• Raniero Panzieri, Mario Tronti, Gaspare De Caro, Toni Negri (Turin, 1962)

      Conférence de Potere operaio à l’Université de Bologne en 1970.

      Manifestation de Potere operaio à Milan en 1972.

      Negri lors de son procès après la rafle du 7 avril 1979

      #Toni_Negri
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Toni_Negri

      Lénine au-delà de Lénine, Toni Negri (extrait de 33 Leçons sur Lénine), 1972-1973
      http://revueperiode.net/lenine-au-dela-de-lenine

      Domination et sabotage - Sur la méthode marxiste de transformation sociale, Antonio Negri (pdf), 1977
      https://entremonde.net/IMG/pdf/a6-03dominationsabotage-0-livre-high.pdf

      L’Anomalie sauvage d’Antonio Negri, Alexandre Matheron, 1983
      https://books.openedition.org/enseditions/29155?lang=fr

      Sur Mille Plateaux, Toni Negri, Revue Chimères n° 17, 1992
      https://www.persee.fr/doc/chime_0986-6035_1992_num_17_1_1846

      Les coordinations : une proposition de communisme, Toni Negri, 1994
      https://www.multitudes.net/les-coordinations-une-proposition

      Le contre-empire attaque, entretien avec Toni Negri, 2000
      https://vacarme.org/article28.html

      [#travail #multitude_de_singularités à 18mn] : Toni Negri, 2014
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-chemins-de-la-philosophie/actualite-philosophique-toni-negri-5100168

      à l’occasion de la parution du Hors-Série de Philosophie Magazine sur le thème, les philosophes et le #communisme.

      Socialisme = soviets + électricité, Toni Negri, 2017
      http://revueperiode.net/les-mots-dordre-de-lenine

      L’appropriation du capital fixe : une métaphore ?
      Antonio Negri, Multitudes 2018/1 (n° 70)
      https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-1-page-92.htm

      Domination et sabotage - Entretien avec Antonio Negri, 2019
      https://vacarme.org/article3253.html

    • Les nécros de Ration et de L’imMonde ont par convention une tonalité vaguement élogieuse mais elles sont parfaitement vides. Celle de l’Huma parait plus documentée mais elle est sous paywall...

      edit L’Huma c’est encore et toujours la vilaine bêtise stalinienne :

      Figure de prou de "l’opéraïsme" dans les années 1960, arrêté durant les années de plomb en Italie, penseur de la "multitude" dans les années 2000, le théoricien politique, spécialiste de la philosophie du droit et de Hegel, est mort à Paris à l’âge de 90 ans.
      Pierre Chaillan

      (...) Figure intellectuelle et politique, il a traversé tous les soubresauts de l’histoire de l’Italie moderne et restera une grande énigme au sein du mouvement communiste et ouvrier international . Né le 1er août 1933 dans l’Italie mussolinienne, d’un père communiste disparu à la suite de violences infligées par une brigade fasciste, Antonio Negri est d’abord militant de l’Action catholique avant d’adhérer en 1956 au Parti socialiste italien, qu’il quittera rapidement.

      Le théoricien, animateurs de “l’opéraïsme”

    • Un journaliste du Monde « Gauchologue et fafologue / Enseigne @sciencespo » diffuse sur X des extraits de l’abject "Camarade P38" du para-policier Fabrizio Calvi en prétendant que cette bouse « résume les critiques ».
      Mieux vaut se référer à EMPIRE ET SES PIÈGES - Toni Negri et la déconcertante trajectoire de l’opéraïsme italien, de Claudio Albertani https://infokiosques.net/spip.php?article541

    • #opéraïsme

      http://www.zones-subversives.com/l-op%C3%A9ra%C3%AFsme-dans-l-italie-des-ann%C3%A9es-1960

      Avant l’effervescence de l’Autonomie italienne, l’opéraïsme tente de renouveler la pensée marxiste pour réfléchir sur les luttes ouvrières. Ce mouvement politique et intellectuel se développe en Italie dans les années 1960. Il débouche vers une radicalisation du conflit social en 1968, et surtout en 1969 avec une grève ouvrière sauvage. Si le post-opéraïsme semble relativement connu en France, à travers la figure de Toni Negri et la revue Multitudes, l’opéraïsme historique demeure largement méconnu.

      Mario Tronti revient sur l’aventure de l’opéraïsme, à laquelle il a activement participé. Son livre articule exigence théorique et témoignage vivant. Il décrit ce mouvement comme une « expérience de pensée - d’un cercle de personnes liées entre elles indissolublement par un lien particulier d’amitié politique ». La conflictualité sociale et la radicalisation des luttes ouvrières doit alors permettre d’abattre le capitalisme.

    • IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI, Ago 17, 2023,
      di ROBERTO CICCARELLI.

      http://www.euronomade.info/?p=15660

      Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

      Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

      Novant’anni sono un secolo breve.

      Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

      Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.

      È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

      Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?

      Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

      Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?

      Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

      E che cosa possedeva quella sinistra?

      Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

      Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?

      Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

      Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?

      Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

      L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?

      È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

      Che cosa era diventato?

      Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

      Quale?
      Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

      Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?

      Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

      In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?

      Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

      Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?

      Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

      Anche Rossanda ti criticò…

      Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

      C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?

      Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

      Perché allora hai deciso di tornare in Italia?

      Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

      Che ricordo oggi hai di lei?

      Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

      Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.

      Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

      Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?

      È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

      Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…

      Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

      Esule, ancora, oggi?

      Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

      Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?

      Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

      I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?

      Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

      *

      Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

      In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

      A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

      #autonomie #prison #exil

    • Le philosophe italien Toni Negri est mort

      Inspirant les luttes politiques en Italie dans les années 1960 et 1970, son travail a également influencé le mouvement altermondialiste du début du XXIe siècle.


      Toni Negri, à Rome (Italie), en septembre 2010. STEFANO MONTESI - CORBIS / VIA GETTY IMAGES

      Il était né dans l’Italie fasciste. Il disparaît alors que l’extrême droite gouverne à nouveau son pays. Le philosophe Toni Negri, acteur et penseur majeur de plus d’un demi-siècle de luttes d’extrême gauche, est mort dans la nuit du 15 au 16 décembre à Paris, à l’âge de 90 ans, a annoncé son épouse, la philosophe française Judith Revel.

      « C’était un mauvais maître », a tout de suite réagi, selon le quotidien La Repubblica, le ministre de la culture italien, Gennaro Sangiuliano. « Tu resteras à jamais dans mon cœur et dans mon esprit, cher Maître, Père, Prophète », a écrit quant à lui, sur Facebook, l’activiste Luca Casarini, l’un des leaders du mouvement altermondialiste italien. Peut-être aurait-il vu dans la violence de ce contraste un hommage à la puissance de ses engagements, dont la radicalité ne s’est jamais affadie.

      Né le 1er août 1933 à Padoue, Antonio Negri, que tout le monde appelle Toni, et qui signera ainsi ses livres, commence très tôt une brillante carrière universitaire – il enseigne à l’université de Padoue dès ses 25 ans –, tout en voyageant, en particulier au Maghreb et au Moyen-Orient. C’est en partageant la vie d’un kibboutz israélien que le jeune homme, d’abord engagé au parti socialiste, dira être devenu communiste. Encore fallait-il savoir ce que ce mot pouvait recouvrir.

      Cette recherche d’une nouvelle formulation d’un idéal ancien, qu’il s’agissait de replacer au centre des mutations du monde, parcourt son œuvre philosophique, de Marx au-delà de Marx (Bourgois, 1979) à l’un de ses derniers livres, Inventer le commun des hommes (Bayard, 2010). Elle devient aussi l’axe de son engagement militant, qui va bientôt se confondre avec sa vie.

      Marxismes hétérodoxes

      L’Italie est alors, justement, le laboratoire des marxismes dits hétérodoxes, en rupture de ban avec le parti communiste, en particulier l’« opéraïsme » (de l’italien « operaio », « ouvrier »). Toni Negri le rejoint à la fin des années 1960, et s’en fait l’un des penseurs et activistes les plus emblématiques, toujours présent sur le terrain, dans les manifestations et surtout dans les usines, auprès des ouvriers. « Il s’agissait d’impliquer les ouvriers dans la construction du discours théorique sur l’exploitation », expliquera-t-il dans un entretien, en 2018, résumant la doctrine opéraïste, particulièrement celle des mouvements auxquels il appartient, Potere Operaio, puis Autonomia Operaia.

      Des armes circulent. Le terrorisme d’extrême droite et d’extrême gauche ravage le pays. Bien qu’il s’oppose à la violence contre les personnes, le philosophe est arrêté en 1979, soupçonné d’avoir participé à l’assassinat de l’homme politique Aldo Moro, accusation dont il est rapidement blanchi. Mais d’autres pèsent sur lui – « association subversive », et complicité « morale » dans un cambriolage – et il est condamné à douze ans de prison.
      Elu député du Parti radical en 1983, alors qu’il est encore prisonnier, il est libéré au titre de son immunité parlementaire. Quand celle-ci est levée [par un vote que le parti Radical a permis de rendre majoritaire, ndc], il s’exile en France. Rentré en Italie en 1997, il est incarcéré pendant deux ans, avant de bénéficier d’une mesure de semi-liberté. Il est définitivement libéré en 2003.

      Occupy Wall Street et les Indignés

      Il enseigne, durant son exil français, à l’Ecole normale supérieure, à l’université Paris-VIII ou encore au Collège international de philosophie. Ce sont aussi des années d’intense production intellectuelle, et, s’il porte témoignage en publiant son journal de l’année 1983 (Italie rouge et noire, Hachette, 1985), il développe surtout une pensée philosophique exigeante, novatrice, au croisement de l’ontologie et de la pensée politique. On peut citer, entre beaucoup d’autres, Les Nouveaux Espaces de liberté, écrit avec Félix Guattari (Dominique Bedou, 1985), Spinoza subversif. Variations (in)actuelles (Kimé, 1994), Le Pouvoir constituant. Essai sur les alternatives de la modernité (PUF, 1997) ou Kairos, Alma Venus, multitude. Neuf leçons en forme d’exercices (Calmann-Lévy, 2000).
      Ce sont cependant les livres qu’il coécrit avec l’Américain Michael Hardt qui le font connaître dans le monde entier, et d’abord Empire (Exils, 2000), où les deux philosophes s’efforcent de poser les fondements d’une nouvelle pensée de l’émancipation dans le contexte créé par la mondialisation. Celle-ci, « transition capitale dans l’histoire contemporaine », fait émerger selon les auteurs un capitalisme « supranational, mondial, total », sans autres appartenances que celles issues des rapports de domination économique. Cette somme, comme la suivante, Multitude. Guerre et démocratie à l’époque de l’Empire (La Découverte, 2004), sera une des principales sources d’inspiration du mouvement altermondialiste, d’Occupy Wall Street au mouvement des Indignés, en Espagne.

      C’est ainsi que Toni Negri, de l’ébullition italienne qui a marqué sa jeunesse et décidé de sa vie aux embrasements et aux espoirs du début du XXIe siècle, a traversé son temps : en ne lâchant jamais le fil d’une action qui était, pour lui, une forme de pensée, et d’une pensée qui tentait d’agir au cœur même du monde.
      Florent Georgesco
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/12/16/le-philosophe-italien-toni-negri-est-mort_6206182_3382.html

      (article corrigé trois fois en 9 heures, un bel effort ! il faut continuer !)

    • Pouvoir ouvrier, l’équivalent italien de la Gauche prolétarienne

      Chapeau le Diplo, voilà qui est informé !
      En 1998, le journal avait titré sur un mode médiatico-policier (« Ce que furent les “années de plomb” en Italie »). La réédition dans un Manière de voir de 2021 (long purgatoire) permis un choix plus digne qui annonçait correctement cet article fort utile : Entre « compromis historique » et terrorisme. Retour sur l’Italie des années 1970.
      Diplo encore, l’iconographie choisit d’ouvrir l’oeil... sur le rétroviseur. J’identifie pas le leader PCI (ou CGIL) qui est à la tribune mais c’est évidement le Mouvement ouvrier institué et son rôle (historiquement compromis) d’encadrement de la classe ouvrière qui est mis en avant.

      #média #gauche #Italie #Histoire #Potere_operaio #PCI #lutte_armée #compromis_historique #terrorisme

      edit

      [Rome] Luciano Lama, gli scontri alla Sapienza e il movimento del ’77
      https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/17_febbraio_16/scontri-sapienza-lama-foto-6ad864d0-f428-11e6-a5e5-e33402030d6b.shtml

      «Il segretario della Cgil Luciano Lama si è salvato a stento dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli studenti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli incidenti con la testa spaccata e varie ferite». E’ la cronaca degli scontri alla Sapienza riportata da Corriere il 18 febbraio del 1977, un giorno dopo la “cacciata” del leader della CGIL Luciano Lama dall’ateneo dove stava tenendo un comizio. Una giornata di violenza che diventerà il simbolo della rottura tra la sinistra istituzionale, rappresentata dal Pci e dal sindacato, e la sinistra dei movimenti studenteschi. Nella foto il camion utilizzato come palco da Luciano Lama preso d’assalto dai contestatori alla Sapienza (Ansa)

    • ENTRE ENGAGEMENT RÉVOLUTIONNAIRE ET PHILOSOPHIE
      Toni Negri (1933-2023), histoire d’un communiste
      https://www.revolutionpermanente.fr/Toni-Negri-1933-2023-histoire-d-un-communiste

      Sans doute est-il compliqué de s’imaginer, pour les plus jeunes, ce qu’a pu représenter Toni Negri pour différentes générations de militant.es. Ce qu’il a pu symboliser, des deux côtés des Alpes et au-delà, à différents moments de l’histoire turbulente du dernier tiers du XXème siècle, marqué par la dernière poussée révolutionnaire contemporaine – ce « long mois de mai » qui aura duré plus de dix ans, en Italie – suivie d’un reflux face auquel, loin de déposer les armes, Negri a choisi de résister en tentant de penser un arsenal conceptuel correspondant aux défis posés par le capitalisme contemporain. Tout en restant, jusqu’au bout, communiste. C’est ainsi qu’il se définissait.

    • À Toni Negri, camarade et militant infatigable
      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/181223/toni-negri-camarade-et-militant-infatigable

      Toni Negri nous a quittés. Pour certains d’entre nous, c’était un ami cher mais pour nous tous, il était le camarade qui s’était engagé dans le grand cycle des luttes politiques des années soixante et dans les mouvements révolutionnaires des années soixante-dix en Italie. Il fut l’un des fondateurs de l’opéraïsme et le penseur qui a donné une cohérence théorique aux luttes ouvrières et prolétariennes dans l’Occident capitaliste et aux transformations du Capital qui en ont résulté. C’est Toni qui a décrit la multitude comme une forme de subjectivité politique qui reflète la complexité et la diversité des nouvelles formes de travail et de résistance apparues dans la société post-industrielle. Sans la contribution théorique de Toni et de quelques autres théoriciens marxistes, aucune pratique n’aurait été adéquate pour le conflit de classes.
      Un Maître, ni bon ni mauvais : c’était notre tâche et notre privilège d’interpréter ou de réfuter ses analyses. C’était avant tout notre tâche, et nous l’avons assumée, de mettre en pratique la lutte dans notre sphère sociale, notre action dans le contexte politique de ces années-là. Nous n’étions ni ses disciples ni ses partisans et Toni n’aurait jamais voulu que nous le soyons. Nous étions des sujets politiques libres, qui décidaient de leur engagement politique, qui choisissaient leur voie militante et qui utilisaient également les outils critiques et théoriques fournis par Toni dans leur parcours.

    • Toni Negri, l’au-delà de Marx à l’épreuve de la politique, Yann Moulier Boutang
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/toni-negri-lau-dela-de-marx-a-lepreuve-de-la-politique-20231217_Z5QALRLO7

      Il n’est guère de concepts hérités du marxisme qu’il n’ait renouvelés de fond en comble. Contentons-nous ici de quelques notions clés. La clé de l’évolution du capitalisme, ne se lit correctement que dans celle de la composition du travail productif structuré dans la classe ouvrière et son mouvement, puis dans les diverses formes de salariat. Le Marx le plus intéressant pour nous est celui des Grundrisse (cette esquisse du Capital). C’est le refus du travail dans les usines, qui pousse sans cesse le capitalisme, par l’introduction du progrès technique, puis par la mondialisation, à contourner la « forteresse ouvrière ». Composition de classe, décomposition, recomposition permettent de déterminer le sens des luttes sociales. Negri ajoute à ce fond commun à tous les operaïstes deux innovations : la méthode de la réalisation de la tendance, qui suppose que l’évolution à peine perceptible est déjà pleinement déployée, pour mieux saisir à l’avance les moments et les points où la faire bifurquer. Deuxième innovation : après l’ouvrier qualifié communiste, et l’ouvrier-masse (l’OS du taylorisme), le capitalisme des années 1975-1990 (celui de la délocalisation à l’échelle mondiale de la chaîne de la valeur) produit et affronte l’ouvrier-social.

      C’est sur ce passage obligé que l’idée révolutionnaire se renouvelle. L’enquête ouvrière doit se déplacer sur ce terrain de la production sociale. La question de l’organisation, de la dispersion et de l’éclatement remplace la figure de la classe ouvrière et de ses allié.e.s. L’ouvrier social des années 1975 devient la multitude. Cela paraît un diagramme abstrait. Pourtant les formes de lutte comme les objectifs retenus, les collectifs des travailleuses du soin, de chômeurs ou d’intérimaires, les grèves des Ubereat témoignent de l’actualité de cette perspective. Mais aussi de ses limites, rencontrées au moment de s’incarner politiquement. (1)

      https://justpaste.it/3t9h9

      edit « optimisme de la raison, pessimisme de la volonté », T.N.
      Ration indique des notes qui ne sont pas publiées...

      Balibar offre une toute autre lecture des apports de T.N. que celle du très recentré YMB
      https://seenthis.net/messages/1032920

      #marxisme #mouvements_sociaux #théorie #compostion_de_classe #refus_du_travail #luttes_sociales #analyse_de_la tendance #ouvrier_masse #ouvrier_social #enquête_ouvrière #production_sociale #multitude #puissance #pouvoir

    • Décider en Essaim, Toni Negri , 2004
      https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=pqBZJD5oFJY

      Toni Negri : pour la multitude, Michael Löwy
      https://www.en-attendant-nadeau.fr/2023/12/18/toni-negri

      Avec la disparition d’Antonio Negri – Toni pour les amis – la cause communiste perd un grand penseur et un combattant infatigable. Persécuté pour ses idées révolutionnaires, incarcéré en Italie pendant de longues années, Toni est devenu célèbre grâce à ses ouvrages qui se proposent, par une approche philosophique inspirée de #Spinoza et de #Marx, de contribuer à l’émancipation de la multitude

      .

    • Un congedo silenzioso, Paolo Virno
      https://ilmanifesto.it/un-congedo-silenzioso


      Toni Negri - Tano D’Amico /Archivio Manifesto

      Due anni fa, credo, telefona Toni. Sarebbe passato per Roma, mi chiede di vederci. Un’ora insieme, con Judith, in una casa vuota nei pressi di Campo de’ Fiori (un covo abbandonato, avrebbe pensato una canaglia dell’antico Pci). Non parliamo di niente o quasi, soltanto frasi che offrono un pretesto per tacere di nuovo, senza disagio.

      Ebbe luogo, in quella casa romana, un congedo puro e semplice, non dissimulato da nenie cerimoniose. Dopo anni di insulti pantagruelici e di fervorose congratulazioni per ogni tentativo di trovare la porta stretta attraverso cui potesse irrompere la lotta contro il lavoro salariato nell’epoca di un capitalismo finalmente maturo, un po’ di silenzio sbigottito non guastava. Anzi, affratellava.

      Ricordo Toni, ospite della cella 7 del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, che piange senza ritegno perché le guardie stanno portando via in piena notte, con un «trasferimento a strappo», i suoi compagni di degnissima sventura. E lo ricordo ironico e spinoziano nel cortile del penitenziario di Palmi, durante la requisitoria cui lo sottopose un capo brigatista da operetta, che minacciava di farlo accoppare da futuri «collaboratori di giustizia» allora ancora bellicosi e intransigenti.

      Toni era un carcerato goffo, ingenuo, ignaro dei trucchi (e del cinismo) che il ruolo richiede. Fu calunniato e detestato come pochi altri nel Novecento italiano. Calunniato e detestato, in quanto marxista e comunista, dalla sinistra tutta, da riformatori e progressisti di ogni sottospecie.

      Eletto in parlamento nel 1983, chiese ai suoi colleghi deputati, in un discorso toccante, di autorizzare la prosecuzione del processo contro di lui: non voleva sottrarsi, ma confutare le accuse che gli erano state mosse dai giudici berlingueriani. Chiese anche, però, di continuare il processo a piede libero, giacché iniqua e scandalosa era diventata la carcerazione preventiva con le leggi speciali adottate negli anni precedenti.

      Inutile dire che il parlamento, aizzato dalla sinistra riformatrice, votò per il ritorno in carcere dell’imputato Negri. C’è ancora qualcuno che ha voglia di rifondare quella sinistra?

      Toni non ha mai avuto paura di strafare. Né quando intraprese un corpo a corpo con la filosofia materialista, includendo in essa più cose di quelle che sembrano stare tra cielo e terra, dal condizionale controfattuale («se tu volessi fare questo, allora le cose andrebbero altrimenti») alla segreta alleanza tra gioia e malinconia. Né quando (a metà degli anni Settanta) ritenne che l’area dell’autonomia dovesse sbrigarsi a organizzare il lavoro postfordista, imperniato sul sapere e il linguaggio, caparbiamente intermittente e flessibile.

      Il mio amico matto che voleva cambiare il mondo
      Toni non è mai stato oculato né morigerato. È stato spesso stonato, questo sì: come capita a chi accelera all’impazzata il ritmo della canzone che ha intonato, ibridandolo per giunta con il ritmo di molte altre canzoni appena orecchiate. Il suo luogo abituale sembrava a molti, anche ai più vicini, fuori luogo; per lui, il «momento giusto» (il kairòs degli antichi greci), se non aveva qualcosa di imprevedibile e di sorprendente, non era mai davvero giusto.

      Non si creda, però, che Negri fosse un bohèmien delle idee, un improvvisatore di azioni e pensieri. Rigore e metodo campeggiano nelle sue opere e nei suoi giorni. Ma in questione è il rigore con cui va soppesata l’eccezione; in questione è il metodo che si addice a tutto quel che è ma potrebbe non essere, e viceversa, a tutto quello che non è ma potrebbe essere.

      Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito. Ora un po’ di silenzio benefico, esente da qualsiasi imbarazzo, come in quella casa romana in cui andò in scena un sobrio congedo.

  • #Taux_de_change : retour sur la politique israélienne des #otages

    Eyal Weizman, fondateur du collectif Forensic Architecture, revient sur la manière dont les #civils installés autour de #Gaza ont servi de « #mur_vivant » lors des massacres du 7 octobre perpétrés par le #Hamas, et retrace l’évolution de la politique israélienne à l’égard des otages.

    Au printemps 1956, huit ans après la Nakba (un terme arabe qui désigne « la catastrophe » ou « le désastre » que fut pour les Palestiniens la création d’Israël), un groupe de fedayins palestiniens franchit le fossé qui sépare Gaza de l’État d’Israël. D’un côté se trouvent 300 000 Palestiniens, dont 200 000 réfugiés expulsés de la région ; de l’autre, une poignée de nouvelles installations israéliennes. Les combattants palestiniens tentent de pénétrer dans le kibboutz de Nahal Oz, tuent Roi Rotberg, un agent de sécurité, et emportent son corps à Gaza, mais le rendent après l’intervention des Nations unies.

    #Moshe_Dayan, alors chef de l’état-major général d’Israël, se trouvait par hasard sur place pour un mariage et a demandé à prononcer, le soir suivant, l’éloge funèbre de Rotber. Parlant des hommes qui ont tué #Rotberg, il a demandé : « Pourquoi devrions-nous nous plaindre de la #haine qu’ils nous portent ? Pendant huit ans, ils se sont assis dans les camps de réfugiés de Gaza et ont vu de leurs yeux comment nous avons transformé les terres et les villages où eux et leurs ancêtres vivaient autrefois. » Cette reconnaissance de ce que les Palestiniens avaient perdu, les hommes politiques israéliens d’aujourd’hui ne peuvent plus se permettre de l’exprimer. Mais Dayan ne défendait pas le #droit_au_retour : il a terminé son discours en affirmant que les Israéliens devaient se préparer à une #guerre_permanente et amère, dans laquelle ce qu’Israël appelait les « #installations_frontalières » joueraient un rôle majeur.

    Au fil des ans, le #fossé s’est transformé en un système complexe de #fortifications - une #zone_tampon de 300 mètres, où plus de deux cents manifestants palestiniens ont été tués par balle en 2018 et 2019 et des milliers d’autres blessés, plusieurs couches de #clôtures en barbelés, des #murs en béton s’étendant sous terre, des mitrailleuses télécommandées - et des équipements de #surveillance, dont des tours de guet, des caméras de vidéosurveillance, des capteurs radar et des ballons espions. À cela s’ajoute une série de #bases_militaires, dont certaines situées à proximité ou à l’intérieur des installations civiles qui forment ce que l’on appelle l’#enveloppe_de_Gaza.

    Empêcher le retour des réfugiés

    Le #7_octobre_2023, lors d’une attaque coordonnée, le Hamas a frappé tous les éléments de ce système interconnecté. #Nahal_Oz, l’installation la plus proche de la clôture, a été l’un des points névralgiques de l’attaque. Le terme « #Nahal » fait référence à l’unité militaire qui a créé les installations frontalières. Les installations du Nahal ont débuté comme des avant-postes militaires et sont devenues des villages civils, principalement de type #kibboutz. Mais la transformation n’est jamais achevée et certains résidents sont censés se comporter en défenseurs quand la communauté est attaquée.

    La « #terre_des_absents » a été la #tabula_rasa sur laquelle les planificateurs israéliens ont dessiné le projet des colons sionistes après les expulsions de 1948. Son architecte en chef était #Arieh_Sharon, diplômé du Bauhaus, qui a étudié avec Walter Gropius et Hannes Meyer avant de s’installer en Palestine en 1931, où il a construit des lotissements, des coopératives de travailleurs, des hôpitaux et des cinémas. Lors de la création de l’État d’Israël, David Ben Gourion l’a nommé à la tête du département de planification du gouvernement. Dans The Object of Zionism (2018), l’historien de l’architecture Zvi Efrat explique que, bien que le plan directeur de Sharon soit fondé sur les principes les plus récents du design moderniste, il avait plusieurs autres objectifs : fournir des logements aux vagues d’immigrants arrivés après la Seconde Guerre mondiale, déplacer les populations juives du centre vers la périphérie, sécuriser la frontière et occuper le territoire afin de rendre plus difficile le retour des réfugiés.

    Dans les années 1950 et 1960, le #plan_directeur de Sharon et de ses successeurs a conduit à la construction, dans les « #zones_frontalières », définies à l’époque comme représentant environ 40 % du pays, de centres régionaux ou « #villes_de_développement » qui desservaient une constellation d’#implantations_agraires. Ces villes de développement devaient accueillir les immigrants juifs d’Afrique du Nord – les Juifs arabes – qui allaient être prolétarisés et devenir des ouvriers d’usine. Les implantations agraires de type kibboutz et #moshav étaient destinées aux pionniers du #mouvement_ouvrier, principalement d’Europe de l’Est. Les #terres appartenant aux villages palestiniens de #Dayr_Sunayd, #Simsim, #Najd, #Huj, #Al_Huhrraqa, #Al_Zurai’y, #Abu_Sitta, #Wuhaidat, ainsi qu’aux tribus bédouines #Tarabin et #Hanajre, sont occupées par les villes de développement #Sderot et #Ofakim et les kibboutzim de #Re’im, #Mefalsim, #Kissufim et #Erez. Toutes ces installations ont été visées le 7 octobre.

    La première #clôture

    À la suite de l’#occupation_israélienne de 1967, le gouvernement a établi des installations entre les principaux centres de population palestinienne à Gaza même, dont la plus grande était #Gush_Katif, près de Rafah, à la frontière égyptienne ; au total, les #colonies israéliennes couvraient 20 % du territoire de Gaza. Au début des années 1980, la région de Gaza et ses environs a également accueilli de nombreux Israéliens évacués du Sinaï après l’accord de paix avec l’Égypte.

    La première clôture autour du territoire a été construite entre 1994 et 1996, période considérée comme l’apogée du « #processus_de_paix ». Gaza était désormais isolée du reste du monde. Lorsque, en réponse à la résistance palestinienne, les colonies israéliennes de Gaza ont été démantelées en 2005, certaines des personnes évacuées ont choisi de s’installer près des frontières de Gaza. Un deuxième système de clôture, plus évolué, a été achevé peu après. En 2007, un an après la prise de pouvoir du Hamas à Gaza, Israël a entamé un #siège à grande échelle, contrôlant et limitant les flux entrants de produits vitaux - #nourriture, #médicaments, #électricité et #essence.

    L’#armée_israélienne a fixé les privations à un niveau tel que la vie à Gaza s’en trouve presque complètement paralysée. Associé à une série de campagnes de #bombardements qui, selon les Nations unies, ont causé la mort de 3 500 Palestiniens entre 2008 et septembre 2023, le siège a provoqué une #catastrophe_humanitaire d’une ampleur sans précédent : les institutions civiles, les hôpitaux, les systèmes d’approvisionnement en eau et d’hygiène sont à peine capables de fonctionner et l’électricité n’est disponible que pendant la moitié de la journée environ. Près de la moitié de la population de Gaza est au #chômage et plus de 80 % dépend de l’#aide pour satisfaire ses besoins essentiels.

    L’enveloppe de Gaza

    Le gouvernement israélien offre de généreux #avantages_fiscaux (une réduction de 20 % de l’impôt sur le revenu par exemple) aux habitants des installations autour de Gaza, dont beaucoup longent une route parallèle à la ligne de démarcation, à quelques kilomètres de celle-ci. L’enveloppe de Gaza comprend 58 installations situées à moins de 10 km de la frontière et comptant 70 000 habitants. Au cours des dix-sept années depuis la prise de pouvoir par le Hamas, malgré les tirs sporadiques de roquettes et de mortiers palestiniens et les bombardements israéliens sur le territoire situé à quelques kilomètres de là, les installations n’ont cessé d’augmenter. La hausse des prix de l’immobilier dans la région de Tel-Aviv et les collines ouvertes de la région (que les agents immobiliers appellent la « Toscane du nord du Néguev ») a entraîné un afflux de la classe moyenne.

    De l’autre côté de la barrière, les conditions se sont détériorées de manière inversement proportionnelle à la prospérité croissante de la région. Les installations sont un élément central du système d’#enfermement imposé à Gaza, mais leurs habitants tendent à différer des colons religieux de Cisjordanie. Démontrant l’aveuglement partiel de la gauche israélienne, certaines personnes installées dans le Néguev sont impliquées dans le #mouvement_pacifiste.

    Le 7 octobre, les combattants du Hamas ont forcé les éléments interconnectés du réseau de siège. Des tireurs d’élite ont tiré sur les caméras qui surplombent la zone interdite et ont lancé des grenades sur les #tours_de_communication. Des barrages de roquettes ont saturé l’#espace_radar. Plutôt que de creuser des tunnels sous les clôtures, les combattants sont venus par le sol. Les observateurs israéliens ne les ont pas vus ou n’ont pas pu communiquer assez rapidement ce qu’ils ont vu.

    Les combattants ont fait sauter ou ouvert quelques douzaines de brèches dans la clôture, élargies par les bulldozers palestiniens. Certains combattants du Hamas ont utilisé des parapentes pour franchir la frontière. Plus d’un millier d’entre eux ont pris d’assaut les bases militaires. L’armée israélienne, aveuglée et muette, n’a pas de vision claire du champ de bataille et les détachements mettent des heures à arriver. Des images incroyables sont apparues sur Internet : des adolescents palestiniens ont suivi les combattants à vélo ou à cheval, sur une terre dont ils avaient peut-être entendu parler par leurs grands-parents, maintenant transformée au point d’en être méconnaissable.

    Les #massacres du 7 octobre

    Les événements auraient pu s’arrêter là, mais ce ne fut pas le cas. Après les bases, ce furent les installations, les horribles massacres maison par maison, et le meurtre d’adolescents lors d’une fête. Des familles ont été brûlées ou abattues dans leurs maisons, des civils incluant des enfants et des personnes âgées ont été prises en otage. Au total, les combattants ont tué environ 1 300 civils et soldats. Plus de 200 personnes ont été capturées et emmenées à Gaza. Jusqu’alors, rien, dans la #violence ni la #répression, n’avait rendu de tels actes inévitables ou justifiés.

    Israël a mis des décennies à brouiller la ligne de démarcation entre les fonctions civiles et militaires des installations, mais cette ligne a aujourd’hui été brouillée d’une manière jamais envisagée par le gouvernement israélien. Les habitants civils cooptés pour faire partie du mur vivant de l’enveloppe de Gaza ont subi le pire des deux mondes. Ils ne pouvaient pas se défendre comme des soldats et n’étaient pas protégés comme des civils.

    Les images des installations dévastées ont permis à l’armée israélienne d’obtenir carte blanche de la part de la communauté internationale et de lever les restrictions qui avaient pu être imposées précédemment. Les hommes politiques israéliens ont appelé à la #vengeance, avec un langage explicite et annihilationiste. Les commentateurs ont déclaré que Gaza devrait être « rayée de la surface de la Terre » et que « l’heure de la Nakba 2 a sonné ». #Revital_Gottlieb, membre du Likoud à la Knesset, a tweeté : « Abattez les bâtiments ! Bombardez sans distinction ! Assez de cette impuissance. Vous le pouvez. Il y a une légitimité mondiale ! Détruisez Gaza. Sans pitié ! »

    L’échange de prisonniers

    Les otages civils des installations dont Israël a fait un « mur vivant » sont devenus pour le Hamas un #bouclier_humain et des atouts pour la #négociation. Quelle que soit la façon dont le #conflit se termine, que le Hamas soit ou non au pouvoir (et je parie sur la première solution), Israël ne pourra pas éviter de négocier l’#échange_de_prisonniers. Pour le Hamas, il s’agit des 6 000 Palestiniens actuellement dans les prisons israéliennes, dont beaucoup sont en #détention_administrative sans procès. La prise en otages d’Israéliens a occupé une place centrale dans la #lutte_armée palestinienne tout au long des 75 années de conflit. Avec des otages, l’#OLP et d’autres groupes cherchaient à contraindre Israël à reconnaître implicitement l’existence d’une nation palestinienne.

    Dans les années 1960, la position israélienne consistait à nier l’existence d’un peuple palestinien, et donc qu’il était logiquement impossible de reconnaître l’OLP comme son représentant légitime. Ce déni signifiait également qu’il n’y avait pas à reconnaître les combattants palestiniens comme des combattants légitimes au regard du droit international, et donc leur accorder le statut de #prisonniers_de_guerre conformément aux conventions de Genève. Les Palestiniens capturés étaient maintenus dans un #vide_juridique, un peu comme les « combattants illégaux » de l’après 11-septembre.

    En juillet 1968, le Front populaire de libération de la Palestine (FPLP) a détourné un vol d’El-Al et l’a fait atterrir en Algérie, inaugurant une série de détournements, dont l’objectif explicite était la libération de prisonniers palestiniens. L’incident d’Algérie a conduit à l’échange de 22 otages israéliens contre 16 prisonniers palestiniens, bien que le gouvernement israélien ait nié un tel accord. Seize contre 22 : ce taux d’échange n’allait pas durer longtemps. En septembre 1982, après l’invasion du Liban par Israël, le Commandement général du FPLP d’Ahmed Jibril a capturé trois soldats de l’armée israélienne ; trois ans plus tard, dans le cadre de ce qui a été appelé l’accord Jibril, Israël et le FPLP-CG sont finalement parvenus à un accord d’échange de prisonniers : trois soldats contre 1 150 prisonniers palestiniens. Dans l’accord de 2011 pour la libération de Gilad Shalit, capturé par le Hamas en 2006, le taux d’échange était encore plus favorable aux Palestiniens : 1 027 prisonniers pour un seul soldat israélien.
    Directive Hannibal

    Anticipant de devoir conclure de nombreux accords de ce type, Israël s’est mis à arrêter arbitrairement davantage de Palestiniens, y compris des mineurs, afin d’augmenter ses atouts en vue d’un échange futur. Il a également conservé les corps de combattants palestiniens, qui devaient être restitués dans le cadre d’un éventuel échange. Tout cela renforce l’idée que la vie d’un colonisateur vaut mille fois plus que la vie d’un colonisé, calcul qui évoque inévitablement l’histoire du #colonialisme et du commerce d’êtres humains. Mais ici, le taux de change est mobilisé par les Palestiniens pour inverser la profonde asymétrie coloniale structurelle.

    Tous les États ne traitent pas de la même manière la capture de leurs soldats et de leurs citoyens. Les Européens et les Japonais procèdent généralement à des échanges secrets de prisonniers ou négocient des rançons. Les États-Unis et le Royaume-Uni affirment publiquement qu’ils ne négocient pas et n’accèdent pas aux demandes des ravisseurs et, bien qu’ils n’aient pas toujours respecté cette règle à la lettre, ils ont privilégié l’abstention et le silence lorsqu’une opération de sauvetage semblait impossible.

    Cette attitude est considérée comme un « moindre mal » et fait partie de ce que les théoriciens des jeux militaires appellent le « jeu répété » : chaque action est évaluée en fonction de ses éventuelles conséquences à long terme, les avantages d’obtenir la libération d’un prisonnier étant mis en balance avec le risque que l’échange aboutisse à l’avenir à la capture d’autres soldats ou civils.

    Lorsqu’un Israélien est capturé, sa famille, ses amis et ses partisans descendent dans la rue pour faire campagne en faveur de sa libération. Le plus souvent, le gouvernement y consent et conclut un accord. L’armée israélienne déconseille généralement au gouvernement de conclure des accords d’échange, soulignant le risque pour la sécurité que représentent les captifs libérés, en particulier les commandants de haut rang, et la probabilité qu’ils encouragent les combattants palestiniens à prendre davantage d’otages. Yahya Sinwar, qui est aujourd’hui le chef du Hamas, a été libéré dans le cadre de l’#accord_Shalit. Une importante campagne civile contre ces échanges a été menée par le mouvement religieux de colons #Gush_Emunim, qui y voyait une manifestation de la fragilité de la société « laïque et libérale » d’Israël.

    En 1986, à la suite de l’#accord_Jibril, l’armée israélienne a publié la directive controversée Hannibal, un ordre opérationnel secret conçu pour être invoqué lors de la capture d’un soldat israélien par une force armée irrégulière. L’armée a nié cette interprétation, mais les soldats israéliens l’ont comprise comme une autorisation de tuer un camarade avant qu’il ne soit fait prisonnier. En 1999, #Shaul_Mofaz, alors chef de l’état-major général, a expliqué cette politique en ces termes : « Avec toute la douleur que cela implique, un soldat enlevé, contrairement à un soldat tué, est un problème national. »

    Bien que l’armée ait affirmé que le nom de la directive avait été choisi au hasard par un programme informatique, il est tout à fait approprié. Le général carthaginois Hannibal Barca s’est suicidé en 181 avant J.-C. pour ne pas tomber aux mains des Romains. Ceux-ci avaient fait preuve d’une détermination similaire trente ans plus tôt : lorsque Hannibal tenta d’obtenir une rançon pour les soldats qu’il avait capturés lors de sa victoire à Cannes, le Sénat, après un débat houleux, refusa et les prisonniers furent exécutés.

    Le 1er août 2014, lors de l’offensive sur Gaza connue sous le nom d’« #opération_Bordure_protectrice », des combattants palestiniens ont capturé un soldat de Tsahal près de Rafah, et la #directive_Hannibal est entrée en vigueur. L’armée de l’air a bombardé le système de tunnels où avait été emmené le soldat, tuant 135 civils palestiniens, dont des familles entières. L’armée a depuis annulé la directive. Toutefois, la plupart des bombardements actuels vise les #tunnels où se trouvent les postes de commandement du Hamas et les otages : le gouvernement semble ainsi, par ces bombardements aveugles, non seulement menacer les Gazaouis d’une #destruction sans précédent, mais aussi revenir au principe de préférer des captifs morts à un accord. #Bezalel_Smotrich, ministre israélien des finances, a appelé à frapper le Hamas « sans pitié, sans prendre sérieusement en considération la question des captifs ». #Gilad_Erdan, ambassadeur d’Israël auprès des Nations unies, a déclaré que les otages « ne nous empêcheraient pas de faire ce que nous devons faire ». Mais dans cette guerre, le sort des #civils de Gaza et des Israéliens capturés est étroitement lié, tout comme celui des deux peuples.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/041123/taux-de-change-retour-sur-la-politique-israelienne-des-otages
    #Israël #Palestine #Eyal_Weizman #à_lire

  • What Palestinians Really Think of Hamas – Foreign Affairs, 25/10/2023
    https://www.arabbarometer.org/wp-content/uploads/what-palestinians-really-think-of-hamas-2023-10-26-08-4941.pdf

    Before the War, Gaza’s Leaders Were Deeply Unpopular—but an Israeli Crackdown Could Change at

    The argument that the entire population of Gaza can be held responsible for Hamas’s actions is quickly discredited when one looks at the facts. Arab Barometer, a research network where we serve as co-principal investigators, conducted a survey in Gaza and the West Bank days before the Israel-Hamas war broke out. e ndings, published here for the rst time, reveal that rather than supporting Hamas, the vast majority of Gazans have been frustrated with the armed group’s ineective governance as they endure extreme economic hardship. Most Gazans do not align themselves with Hamas’s ideology, either. Unlike Hamas, whose goal is to destroy the Israeli state, the majority of survey respondents favored a two- state solution with an independent Palestine and Israel existing side by side.

    Continued violence will not bring the future most Gazans hope for any closer. Instead of stamping out sympathy for terrorism, past Israeli crackdowns that make life more dicult for ordinary Gazans have increased support for Hamas. If the current military campaign in Gaza has a similar eect on Palestinian public opinion, it will further set back the cause of long-term peace.

  • La #révolution et le #djihad. #Syrie, #France, #Belgique

    Après le soulèvement de la population syrienne contre la dictature de #Bachar_al-Assad en 2011, sa répression sanglante a conduit nombre de révolutionnaires à s’engager dans la #lutte_armée. L’intervention de groupes se réclamant de l’#islam_politique et les ingérences étrangères ont ensuite rendu le #conflit singulièrement opaque. Jusqu’à l’émergence en 2014 de l’#État_islamique, qui a fait de la #religion le noyau d’une #politique_de_la_terreur. Ce qui a conduit une petite minorité dévoyée des jeunes Européens ayant rejoint la révolution à perpétrer, en France et en Belgique, de terribles #attentats-suicides en 2015 et 2016.
    Pour tenter d’éclairer ces enchaînements tragiques, les interprétations idéologiques centrées sur la « #radicalisation » de l’islam politique ont trop souvent prévalu. D’où l’importance de ce livre, qui s’appuie à l’inverse sur les #témoignages des acteurs – ; révolutionnaires syriens et « #migrants_du_djihad » – ; recueillis par l’auteur entre 2015 et 2023 au Moyen-Orient et en Europe. On y découvrira comment des gens ordinaires ont vécu leurs #engagements, marqués par le dépassement des organisations partisanes et le rapprochement improbable entre islamistes et gauches. Ces témoignages mettent en récit le sens de leurs actions, de la mobilisation pacifique initiale à la guerre révolutionnaire. Ils éclairent le rôle du #symbolisme_religieux dans la #révolution_syrienne et dans les motivations des quelque 2 500 jeunes Français et Belges issus de l’#immigration_postcoloniale, nouveaux « internationalistes » l’ayant rejointe à la faveur des #printemps_arabes. Au total, un regard sans équivalent sur la confrontation singulière, dans la lutte contre la #dictature, de deux forces utopiques antagoniques, celle positive de soutien à la cause révolutionnaire, et celle négative animant le #fascisme d’un #Etat_théocratique.

    https://www.editionsladecouverte.fr/la_revolution_et_le_djihad-9782348078316
    #livre #internationnalisme

    • La mosaïque éclatée ; une histoire du mouvement national palestinien (coédition Institut des Etudes Palestiniennes), Nicolas Dot-Pouillard, Actes Sud, 256pp, 2016.


      https://www.actes-sud.fr/node/56808

      Les accords d’Oslo signés par Arafat et Rabin en septembre 1993 constituent un tournant décisif dans l’histoire du mouvement national palestinien : l’OLP s’installe en Cisjordanie et dans la bande de Gaza. Or ces accords laissent en suspens toutes les questions de fond (l’avenir de Jérusalem, le droit au retour des réfugiés, les frontières du futur État palestinien, etc.), et les gouvernements israéliens successifs ne vont pas manquer d’en tirer profit pour accélérer la judaïsation de Jérusalem et la colonisation de la Cisjordanie.

      Dès lors, le mouvement national palestinien se divise sur la faisabilité de l’option dite des deux États, mais aussi sur le bilan de l’Autorité nationale, la restructuration de l’OLP, les formes de résistance, armée ou non violente, et les alliances régionales à établir, avec l’Iran ou avec les pays du Golfe. Il connaît en conséquence bien des recompositions idéologiques, entre nationalisme et islamisme.

      Nicolas Dot-Pouillard insiste dans ce livre solidement documenté sur les principaux débats stratégiques et tactiques qui agitent la scène politique palestinienne dans sa diversité géographique, éclairant les positions des différentes forces en présence, du Fatah au Hamas, en passant par le Jihad islamique et la gauche.

  • Aux #origines de l’#histoire complexe du #Hamas

    Le Hamas replace violemment la question palestinienne sur le devant de la scène géopolitique. Retour aux origines du mouvement islamiste palestinien, fondé lors de la première Intifada et classé organisation terroriste par les États-Unis et l’Union européenne.

    L’arméeL’armée israélienne a indiqué, samedi 14 octobre, avoir tué deux figures du Hamas qui auraient joué un rôle majeur dans l’attaque terroriste qui a plongé il y a une semaine le peuple israélien dans « les jours les plus traumatiques jamais connus depuis la Shoah », pour reprendre l’expression de la sociologue franco-israélienne Eva Illouz (plus de 1 300 morts, 3 200 blessés ainsi qu’au moins 120 otages, parmi lesquels de nombreux civils).

    Le responsable des Nukhba, les unités d’élite du Hamas, Ali Qadi, aurait été tué, de même que Merad Abou Merad, chef des opérations aériennes dans la ville de Gaza. Dimanche, c’est la mort d’un commandant des Nukhba, Bilal el-Kadra, présenté par l’armée israélienne comme le responsable des massacres du 7 octobre dans les kibboutz de Nirim et de Nir Oz, qui a été annoncée.

    Depuis l’offensive surprise du Hamas, Israël assiège et pilonne en représailles la bande de Gaza. Ses bombardements ont fait en l’espace de quelques jours 2 750 morts, dont plus de 700 enfants, et 9 700 blessés, selon un bilan du ministère palestinien de la santé du Hamas établi lundi matin. « Ce n’est que le début », a prévenu le premier ministre israélien Benyamin Nétanyahou, qui a déclaré : « Le Hamas, c’est Daech et nous allons les écraser et les détruire comme le monde a détruit Daech. »

    S’il est difficile de ne pas convoquer la barbarie de Daech en Syrie, en Irak ou sur le sol européen devant les massacres commis le 7 octobre par le mouvement islamiste palestinien dans la rue, des maisons ou en pleine rave party, la comparaison entre les deux organisations a ses limites.

    « Oui, le Hamas a commis des crimes odieux, des crimes de guerre, des crimes contre l’humanité, mais c’est un mouvement nationaliste qui n’a rien à voir avec Daech ou Al-Qaïda, nuance Jean-Paul Chagnollaud, professeur des universités, directeur de l’Institut de recherche et d’études Méditerranée/Moyen-Orient (iReMMO). Il représente ou représentait largement un bon tiers du peuple palestinien. Si Mahmoud Abbas [chef de l’Autorité palestinienne – ndlr] a annulé les élections il y a deux ans, c’est parce que le Hamas avait des chances d’emporter les législatives. »

    « La comparaison avec Daech a une visée politique qui consiste à enfermer le Hamas dans un rôle de groupe djihadiste, abonde le chercheur Xavier Guignard, spécialiste de la Palestine au sein du centre de recherche indépendant Noria. Je comprends le besoin de caractériser ce qu’il s’est produit, mais cette comparaison nous prive de voir tout ce qu’est aussi le Hamas », un mouvement islamiste de libération nationale, protéiforme, politique et militaire, qui est l’acronyme de « Harakat al-muqawama al-islamiya », qui signifie « Mouvement de la résistance islamique ».

    Considéré comme terroriste par l’Union européenne, les États-Unis ainsi que de nombreux pays occidentaux, le Hamas, dont la branche politique dans la bande de Gaza est dirigée par Yahya Sinouar (qui fut libéré en 2011 après vingt-deux ans dans les geôles israéliennes lors de l’échange de 1 027 prisonniers palestiniens contre le soldat franco-israélien Gilad Shalit), est arrivé au pouvoir lors d’une élection démocratique. Il a remporté les législatives de 2006. L’année suivante, il prend par la force le contrôle de la bande de Gaza au terme d’affrontements sanglants et aux dépens de l’Autorité palestinienne (AP), reconnue par la communauté internationale et dominée par le Fatah (Mouvement national palestinien de libération, non religieux) de Mahmoud Abbas, qui contrôle la Cisjordanie.
    Guerre fratricide

    Cette prise de pouvoir constitue un moment charnière. Elle provoque une guerre fratricide entre les formations palestiniennes et offre à l’État hébreu une occasion de durcir encore, en riposte, le blocus dans la bande de Gaza, en limitant la circulation des personnes et des biens, avec le soutien de l’Égypte. Un blocus dévastateur par terre, air et mer qui asphyxie l’économie et la population depuis plus d’une décennie et a été aggravé par les guerres successives et les destructions sous l’effet des bombardements israéliens.

    Officiellement, pour Israël, qui a décolonisé le territoire en 2005, le blocus vise à empêcher que le Hamas, qui se caractérise par une lutte armée contre l’État hébreu, se fournisse en armes. Créé en décembre 1987 par les Frères musulmans palestiniens (dont la branche a été fondée à Jérusalem en 1946, deux ans avant la proclamation de l’État d’Israël), lors de la première intifada (soit le soulèvement palestinien contre l’occupation israélienne de la Cisjordanie et de la bande de Gaza), alors massive et populaire, le mouvement a épousé la lutte armée contre Israël à cette époque.

    « Un profond débat interne » avait alors agité ses fondateurs, comme le raconte sur la plateforme Cairn l’universitaire palestinien Khaled Hroub : « Deux points de vue s’opposent. Les uns poussent à un tournant politique dans le sens d’une résistance à l’occupation, contournant par là les idées anciennes et traditionnelles en fonction desquelles il convient de penser avant tout à l’islamisation de la société. Les autres relèvent de l’école classique des Frères musulmans : “préparer les générations” à une bataille dont la date précise n’est toutefois pas fixée. Avec l’éruption de l’intifada, les tenants de la ligne dure gagnent du terrain, arguant des répercussions très négatives sur le mouvement si les islamistes ne participent pas clairement au soulèvement, sur un même plan que les autres organisations palestiniennes qui y prennent part. »

    Acculé par son « rival plus petit et plus actif », le Jihad islamique, « une organisation de même type – et non pas nationaliste ou de gauche », poursuit Khaled Hroub, le Hamas a fini par accélérer sa transformation interne.

    La transformation de la branche palestinienne des Frères musulmans en Mouvement de la résistance islamique n’est pas allée de soi, et les discussions ont été vives avant que le sheikh Yassin, tout frêle qu’il soit dans son fauteuil roulant de paralytique, ne l’emporte. Une partie des membres tenaient en effet à rester sur la ligne frériste : transformer la société par le prêche, l’éducation et le social. Le nationalisme n’a pas droit de cité dans cette conception, c’est la communauté des croyants qui compte. Le Hamas, lui, rajoute à l’islam politique une dimension nationaliste.

    Sa charte, 36 articles en cinq chapitres, rédigée en 1988, violemment antisémite, est sans équivoque : le Hamas appelle au djihad (guerre sainte) contre les juifs, à la destruction d’Israël et à l’instauration d’un État islamique palestinien. Vingt-neuf ans plus tard, en 2017, une nouvelle charte est publiée sans annuler celle de 1988. Le Hamas accepte l’idée d’un État palestinien limité aux frontières de 1967, avec Jérusalem pour capitale et le droit au retour des réfugié·es, et dit mener un combat contre « les agresseurs sionistes occupants » et non contre les juifs.

    En 1991, la branche du Hamas consacrée au renseignement devient une branche armée, celle des Brigades Izz al-Din al-Qassam. À partir d’avril 1993, l’année des accords d’Oslo signés entre l’OLP (Organisation de libération de la Palestine) de Yasser Arafat et l’État hébreu, que le Hamas a rejetés estimant qu’il s’agissait d’une capitulation, les Brigades Izz al-Din al-Qassam mènent régulièrement des attaques terroristes contre les soldats et les civils israéliens pour faire échouer le processus de paix. Pendant des années, elles privilégient les attentats-suicides, avant d’opter à partir de 2006 pour les tirs de roquettes et de mortiers depuis Gaza.

    Ces dernières années, le Hamas, critiqué pour sa gestion autoritaire de la bande de Gaza, sa corruption, ses multiples violations des droits humains (il a réprimé en 2019 la colère de la population exténuée par le blocus israélien), était réputé en perte de vitesse, mis face à l’usure du pouvoir.
    Prise de pouvoir de la branche militaire

    Son offensive meurtrière par la terre, les airs et la mer du samedi 7 octobre – cinquante ans, quasiment jour pour jour, après le déclenchement de la guerre de Kippour et à l’heure des accords d’Abraham visant à normaliser les relations entre Israël et plusieurs pays arabes sur le dos des Palestiniens et sous pression des États-Unis – le replace en première ligne. Elle révèle sa nouvelle puissance ainsi qu’un savoir-faire jusque-là inédit dans sa capacité de terrasser l’une des armées les plus puissantes de la région et d’humilier le Mossad et le Shin Bet, les tout-puissants organes du renseignement extérieur et intérieur israélien.

    Elle révèle aussi le pouvoir pris par la branche militaire sur la branche politique d’un mouvement sunnite qui serait fort d’une mini-armée, dotée d’environ 40 000 combattants et de multiples spécialistes, notamment en cybersécurité, selon Reuters. Un mouvement qui peut compter sur ses alliés du « Front de la résistance » pour l’équiper : l’Iran, la Syrie et le groupe islamiste chiite Hezbollah au Liban, avec lesquels il partage le rejet d’Israël.

    Sur les plans militaire, diplomatique et financier, l’Iran chiite est l’un de ses principaux soutiens. Selon un rapport du Département d’État américain de 2020, cité par Reuters, l’Iran fournit environ 100 millions de dollars par an à des groupes palestiniens, notamment au Hamas. Cette aide aurait considérablement augmenté au cours de l’année écoulée, passant à environ 350 millions de dollars, selon Reuters.

    Le Hamas n’est pas seulement un mouvement politique et une organisation combattante, c’est aussi une administration. À ce titre, il lève des impôts et met en place des taxes sur tout ce qui rentre dans la bande de Gaza, soit légalement, par les points de passage avec Israël et avec l’Égypte, soit illégalement. Les revenus qu’il perçoit ainsi sont estimés à près de 12 millions d’euros par mois. Ce qui est peu, finalement, car cette administration doit payer ses fonctionnaires et assurer un minimum de protection sociale, sous forme d’écoles, d’institutions de santé, d’aides aux plus défavorisés. Il est en cela aidé par le Qatar sunnite, avec l’aval du gouvernement israélien. L’émirat a ainsi versé 228 millions d’euros en 2021 et cette somme devait être portée à 342 millions en 2021.

    Le Hamas figurant sur les listes américaine et européenne des mouvements soutenant le terrorisme, le système bancaire international lui est fermé. Aussi, quand cette aide est mise en place, en 2018, ce sont des valises de billets qui arrivent, en provenance du Qatar, à l’aéroport de Tel Aviv et prennent ensuite la route de Gaza où elles pénètrent le plus officiellement du monde. Par la suite, les opérations seront plus discrètes.

    Plus discrets, aussi, d’autres transferts à des fins moins avouables que le paiement du fuel pour la centrale électrique ou des médicaments pour les hôpitaux. Ceux-là arrivent jusqu’au Hamas par des cryptomonnaies. Même si les relations avec l’Iran sont moins bonnes depuis que le Hamas a soutenu la révolution syrienne de 2011, la république islamique reste encore le principal financier de son arsenal, de l’aveu même d’Ismail Hanniyeh. Le chef du bureau politique du Hamas, basé à Doha, a affirmé en mars 2023 que Téhéran avait versé 66 millions d’euros pour l’aider à développer son armement.

    Le Qatar accueille également plusieurs des dirigeants du Hamas. Quand ils ne s’abritent pas au Liban ou dans « le métro » de Gaza, ce dédale de tunnels creusés sous terre depuis l’aube des années 2000, qui servent tout à la fois de planques et d’usines où l’on fabrique ou importe des armes, bombes, mortiers, roquettes, missiles antichar et antiaériens, etc.

    Pour les uns, le Hamas a enterré la cause palestinienne à jamais le 7 octobre 2023 et est le meilleur ennemi des Palestinien·nes. Pour les autres, il a réalisé un acte de résistance, de libération nationale face à la permanence de l’occupation, la mise en danger des lieux saints à Jérusalem, l’occupation en Cisjordanie. « Quand il s’agit de la cause palestinienne, tout mouvement se dressant contre Israël est considéré comme un héraut, quelle que soit son idéologie », constate Mohamed al-Masri, chercheur au Centre arabe de recherches et d’études politiques de Doha, au Qatar, dans un entretien à Mediapart.

    Samedi 7 octobre, c’est Mohammed Deif qui a annoncé le lancement de l’opération « Déluge d’al-Aqsa » contre Israël pour « mettre fin à tous les crimes de l’occupation ». Le nom n’est pas choisi au hasard. Il fait référence à l’emblématique mosquée dans la vieille ville de Jérusalem, symbole de la résistance palestinienne et troisième lieu saint de l’islam après La Mecque et Médine, d’où le prophète Mahomet s’est élevé dans le ciel pour rencontrer les anciens prophètes, dont Moïse, et se rapprocher de Dieu.

    Mohammed Deif est l’ennemi numéro un de l’État hébreu, le cerveau de ce qui est devenu « le 11-Septembre israélien » : il est le commandant de la branche armée du Hamas. Surnommé le « chat à neuf vies » pour avoir survécu à de multiples tentatives d’assassinat, Mohammed Diab Ibrahim al-Masri, de son vrai nom, serait né en 1965 dans le camp de réfugié·es de Khan Younès, dans le sud de la bande de Gaza. Il doit son surnom de « Deif » – « invité » en arabe – au fait qu’il ne dort jamais au même endroit.

    Il a rejoint le Hamas dans les années 1990, connu la prison israélienne pour cela, avant d’aider ensuite à fonder la branche armée du Hamas dans les pas de son mentor qui lui a appris les rudiments des explosifs, Yahya Ayyash. Après l’assassinat de ce dernier, il a pris les rênes des Brigades Al-Qassam. Israël peut détruire l’appareil du Hamas, avec des assassinats ciblés. D’autres se tiennent prêts à prendre la relève dans l’ombre des maîtres. Deif en est un exemple emblématique.

    « Le Hamas a été promu en sous-main par Nétanyahou, rappelle dans un entretien à Mediapart l’écrivain palestinien et ancien ambassadeur de la Palestine auprès de l’Unesco, Elias Sanbar. J’ai le souvenir, tandis qu’Israël organisait un blocus financier à l’encontre du Fatah et de l’Autorité palestinienne, que les transferts d’argent au Hamas passaient alors par des banques israéliennes ! La créature d’Israël s’est retournée contre lui. Entre-temps, elle s’est nourrie des échecs de l’Autorité palestinienne, dont les représentants sont accusés d’être des naïfs, sinon des traîtres, partant depuis 1993 dans des négociations avec Israël pour en revenir toujours bredouilles. »

    –—

    Sur la charte de 1988 et le document de 2017

    La charte du Hamas, publiée en 1988 (il existe une traduction du texte intégral réalisée par le chercheur Jean-François Legrain, spécialiste du Hamas), reprend les antiennes antisémites européennes. Elle définit le Hamas comme « un des épisodes du djihad mené contre l’invasion sioniste » et affirme notamment que le mouvement « considère que la terre de Palestine [dans cette acceptation Israël, Cisjordanie et bande de Gaza – ndlr] est une terre islamique de waqf [mot arabe signifiant legs pieux et désignant des biens inaliénables dont l’usufruit est consacré à une institution religieuse ou d’utilité publique – ndlr] pour toutes les générations de musulmans jusqu’au jour de la résurrection. Il est illicite d’y renoncer tout ou en partie, de s’en séparer tout ou en partie ».

    Dans son livre Le Grand aveuglement, sur les relations parfois en forme de pas-de-deux, entre les dirigeants israéliens successifs et le Hamas, Charles Enderlin cite de nombreux rapports du Shabak, service de renseignement intérieur de l’État hébreu. Dont celui-ci, dans la foulée de la diffusion de la charte de 1988 : « Le Hamas présente la libération de la Palestine comme liée à trois cercles : palestinien, arabe et islamique. Cela signifie le rejet absolu de toute initiative en faveur d’un accord de paix, car : “Renoncer à une partie de la Palestine équivaut à renoncer à une partie de la religion. La seule solution au problème palestinien c’est le djihad”. »

    Dans la lignée de ce texte, le Hamas, qui n’appartient pas à l’Organisation de Libération de la Palestine (OLP), dont fait partie le Fatah, parti de Yasser Arafat, rejette évidemment les Accords d’Oslo et toutes les phases de négociations.

    Au fil des années cependant se feront jour des déclarations plus pragmatiques. Le sheikh Yassin lui-même a, avant son assassinat par Israël en 2004, affirmé à plusieurs reprises que le Hamas était près à une hudna (trêve) avec l’État hébreu, laissant aux générations futures le soin de reprendre, ou non, le combat.

    La participation du Hamas aux élections législatives de 2006 est considérée comme une reconnaissance informelle et non dite de l’État d’Israël. Le Hamas accepte en effet un scrutin qui se déroule sur une partie, et une partie seulement, de la Palestine historique, celle des frontières de 1967, ceci en contradiction avec la charte de 1988.

    Dans une longue et savante analyse, l’historien Jean-François Legrain, reconnu comme un des meilleurs spécialistes français du Hamas, explique que la charte de 1988, écrit par un individu anonyme, n’a pas fait consensus dans les instances dirigeantes du Hamas. Elle était très peu citée par ses cadres. Ce qui ne signifie pas que des responsables du Hamas ne tenaient pas des discours antisémites. Lors d’une interview en 2009, Mahmoud al-Zahar, alors important responsable du Hamas dans la bande de Gaza, défendait la véracité du Protocole des sages de Sion, cité dans la charte de 1988.

    Au cours de la décennie qui suit sa victoire aux élections législatives puis sa guerre fratricide avec le Fatah, le Hamas, maître désormais de la bande de Gaza, montrera qu’il ne renonce pas à la lutte armée : s’il semble avoir renoncé aux attentats-suicides, si nombreux de 1993 à 1996 puis entre 2001 et 2005, il lance régulièrement des roquettes Qassam, du nom de sa branche militaire, en direction du territoire israélien.

    Ce sont les civils qui en paient le prix, avec des guerres lancées contre la bande de Gaza en 2008, 2012, 2014 et 2021. Le Hamas, sans abandonner la lutte armée, adopte en 2017 un Document de principes et de politique généraux qui semble aller contre les principes de la charte de 1988. Il ne s’agit plus de lutter contre les Juifs, mais contre les sionistes : « Le Hamas affirme que son conflit porte sur le projet sioniste et non sur les Juifs en raison de leur religion. Le Hamas ne mène pas une lutte contre les Juifs parce qu’ils sont juifs, mais contre les sionistes qui occupent la Palestine » (article 16). Plus remarqué encore, l’acceptation des frontières de 1967 : « Le Hamas rejette toute alternative à la libération pleine et entière de la Palestine, du fleuve à la mer. Cependant, sans compromettre son rejet de l’entité sioniste et sans renoncer à aucun droit palestinien, le Hamas considère que la création d’un État palestinien pleinement souverain et indépendant, avec Jérusalem comme capitale, selon les lignes du 4 juin 1967, avec le retour des réfugiés et des personnes déplacées dans leurs foyers d’où ils ont été expulsés, est une formule qui fait l’objet d’un consensus national » (article 20).

    La charte de 1988 n’est pour autant pas caduque, explique à la chercheuse Leila Seurat Khaled Mechaal, un des membres fondateurs du Hamas : « Le Hamas refuse de se soumettre aux désidératas des autres États. Sa pensée politique n’est jamais le résultat de pressions émanant de l’extérieur. Notre principe c’est : pas de changement de document. Le Hamas n’oublie pas son passé. Néanmoins la charte illustre la période des années 1980 et le document illustre notre politique en 2017. À chaque époque ses textes. Cette évolution ne doit pas être entendue comme un éloignement des principes originels, mais plutôt comme une dérivation (ichtiqaq) de la pensée et des outils pour servir au mieux la cause dans son étape actuelle. »

    Le nouveau document maintient, de toute façon, la lutte armée comme moyen de parvenir à ses fins.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/161023/aux-origines-de-l-histoire-complexe-du-hamas
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  • Toujours à propos de la façon dont on désigne les choses (voir https://seenthis.net/messages/1021010#message1021580), j’appartiens à une culture politique et à une génération qui s’efforçait d’éviter l’emploi des termes « terrorisme » ou « terroristes » pour rendre compte des « mouvements de lutte armée » (c’est ainsi que nous les désignions), tels que la RAF, les BR, AD, etc. ou les organisations de lutte de libération nationale palestinienne, irlandaise, basque, etc.

    Ces différents mouvements, même dans leurs aspects militaristes débiles les plus caricaturaux, représentaient une sorte de folklore largement compatible avec diverses versions du récit insurrectionnel et révolutionnaire commun à une large partie de l’extrême-gauche voire de la « gauche ».

    On n’est pas du tout fasciné par les armes, comme c’est mon cas. On est même clairement antimilitariste, mais on sait que le pouvoir ne disparaîtra pas de lui-même (à la suite d’une élection) et que, même si l’on n’adhère pas au schéma « prise du palais d’hiver », on a conscience que la révolution émancipatrice est nécessairement violente. Cette problématique (qui demande beaucoup de développements dans l’explication, donc ce ne sera pas ici) représente même, selon moi, l’une de ses principales contradictions que les futurs révolutionnaires auront à traiter (cela m’étonnerait que je vois ça).

    Pour ce qui me concerne, très souvent, je n’approuvais ni les objectifs ni les modes d’action de ces « mouvements de lutte armée » des années 70, mais il me semblait assez évident qu’ils participaient globalement d’un même champ (camp ?) d’émancipation en lutte contre la domination capitaliste, champ dans lequel je m’inscrivais aussi. Naïveté ? Peut-être.

    Nous disions, plus ou moins facilement, à propos de ces « mouvements de lutte armée », qu’ils ne s’agissait pas de « terroristes » mais de « militants révolutionnaires ».

    Il semblait important de ne pas reprendre le langage avec lequel nos adversaires communs criminalisaient ces mouvements, sachant que le pouvoir d’État (puisqu’il s’agit essentiellement de lui, ici) procède toujours par amalgame et par dissociation, lorsqu’il s’agit de désigner ses ennemis, et que personne n’est à l’abri de l’anathème dès lors qu’on s’affirme un tant soit peu en une position de lutte contre lui. Un constat, une fois de plus vérifié ces jours-ci.

    Je considère que ces repères politiques, idéologiques et sémantiques, ont été modifiés radicalement quand des organisations, telles que Al-Qaïda se sont efforcées, contrairement aux mouvement de lutte armées des années 70, de montrer qu’elles adopteraient désormais tous les signes distinctifs du « terrorisme » et des « terroristes », tel que le pouvoir aime à le théoriser et à le représenter, notamment au travers du concept de « guerre des civilisations ». L’art de la mise en scène hollywoodien de ce « terrorisme » spectaculaire et assumé ayant atteint son apogée avec le « 9/11 ».

    Il ne s’agit plus du tout des mêmes catégories que les mouvements des années 70 évoqués plus haut. Certaines actions de ces mouvements « gauchistes » étaient parfois difficiles à défendre mais avec le « 9/11 » on est clairement dans l’indéfendable. Déjà il est difficile de reconnaître qu’il puisse y avoir de « bonnes guerres » (certains concepts tels que « guerre sociale » ou « guerre de classe » me semblent quelque peu fumeux) mais avec les actes tels que ceux d’Al-Qaïda, il est clair qu’il ne s’agit en rien de « notre guerre ».

    Ces mouvements, du type Al-Qaïda, s’assument sans aucun complexe comme étant « terroristes » dans leur stratégie et dans leur modalités. La plupart du temps, ces organisations ne sont guidés que par des motifs religieux et, au nom de ces objectifs, elles pratiquent systématiquement des carnages aveugles, adoptant, de surcroît, une posture idéologique, sans équivoque, du combattant suicidaire. Il m’est impossible d’envisager que ces actions puissent avoir le moindre rapport avec la lutte pour l’émancipation humaine, sociale et politique, etc.

    Pour ce qui concerne l’attaque du Hamas du 7 octobre, nous ne sommes pas dans la même caractérisation que les mouvements tels qu’Al-Qaïda. D’une part, comme indiqué dans le fil du message référencé ci-dessus, il s’agit réellement d’une guerre entre deux entités pour un même territoire. Alors, certes, toutes les guerre sont criminelles, méprisables et condamnables mais celle-ci est imposée et il est impossible d’y échapper si on est du mauvais côté du manche ; c’est à dire, si on est Palestinien. C’est même la première chose à dire pour caractériser cette guerre : admettre qu’il y a ici un dominé et un dominant. Il faut rappeler que cette guerre est totalement disproportionnée et asymétrique. À ce titre, il est insupportable, comme on l’entend si souvent, de renvoyer dos à dos Israël et Palestine, comme s’il s’agissait d’un conflit entre le France et l’Allemagne pour récupérer l’Alsace–Lorraine.

    Aucune issue politique n’est donnée aux Palestiniens depuis plusieurs décennies, si ce n’est leur disparition pure et simple en tant que peuple, ou leur dissolution dans les autres nations arabes et la situation s’empire. Il ne reste plus que l’énergie du désespoir et l’expression de celle-ci est parfois aveugle, sur le plan humain, tant on inflige à ce peuple, une situation inhumaine dans les territoires occupés. La différence avec Al-Qaïda, de ce point de vue, peu sembler ténue, mais elle existe et il est essentiel de la rappeler : c’est l’ancrage réel des protagonistes palestiniens dans un territoire en guerre et subissant les pires conditions humanitaires. Comment attendre d’eux qu’ils adoptent parfois, dans leurs révoltes, d’autres comportements que « criminels », quand ils n’ont eux-mêmes que d’autres crimes de guerre comme seules réponses à leur revendications et qu’ils vivent, depuis plusieurs générations leur extermination ?

    Le Hamas est la créature monstrueuse du pouvoir d’État Israélien. Ce pouvoir, après avoir transformé sa guerre coloniale en guerre religieuse, pensait qu’il maîtrisait sa créature et qu’elle lui permettrait tranquillement de pourrir la cause palestinienne en discréditant toute issue politique. Mais la créature est sortie pour attaquer de façon indiscriminée tout ce qui vit en dehors de sa cage.

    Et maintenant le pouvoir israélien dit qu’il faut abattre la créature monstrueuse, sachant qu’elle est devenue, avec la contribution active de l’État d’Israël, la seule représentation politique crédible du peuple Palestinien. On peut s’attendre au pire et le pire a déjà commencé dans la réplique de l’armée d’Israël, ces derniers jours, contrer la population civile gazaouie.

    Les diplomates occidentaux, sont au summum de l’hypocrisie quand on les voit tous au garde-à vous derrière la « démocratie israélienne », alors que son gouvernement d’extrême droite, homophobe, religieux et raciste (qui n’est jamais nommé parmi la liste des « pays populistes ») continue de mener sa sale guerre contre la Palestine et que cela ne pouvait que conduire à l’attaque du 7 octobre.

    • LE MEURTRIER PRÉSUMÉ DE M. TRAMONI EST ARRÊTÉ
      https://www.lemonde.fr/archives/article/1977/12/06/le-meurtrier-presume-de-m-tramoni-est-arrete_2855506_1819218.html

      En Allemagne comme en France ou Japon les tentatives maoïstes d’appliquer les stratégies du grand timonier dans un milieu citadin moderne ont tragiquement échoué. Il faut leur reprocher comme aux groupes armés autonomes et anarchistes que leurs actions ont permis à la droite de justifier l’introduction de mesures de surveillance et d’articles du code pénal qui visent encore aujourd’hui les militants et symdicalistes pacifiques. Cette histoire de violence est aussi un bon exemple pour expliquer pourquoi les justifications morales contrairement à l’analyse scientifique sont un leurre. Ce n’est pas parce que tu es révolté par l’injustice que ton sentiment romantique sera partagé par qui que ce soit.

      M. Christian Harbulot, recherché depuis le meurtre, le 23 mars, à Limeil-Brévannes (Val-de-Marne), de Jean-Antoine Tramoni (qui avait lui-même tué, le 25 février 1972, un jeune militant maoïste, Pierre Overney), a été arrêté samedi 3 décembre à Paris dans un café du troisième arrondissement.

      Cinq ans après avoir tué, par balles, le 25 février 1972, devant la porte Zola des usines Renault, à Boulogne-Billancourt (Hauts-de-Seine) Pierre Overney, son meurtrier, Jean-Antoine Tramoni, ancien employé des services de surveillance de la régie Renault, était tué de cinq balles de 11,43.

      Condamné le 13 janvier 1973 à quatre ans de prison par la cour d’assises de Paris, J.-A. Tramoni avait bénéficié le 29 octobre 1974 d’une libération conditionnelle et trouvé un emploi dans une autoécole.

      Trois suspects ont été arrêtés le 31 mars. MM. Henri Savouillan, Maurice Marais et Egbert Slaghuis ont été inculpés de complicité d’assassinat. L’un d’eux est accusé d’avoir fourni l’arme qui a tué Jean-Antoine Tramoni, les deux autres, les projectiles (le Monde du 5 avril).

      Trois autres personnes arrêtées le 13 mai portant des armes qui avaient servi à plusieurs attentats mortels, dont le meurtre de Jean-Antoine Tramoni, sont aussi détenues dans cette affaire ; il s’agit de MM. Michel Lapeyre, Frédéric Oriach et Jean-Paul Gérard (le Monde des 28 mai et 6 octobre).

      Le meurtre de Tramoni était bientôt revendiqué par l’organisation dite Noyaux armés pour l’autonomie populaire . Les soupçons de la police se portaient aussi sur M. Christian Harbulot, car une carte d’identité portant son nom avait été trouvée, trois semaines avant la mort de Tramoni, ainsi que des armes, dans une automobile. Cette voiture stationnait devant le domicile de J.-A. Tramoni, à Alfortville. Poursuivi par la police, le conducteur avait tiré sur les policiers avant de s’enfuir.

      #souvenir_de_luttes #noyaux_armés_pour_l_autonomie_populaire

    • https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Pierre_Overney

      Grâce à Wikipedia on découvre que la police a fait publier dans Le Monde les noms de militants qui n’ont pas été impliqués dans l’assassinat. Ce genre de sale coup a beaucoup nuit aux mouvement contestataires.

      Le 23 mars 1977, vers 19 heures, Jean-Antoine Tramoni est assassiné à Limeil-Brévannes par deux tueurs à moto. Le crime est revendiqué par les NAPAP (Noyaux armés pour l’autonomie populaire), composés pour partie d’anciens militants de la Gauche prolétarienne. Les assassins ne seront jamais retrouvés.

      On a eu droit à la reprise du terme #terrorisme qui a d’abord servi à l’occupant allemand pour dénoncer les actes de résistance en France. Désormais tu risquais d’être poursuivi en justice pour avoir soutenu des #terroristes dès qu’on te répérait au sein d’une manifestation sous attaque des forces de l’ordre. On fît taire les moins courageux en les accusant de terrorisme pour leur critique écrite du capitalisme. En Allemagne les associations kurdes sont sytématiquement objets de ce procédé.

      https://fr.m.wikipedia.org/wiki/Noyaux_arm%C3%A9s_pour_l%27autonomie_populaire

      Les Noyaux armés pour l’autonomie populaire (NAPAP) sont un groupuscule armé français maoïste, qui apparaît en France en décembre 1976.

      Ils sont issus de l’organisation légale des Brigades internationales, Vaincre et vivre. D’obédience marxiste-léniniste, l’un des principaux dirigeants et idéologues des NAPAP fut Frédéric Oriach, un proche de Pierre Carette, membre-fondateur des Cellules communistes combattantes belges. Frédéric Oriach des NAPAP influença idéologiquement les CCC. Le chef présumé des NAPAP, selon la police, fut Christian Harbulot.

    • 25 février 1972 : assassinat de Pierre Overney (#Renault_Billancourt) | #archiveLO (7 mars 1972)
      – Malgré la désertion du #PCF & de la #CGT, une foule immense avec #Pierre_Overney (28 février)
      – Ce qui compte le plus : la liberté !
      – La direction réagit en licenciant les témoins du meurtre

  • #Georges_Ibrahim_Abdallah, une perpétuité politique

    Georges Ibrahim Abdallah, militant communiste libanais, est le plus vieux prisonnier politique d’Europe incarcéré en #France. Il a été condamné en 1987 pour complicité d’assassinat de deux diplomates américain et israélien. Mais Georges Ibrahim Abdallah a purgé sa peine, alors pourquoi est-il encore en #prison ? Quel est son combat et que représente Abdallah dans l’histoire de la lutte des Palestiniens ? Autant de questions délicates posées par l’incarcération de Georges Abdallah dans un pays, la France, où il est libérable depuis 1999.

    Après huit demandes de libération conditionnelle, dont certaines ont été acceptées par le Tribunal d’application des peines en 2013, le gouvernement français maintient son refus de signer un arrêté d’expulsion qui conditionne sa libération et son retour vers le Liban.

    https://www.rfi.fr/fr/podcasts/la-marche-du-monde/20221021-georges-ibrahim-abdallah-une-perp%C3%A9tuit%C3%A9-politique

    #podcast #Palestine #prisonnier_politique #emprisonnement #Georges_Abdallah #lutte #révolution #lutte_armée

  • Eric Vuillard : « L’extradition qu’on souhaite appliquer aux réfugiés politiques italiens est une procédure défunte »

    Opposé à la procédure engagée à l’encontre des anciens militants d’extrême gauche italiens réfugiés en France depuis une quarantaine d’années, l’écrivain en appelle, dans une tribune au « Monde », au droit à « l’erreur » et à « l’oubli » pour tous, à l’exception des responsables de crimes contre l’humanité.

    [Depuis le 23 mars, la chambre de l’instruction de la cour d’appel de Paris examine les demandes d’#extradition envoyées par l’Etat italien à l’encontre de dix anciens militants d’extrême gauche italiens. Ces derniers, poursuivis ou condamnés dans le cadre de procès des années de plomb, se sont réfugiés dans les années 1980-1990 en France, où ils ont été accueillis au nom de la « doctrine Mitterrand » (1985) qui prévoyait d’accorder l’#asile politique aux militants ayant accepté d’abandonner la lutte armée. Malgré les demandes d’extradition, pendant plus de trente ans et jusqu’à aujourd’hui, la France n’a pratiquement jamais dérogé à cette règle. Après une nouvelle demande d’extradition de l’Italie, Emmanuel Macron a ordonné l’arrestation le 28 avril 2021, de dix d’entre eux.]

    Tribune. Imaginez que le temps s’arrête. Nous serions tous figés, immobiles, avec nos erreurs, nos fautes, et notre vie resterait pendue à notre cou comme un collier de lave. Cela ne se peut pas. Le temps passe. La vie devient autre chose, le courant nous emporte, nos opinions s’effacent, nos affections varient, nous sommes à la fois le même et quelqu’un d’autre. Et notre vie présente recouvre le passé, le rédime, nous sauve. C’est pourquoi, il ne peut exister de droit laïc sans prescription.

    Le temps, l’oubli, offre au droit une limite concrète, raisonnable, humaine aussi. La hiérarchie des peines, des sanctions, ne monte pas jusqu’au ciel, elle s’interrompt quelque part, elle n’est pas absolue, mais relative. Le droit s’adresse à l’homme, il porte sur la vie humaine, et seulement sur elle. Il ne pourrait exister de peine perpétuelle que si la vie était éternelle. On le voit bien, l’absence de prescription est à placer du côté de l’éternité, de la permanence, d’une justice transcendante à l’homme, d’une conception religieuse du droit. Or les hommes changent, les époques changent, les justifications, les idées changent. Sauf pour les crimes contre l’humanité, la justice doit un jour oublier.

    La Révolution française écarta la perpétuité, et instaura la prescription. Cela marque son origine démocratique. L’individu est trop fragile face à l’État ; la durée de la peine, ou son application, ne saurait être perpétuelle. On ne peut écarter quelqu’un de la vie sociale pour toujours. Une société se définit par son droit. Une société injuste, un régime féodal marque au fer rouge. Une société égalitaire considère que tout le monde est faillible, que l’erreur est de ce monde, et en conséquence elle réhabilite, elle oublie, elle accueille.

    L’an dernier, le président Macron a décidé de remettre à l’Italie dix réfugiés vivant en France depuis quarante ans. Ici, tous les discours échouent sur le temps. Il y a la douleur incontestable des victimes, de leurs familles, la responsabilité, des questions juridiques, mais tout cela désormais échoue sur le temps. On ne peut pas « régler ce sujet », comme le souhaiterait le président, le temps s’en est chargé.

    L’extradition qu’on souhaite leur appliquer est une procédure elle-même défunte, qui ne s’applique plus en Europe que pour les affaires du siècle précédent. Aussi, afin de saisir ce qui se joue dans cette terrible affaire, il importe que nous sentions, chacun, dans notre chair, quarante années.

    Essayer de remonter le temps

    Il y a quarante ans, l’URSS existait encore, l’espace Schengen n’existait pas, le monde n’était pas le même, les sociétés étaient radicalement différentes, les tensions politiques, l’ambiance, tout. La plupart d’entre nous n’étaient d’ailleurs pas nés, ou bien étaient enfants, adolescents. Quant aux dix Italiens que l’on voudrait extrader, c’étaient alors des jeunes gens de 20 ans, de 30 ans. Ce sont aujourd’hui des grands-parents, des retraités. Il faut donc essayer de marcher en arrière, de remonter le temps, celui de notre vie, afin de sentir s’étirer en nous quarante années. Soudain, le fil se rompt, on ne peut pas remonter jusque-là, on y voit à peine, on se souvient d’une atmosphère, vaguement, on entend à nouveau la voix de ses parents, on devine une lumière qu’il y avait le matin dans la cuisine ; que tout cela est loin à présent !

    C’est depuis cette durée concrète de nos vies que les révolutionnaires français ont réformé le droit. C’est de leurs véritables souvenirs, de nos véritables vies qu’ils se sont inspirés, lorsqu’ils ont décidé d’en finir avec le droit féodal, avec l’arbitraire, la perpétuité, lorsqu’ils ont décidé d’en finir avec la marque au fer rouge, et qu’ils ont déclaré que les peines, ou leur exécution, ne pouvaient pas durer éternellement, que le droit devait un jour s’éteindre, que l’oubli était une limite essentielle au pouvoir de l’Etat. Ce sont nos souvenirs lointains, la brume qui les entoure, dont il faut s’inspirer. Nous ne devons pas renvoyer ces réfugiés en Italie.
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2022/06/04/eric-vuillard-l-extradition-qu-on-souhaite-appliquer-aux-refugies-politiques

    #lutte_armée

  • UbuWeb Film & Video : Masao Adachi & Kôji Wakamatsu - Sekigun-PFLP : Sekai Senso Sengen (The Red Army/PFLP : Declaration of World War) [1971]
    https://ubu.com/film/adachi_red.html

    Japanese
    1971
    70 min
    Co-edited by Red Army (Red Army Faction of Japan Revolutionary Communist League) and PFLP (Popular Front for the Liberation of Palestine)

    In 1971, Koji Wakamatsu and Masao Adachi, both having ties to the Japanese Red Army, stopped in Palestine on their way home from the Cannes festival. There they caught up with notorious JRA ex-pats Fusako Shigenobu and Mieko Toyama in training camps to create a newsreel-style agit-prop film based off of the “landscape theory” (fûkeiron) that Adachi and Wakamatsu had developed. The theory, most evident at work in A.K.A. Serial Killer (1969), aimed to move the emphasis of film from situations to landscapes as expression of political and economical power relations.

    In 1974 Adachi left Japan and committed himself to the Palestinian Revolution and linked up with the Japan Red Army. His activities thereafter were not revealed until he was arrested and imprisoned in 1997 in Lebanon. In 2001 Adachi was extradited to Japan, and after two years of imprisonment, he was released and subsequently published Cinema/Revolution [Eiga/Kakumei], an auto-biographical account of his life.

  • TENIR PAROLE #1
    https://www.youtube.com/watch?v=R2cDf1A7bkU

    En avril 2021, dix personnes, engagées dans l’extrême-gauche italienne durant les années 1970, ont été interpellées en vue de leur extradition vers l’Italie.
    Cette procédure d’extradition va à l’encontre des engagements pris par l’Etat français à leur égard, de l’asile qui leur fut assuré sous 4 présidents de la République successifs.

    Parfaitement intégrés à la société française, par leur travail, leurs enfants, leurs petits-enfants, ces hommes et ces femmes, qui ont entre 60 et 80 ans, font aujourd’hui l’objet d’une persécution qui relève plus de la vengeance que de la justice.

    Merci à Charles Berling, Hervé Pierre, Katell Borvon, Jean-François Sivadier, Frédéric Noaille, Lisiane Durand, Nicolas Bouchaud, pour cette première vidéo. D’autres suivront. Vous pouvez laisser un message sur la page fb de #tenirparole pour participer à la mobilisation.

    #militantisme #lutte_armée #extradition #italiens #justice

  • #Frantz_Fanon

    Le nom de Frantz Fanon (1925-1961), écrivain, psychiatre et penseur révolutionnaire martiniquais, est indissociable de la #guerre_d’indépendance algérienne et des #luttes_anticoloniales du XXe siècle. Mais qui était vraiment cet homme au destin fulgurant ?
    Nous le découvrons ici à Rome, en août 1961, lors de sa légendaire et mystérieuse rencontre avec Jean-Paul Sartre, qui a accepté de préfacer Les Damnés de la terre, son explosif essai à valeur de manifeste anticolonialiste. Ces trois jours sont d’une intensité dramatique toute particulière : alors que les pays africains accèdent souvent douloureusement à l’indépendance et que se joue le sort de l’Algérie, Fanon, gravement malade, raconte sa vie et ses combats, déplie ses idées, porte la contradiction au célèbre philosophe, accompagné de #Simone_de_Beauvoir et de #Claude_Lanzmann. Fanon et Sartre, c’est la rencontre de deux géants, de deux mondes, de deux couleurs de peau, de deux formes d’engagement. Mais la vérité de l’un est-elle exactement celle de l’autre, sur fond d’amitié et de trahison possible ?
    Ce roman graphique se donne à lire non seulement comme la biographie intellectuelle et politique de Frantz Fanon mais aussi comme une introduction originale à son œuvre, plus actuelle et décisive que jamais.

    https://www.editionsladecouverte.fr/frantz_fanon-9782707198907

    #BD #bande_dessinée #livre

    #indépendance #Algérie #Organisation_armée_secrète (#OAS) #décolonisation #biographie #colonisation #France #souffrance_psychique #syndrome_nord-africain #violence #bicots #violence_coloniale #lutte_armée #agressivité #domination #contre-violence #violence_politique #violence_pulsionnelle #Jean-Paul_Sartre #Sartre #socialthérapie #club_thérapeutique_de_Saint-Alban #François_Tosquelles #Saint-Alban #Septfonds #narcothérapie #négritude #école_d'Alger #Blida #primitivisme #psychiatrie_coloniale #insulinothérapie #cure_de_Sakel #sismothérapie #choc #autonomie #révolution #Consciences_Maghrébines #André_Mandouze #Amitiés_Algériennes #Wilaya #Association_de_la_jeunesse_algérienne_pour_l'action_sociale (#AJASS) #Alice_Cherki #maquis #montagne_de_Chréa #torture #attentats #ALN #FLN #El_Moudjahid #congrès_de_la_Soummam #pacification_coloniale #Septième_Wilaya #massacre_de_Melouze #opération_Bleuite #histoire

    • Selon nos règles de droit en effet, les dossiers en question sont tous prescrits et ne sauraient donner lieu à des extraditions quarante, voire cinquante ans après les faits.

      Rappelons qu’en France, seuls les crimes contre l’humanité sont imprescriptibles. Mettre un signe égal entre telle affaire d’homicide et un génocide, assimiler des personnes accueillies par la République française à des nazis cachés par quelque dictature du Proche-Orient, c’est faire preuve d’un relativisme qui ne pourra que réjouir les cercles négationnistes et leurs amis d’extrême droite.

      [...]

      Dans l’Orestie d’Eschyle, un meurtrier erre en exil, pourchassé par les déesses de la vengeance, qui réclament réparation au nom de la victime. Mais Oreste dit cette chose curieuse : « Je ne suis plus un suppliant aux mains impures : ma souillure s’est émoussée. Elle s’est usée au contact des hommes qui m’ont reçu dans leurs maisons ou que j’ai rencontrés sur les routes. » Comme si le temps, l’exil, le commerce des hommes avaient un pouvoir purificateur et qu’Oreste ne se réduisait plus à celui qui fit cette chose, terrible entre toutes : tuer sa mère. A la fin de la pièce, Athéna, déesse protectrice de la Cité, prend une décision qui s’apparente davantage à une amnistie qu’à un acquittement. Les Erinyes, invitées à habiter Athènes, comme pour réaffirmer le respect des victimes, acceptent la fondation du tribunal de l’Aréopage, la fondation du droit moderne. Le cycle de la vengeance est achevé, vient celui de la justice.

      Cette fable, fondatrice de notre culture européenne commune, comment se peut-il qu’on l’oublie si souvent ? La vengeance est de nouveau à l’ordre du jour. La souillure qui ne s’efface jamais, qui réduit le criminel à son crime, toujours présent, jamais passé, est un outil pour manipuler l’opinion et troubler les consciences. Et l’extrême droite italienne, responsable des deux tiers des morts de ce qu’on appelle « les années de plomb » et qui ose parler au nom des victimes, ne pourrait que se féliciter de cette entreprise.

      #extradition #justice #lutte_armée

  • 40 ans après, la France décide de livrer à la justice italienne d’ex-militants de la lutte armée à qui elle avait accordé l’asile - Paris (75000)
    https://www.lamontagne.fr/paris-75000/actualites/40-ans-apres-la-france-decide-de-livrer-a-la-justice-italienne-d-ex-milit

    Serge Quadruppani préfère rappeler le contexte historique de ce qu’il appelle un « affrontement politique armé ». Celui « des ouvriers et de la jeunesse étudiante contre l’État italien. C’est un mouvement comparable à celui de Mai 68 et qui a duré dix ans. C’était beaucoup plus violent mais c’était toute la société italienne qui était plus violente […] Il y avait des morts des deux côtés. Y compris dans les manifestations ou lors des arrestations par les policiers. C’était une forme de guerre civile ».
    Alessandro Stella, qui a pu prendre un nouveau départ en France et qui n’est plus dans le collimateur de la justice italienne, a témoigné dans un livre de son parcours militant (1).
    Pour l’historien qu’il est devenu, le « contexte » ne peut être occulté. Alessandro Stella parle même d’une « responsabilité collective que les juges ne veulent pas prendre en compte » : « Il y avait en Italie dans ces années-là des millions de gens qui criaient -Vive la Révolution-, et au bout de tout un processus, quelques milliers qui ont fini par prendre les armes. Qui se sont convaincu qu’il fallait répondre par la violence à un Etat violent. »

  • Barbagia Rossa
    https://barbagiarossa.wordpress.com/barbagia-rossa

    Di Massimiliano Musina

    Tutti i testi sono di proprietà dell’autore e protetti da una licenza Creative Commons “Attribuzione-Non commerciale-Non opere derivate 2.5 Italia“.
    INDICE

    01) Introduzione
    02) Marzo 1978. La prima comparsa di Barbagia Rossa
    03) Novembre 1978. L’agguato alla stazione radar di Siamanna
    04) Gennaio 1979. Si apre la campagna contro la militarizzazione dell’isola
    05) Dicembre 1979. C’è un filo conduttore nella malavita sarda?
    06) Dicembre 1979. Il conflitto a “Sa Janna Bassa”
    07) Febbraio 1980. L’udienza sui fatti di “Sa Janna Bassa”
    08) Febbraio 1980. Il conflitto alla stazione di Cagliari
    09) Giugno 1981. La requisitoria sulla sparatoria a Cagliari
    10) Giugno 1981, L’errato attentato mortale a Natalino Zidda
    11) Agosto 1981. L’attentato mortale a Santo Lanzafame
    12) Febbraio 1982. Le confessioni di Savasta e la scomparsa di Barbagia Rossa

    01) Introduzione

    Barbagia Rossa era un’organizzazione militante di estrema sinistra che ha operato tra il 1978 e il 1982 in Sardegna.
    Si proponeva di diventare il punto di riferimento politico e militare per tutto il proletariato sardo.
    Un elemento importante della sua azione è stato quello di contrastare la forte militarizzazione dell’isola che in quegli anni vede aumentare il numero di basi militari, probabilmente anche a causa dei sempre più numerosi agguati e sequestri di persona.
    L’organizzazione instaurò anche un forte legame con le Brigate Rosse fungendo a volte da appoggio per alcune operazioni svolte dalle BR nell’isola.

    I suoi dirigenti erano Pietro Coccone, Antonio Contena, Caterina Spano, Davide Saverio Fadda.

    02) Marzo 1978. La prima comparsa di Barbagia Rossa

    La sigla Barbagia Rossa fa la sua prima apparizione il 30 dicembre del 1977, quando viene dato fuoco alla porta laterale del tribunale di Nuoro con un ordigno incendiario a innesco chimico.
    Nella rivendicazione, un volantino trovato su una cabina telefonica, i “GABR” (Gruppi Armati Barbagia Rossa) affermano di voler colpire l’istituzione carceraria nel suo complesso.

    Ma in quegli anni la cronaca cittadina ha a che fare con varie sigle e gruppi più o meno fantasiosi che rivendicano puntualmente ogni azione militante.

    GABR acquista una certa credibilità solo dopo il secondo attentato.
    Sabato 25 marzo 1978 viene dato fuoco a un cellulare adibito al trasporto detenuti.
    Anche in questo caso si fa uso di particolari sostanze presupponendo delle buone e preoccupanti conoscenze in ambito chimico.
    Questa volta la rivendicazione arriva telefonicamente lunedì 27 marzo e Barbagia Rossa, sottolineando l’intenzione di colpire l’istituzione carceraria nel suo complesso, chiede anche la liberazione di tutti i detenuti di “Badu ‘e carros”, il supercarcere di Nuoro.

    03) Novembre 1978. L’agguato alla stazione radar di Siamanna

    Dopo alcuni mesi di apparente inattività, un nuovo attentato richiama l’attenzione delle forze politiche dell’isola.
    Giovedì 2 novembre 1978, verso mezzanotte, viene assalita la stazione radar di Siamanna, in provincia di Oristano.
    La stazione, un groviglio di antenne e cavi nella pianura oristanese, è sorvegliata da quattro militari di leva (Giovanni Melis di Senorbì, Antonio Cabras di Sant’Antioco, Luigi Madeddu di Iglesias, Sebastiano Bassallu di Santulussurgiu). Uno di loro, durante la ronda notturna, viene assalito da tre malviventi a volto coperto e lo obbligano a portarli all’interno della stazione.
    I quattro militari vengono immobilizzati.

    Gli aggressori non causano nessun danno alla strumentazione, limitandosi a prelevare i quattro fucili Garand dei soldati, 150 proiettili e alcune bombe a mano.
    Prima di andare via si rivolgono ai giovani di leva dicendo “Scusateci, non ce l’abbiamo con voi ma con lo Stato. Siamo del gruppo di Barbagia Rossa”.

    Il fatto che non sia stato fatto nessun danno alla strumentazione militare evidenzia che l’aggressione ebbe come unico fine quello di prelevare le armi.
    Inoltre un dato interessante è che i fucili Garand (di fabbricazione americana) hanno un peso di circa 8 kg e una lunghezza di oltre un metro; essendo poco maneggevoli sono poco quotati nel mercato clandestino. Però sono armi di altissima precisione e lunga portata (hanno un tiro utile di circa 1200 metri) per questo si può ipotizzare un uso in campo terroristico.

    02 – La stazione radar assaltata a Siamanna (Oristano)

    04) Gennaio 1979. Si apre la campagna contro la militarizzazione dell’isola

    Dal gennaio del 1979 Barbagia Rossa porta avanti una “Campagna contro la militarizzazione del territorio” compiendo numerosi attentati a Nuoro e dintorni (Lula e Orani).

    Nei documenti di rivendicazione l’organizzazione si presenta così:
    “Barbagia Rossa, in quanto avanguardia politico-militare espressa nel territorio, si fa carico del progetto strategico della lotta armata per il comunismo:
    – cercando di superare la fase spontanea ed episodica degli attacchi;
    – mirando alla creazione di una organizzazione che sia in grado di intervenire ed operare all’interno di qualsiasi contraddizione, in ogni situazione reale del territorio;
    – proponendosi di diventare punto di riferimento politico-militare per tutto il proletariato sardo”.

    Un altro fatto interessante accade il 28 gennaio ’79.
    A Torino viene effettuata un’operazione anti terroristica per sgominare una cellula delle brigate rosse.
    Vengono scovati due covi con armi e denaro e arrestati Maria Rosaria Biondi, Nicola Valentino e Ingeborg Keiznac.
    Inoltre vengono arrestate tre persone sarde, precisamente di Orani (paese a pochi chilometri da Nuoro): le sorelle Carmela e Claudia Cadeddu e Andrea Boi.
    I “tre sardi” sono tutti emigrati che lavorano da tempo fuori dall’isola.
    Tutta la comunità di Orani non crede a un legame dei compaesani con i brigatisti, si pensa invece a un inspiegabile errore giudiziario.

    03 – I tre sardi arrestati nel corso delle indagini sui covi delle Brigate Rosse scoperti a Torino

    05) Dicembre 1979. C’è un filo conduttore nella malavita sarda?

    Il 14 dicembre viene trovato un piccolo arsenale in una campagna di Illorai, vicino al ponte “Iscra” sul fiume Tirso.
    Tra le armi, coperte da fitta vegetazione e cespugli, è presente anche un fucile automatico che era stato rubato il 23 settembre ad un cacciatore nuorese, Giovanni Loria, a cui i malviventi dissero di appartenere al movimento “Barbagia Rossa”.

    Ma si tratta solo di un piccolo avvenimento; il dicembre del ’79 è teatro di più importanti e ingarbugliate vicende.
    Le forze dell’ordine cercano di trovare un filo conduttore tra le varie azioni malavitose del banditismo sardo e i sempre più numerosi attentati a sfondo politico.

    Sono in corso i sequestri di Fabrizio De Andrè e sua moglie Dori Ghezzi (catturati il 27 agosto ’79 per poi essere liberati dopo circa quattro mesi, il 20 dicembre lei e il 22 dicembre lui) nonché il più discreto, e quindi più preoccupante, rapimento Schild.
    Per polizia e carabinieri un filo conduttore esiste e sarebbe di sfondo politico, da ricercare nelle azioni militanti dei gruppi di estrema sinistra che si sono inseriti prepotentemente nelle scene sarde.

    Il 18 dicembre ’79 a Sassari viene bloccata un auto con quattro giovani (Angelo Pascolini, Luciano Burrai, Carlo Manunta, Antonio Solinas).
    L’auto, che si trova in via Luna e Sole, zona periferica della città abitata da molte persone facoltose, aveva dato nell’occhio e giungono alcune volanti della polizia per un controllo.
    All’alt delle forze dell’ordine uno dei quattro risponde tentando di lanciare una bomba a mano, ma viene bloccato da uno degli agenti.
    Successivamente partono gli arresti per i quattro giovani.

    Durante la perquisizione si scopre che l’auto era equipaggiata con molte armi e libri di natura politica. Viene trovata una cartolina di un brigatista rinchiuso nel carcere dell’Asinara e scoperto un covo. Si trovano anche le prove di un tentativo di sequestro ai danni di un politico isolano.
    I quattro vengono accusati di associazione a fini eversivi, tentato omicidio plurimo, porto e detenzione abusiva di armi (un mitra, sei pistole, circa tremila cartucce) e tentato sequestro di persona.

    04 – Angelo Pascolini, Luciano Burrai e in basso Carlo Manunta e Antonio Solinas. I quattro giovani catturati nell’auto-arsenale alla periferia di Sassari

    05 – Angelo Pascolini, il giovane romano arrestato sull’auto trasformata in arsenale, esce dalla questura di Sassari

    06) Dicembre 1979. Il conflitto a “Sa Janna Bassa”

    Ma l’avvenimento che segna maggiormente la cronaca di questo intenso dicembre del ’79, è il sanguinoso conflitto a fuoco di “Sa Janna Bassa” a Orune.

    Il 17 dicembre il capitano dei carabinieri Enrico Barisone esce con due carabinieri al seguito per il solito giro di perlustrazione notturna.
    Quando si trovano nei pressi dell’ovile di Carmelino Coccone, vicino Orune, sono attirati da insoliti movimenti e intimano l’alt a delle persone che si trovano fuori dall’ovile, ma questi rispondono aprendo il fuoco e ferendo il capitano.
    Nasce un sanguinoso conflitto a fuoco in cui restano uccisi due pastori: Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti.

    Nel frattempo arrivano i rinforzi; alcuni malviventi scappano mentre otto vengono arrestati: Carmelino Coccone, Sebastiano e Pietro Masala, Pietro Malune, Antonio Contena, Mario Calia, Mauro Mereu e Melchiorre Deiana.
    I carabinieri sostengono di aver interrotto una specie di “summit” del banditismo isolano, una “cena di lavoro” in cui si sarebbero prese importanti decisioni.
    Si ipotizza anche di aver smantellato l’intera banda legata ai sequestri De Andrè/Ghezzi o Schild.

    Un importante fatto che caratterizza i fatti di “Sa Janna Bassa” è che in due giacche rinvenute nell’ovile teatro della sparatoria, sono stati trovati dei volantini appartenenti alle Brigate Rosse; in particolare nelle giacche di Giovanni Maria Bitti, morto durante la sparatoria, e di Pietro Coccone (nipote di Carmelino Coccone), dirigente di Barbagia Rossa riuscito a scappare durante l’agguato dei carabinieri.

    Tutti questi elementi mettono alla luce eventuali risvolti politici e collegamenti tra banditismo sardo e organizzazioni eversive.

    06 – L’ovile di Coccone teatro della sanguinosa sparatoria

    07 – I corpi dei banditi vengono trasportati a Nuoro; sullo sfondo l’ovile teatro del conflitto

    08 – Giudici, inquirenti e imputati osservano il soffitto dell’ovile

    09 – Una parte delle armi trovate addosso ai fuorilegge uccisi e nella zona dove si è svolto il conflitto a fuoco

    10 – I due banditi uccisi, Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti

    07) Febbraio 1980. L’udienza sui fatti di “Sa Janna Bassa”

    Il 2 febbraio si tiene l’udienza per il processo sui fatti di “Sa Janna Bassa”.
    I giudici della Corte d’Assise rimangono in camera di consiglio tre ore esatte, dalle 9:45 alle 12:45.
    In un’aula gremita di parenti, conoscenti e curiosi, vengono condannati Carmelino Coccone (15 anni), Pietro Malune, Mauro Mereu, Pietro e Sebastiano Masala (11 anni), il giovanissimo Melchiorre Deiana (4 anni).
    Tutti e sei sono ritenuti responsabili di concorso nel tentato omicidio del capitano Barisone, di porto e detenzione di armi comuni e da guerra, di favoreggiamento e resistenza aggravata.

    Per i giudici quella nell’ovile di Carmelino Coccone era una vera è propria banda riunita in una “cena di lavoro”, mentre Francesco Masala e Giovanni Maria Bitti (uccisi) facevano la guardia all’esterno insieme ad un’altra persona che è riuscita a scappare.
    Antonio Contena e Pietro Coccone (quest’ultimo latitante), entrambi dirigenti di Barbagia Rossa, devono invece rispondere di associazione a delinquere davanti al tribunale nuorese.

    11 – Carmelo Coccone, Mauro Mereu, Melchiorre Deiana, Sebastiano e Pietro Masala e Pietro Malune in Corte d’Assise

    12 – Il capitano dei carabinieri Enrico Barisone durante il sopralluogo eseguito dalla Corte d’Assise d’appello di Cagliari a Sa Janna Bassa (Orune)

    08) Febbraio 1980. Il conflitto alla stazione di Cagliari

    Collegamenti tra Barbagia Rossa e le Brigate Rosse trovano un’ulteriore conferma il 15 febbraio 1980.

    Sono le 16:00, alla stazione ferroviaria di Cagliari due agenti della polizia, il brigadiere Fausto Goddi e la guardia Stefano Peralta, si avvicinano a un gruppo di cinque giovani chiedendo loro i documenti per un controllo; gli agenti contattano la centrale.
    A Giulio Cazzaniga e Mario Pinna, entrambi nuoresi, viene chiesto di seguirli in questura per degli accertamenti.
    Gli altri tre vengono lasciati liberi.
    Due di loro, sedicenti Camillo Nuti ed Emilia Libera, si spostano verso la sala d’attesa della stazione (sono incensurati), l’altro, Mario Francesco Mattu, si allontana in altra direzione (su di lui sussistono dei precedenti, ma non gravi in quell’occasione).

    Mentre il brigadiere e i due fermati si dirigono in auto verso la questura, viene dato ordine di tornare indietro e catturare anche gli altri.
    Vengono rintracciati vicino ai binari solo due dei tre, l’uomo e la donna.
    Questi seguono gli agenti fino all’uscita della stazione.
    A quel punto l’uomo abbraccia la sua compagna, tira fuori una pistola e inizia a sparare all’impazzata per coprirsi la fuga.
    Nasce una vera e propria sparatoria al centro di Cagliari, le pallottole ad altezza d’uomo colpiscono alcune auto posteggiate, ma per fortuna nessun passante.
    La donna in fuga viene ferita alla fronte, un poliziotto al piede.

    Nelle ore successive la città è assediata da oltre quattrocento uomini delle forze dell’ordine, ma dei due fuggitivi nessuna traccia.
    Inizialmente si pensa che la donna colpita sia Marzia Lelli, nota brigatista; dell’uomo invece non sono disponibili informazioni.

    Più tardi si scopre che Giulio Cazzaniga e Mario Pinna, fermati prima del conflitto, appartengono al gruppo di Barbagia Rossa e vengono arrestati per detenzione abusiva di arma da guerra e partecipazione ad azione sovversiva.
    Ai due si aggiunge il quinto elemento che si era allontanato dalla stazione, Mario Francesco Mattu di Bolotana.
    Anche lui appartenente a Barbagia Rossa, viene arrestato durante la notte tra il 15 e il 16 febbraio ’80 a casa della sua ragazza a Cagliari dove viene trovata anche una pistola “Luger” calibro 9.
    Vengono catturati anche cinque giovani che al momento dell’arresto di Mattu si trovano nella stessa casa (dopo alcuni mesi di carcere preventivo, verranno rilasciati perché effettivamente non esiste nessun tipo di legame diretto o indiretto con gli arrestati).

    Nei giorni seguenti continuano in maniera serrata le ricerche dei due fuggiaschi.
    Pinna e Cazzaniga si dichiarano “prigionieri politici”, Mattu viene interrogato.
    Inizialmente si pensa che i cinque della stazione stessero organizzando un attentato ai danni del capitano Enrico Barisone, ma dopo i primi accertamenti anche questa ipotesi viene scartata.

    A cinque giorni dalla sparatoria, in tutta la città si vive uno stato d’assedio.
    I grandi porti e aeroporti dell’isola vengono controllati sistematicamente per evitare eventuali spostamenti dei due banditi, ma per la polizia è certo che stiano contando su un appoggio a Cagliari.

    Intanto proseguono le indagini.
    Inizialmente si è creduto che la donna in fuga fosse Marzia Lelli, nota brigatista, ma indiscrezioni indicherebbero che si trova in Brasile.

    La polizia prende quindi un’altra strada partendo dai documenti forniti al controllo del brigadiere Goddi alla stazione.
    La carta d’identità della donna era a nome di una certa Emilia Libera, infermiera romana che la Criminalpol non riesce a rintracciare nella Capitale.
    La polizia ora sostiene che il suo documento è autentico, quindi da adesso è Emilia Libera la ricercata.
    Si tratta di un’indiziata sopra ogni sospetto poiché, oltre ad aver partecipato a un collettivo al Policlinico di Roma, Libera non è una militante conosciuta.
    I documenti forniti dall’uomo erano invece fasulli, a nome di Camillo Nuti, ingegnere romano che dopo vari interrogatori non ha avuto difficoltà a provare che non si è mai mosso dalla capitale.

    Un’ipotesi accreditata sulla visita in Sardegna di Emilia Libera e del “fasullo” Camillo Nuti (partiti da Roma a Cagliari con un aereo giovedì 14 febbraio ’80) è quella per cui fossero stati incaricati dalla direzione delle Brigate Rosse di valutare e rendersi conto dell’efficienza e del grado di preparazione alla guerriglia dei membri di Barbagia Rossa.
    Si crede in effetti che l’organizzazione sarda stia consolidando le proprie posizioni.
    Stando alle indiscrezioni, alcuni esponenti dell’organizzazione sarda (secondo la Digos una quindicina) avrebbero preso contatti con delinquenti comuni e bande legate all’anonima sequestri. Pare che si stesse anche perfezionando l’acquisto di un grosso stock di armi.
    Insomma Barbagia Rossa, sempre stando alle indiscrezioni, si preparerebbe per entrare grintosamente nel panorama del terrorismo nazionale.

    Il 21 febbraio ’80 viene identificato l’uomo in compagnia di Eliana Libera.
    Si tratta di Antonio Savasta, romano ventiquattrenne, brigatista di recentissima immatricolazione ma praticamente incensurato. Si è arrivati alla sua identificazione scavando nella vita di Eliana Libera, infatti Savasta era, fino a poco tempo fa, il suo compagno.

    I due fuggitivi hanno adesso un nome e un volto, ma risultano svaniti nel nulla.
    Dopo due settimane non c’è ancora nessuna traccia di loro.
    Si è scoperto che subito dopo la sparatoria alla stazione un’ignara signora li ha ospitati per un’ora nella sua abitazione. Si sono presentati come due ragazzi tranquilli e simpatici che avevano bisogno del bagno.
    Ora si presume che siano nascosti in barbagia, ma si tratta di ipotesi.

    13 – Gli accertamenti della Scientifica in piazza Matteotti subito dopo la sparatoria

    14 – I tre giovani arrestati subito dopo la sparatoria: Marco Pinna, Giulio Cazzaniga, Mario Francesco Mattu

    15 – Mario Francesco Mattu dopo un interrogatorio

    16 – Antonio Savasta e il suo identikit ricostruito dalla polizia

    17 – L’auto dentro la quale Savasta sparò alla stazione di Cagliari

    18 – Rinaldo Steri e Carlo Cioglia, aiutarono Savasta e Libera a scappare dopo il conflitto

    09) Giugno 1981. La requisitoria sulla sparatoria a Cagliari

    Dopo più di un anno dalla sparatoria, nessuna traccia dei brigatisti Savasta e Libera.
    Dalle indagini si è scoperto che dopo essere andati via dalla casa della signora, sono stati assistiti da Rinaldo Steri e Carlo Cioglia (entrambi cagliaritani).
    Sarebbero loro ad essersi preoccupati della ricerca di rifugi e nascondigli per scappare ai rastrellamenti.
    I banditi inizialmente furono portati in una casa cagliaritana in via San Mauro, successivamente in un’abitazione di viale Fra Ignazio, poi in un casotto al Poetto, quindi in una villetta in costruzione.
    Dopodiché sono stati trasferiti in un rifugio brigatista a Torre delle Stelle, 20 km a est di Cagliari.
    Durante la settimana di permanenza in questo rifugio, Ciogli si sarebbe preoccupato di trovare un camion che portò Savasta e Libera a Porto Torres da dove presero un traghetto per poi far perdere ogni traccia.

    Il 18 giugno ’81, dopo un anno e quattro mesi dalla sparatori di Cagliari, il pubblico ministero depone la sua requisitoria su tutta la vicenda indicando 27 persone come protagoniste delle vicende tra cui, ovviamente, Antonio Savasta, Emilia Libera, Mario Pinna, Mario Francesco Mattu, Rinaldo Steri e Carlo Cioglia. Gli altri sono studenti universitari, artigiani e vecchi sessantottini.
    Giulio Cazzaniga viene invece prosciolto dalle accuse per infermità mentale.

    19 – Riepilogo delle accuse

    10) Giugno 1981, L’errato attentato mortale a Natalino Zidda

    Ma più che per i fatti di natura giudiziaria, il giugno del 1981 verrà ricordato per un nuovo spargimento di sangue che fa riprofondare l’isola nel dolore.
    Barbagia Rossa intensifica le sue azioni contro la militarizzazione del territorio e lo fa in maniera più violenta e decisa.

    Martedì 9 giugno, Orune. Nicolino Zidda (insegnante della colonia penale di Mamone) è in compagnia del brigadiere Salvatore Zaru, sono seduti sull’uscio della casa di Zidda.
    Alle 23:00 il tipico rumore di un caricatore di arma da fuoco rompe il silenzio della notte.
    Il brigadiere, sicuramente sensibile a certi rumori, si ripara immediatamente buttandosi verso l’interno della casa.
    Immediatamente arriva la scarica rabbiosa e violenta di un mitra.

    Vengono esplosi circa 30 proiettili che uccidono Nicolino Zidda.

    La rivendicazione è di Barbagia Rossa e arriva la mattina seguente con una telefonata anonima alla redazione cagliaritana dell’Ansa.
    Viene spiegato che si è trattato di un errore, che il vero obiettivo dell’attentato non era Zidda ma il brigadiere Zaru.
    Viene altresì comunicato che è iniziata la campagna contro le forze di repressione.

    La morte di Zidda è accolta con sgomento da tutta la comunità orunese e barbaricina.

    20 – Nicolino Zidda, l’insegnante ucciso a Orune

    21 – Mesto pellegrinaggio nella casa della vittima a Orune

    22 – Il procuratore della Repubblica Francesco Marcello (a sinistra) e alti ufficiali dei carabinieri nella zona del delitto

    11) Agosto 1981. L’attentato mortale a Santo Lanzafame

    Questo è il mese che segnerà in modo significativo tutta la comunità sarda e in particolare quella barbaricina.

    Fino all’agguato di Nicolino Zidda l’organizzazione armata di Barbagia Rossa si era limitata ad azioni intimidatorie con bombe, incendi o altri attacchi di natura prettamente dimostrativa.

    Già l’agguato mortale a Zidda aveva messo in luce un evoluzione dell’organizzazione terroristica.
    Anche se la morte dell’insegnante è stato un errore, si voleva colpire a morte il brigadiere Salvatore Zaru che si è salvato solo per la sua prontezza di riflessi.

    Il 31 luglio 1981 alle ore 22:40 un’alfetta blu dei carabinieri si dirige verso il Monte Ortobene per gli usuali giri di perlustrazione.
    Al suo interno si trovano il carabiniere sassarese Baingio Gaspa (alla guida) e l’appuntato Santo Lanzafame, 40 anni di Reggio Calabria, sposato con Giovanna Piras di Lodè e padre di cinque figli (la più grande di dieci anni).

    L’auto prende la strada per il monte e, a duecento metri dalla chiesetta della Solitudine (che si trova all’uscita del centro abitato, proprio ai piedi dell’Ortobene), si appresta ad affrontare la prima curva, quella di Borbore.
    Si tratta di una curva a gomito molto ampia che nella carreggiata opposta è costeggiata da un piccolo muretto a secco al di sotto del quale si trova il sentiero che porta a Valverde.

    Proprio da dietro il muretto in pietra compare all’improvviso una figura che senza esitazione scarica una micidiale scarica di mitra verso l’alfetta blu.
    Gaspa resta fortunatamente illeso mentre Lanzafame viene colpito alla testa.
    Il malvivente scompare nel nulla lasciando sul posto l’arma.

    Le condizioni di Lanzafame appaiono da subito tragiche.
    Subisce numerosi interventi all’ospedale San Francesco di Nuoro, i medici riescono a stabilizzarlo anche se le condizioni restano molto gravi.

    I carabinieri sostengono che l’arma sia stata abbandonata come segno per far capire che, anche dopo gli arresti che ha subito il terrorismo isolano, Barbagia Rossa non è stata battuta e anzi si riorganizza e alza il tiro.
    Si tratta infatti di un potentissimo mitra inglese “Sterling”, mai usato dalla malavita sarda, con una micidiale cadenza di colpi (fino a 550 proiettili in un minuto), un’arma molto maneggevole.

    Il mattino seguente, il 1 agosto ’81, Barbagia Rossa rivendica l’attentato terroristico con una telefonata anonima fatta alla redazione locale dell’Ansa.
    Viene riferito che solo per un caso fortuito i due carabinieri non sono stati uccisi.

    Il 4 agosto ’81 i terroristi di Barbagia Rossa si fanno vivi per iscritto recapitando un ciclostilato alla redazione nuorese de L’unione Sarda.
    Nel documento si ribadisce la paternità dell’attentato a Lanzafame e Gaspa.
    Viene inoltre riconfermato che l’omicidio dell’insegnante Nicolino Zidda è stato un errore, il vero obiettivo era il brigadiere Salvatore Zaru, che si trovava in sua compagnia.

    Intanto Lanzafame subisce interventi a Nuoro e Cagliari e si prospetta la guarigione, infatti l’appuntato aveva ripreso conoscenza e riconosciuto la moglie e altre persone a lui vicine.
    Ma il 5 agosto ’81 viene ritrasferito con urgenza a Cagliari per un altro delicatissimo intervento alla testa; il liquido, non riuscendo a drenare, esercita una pericolosa pressione sulla corteccia cerebrale.
    L’intervento eseguito dal professore Francesco Napoleone riesce perfettamente, ma le condizioni del carabiniere risultano comunque molto gravi.

    Alle ore 13:00 del 6 agosto 1981 Santo Lanzafame muore all’ospedale di Cagliari dopo un ultimo e disperato intervento.

    Il finale tragico dell’attentato fa sprofondare tutta la comunità barbaricina nell’ombra.
    In effetti è la prima volta che Barbagia Rossa, l’organizzazione eversiva più importante dell’isola, porta a termine una diretta azione di morte.

    Il 7 agosto si celebra il funerale.
    La chiesa di Santa Maria della Neve a Nuoro è gremita ma c’è un irreale silenzio rotto solo dalle urla di disperazione di Giovanna Piras all’arrivo della salma del marito.
    Andrea Pau, sindaco di Nuoro, proclama il lutto cittadino chiedendo a tutti gli esercizi pubblici di restare chiusi.

    La notizia della morte di Santo Lanzafame colpisce tutti; nonostante si conoscessero le sue gravi condizioni di salute, la tragica conferma ha gettato la città e tutta l’isola in un’atmosfera preoccupante di paura, rabbia, indignazione e sconforto.

    Intanto le indagini proseguono senza nessun risultato.
    Vengono arrestati preventivamente tre giovani di Orune (in realtà non è chiara quale accusa gli viene mossa), inoltre si segue una pista che, partendo dal mitra Sterling, si perde in Liguria.

    23 – Santo Lanzafame, il carabiniere ucciso a Nuoro

    01 – Nuoro, 31 luglio 1981. L’alfetta dei carabinieri su cui si trovava l’appuntato Santo Lanzafame al momento dell’agguato mortale

    24 – Agenti della polizia e carabinieri nel luogo dell’attentato di venerdì notte presso il curvone di Borbore

    25 – Un mitra Sterling uguale a quello che è stato usato a Nuoro per l’attentato

    26 – La bara del brigadiere assassinato lascia l’istituto di medicina a Cagliari per la celebrazione del funerale a Nuoro

    12) Febbraio 1982. Le confessioni di Savasta e la scomparsa di Barbagia Rossa

    Nel 1982 viene catturato Antonio Savasta che passa nelle file del “pentitismo”.
    Le sue rivelazioni investono anche la Sardegna dove partono immediatamente nuovi arresti e indagini.
    Nei primi dieci giorni di febbraio vengono arrestate e accusate di costituzione di banda armata otto persone: Pierino Medde (27 anni, Nuoro), Roberto Campus (28 anni, Nuoro), Gianni Canu (24 anni, Nuoro), Giovanni Meloni (26 anni, Siniscola), Antonio Contena (28 anni, Orune), Mario Meloni (28 anni, Mamoiada), Mario Calia (28 anni, Lodè), Giuliano Deroma (25 anni, Porto Torres).
    Tra loro possiamo ricordare Antonio Contena, presente durante il conflitto di Sa Janna Bassa nel dicembre ’79, e Pietro Medde, già indagato per Barbagia Rossa e in libertà provvisoria.

    La confessione-fiume di Antonio Savasta continua e apre nuove indiscrezioni sui movimenti terroristici in Sardegna.
    Ora è certo che nel dicembre del ’79 a “Sa Janna Bassa”, era in corso un vertice tra alcuni esponenti delle Brigate Rosse e di Barbagia Rossa per discutere sull’eventuale costituzione di una colonna sarda delle BR.
    Inoltre, sempre grazie alle indicazioni del pentito, viene trovato tra il Montalbo e Monte Pitzinnu (nel territorio di Lula) un fornitissimo deposito di armi da guerra di proprietà delle Brigate Rosse.
    L’arsenale comprende cinque razzi di fabbricazione americana per bazooka, un missile anticarro sovietico capace di sfondare agevolmente un muro di un metro, due missili terra-aria di fabbricazione francese che possono essere lanciati a chilometri di distanza con la certezza di colpire il bersaglio, trenta chili di esplosivo al plastico, otto bombe a mano di fabbricazione americana, sei mitra inglesi “Sterling” (lo stesso usato nell’attentato dove morì Santo Lanzafame), un centinaio di cartucce per mitra.
    L’arsenale era probabilmente sotto custodia di Barbagia Rossa e forse doveva servire per un attentato al supercarcere di Badu ‘e Carros a Nuoro.
    Gli investigatori, sempre indirizzati da Savasta, provano anche che i terroristi stavano progettando dei clamorosi sequestri di persona di leader politici isolani.

    Le confessioni di Antonio Savasta seguite dagli arresti e le indagini che queste provocarono, probabilmente diedero un duro colpa all’organizzazione di Barbagia Rossa.
    L’unica cosa certa è che dopo l’attentato mortale all’appuntato Lanzafame e dopo questi ultimi avvenimenti provocati dal pentito Savasta la sigla Barbagia Rossa non fece più la sua comparsa.

    #sardegne #Br #brigate_rosse #BR #BarbagiaRossa #terrorisme #otan

    • Peut-on confondre la lutte armée avec le terrorisme ? Pas si on considère que la particularité du terrorisme est de s’en prendre à des populations civiles de manières indiscriminée par des attentats aveugles (et destinés à aveugler), des #attentats_massacres dont la collusion active de secteurs de l’extrême-droite avec les service secrets italiens a montré l’exemple en Italie dès 1969 avec l’attentat de la Piazza Fontana à Milan (1er d’une série avec 17 morts et 85 blessés, faussement attribué par la police à des anarchistes pourtant quasi inexistants en termes organisationnels à ce moment là en Italie), puis de nombreuses fois ensuite (dont les 85 morts et les centaines de blessés de la gare de Bologne en 1980).
      Certes, du côté de cette gauche extra-parlementaires, il y eu des jambisations, puis des meurtres (...), mais c’est faire un amalgame que de légitimer de quelque façon que ce soit l’expression « années de plomb » pour désigner cette période en Italie en présentant les mouvements révolutionnaires comme des criminels barbares alors que la violence politique à prétention révolutionnaire a infiniment moins tuée que celle d’un État qui faisait encore régulièrement tirer à balles sur les grévistes durant les années soixante, a sciemment mis en oeuvre la #stratégie_de_la_tension au moyen d’attentats-massacres et n’avait pas hésité à occuper militairement Bologne au moyen de blindés équipés de mitrailleuses en 1977.

      #lutte_armée_pour_le_communisme et plus on va vers le sud : #prolétariat_extra_légal

  • En #Colombie, des dissidents des #FARC se lancent dans une guerre hasardeuse
    https://lemediapresse.fr/international/en-colombie-des-dissidents-des-farc-se-lancent-dans-une-guerre-hasarde

    Des figures de l’ex-guérilla ont déserté le processus de paix, invoquant la violation des accords de paix par l’État et la nécessité de fédérer les luttes clandestines contre l’« oligarchie corrompue ». Ce nouveau groupe, minoritaire dans le paysage du conflit armé, peine à trouver ses alliés, mais est à la source de nouvelles tensions entre le gouvernement et le Venezuela voisin.

    #International #Amérique_du_Sud #Gauche #Guérilla #Lutte_armée

  • Deux ans après la paix, le nouveau combat des #FARC
    https://lemediapresse.fr/international/deux-ans-apres-la-paix-le-nouveau-combat-des-farc

    En #Colombie, au cœur du Guaviare, une zone naturelle longtemps préservée mais aujourd’hui menacée, les membres de la #Guérilla communiste ont déposé les armes en juin 2017. Leur retour à la vie civile est ralenti par l’effet des années d’isolement et les positions vindicatives de la droite au pouvoir. Reportage.

    #International #Amérique_du_Sud #Gauche #Lutte #Lutte_armée

  • « Les asilés italiens ne doivent pas être extradés », Louis Joinet (Magistrat, premier avocat général honoraire à la Cour de Cassation), Irène Terrel (Avocate), Michel Tubiana (Président d’honneur de la Ligue des Droits de l’Homme)
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2019/03/04/les-asiles-italiens-ne-doivent-pas-etre-extrades_5430951_3232.html

    Comme Cesare Battisti, d’autres Italiens vivant en France sont menacés d’#extradition. Pourtant, leur cas n’est pas lié au mandat d’arrêt européen applicable aux affaires postérieures à 1993, rappellent les juristes Louis Joinet, Irène Terrel et Michel Tubiana, dans une tribune au « Monde ».

    Tribune. Contrairement aux affirmations de Mme Nathalie Loiseau, ministre chargée des affaires européennes, rapportées dans ces colonnes le 19 février dernier, le « sujet » des Italiens asilés en France depuis maintenant quatre décennies ne peut pas être « traité de justice à justice ». En effet la procédure applicable à cette période est régie par la Convention européenne d’extradition de 1957 et non par le #mandat_d’arrêt_européen, qui concerne les seules infractions postérieures au 1er novembre 1993 et non pas celles commises dans les années 1970-1980.

    Or la Convention de 1957 prévoit trois phases, dont deux sont explicitement politiques et selon ce texte, en première et dernière intention, la décision d’extrader ou pas revient au pouvoir politique. « […] Pendant les années 1970, il y a eu une véritable guerre civile, bien que de basse intensité. […] Aborder sans cesse une question de cette envergure, c’est-à-dire les plaies ouvertes par une guerre civile, au moyen de l’outil pénal, de l’incrimination pénale, trente, vingt ou quinze ans après les faits, cela me semble carrément une chose étrangère au sens civil d’une démocratie qui se prétende vraiment accomplie. » Ces mots sont ceux de Giovanni Pellegrino, ancien président de la commission parlementaire d’enquête sur le terrorisme en Italie.

    La « doctrine Mitterrand »

    Le problème est donc de savoir si « l’outil pénal » encore brandi quarante ans plus tard n’est pas aussi techniquement obsolète qu’humainement inadapté. Au début des années 1980, les militants italiens qui avaient choisi la violence politique sont anéantis et leur destin scellé. Ce sont des centaines de fugitifs, dont la plupart s’abritent en France, où François Mitterrand, élu président de la République, a fait figurer dans son programme qu’aucune extradition ne sera accordée pour des faits de nature politique. La seule exigence est de renoncer pour l’avenir à toute violence politique et d’abandonner la clandestinité conformément à la formule attribuée à François Mitterrand : « Ce qui importe, avec le terrorisme, n’est pas tant de savoir comment on y entre mais plutôt de savoir comment on en sort. » C’est la naissance de la « doctrine Mitterrand ».

    De plus, la chancellerie souligne les carences fréquentes des dossiers de la justice italienne. En 1992 le ministère français de la justice précise que « Rome informe de leur situation pénale [des réfugiés] sans que celle-ci soit jamais exposée de façon globale et clairement exploitable, mais fait montre en revanche d’une relative mauvaise volonté à fournir les renseignements complémentaires sollicités ».

    Régularisations progressives

    Le principe de l’#asile est acté dans l’allocution, présentée ensuite comme la « parole donnée », tenue par le président Mitterrand lors du 65e congrès de la Ligue des droits de l’homme le 21 avril 1985 : « Les #réfugiés_italiens […] qui ont participé à l’action terroriste durant des longues années […] ont rompu avec la machine infernale dans laquelle ils s’étaient engagés […] J’ai dit au gouvernement italien qu’ils étaient à l’abri de sanctions par voie d’extradition. Mais, quant à ceux qui poursuivraient des méthodes que nous condamnons, sachez bien que nous le saurons et, le sachant, nous les extraderons ! » Il n’a jamais eu à le faire. Les asilés s’intègrent peu à peu à la société française, travaillent, fondent des familles, ont des enfants, des petits enfants, et sont progressivement tous régularisés par des titres de séjour, toujours renouvelés.

    Est-il admissible de les accueillir un jour pour les rejeter quarante ans plus tard au prétexte d’une situation politicienne qui ne les concerne pas ? Ce ne sont pas seulement des dossiers, des numéros sur des listes, mais des femmes et des hommes qui ont vécu, vieilli, changé et se sont insérés pacifiquement dans notre pays. Et notre pays, c’est une réalité intangible, leur a donné asile. Car les gouvernements se succèdent, de droite comme de gauche, et le « statut » est maintenu.

    La « doctrine Mitterrand » devient celle de l’Etat français.

    En 1998, quand l’entrée en vigueur des accords de Schengen compromet l’accueil des Italiens, un courrier officiel de Lionel Jospin, alors premier ministre, confirme qu’aucune extradition de ces asilés ne sera mise en œuvre. Quelques années plus tard, lorsque la France adopte le mandat d’arrêt européen, elle précise que cette procédure s’appliquera aux seuls faits postérieurs à 1993, préservant ainsi de l’extradition les Italiens asilés dont les procédures concernent des faits s’achevant dans les années 1980. L’Etat français manifeste ainsi, y compris juridiquement, sa volonté de maintenir l’asile octroyé jadis.

    Interrogé le 5 mars 2004 par le Corriere della Sera, Robert Badinter répondait : « […] Comme juriste, et sans entrer sur le fond des débats, je répète que la position prise par un Etat, par l’intermédiaire de son plus haut représentant, ne devrait pas être contredite vingt ans après… […] L’Etat doit respecter la parole donnée. C’est une question de cohérence et de principe […] » Nous voici quinze ans plus tard et cette « doctrine Mitterrand », devenue au fil des années doctrine d’Etat, l’a emporté. Elle l’a moins emporté comme « doctrine » qu’elle ne s’est imposée comme une pratique de pacification, répondant à une situation spécifique, qu’aucun gouvernement français n’a en réalité remise en cause.

    Il est inconcevable que, quarante ans après les faits incriminés et autant d’années d’asile octroyé par la France, il puisse y avoir aujourd’hui une inversion de cette politique d’accueil de l’Etat français. Plus encore que déraisonnable, le temps judiciaire est dépassé, il doit laisser la place aux historiens… Ainsi s’exprimait déjà en 2000, et en Italie même, Giovanni Pellegrino : « […] Aujourd’hui… nous ne pouvons plus faire justice, car il est passé trop de temps. Nous pouvons seulement entreprendre une démarche de vérité. »

    #asilés

    Le long exil de l’extrême gauche italienne à Paris, Philippe Ridet et Jérôme Gautheret [ pas terrible mais là tout de suite j’ai que ça sous la main pour éclairer un tant soit peu le contexte, ndc]
    https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2019/02/22/a-paris-le-long-exil-de-l-extreme-gauche-italienne_5426538_4500055.html

    Dans les années 1970-1980, des centaines d’activistes italiens se sont réfugiés en France, qui les a accueillis à condition qu’ils renoncent à la #lutte_armée. Aujourd’hui, Rome demande l’extradition de certains d’entre eux.

    Commençons par un rendez-vous manqué. « J’écris en ce moment un reportage sur les années françaises des fugitifs italiens des années 1970-1980. Puis-je vous contacter ? », disait notre SMS. Demande acceptée. Comme beaucoup de ses compatriotes réfugiés, cette personne a vu les images de Cesare Battisti extradé de Bolivie après trente-sept ans de cavale au Mexique, à Paris, puis au Brésil.

    Elle a regretté cette inutile humiliation que l’Etat italien a infligée à l’ancien activiste des Prolétaires armés pour le communisme, condamné à la réclusion à perpétuité pour quatre meurtres. A la mi-janvier, on l’a fait défiler, menotté, sur le Tarmac de l’aéroport Ciampino, à Rome, devant le ministre de l’intérieur Matteo Salvini et le ministre de la justice Alfonso Bonafede comme un trophée symbolisant l’efficacité de l’alliance entre l’extrême droite de la Ligue et le populisme du Mouvement 5 étoiles (M5S). Vae victis…

    Triomphante, l’Italie a envoyé la semaine dernière à Paris des magistrats pour réclamer à la France une quinzaine d’anciens activistes des années de plomb que Matteo Salvini décrit comme « buvant du champagne sous la tour Eiffel ».
    Alors notre contact a renoncé. Peur que cette histoire-là, la sienne et celle de centaines de compatriotes ayant quitté la Péninsule plutôt qu’y purger de lourdes condamnations distribuées par une justice aussi débordée qu’expéditive, ne puisse être racontée, comprise.
    Nouveau SMS, à notre attention cette fois : « Je reviens vers vous pour décliner notre rendez-vous. Après réflexion et échange avec d’autres personnes concernées, on pense que le moment est trop délicat, glissant, en somme peu propice pour une argumentation médiatique. J’espère pouvoir compter sur votre compréhension. »

    Une vie à se faire oublier

    Cette prudence, cette peur diffuse, c’est aussi celle d’Irène Terrel. Tous les militants italiens de Paris connaissent l’adresse de son cabinet d’avocats spécialisé dans le droit d’asile, rue Lacépède, Paris 5e. Depuis la mort de son mari, Jean-Jacques de Félice, en 2008, elle continue seule le combat.
    Elle a défendu Battisti durant son séjour en France de 1990 à 2004, lorsque celui qui était d’abord le discret concierge d’un immeuble de la rue Bleue, dans le 9e arrondissement, se retrouva sous les feux de l’actualité et de la justice, grisé par sa petite notoriété d’auteur de polars. Paniqués, les derniers extrémistes encore recherchés par Rome ont appelé Irène Terrel. Que faire ? Fuir encore ? Alerter les médias ? A tous elle a conseillé de rester tapis dans leur anonymat. « C’est leur meilleure protection aujourd’hui. Ils mènent une vie normale. Ils ont passé leur vie à se faire oublier. »

    Recommencer les batailles contre l’extradition ? « Tout homme a droit à une deuxième chance, au pardon. C’est une traque sans fin. On ne va quand même pas offrir des gens de 75 ans sur l’autel politique de ce M. Salvini ! » Elle sait aussi que le contexte est moins favorable. La violence politique, qui, il y a quarante ans, dans la foulée de Mai 68, pouvait éventuellement se théoriser, n’est plus tolérable ; les terroristes ont pris d’autres visages…
    « Aujourd’hui, on confond les activistes italiens avec les djihadistes du Bataclan. » Les intellectuels se sont tus : « Quelles sont les grandes consciences qui pourraient les défendre ? », s’interroge-t-elle en nous raccompagnant.

    Comprendre les années de plomb, un peu plus de dix ans de violence et de chaos commencées avec l’attentat attribué à l’extrême droite de la piazza Fontana à Milan (16 morts, 88 blessés) le 12 décembre 1969 et terminé aux confins des années 1970-1980 ? Pas simple. Trop de sang, de sigles, de slogans.
    Imaginez un chaudron de bonne taille, dans lequel on a porté à ébullition l’air du temps : le refus de l’autorité (celle de l’Etat, des flics, des militaires, des parents), la détestation de la Démocratie chrétienne, qui régit les institutions politiques, du Parti communiste – alors le plus puissant d’Europe –, qui gouverne les rapports sociaux (syndicats, milieux culturels, associations), des nostalgiques des Chemises noires, des patrons, de la magistrature qui poursuit les contestataires.
    Ajoutez à ce brouet de haines les utopies et les combats de la décennie : la libération de la classe ouvrière, le rêve d’une vie communautaire, l’égalité des sexes et l’amour libre, les chanteurs Bob Dylan et Giorgio Gaber, l’antipsychiatrie, le désir de renouer avec la geste des partisans de 1943 qui, l’arme à la main, ont libéré le pays de Mussolini et ses nervis en sifflotant Bella ciao et Bandiera rossa.

    Ajoutez une bonne pincée de manipulations diverses des services secrets italiens et étrangers qui préféraient voir l’Italie se transformer en dictature à la perspective d’assister, impuissants, à l’arrivée au pouvoir du Parti communiste à la faveur d’une alliance avec la Démocratie chrétienne, ce fameux « compromis historique », condamné par les deux extrêmes. Enfin, épicez cette mixture en y jetant des pains d’explosifs, des armes de poing, des mitraillettes et une bonne dose d’inconscience. Bilan : plus de 360 morts attribués aux deux bords [équanimité toute partisane ! ce bilan global occulte le rôle clé des #attentats_massacres perpétrés par des fans, des barbouzes et des services..., ndc] , des milliers de blessés, 10 000 arrestations, 5 000 condamnations, des années de prison par centaines.

    La révolution asphyxiée

    Cette folie, Alessandro Stella, 63 ans, y a cru jusqu’au vertige. Pantalon de cuir noir, parka défraîchie, teint pâle de fumeur. Condamné à six ans de prison pour « association subversive constituée en bande armée », il a raconté dans un petit livre sincère, au titre provocateur (Années de rêves et de plomb, éditions Agone, 2016), sa vie de militant puis de fuyard.

    Pour nombre d’activistes, l’assassinat d’Aldo Moro, en 1978, marqua le renoncement à la lutte.
    Il a appartenu à un groupuscule affilié au mouvement #Autonomie_ouvrière jusqu’à l’assassinat, en 1978, du président du conseil démocrate-chrétien, Aldo Moro, qui, pour nombre d’activistes, marqua leur renoncement alors qu’à l’inverse les Brigades rouges (#BR), intensifièrent leur pression sur le pouvoir, transformant la lutte révolutionnaire en une guerre privée contre l’Etat.

    Alessandro Stella écrit : « Fin janvier 1981, après deux ans de vie clandestine, je décidai de quitter l’Italie. Je n’en pouvais plus de cette vie menée sous un faux nom, des faux comportements, du déguisement d’employé modèle. (…) Avoir un lit pour passer la nuit, se trouver un refuge à droite ou à gauche, était devenu mon activité principale. »
    En promettant d’importantes remises de peine aux « #repentis » qui dénonçaient leurs anciens camarades ou aux « #dissociés » qui reniaient publiquement leur ancienne foi, la justice est parvenue à assécher le vivier des extrémistes, à les couper de leurs soutiens. La révolution est asphyxiée, l’utopie est morte. Ses serviteurs ? Une armée débandée.

    Après un transit par le Luxembourg, le Pérou et le Mexique, Alessandro Stella débarque à Paris en 1982. « Une fois ici, j’ai été obligé de rebondir, raconte-t-il dans la cafétéria glaciale de l’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS), où il enseigne à présent. Ensuite je me suis marié (par amour, tient-il à préciser) avec une Française et j’ai obtenu la nationalité. »

    La cavale, une discipline militaire

    Gianluigi (le prénom a été changé à sa demande et les détails de son parcours qui pourraient permettre de l’identifier ont été gommés), lui, est arrivé à la fin des années 1970. Il a traversé la frontière italienne par la montagne, « en chaussures de ville », avec une quarantaine de compagnons. « Je ne me suis pas dissocié, j’ai déserté tout simplement », raconte-t-il. Cadre dans un groupe important, il est rompu à la vie clandestine.

    « Grâce à un dernier hold-up avant de partir, nous disposions d’un peu d’argent pour notre groupe. On donnait un peu plus aux couples qu’aux célibataires. A Paris, notre règle de vie est devenue militaire. Il fallait connaître parfaitement le quartier où l’on vivait pour fuir la police française et la cinquantaine de carabiniers venue leur prêter main-forte. Sortir et rentrer à des horaires réguliers. Etre courtois mais muet avec les voisins. Ne pas porter de cheveux longs ni de vêtements voyants, ne pas boire, ne pas fumer de shit, et bien fermer le gaz et l’eau avant de partir, afin de ne pas alerter les pompiers. En un an et demi, j’ai changé 54 fois de domicile. J’ai appris le français en lisant Le Monde et en écoutant France Culture. Pendant six mois, je n’ai pas prononcé un mot. C’était une solitude terrifiante. »

    Comme les sous-marins, ils sont près de 300 Italiens au début des années 1980 (certains parlent de 500 ou de 1 000) à vivre à Paris en immersion. Ils y ont des contacts, des complices, des compagnons. Dès les années 1970, des intellectuels comme Roland Barthes, Gilles Deleuze ou le psychanalyste et philosophe Félix Guattari sont solidaires des luttes italiennes. L’adresse de l’appartement de ce dernier, rue de Condé, à deux pas du Sénat, se transmet de fugitif en fugitif, tout comme celle du mouvement Emmaüs de l’abbé Pierre, lui aussi favorable à l’accueil des ex-activistes transalpins.

    Beaucoup, à gauche, les considèrent comme des victimes d’une « semi-démocratie ». Le journaliste italien Domenico Quirico s’en amusera dans La Stampa en 2007 : « Les Italiens sont accueillis à bras ouverts, choyés par une gauche française incurablement nostalgique d’une révolution qu’elle n’avait pas faite et qui s’imprégnait avec enthousiasme de celle que d’autres croyaient avoir faite. »
    Réfugiés politiques ?

    Autre point de chute des exilés fraîchement débarqués et sans ressources : dans le 18e arrondissement populaire, le 52, boulevard Ornano, où des avocats de gauche, regroupés autour d’Henri Leclerc, ont créé un cabinet collectif. Les prix sont imbattables : 30 francs la consultation. Jean-Pierre Mignard, l’un des fondateurs, explique : « Les demandes d’extradition de l’Italie étaient mal conçues. Les faits n’étaient pas toujours étayés. C’était scandaleux de la part d’un pays qui est à l’origine de l’invention du droit. Pour nous, la qualité politique de ces réfugiés ne souffrait aucun doute. »

    Malgré les efforts des avocats, à la fin du mandat de Valéry Giscard d’Estaing, une quarantaine d’extrémistes sont extradés. Départ de l’aéroport militaire de Villacoublay, en région parisienne, au petit matin, atterrissage deux heures plus tard sur celui de Pratica del Mare, au sud de Rome… Mais un espoir fait tenir ces Italo-Parisiens : la perspective de l’élection de François Mitterrand à la présidence de la République. Candidat de l’Union de la gauche, il a affirmé que la France resterait une « terre d’asile ». Le soir du 10 mai 1981, beaucoup de Transalpins en fuite sont place de la Bastille pour fêter l’élection du premier président socialiste.

    1981, c’est l’année que choisit aussi Oreste Scalzone, fondateur du mouvement Potere operaio (Pouvoir ouvrier) – qui prône l’autonomie ouvrière sans recours à la violence [ah... ndc] –, pour rejoindre la France depuis Copenhague, où il avait trouvé un premier refuge. Condamné par contumace à plus de trente ans de prison en première instance, il avait été libéré après une grève de la faim mais restait sous la surveillance de la justice. Sa fuite est une odyssée. D’abord un ferry de Civitavecchia jusqu’en Sardaigne en compagnie de l’acteur vedette Gian Maria Volontè (Pour une poignée de dollars, Enquête sur un citoyen au-dessus de tout soupçon…). Puis une voiture jusqu’à l’île de la Maddalena, où mouille le voilier du comédien. Sur sa coque est écrit ce vers de Paul Valéry : « Le vent se lève… ! il faut tenter de vivre ! »

    Scalzone raconte : « On a navigué jusqu’en Corse, où un ami de l’ancienne partisane qui m’accompagnait nous attendait. Il nous a conduits en voiture jusqu’à Bastia. De là, j’ai pris un ferry pour Toulon. J’ai traversé toutes les frontières jusqu’au Danemark sans être inquiété. J’avais de bons faux papiers, et j’étais bien maquillé. » Prof de philo en Italie, il a appris à se grimer en fréquentant le Living Theater installé sur la piazza Indipendenza de Rome.

    A partir d’août 1981, avec sa femme et leur petite fille, il est à Paris, après un passage par un village du sud de la France. « Il valait mieux se fondre dans la grande ville. Retrouver une vie sociale, des amis… Ma femme et moi n’avons pas trouvé le temps de chercher du travail, du fait de notre engagement pour faire barrage à toute extradition. Je me rappelle un 11-Novembre : sur les murs, je voyais des affiches du syndicat FO annonçant une manif à Bastille. Je croyais que Dario Fo [écrivain et homme de théâtre, prix Nobel de littérature en 1997] allait venir donner un spectacle. »

    La « doctrine Mitterrand »

    Rive droite, un bureau discret du ministère de l’intérieur, tenu par Gaston Defferre. Tous les samedis s’y réunissent, sous l’autorité de Louis Joinet, conseiller justice de François Mitterrand, des avocats, des magistrats, des juristes, des professeurs de droit, des policiers de haut rang. Ordre du jour : que faire de ces Italiens défaits, planqués dans Paris ? Comment éviter que leur précarité ne les conduise à refaire le choix de la violence ? La Fraction armée rouge, en Allemagne, et Action directe, en France, sont prêtes à les accueillir à bord de leur bateau ivre. Combien auraient aimé retrouver cette force ?

    Jean-Pierre Mignard assiste aux réunions de la Place Beauvau : « Les policiers étaient très favorables à accorder l’asile aux Italiens. Les filatures avaient démontré qu’ils ne présentaient aucun danger. Les autorités italiennes n’étaient pas hostiles non plus. Leurs prisons étaient pleines. C’est comme ça que nous avons élaboré le pacte qui deviendra la doctrine Mitterrand : l’asile pour les Italiens qui n’avaient pas commis de crime de sang en échange de la sortie de la clandestinité et du renoncement à toute forme de lutte armée des deux côtés des Alpes. »

    Rive gauche, cette fois, rue de Nanteuil, 15e arrondissement, une maison d’association. Ici, tous les samedis également, des débats véhéments ont lieu. Souhaitant peser sur leur destin, les Italiens se sont constitués en association de réfugiés. Ici aussi on discute des conditions du pacte négocié Place Beauvau. La petite amie française de l’un d’eux se souvient de leurs insultes : « Ils se traitaient de traditore (“traître”) ou de stronzo (“connard”). Accepter de sortir de la #clandestinité, c’était faire confiance à la parole de l’Etat et verbaliser la défaite. Cela n’allait pas de soi. » Gianluigi se rappelle y être allé parfois. « Il y avait trois types de réfugiés, dit-il. Les clandestins, très rigides, très méfiants ; les innocents, qui n’avaient fait que distribuer des tracts et tenir des discours ; et, enfin, les dépolitisés. Ceux-là voulaient tourner la page au plus vite. L’ambiance était infecte. Les anciens BR insultaient tout le monde. Ils dépensaient toute leur énergie à faire la guerre aux autres activistes. »

    Lanfranco Pace, lui aussi ancien fondateur du groupe Potere operaio, raconte : « Certains voulaient continuer la lutte armée. Nous leur avons expliqué fermement que la France avait un certain savoir-faire en matière de police parallèle et de barbouzerie, et que même Lénine était resté tranquille pendant ses années d’exil. »
    « C’était étrange, se souvient Alessandro Stella, on s’engueulait, mais en même temps on se donnait des combines pour un boulot ou un appart’. »

    Finalement, le pacte est adopté. Tous les avocats apportent leurs dossiers à la police. Jean-Pierre Mignard en dépose 118 à lui seul en 1982. Tous ont respecté leur contrat, excepté quelques soldats perdus. Un an plus tard, Ciro Rizzato, membre des Communistes organisés pour la libération prolétarienne, est abattu par la police à l’issue d’un hold-up dans une banque du 17e arrondissement pour le compte d’Action directe, en octobre 1983. Il avait 24 ans.

    En définitive, le plus dur commence : reprendre une vie normale, construire une existence, s’installer dans un #exil de longue durée que ne viendront plus rompre les incessants déménagements. « Ils devaient se mettre au boulot. C’était des intellos qui n’avaient rien glandé de leur vie à part rêver à la révolution depuis leur adolescence », raconte un témoin de ces années-là. Alessandro Stella témoigne : « En Italie, j’étais étudiant. A Paris. J’ai fait des chantiers. Parfois, quand je me balade, je me dis : “Là, j’ai refait les peintures, là, la salle de bains.” » Lanfranco Pace pousse la porte du quotidien Libération, au cœur de la Goutte-d’Or, dans le 18e. Avant lui, Antonio Bellavita l’a précédé, passant d’activiste sans boulot à directeur artistique. Recommandé par Jean-Marcel Bouguereau, alors spécialiste des mouvements d’extrême gauche allemands et italiens, Pace rencontre Serge July, le directeur et fondateur du journal. Embauché !

    « Je parlais très mal le français. Je confondais les mots “cuillère” et “couillon” », se souvient-il au téléphone. Il signe ses premiers papiers du pseudo qu’il gardera durant toute sa carrière en France, Edouard Mir. Mir… la paix, en russe. Bouguereau se rappelle ces collègues qui venaient le voir pour lui demander : « Mais, Edouard, il a du sang sur les mains ? » Il les rassure.
    Après Pace, ce sera au tour de Giambattista Marongiu de débarquer rue Christiani. D’abord maquettiste, puis secrétaire de rédaction, il deviendra une des plumes du cahier « Livres » sous le nom de Jean-Baptiste Marongiu. Avocat en Italie, Luigi Zezza, les retrouve un cutter à la main à monter les pages du journal. Gianluigi, lui, est devenu livreur puis déchargeur aux halles de Rungis. De cette nouvelle vie à l’air libre, il se souvient « de ses virées à Mobylette et de la soupe à l’oignon à 4 heures du matin ».

    Une « Little Italy » parisienne

    Mais l’exil est un acide ; il ronge. Comment composer avec cette part de soi restée au pays ? Les souvenirs qui parfois vous assaillent pour une odeur, une impression fugace ? Les parents que l’on ne peut plus voir et qui meurent loin de vous ?
    « Ils souffraient terriblement du mal du pays, se remémore un proche d’un des exilés. Parlaient sans cesse de leur village, de leur ville. Un jour, dans un restaurant, l’un d’eux s’est levé et s’est écrié plein de désespoir “Puglia ! Puglia !” (“Les Pouilles !”) Ils se faisaient des pâtes, disaient du mal des Français, parce que nous n’avions pas de bidet dans nos salles de bains. » « Tu te rends compte, frissonne encore un ancien membre de l’organisation Prima Linea (Première ligne), on mangeait des spaghettis au gruyère ! »

    Pour combattre la nostalgie, d’anciens activistes ouvrent les premiers vrais restaurants italiens à Paris dont la plupart ont depuis fermé ou ont changé de propriétaire : le Passepartout, à Saint-Michel, Le Sipario, dans le 12e arrondissement, L’Enoteca, à Saint-Paul, ainsi que la Tour de Babel, la librairie italienne de la rue du Roi-de-Sicile, dans le Marais.
    Une Little Italy parisienne voit le jour. Pourtant, la tentation de repasser la frontière est trop forte pour certains. « Un ami, raconte Alessandro Stella, n’a pas pu résister. Il a été tué en sortant de chez lui par la Digos, la police antiterroriste, à Trieste. » Gianluigi a bien failli retourner chez lui clandestinement pour revoir son père mourant. Son sac était prêt. Des amis l’ont dissuadé in extremis d’entreprendre ce voyage. Plus tard, il a su que les carabiniers l’attendaient à l’hôpital.

    Rentrer ou rester ? Paolo Persichetti n’a pas eu à se poser la question. Le 24 août 2002, dans un hall d’immeuble parisien, alors qu’il se rendait à un dîner, il est interpellé, conduit à la division nationale antiterroriste (DNAT) et ramené en voiture au pays pour purger le solde d’une peine de vingt-deux ans de prison pour « appartenance à une bande armée » et « complicité morale dans un homicide ».

    De cette extradition, en partie justifiée en raison des faits qui lui étaient reprochés – l’assassinat d’un général en 1987, postérieur à l’élaboration de la doctrine Mitterrand –, il garde le souvenir d’une sorte d’escamotage. « Quand nous sommes entrés dans le tunnel du Mont-Blanc j’ai eu l’impression que la montagne m’avalait. J’ai été remis aux policiers italiens à l’intérieur, sur une aire de secours, loin des regards », se souvient-il dans cette grande cafétéria impersonnelle de la périphérie de Rome, un soir de janvier.

    Rejeton tardif de l’insurrection (il avait 16 ans lors de l’assassinat d’Aldo Moro), il n’est arrivé en France qu’en 1991. Fils d’ouvriers originaires des Pouilles, il est devenu doctorant en sciences politiques, chargé de cours à l’université Paris-VIII, à Saint-Denis. « Je m’étais fait une autre vie, et c’est ça qu’on a voulu me faire expier, continue-t-il. En Italie, le discours dominant voudrait que les brigadistes exilés passent leur vie en vacances à l’étranger, à se la couler douce. Dans cette logique, tout ce que vous avez pu accomplir par la suite devient une circonstance aggravante qui sera retenue contre vous. » D’abord placé à l’isolement complet pendant quatre mois, il obtient, en 2008, au bout de six ans de détention, un régime de semi-liberté. « Quand je suis sorti, je ne reconnaissais plus ma ville. Les quartiers où j’avais grandi avaient complètement changé. Je me perdais dans Rome. Ici, ce n’est plus chez moi. »

    Retour à Gênes

    Enrico Porsia, lui, a pu de nouveau se rendre à Gênes, en juillet 2013, une fois prescrite sa condamnation à quatorze années de prison et au terme de plus de trente années d’exil en France. Il n’a jamais cherché à faire profil bas. Fin juillet 2013, à peine vingt-quatre heures après avoir débarqué d’un ferry arrivant de Corse, où il vit depuis la fin des années 1990, les journaux annonçaient « le retour du brigadiste jamais repenti » et ironisaient sur la « belle vie » qui était promise à l’enfant du pays.
    Son parcours a de quoi susciter des aigreurs. Parti à 20 ans, Enrico Porsia est devenu photographe, puis journaliste d’investigation. Pour son travail, il a sillonné la France, dont il ne pouvait pas sortir, « comme une balle de flipper ». Il a découvert l’Outre-mer, pour voir du pays, puis s’est posé en Corse, où ses reportages lui ont valu pas mal d’inimitiés – sa voiture a été plastiquée en 2009.

    « Tu vois, c’est ici qu’un groupe a enlevé l’armateur Costa, en 1977. Avec le fric de la rançon, les Brigades rouges ont pu tenir pas mal de temps. » Enrico Porsia
    Chaleureux et volubile, il joue les guides dans les rues de Gênes. « Tu vois, c’est ici qu’un groupe a enlevé l’armateur Costa, en 1977. Avec le fric de la rançon, les Brigades rouges ont pu tenir pas mal de temps. » Un peu plus tard, dans un petit restaurant où il a refait pour nous l’histoire mouvementée et détaillée de l’après-guerre italienne, un client s’est approché. Il s’est présenté comme un ancien membre du Parti communiste avant de lancer, glacial : « Le problème avec vous, les brigadistes, c’est que vous n’avez pas tué les bons. » Devenu Français par décret, en 1986, Enrico Porsia a appris il y a trois ans, « par hasard », qu’il avait perdu sa nationalité italienne. Hâbleur, il assure que cela ne lui fait ni chaud ni froid. Grave, il lâche : « L’exil est une véritable peine. Et le retour, encore plus dur ensuite. »

    Rome était méconnaissable aux yeux de Lanfranco Pace lorsqu’il y est retourné en 1994. Berlusconi était sur le point d’être élu président du Conseil. Il avait quitté un pays frileux, il en retrouvait un autre où les chaînes de télévision du « Cavaliere » diffusaient des images de filles à moitié nues, le strip-tease des ménagères : « Tout avait changé, les gens, les voitures. Mes amis soutenaient Antonio Di Pietro, le juge de l’opération “Mains propres”, qui représentait à mes yeux l’archétype du magistrat politisé que nous avions combattu toute notre jeunesse ! »
    Est-ce pour cette raison qu’il a choisi d’écrire pour Il Foglio, un quotidien financé en partie par l’ex-épouse de Berlusconi ? « Un petit journal mais une grande liberté », justifie-t-il.
    Parfois, Alessandro Stella retourne au pays, même s’il est brouillé avec son frère, Gian Antonio, un journaliste réputé. « J’apprécie les odeurs, les paysages, dit-il. Mais, pour l’historien que je suis devenu et l’ancien activiste que j’ai été, il n’y a rien de plus intéressant que la France. » Chaque samedi, il participe aux manifestations des « gilets jaunes ». Le matin seulement, avant que le rassemblement ne dégénère. A 63 ans, il fatigue un peu…

    « L’exil n’est pas une disgrâce. Je mène une vie difficile à Paris mais moins ennuyeuse que prof de philo à Terni. » Oreste Scalzone
    Quarante ans ont passé depuis les années de plomb, mais Oreste Scalzone continue de faire le fiérot. « L’exil n’est pas une disgrâce. J’ai une aversion pour la faute, les passions tristes, la victimisation. Je mène une vie difficile à Paris mais moins ennuyeuse que prof de philo à Terni [sa ville de naissance]. » Il n’est retourné en Italie qu’en 2007, vingt-six ans après son arrivée à Paris. Sa mère est morte peu après, à 102 ans. « Comme si elle m’avait attendu pour partir », dit-il. De son passé, il ne renie rien, et refuse qu’on l’y force. Question de principe.
    Son combat, c’est l’amnistie, sans conditions ni repentir, comme la France l’a fait avec les généraux putschistes de l’OAS. Il répugne à se prononcer sur la culpabilité de Cesare Battisti. Au terme d’un long raisonnement, il lâche, dans un sabir très post-soixante-huitard : « Toute justice pénale est un dispositif de production d’effets de vérité. Je voudrais pouvoir dire que, même dans la pire situation de ma vie, je resterai quelqu’un qui ne se laissera pas extorquer un aveu d’innocence. »

    « Malheur aux vaincus »

    L’Etat, l’opinion et les médias italiens ne veulent pas entendre parler de clémence, et encore moins aujourd’hui alors que les contentieux se multiplient entre Rome et Paris.
    Lanfranco Pace : « Les Italiens sont un peu dégueulasses. C’est malheur aux vaincus. Ils ne veulent pas d’amnistie collective, mais le pardon au cas par cas, ça passe. » Pour l’historien Marc Lazar, « la majorité des Transalpins considèrent qu’une amnistie est inutile car les responsables des attentats ont bien été jugés par un Etat de droit. En outre, il faudrait que ceux qui ont choisi la lutte armée expriment une contrition. » Ce passé-là ne passe pas dans ce pays paradoxal qui a plus facilement assimilé vingt ans de fascisme que ces dix années de plomb.

    Un après-midi durant, Oreste Scalzone nous a parlé dans un café proche de chez lui. Le soir, nous l’avons raccompagné. Il avait neigé, la chaussée était glissante. Il nous tenait le bras et parlait… parlait comme s’il n’allait jamais s’arrêter. Sur son pull et sa chemise, il avait passé un vieux blouson de cuir, un vieux manteau et un vieil imperméable. Il portait aussi une chapka sur la tête et de grosses chaussures fourrées. Il marchait avec une canne. « Toujours subversif », de son propre aveu, il incarne la persistance d’une utopie révolutionnaire aujourd’hui anachronique.

    Gauchiste de 72 ans, il est devenu la figure de référence sur la question des #réfugiés_politiques italiens. C’est sa raison sociale et sa raison d’être. On l’invite à des conférences des deux côtés des Alpes. Il chante L’Internationale au décès des camarades et joue Bella Ciao à l’accordéon. Il ne boit pas de champagne sous la tour Eiffel. Il habite un très modeste deux-pièces en rez-de-chaussée près des habitations à bon marché en brique rouge de la porte de Montreuil, dans le 20e arrondissement. Pour le voir, il suffit de frapper au carreau.
    Longtemps, la justice italienne a cru, avant d’abandonner cette piste, qu’il avait été l’un des cerveaux, avec le philosophe Toni Negri, de certaines violences imputées à l’extrême gauche. En regardant ce petit homme frêle comme un oiseau dans la lumière jaunâtre d’un réverbère de la rue Saint-Blaise, cette hypothèse nous a paru simplement incongrue.

    • Les années 70 en Italie et [leur] actualité - Alessandro Stella
      https://lundi.am/Les-annees-70-en-Italie-et-son-actualite-Alessandro-Stella

      (..) Car, il faut le rappeler, dans la première moitié des années 1970, c’était des ouvriers, des syndicalistes, des étudiants qui tombaient sous les balles de la police anti-émeute. Des clients de banque (Milan, 1969), des usagers de trains (Italicus, 1974), des auditeurs d’un comice syndical (Brescia, 1974) sont morts par dizaine dans des attentats qui voulaient semer la peur dans la population dans le but d’en appeler à un Etat fort, d’ordre et de discipline. Les luttes sociales, sur les lieux de travail, d’études, de vie, avaient en effet mis en crise hiérarchies et gouvernances, et la classe ouvrière était promise au paradis. (...)
      Le bilan de ces longues années de conflit entre les groupes armés d’extrême gauche et l’Etat italien comptabilise 128 morts (policiers, juges, dirigeants d’entreprise, hommes politiques, journalistes) causés par les militants révolutionnaires. De l’autre côté, il y a eu 68 militants morts, tués par des policiers ou tombé au cours d’actions. (...)

      [1] Une précision me semble devoir être apportée à ce texte, qui n’expose sans doute pas assez à quel point l’Italie des années 50-70 était une société violente. Dans l’espèce de bilan qu’il dresse qu’il met en rapport les morts tués par les organisations de lutte armée et ceux tués par la police chez les militants. Mais il conviendrait mieux, à mon sens, face aux morts du côté du pouvoir, d’aligner ceux tués dans les grèves, les mouvements paysans, les révoltes carcérales : on verrait alors que les pertes étaient infiniment plus élevées du côté des exploités en lutte que du côté des exploiteurs qui les réprimaient.

    • Un de meilleurs articles écrits en 2004, au début de « l’affaire Battisti », sur les « lois spéciales » italiennes des années 70-80.

      Wu Ming - Cesare Battisti, ce que les médias ne disent pas
      https://www.wumingfoundation.com/italiano/outtakes/cesare_battisti_2_french.html

      1. Les lois spéciales 1974-82

      « Ce livre, je l’ai écrit avec colère. Je l’ai écrit entre 1974 et 1978 en contrepoint idéologique de la législation d’exception. Je voulais montrer à quel point il est équivoque de feindre de sauver l’État de Droit en le transformant en État Policier. » (les italiques sont de l’auteur de l’article)
      Italo Mereu, Préface de la deuxième édition de « Histoire de l’intolérance en Europe »

      Pour dire que le terrorisme fut combattu sans renoncer à la Constitution et aux droits de la défense, il faut être mal informé ou menteur. La Constitution et la civilisation juridique furent mises en lambeaux, décret après décret, instruction après instruction.
      Le décret-loi n.99 du 11-04-1974 porta à huit ans l’incarcération préventive, véritable « peine anticipée » contraire à la présomption
      d’innocence (article 27, alinéa 2, de la Constitution).
      La loi n. 497 du 14-10-1974 réintroduisit l’interrogatoire de la personne arrêtée par la police judiciaire, ce qui avait été aboli en 1969.
      La loi n. 152 du 22-05-1975 ("Loi Réale"). L’article 8 rend possible la fouille individuelle des gens sur place sans l’autorisation d’un magistrat, bien que la Constitution (article 13, alinéa 2) n’admette « aucune forme de détention, d’inspection, ou de fouille individuelle, ni aucune autre restriction à la liberté personnelle, sans un acte signé par l’autorité judiciaire et dans les seuls cas et modalités prévus par la loi. »
      Dès lors, les forces de l’ordre purent (et peuvent toujours) fouiller des personnes dont l’attitude ou la simple présence dans un lieu donné ne
      lui paraissaient « pas justifiables », même si la Constitution (article 16) précise que tout citoyen est libre de « circuler librement » où il veut.
      La « Loi Reale » contenait plusieurs autres innovations liberticides, mais ce n’est pas ici le lieu de l’examiner.
      Un décret interministériel du 04-05-1977 créa les « prisons spéciales ». Ceux qui y entraient ne bénéficiaient pas de la réforme carcérale mise en place deux ans auparavant. Le transfert dans une de ces structures était entièrement laissé à la discrétion de l’administration carcérale sans qu’elle ait besoin de demander l’avis du juge de surveillance. Il s’agissait réellement d’un durcissement du règlement pénitentiaire fasciste de 1931 : à cette époque, seul le juge de surveillance pouvait envoyer un détenu en « prison de haute surveillance ». Le réseau des prisons spéciales devint vite une zone franche, d’arbitraire et de négation des droits des détenus éloignement du lieu de résidence des familles ; visites et entretiens laissés à la discrétion de la direction ; transferts à l’improviste afin d’empêcher toute socialisation ; interdiction de posséder des timbres (prison de l’Asinara) ; isolement total en cellules insonorisées dotées chacune d’une petite cour, séparée des autres, pour prendre l’air (prison de Fossombrone) ; quatre minutes pour prendre la douche (prison de l’Asinara) ; surveillance continuelle et fouilles corporelles quotidiennes ; privation de tout contact humain et même visuels par les interphones et la totale automatisation des portes et des grilles etc.
      Tels étaient les lieux où les prévenus, selon la loi encore présumés innocents, passaient leur incarcération préventive. Pourtant la Constitution, article 27, alinéa 3, dit « Les peines infligées aux condamnés ne peuvent pas être contraires au respect humain et doivent tendre à la rééducation ».
      Vers quelle rééducation tendait le traitement décrit ci-dessus ?
      La loi n.534 du 08-08-1977, article 6, limita la possibilité pour la défense de déclarer nul un procès pour violation des droits d’un accusé et rendit encore plus expéditif le système des notifications, facilitant ainsi le début des procès par contumace (contrairement au droit de la défense et contre la Convention européenne des droits de l’homme de 1954).
      Le « décret Moro » du 21-03-1978 non seulement autorisa la garde à vue de vingt-quatre heures pour vérification d’identité, mais il supprima la limite de la durée des écoutes téléphoniques, légalisa les écoutes même sans mandat écrit, les admit comme preuves dans d’autres procès que ceux pour lesquels on les avait autorisées, enfin il permit les « écoutes téléphoniques préventives » même en l’absence du moindre délit. Inutile de rappeler que la Constitution (article 15) définit comme inviolable la correspondance et tout autre moyen de communication, sauf dans le cas d’un acte motivé émis par l’autorité judiciaire et « avec les garanties établies par la loi ».
      Le 30-08-1978 le gouvernement (en violation de l’article 77 de la Constitution) promulgua un décret secret qui ne fut pas transmis au Parlement et ne fut publié dans le « Journal Officiel » qu’un an plus tard. Ce décret donnait au général Carlo Arberto della Chiesa - sans pour autant le décharger du maintient de l’ordre dans les prisons - des pouvoirs spéciaux pour lutter contre le terrorisme.
      Le décret du 15-12-1979 (devenu ensuite la « Loi Cossiga », n. 15 du 06-02-1980), non seulement introduisit dans le code pénal le fameux article 270 bis (1), mais il autorisa aussi la police, dans le cas de délits de « conspiration politique par le biais d’associations » et de délits « d’associations de malfaiteurs », à procéder à des arrestations préventive d’une durée de 48 heures, plus quarante-huit heures supplémentaires de garde à vue afin de justifier les mesures prises. Pendant quatre longues journées un citoyen soupçonné d’être sur le point de conspirer pouvait rester à la merci de la police judiciaire sans avoir le droit d’en informer son avocat.
      Durant cette période il pouvait être interrogé et fouillé et dans de nombreux cas on a parlé de violences physiques et psychologiques (Amnesty International protesta à plusieurs reprises). Tout cela grâce à l’article 6, une mesure extraordinaire qui a durée un an.
      L’article 9 de la loi permettait les perquisitions pour « raison d’urgence » même sans mandat. La Constitution, article 14, dit : « Le domicile est inviolable. On ne peut pas y effectuer d’inspections, de perquisitions ni d’arrestations, sauf dans les cas et les modalités prévus par la loi et selon les garanties prescrites par la protection des libertés personnelles » (c’est moi qui souligne). En quoi consiste cette protection des libertés dans un système où sont légalisés l’arbitraire, les lubies du policier, la faculté de décider à vue s’il est nécessaire d’avoir ou non un mandat pour perquisitionner ?
      Dans l’article 10, la fin de l’incarcération préventive pour délits de terrorisme était prolongée d’un tiers par échelon judiciaire. De cette manière, jusqu’à la Cassation, on pouvait atteindre dix ans et huit mois de détention en attendant le jugement ! Avec l’article 11, on introduisit un grave élément de rétroactivité de la loi, permettant d’appliquer ces nouveaux délais aux procédures déjà en cours. Le but était clair : repousser les dates butoirs afin d’éviter que des centaines d’enterrés vivants attendent leur jugement à l’air libre.
      La « loi sur les repentis » (n. 304 du 29-05-1982) couronna la législation d’exception en concédant des remises de peine aux « repentis ». Le texte parlait explicitement de « repentir » [ravvedimento]. Dans un livre qui, ces derniers jours, a été souvent cité (sur le Net mais certainement pas dans les médias traditionnels), Giorgio Bocca se demandait qui pouvait bien être ce « repenti ». « Une personne qui, par convictions politiques, a adhéré à un parti armé et qui ensuite, après un revirement d’opinion, s’en est dissocié au point de le combattre, ou encore quelque aventuriste qui s’est amusé à tuer son prochain et qui, une fois capturé, essaye d’échapper à la punition en dénonçant tout et n’importe qui ? »
      Je cite le groupe musical « Elio e le storie tese » : « Je pencherais pour la seconde hypothèse / parce qu’elle exhale une odeur nauséabonde » (chanson de « Urna », 1992).

    • https://www.lemonde.fr/idees/article/2021/04/20/reaffirmer-la-doctrine-mitterrand-sur-les-exiles-politiques-ne-signifie-en-a

      Tribune. Ils sont arrivés en France pour la plupart au début des années 1980, il y a plus de quarante ans. Ils ont participé à l’énorme vague de contestation politique et sociale qui a profondément marqué l’Italie pendant la décennie qui a suivi 1968. Ils venaient de groupes différents, avaient des histoires différentes, et étaient tous poursuivis par la justice italienne pour leur activité politique. Ils ont été protégés par ce que l’on a appelé la « doctrine Mitterrand » : parce que, dans certains cas, les conditions du fonctionnement de la justice italienne, dictées par la nécessité d’une réponse urgente aux dérives terroristes de la contestation sociale, laissaient paradoxalement craindre que toutes les garanties d’équité ne soient pas respectées ; parce que, plus généralement, les exilés italiens avaient publiquement déclaré qu’ils abandonnaient leur militantisme politique, qu’ils considéraient leur activité passée comme révolue, et qu’ils renonçaient à la violence.

      La doctrine Mitterrand n’est pas un texte écrit, elle n’a de valeur que comme décision politique. Mais elle se fonde sur un raisonnement qu’ont reconfirmé par la suite plusieurs gouvernements, de droite comme de gauche, et dont il nous semble qu’il vaut sans doute la peine d’être rappelé. Elle n’a jamais consisté à soustraire des coupables à une juste peine, ni à remettre en question le droit d’un Etat à faire valoir son propre système de justice. Elle a simplement mis en place, de facto, un mécanisme qui consiste à prendre la décision politique – face à la lacération douloureuse et générale de la cohésion d’un pays, et une fois que le contexte politique de cette lacération semble disparaître – de construire les conditions d’une unité et d’une paix retrouvées.

      Elle ne concerne donc pas des cas individuels mais fait face à une fracture qui s’est produite, dont elle a enregistré la violence, et qui semble désormais passée : elle se pose le problème de la recomposition de cette fracture. Elle n’efface pas les fautes et les responsabilités, elle ne nie pas l’histoire de ce qui s’est produit. Elle permet simplement au pays de recommencer à vivre ; et sans doute aussi aux historiens de pouvoir commencer à faire leur travail, c’est-à-dire de transformer la douleur lancinante en objets de savoir.
      Lire aussi L’Italie solde les années de plomb
      Dans le cas des années de plomb, une semblable possibilité a été envisagée et presque atteinte par l’Italie elle-même, à la fin des années 1990, parce qu’il fallait déclarer le chapitre clos – encore une fois non pas pour oublier, mais pour permettre au pays de se libérer d’un moment désormais révolu, et de livrer aux historiens la tâche d’en faire l’histoire.
      Cette possibilité, qui prenait la forme d’une proposition d’amnistie politique, n’a pas été saisie : elle était liée au projet d’une réforme constitutionnelle qui n’a finalement pas vu le jour.

      Aujourd’hui, les militants italiens exilés arrivés au début des années 1980 ont quarante ans de plus. Ils ont désormais largement l’âge de la retraite. Ils ont été journalistes, restaurateurs, médecins, graphistes, documentaristes, psychologues. Ils ont eu des enfants, et des petits-enfants. Ils n’ont cessé de répéter que la guerre était finie ; qu’ils étaient depuis bien longtemps étrangers à ce qu’ils avaient été sans jamais pourtant refuser d’admettre leur responsabilité. Ils avaient voulu le bien, la justice, l’égalité, le partage, la solidarité. Ils ont eu la tragédie, ils en admettent la responsabilité, mais ils ont rendu les armes depuis quatre décennies, et toute leur vie postérieure en constitue la preuve.
      C’est à ces femmes et à ces hommes, quarante ans après, que l’on demande des comptes. Non pas des comptes moraux – chacun d’entre eux a eu largement le temps d’y penser –, mais des comptes au nom d’une justice qui décrète que le pardon équivaut à l’oubli, que l’amnistie est toujours une trahison, que la réconciliation vaut moins que la réouverture des blessures. Rouvrir les blessures : faire en sorte que l’histoire ne passe pas.

      Réaffirmer la doctrine Mitterrand aujourd’hui ne signifie en aucun cas donner à l’Italie des leçons en matière de justice. Cela signifie simplement se souvenir que la politique se fait aussi, et surtout, au présent ; qu’elle se doit de construire les conditions d’un avenir partagé ; et que la conception de la justice comme pur instrument de vengeance, y compris quarante ans après, est contraire à ce que nous persistons à considérer comme un fonctionnement éclairé de la démocratie.

  • Les Brigades rouges (BR) italiennes restent l’organisation de lutte armée la plus importante des années 1970. Les BR restent surtout connues pour l’enlèvement d’Aldo Moro, un politicien démocrate-chrétien. Mais les BR s’inscrivent avant tout dans le contexte de l’autonomie italienne. Elles proviennent de la contestation des usines et des quartiers populaires. Elles peuvent s’appuyer sur un important soutien populaire, contrairement à des groupuscules peu implantés dans les luttes sociales.

    http://www.zones-subversives.com/-

    http://www.editionsamsterdam.fr/brigades-rouges
    http://editionslibertalia.com/blog/Brigate-Rosse-une-histoire


    https://seenthis.net/messages/638087
    #brigades_rouges #lutte_armée #autonomie_ouvrière #Mario_Moretti

  • On the psychology of Arab crowds and the ethics of boycott | MadaMasr

    https://www.madamasr.com/en/2018/05/31/opinion/u/on-the-psychology-of-arab-crowds-and-the-ethics-of-boycott

    Now that this is established, let us move to the essential question of whether boycotting Israel is actually an effective tool to end, or at least restrain, Israeli aggression. It should be understood that it is in the nature of humans that they rarely tend to make compromises unless it is in their own interests, and that it is in the nature of states that they almost never make compromises without being forced. In 2005, following the Second Intifada, polls indicated that almost 60 percent of Israeli Jews were willing to support withdrawal from the West Bank as part of a peace agreement, while in 2017, only 36 percent were willing to do so. This is highly indicative of the fact that, with the end of large scale armed resistance, the Israeli public has lost its incentive to offer any land compromises and that the aggressive, uncompromising policies adopted by the current Israeli Cabinet are a representation of widespread public opinion in Israel. It is accordingly logical to assume that, without anything compelling Israelis to reconsider the situation, they will continue electing and supporting the right-wing governments that have improved their security, even at the cost of inhumanly treating Palestinians.

    To consider the above within the context of examining the argument for popular boycott in the Arab world, it is important to note that recent polls in Israel indicate that normalization with the Arab world is the single incentive Israelis view as being most conducive to peace. As for the claims that it is almost hypocritical for Arab individuals to boycott Israel while their states are increasing normalization, it should be noted that Netanyahu recently stated that the greatest obstacle to “peace” with Palestinians today is not the leaders of Arab states, but “public opinion on the Arab street.” This proves that, even if Arab states are collaborating, popular boycott and public opinion in the Arab world matter, and, while they will not perhaps deter Israel from its crimes, they are at least acting as a restraining force against Israel’s final “peace,” which, according to various indicators, consists of leaving Palestinians with nothing.

    Finally, while it is unrealistic to think that Arab popular boycott alone might end Israeli occupation, it is reasonable to hope that an international boycott could. In recent years, global public opinion has swayed in favor of Palestinians, leading to nearly three quarters of Israeli Jews feeling that the “whole world is against them.” The increasing successes of the international boycott movements, if coupled with a solid Arab popular boycott in the future, should definitely create more incentives for Israelis to pursue peace, and could compel them to elect a less extremist cabinet. It is therefore my belief that Arab individuals who choose to normalize with Israel are not only removing the last “most conducive” incentive for Israelis to seriously pursue peace, but should consider themselves as directly liable for the continued suffering of Palestinians.

    • Si je comprends bien, cet article n’est pas anti-boycott, mais il suggère que la lutte armée des années 1990 était plus efficace :

      In 2005, following the Second Intifada, polls indicated that almost 60 percent of Israeli Jews were willing to support withdrawal from the West Bank as part of a peace agreement, while in 2017, only 36 percent were willing to do so. This is highly indicative of the fact that, with the end of large scale armed resistance, the Israeli public has lost its incentive to offer any land compromises and that the aggressive, uncompromising policies adopted by the current Israeli Cabinet are a representation of widespread public opinion in Israel.

      #Palestine #BDS #Boycott #Lutte_armée #violence #non-violence #La_rue_arabe

  • Une jeunesse allemande
    Allemagne 1965-1977, de la bataille des images à la lutte armée.
    La Fraction Armée Rouge (RAF), organisation terroriste d’extrême gauche, également surnommée « la bande à Baader » ou « groupe Baader-Meinhof », opère en #Allemagne dans les années 70. Ses membres, qui croient en la force de l’image, expriment pourtant d’abord leur militantisme dans des actions artistiques, médiatiques et cinématographiques. Mais devant l’échec de leur portée, ils se radicalisent dans une #lutte_armée, jusqu’à commettre des attentats meurtriers qui contribueront au climat de violence sociale et politique durant « les années de plomb ».
    https://www.arte.tv/fr/videos/057443-000-A/une-jeunesse-allemande

    https://www.youtube.com/watch?v=isvH8Sb0M-s


    http://www.pontcerq.fr/livres/ulrike-meinhof-68-76-rfa
    #Ulrike_Meinhof

  • https://offensivesonore.blogspot.fr/2018/03/lola-lafon-mercy-mary-patty.html

    [O-S] Lola Lafon : Mercy, Mary, Patty

    Emission du 30 mars 2018. En février 1974, Patricia Hearst, petite-fille du célèbre magnat de la presse William Randolph Hearst, est enlevée contre rançon par un groupuscule révolutionnaire dont elle ne tarde pas à épouser la cause, à la stupéfaction générale de l’establishment qui s’empresse de conclure au lavage de cerveau.

    #audio #radio #offensive_sonore #Patricia_Hearst #Lola_Lafon #1974 #lutte_armée #indentité #féminisme #patriarcat #enlèvement #syndrôme_de_stockolm #roman #révolutionnaire #black_panthers

  • Parcours de combattantes kurdes
    « Gulîstan, terre de roses » un documentaire de Zaynê Akyol

    Ceux qui, par paresse ou malveillance décrivent les combattantes de la guérilla du Parti des travailleurs du Kurdistan comme des avatars de Lara Croft embarquées dans un épisode héroïque de jeu vidéo ne trouveront aucun argument pour conforter leur thèse dans Gulîstan, Terre de roses, le documentaire de Zaynê Akyol sorti en salle le 8 mars.

    http://orientxxi.info/lu-vu-entendu/parcours-de-combattantes-kurdes,1778


    #lutte_armée #PKK #Kurdistan #Femmes_Kurdes #Rojava #documentaire
    https://editionsnoiretrouge.com/index.php?route=product/product&product_id=78
    http://editionsdesequateurs.fr/aParaitre/Litterature/MourirPourKobane

  • J’étais dans Action Directe
    https://www.vice.com/fr/read/j-etais-dans-action-directe-v10n03

    Quand j’étais membre d’Action directe, dans la maison où l’on vivait, moi aussi je cultivais des carottes. Mais je n’en faisais pas un projet politique. Les ZAD, c’est une bonne réserve d’Indiens. Moi je ne veux pas vivre dans une réserve.

    [...]

    Il y a comme une mythologie des ZAD. La dernière fois en Catalogne, j’écoutais un penseur de l’autonomie me dire droit dans les yeux que les zadistes de Notre-Dame-des-Landes avaient repoussé une attaque militaire. Je lui ai dit : « Mais t’es sérieux ou quoi ? T’as jamais vu l’État quand il s’énerve. Il siffle la fin de la récréation, et en dix minutes c’est fini. »

    [...]

    Pour quel courant es-tu aujourd’hui, alors ?

    Pour l’autonomie politique des quartiers populaires. C’est-à-dire que je crois aux gamins de banlieue. Je crois qu’il faut aller vers eux, sans projet politique, et les écouter. C’est-à-dire ne pas arriver en disant : « Nous les Blancs on va lutter avec vous. » Mais de dire : « Nous les Blancs, on va vous aider à avoir de l’autonomie politique. »

    Ils chemineront contre les rapports de pouvoir et de domination, parce que c’est eux qui en souffrent. Pas celui qui plante des poireaux dans les ZAD. Ils sont à mille lieues de l’affrontement réel qui s’y passe. On l’a vu avec la mort de Rémi Fraisse, quand il y a eu la manifestation ici, à Marseille : on a assisté à beaucoup d’agressions de gamins de banlieue contre eux. En disant : « Aujourd’hui vous pleurez un des vôtres, mais on ne vous voit jamais quand c’est l’un des nôtres. »

    #Action_directe #Apologie_du_terrorisme #Banlieue #France #Jean-Marc_Rouillan #Liberté_d'expression #Lutte_armée #Politique #Terrorisme #Zone_à_défendre

    • Lorsqu’un journaliste du Monde diplomatique, Laurent Bonelli, compare le djihad aux Brigades internationales, c’est indigne du Monde diplomatique. Confondre une guerre révolutionnaire avec une guerre religieuse, c’est comme dire que l’extrême-gauche et l’extrême-droite sont la même chose.

      ping @mdiplo

    • L’article en question @fil se termine par ce paragraphe :

      Le sociologue Emile Durkheim faisait de l’observation et de la comparaison le fondement des sciences sociales. Pas parce que tout se vaut : les membres des BI ne sont pas les volontaires du Machal, de la LVF ou de l’Etat islamique, et ces expériences demeurent irréductibles les unes aux autres. Mais l’analyse systématique des mécanismes concrets par lesquels des individus aussi différents se sont battus pour faire advenir des utopies opposées déplace le curseur du jugement moral vers le terrain politique. Comment, dans une période donnée, combat-on un idéal susceptible de pousser certaines fractions de la population à quitter leur pays parce que cet idéal donne sens à leur existence ? Il paraît certain que la rhétorique paresseuse de la « guerre de civilisation », qui mêle interventions militaires à l’extérieur et raidissement sécuritaire à l’intérieur, ne constitue pas une réponse.

      https://www.monde-diplomatique.fr/2015/08/BONELLI/53519

    • Dans une interview accordée à une radio associative marseillaise en février 2016, il évoque, en parlant des attentats du 13 novembre 2015 en France, « le courage avec lequel se sont battus les terroristes du 13 novembre, dans les rues de Paris en sachant qu’il y avait près de 3 000 flics autour d’eux. » « On peut dire plein de choses sur eux — qu’on est absolument contre les idées réactionnaires, que c’était idiot de faire ça, mais pas que ce sont des gamins lâches » ajoute-t-il24 ». À la suite de cette déclaration, la justice française ouvre une enquête préliminaire à charge, pour « apologie du terrorisme »25. Pour Nicolas Comte, secrétaire général du syndicat général de la police-Force ouvrière : « C’est très clairement de l’apologie des actes terroristes. Il montre sa sympathie pour une organisation terroriste. » Samia Maktouf, avocate de plusieurs familles de victimes du 13 novembre, partage cette analyse26. L’association française des victimes du terrorisme évoque une « bouillie intellectuelle », Jean-Marc Rouillan « se vautre […] une fois de plus dans la violence. » Le ministre de l’intérieur Bernard Cazeneuve indique : « Ces propos sont une offense à la mémoire des victimes et une blessure supplémentaire pour des familles qui ont déjà beaucoup enduré »27.

      https://fr.wikipedia.org/wiki/Jean-Marc_Rouillan

      #Apologie_du_terrorisme #Attentats_du_13_novembre_2015_en_France #Liberté_d'expression