et de nuit. Les usines, vastes et #futuristes ensembles lumineux, semblent #irréelles. On pénètre souvent dans ces endroits en plongée, et les choses n’en deviennent que plus indiscernables. Les #vaches ne ressemblent à des vaches et les #cochons à des cochons qu’après un temps de minutieuse observation. Un temps où nos yeux se promènent, incertains, à la recherche d’éléments de compréhension et de discernement. La longueur des plans-séquences laisse généralement advenir les frémissements d’un mouvement qui participe à l’éclaircissement de ces énigmes visuelles. Ce suspense figuratif, soutenu par la beauté des lumières et la #picturalité de certaines #images, agit comme un principe #esthétique maintenant l’intérêt tout au long du film.

    http://www.dailymotion.com/video/xfv0oz_notre-p-in-quotidien-2-5_travel

    Formellement, la #composition #plastique enferme souvent le spectateur dans une effroyable sensation claustrophobique. Les lieux, couloirs de la mort #animale ou allées d’#arbres fruitiers, sont représentés au travers de #cadres #cloisonnés qui focalisent le regard. Un point de fuite central et une profonde perspective structurent les images bordées de #chair ou de #nature d’où on ne peut s’échapper. Le parti pris formel opère également en plein champ, par exemple dans ce plan directement puisé dans la La Mort aux trousses : un avion entre puis sort du plan avant de venir épandre son liquide face #caméra. Le #spectateur, là encore, est pris au piège de la #représentation, dans une position de victime.

    http://www.dailymotion.com/video/xfv22v_notre-p-in-quotidien-3-5_travel?search_algo=2

    Dans son film, Nikolaus Geyrhalter soulève un rapport déshumanisé à la nature. Il décrit un monde sans paysan, égalisant par de subtiles analogies les hommes, les machines et les produits. Le roulement des œufs sur le tapis est le même que celui des pommes dans leur bassin, le déplacement des porcs vers l’abattoir n’est pas sans évoquer le ballet des hommes dans les couloirs, et la batteuse de la moissonneuse effectue la même course que l’éolienne.

    Quand la caméra s’embarque sur les tracteurs, elle s’attarde autant sur l’homme que sur l’engin agissant. A terre, lorsque le cinéaste suit des figures humaines dans leur labeur, ce sont des outils assujettis à l’industrie qu’il filme. Peu de différences entre l’homme qui sélectionne les poulets armé de son bras aspirant et le tracteur qui déploie lui aussi ses bras pour fertiliser le sol. Il n’y a pas de personnages, d’ailleurs, dans ce documentaire : les figures humaines, automatisées et muettes, ne sont pas incarnées. A l’heure de la pause, les employés dégustent leur pain quotidien. Si l’humanité devient alors figurativement centrale, le langage, lui, reste absent.

    http://www.dailymotion.com/video/xfvicy_notre-p-in-quotidien-4-5_school?search_algo=2

    (...)

    Description des fermes modernes ou critiques de l’industrie agroalimentaire : le film, universel dans sa forme, est construit de telle manière qu’il laisse chacun faire son choix. Petit à petit, on peut simplement se renseigner sur la cueillette des olives ou sur l’histoire de l’élevage-abattage des porcs. La composition chronologique qui établit des chaînons didactiques entre certains plans va en ce sens. On peut aussi s’insurger devant les souffrances animales. La progression dramatique vers l’horreur (figurative) l’autorise : à mesure que le film avance, le sang se déverse de plus en plus abondamment et le rouge inonde bientôt la représentation des exécutions bovines difficilement soutenables.

    http://www.dailymotion.com/video/xfvinx_notre-p-in-quotidien-5-5_lifestyle?search_algo=2

    #Nikolaus_Geyrhalter #Productivisme #Mondialisation #Capitalisme
    #Documentaire #Vidéo

  • Growing food in the desert: is this the solution to the world’s food crisis? | The Observer
    http://www.guardian.co.uk/environment/2012/nov/24/growing-food-in-the-desert-crisis

    the work that Sundrop Farms, as they call themselves, are doing in South Australia, and just starting up in Qatar, is beyond the experimental stage. They appear to have pulled off the ultimate something-from-nothing agricultural feat – using the sun to desalinate seawater for irrigation and to heat and cool greenhouses as required, and thence cheaply grow high-quality, pesticide-free vegetables year-round in commercial quantities.

    Seawater Greenhouse: A new approach to restorative agriculture | Global Water Forum
    http://www.globalwaterforum.org/2012/05/28/seawater-greenhouse-a-new-approach-to-restorative-agriculture

    There are now some 200,000 hectares of greenhouses around the Mediterranean, and over 1 million in China, where 30 years ago, there were almost none. This is because yields that are achieved in greenhouses can be 10 to 100 times greater than yields achieved outside. They also enable high value crops to be grown ‘out of season’.

    The Seawater Greenhouse enables year-round crop production in some of the world’s hottest and driest regions. It does this using seawater and sunlight. The technology imitates natural processes, helping to restore the environment while significantly reducing the operating costs of greenhouse horticulture. In addition to not having to discharge concentrated brine, it also benefits from the fact that high salinity water has a powerful biocidal or sterilising effect on the air that passes through it. This reduces or eliminates airborne pests.

    http://www.globalwaterforum.org/wp-content/uploads/2012/05/Figure-4.png?9d7bd4

    #agriculture #serres #désalinisation