• Le béton de Lafarge et des autres ne sera jamais vert ni désirable
    https://ricochets.cc/Le-beton-de-Lafarge-et-des-autres-ne-sera-jamais-vert-ni-desirable.html

    Le système du béton, comme la civilisation industrielle dont il est un des piliers indispensable, ne sera jamais vert ni propre : Un an après le sabotage de l’usine Lafarge, deuxième round contre le béton - Le béton du cimentier Lafarge sera au centre d’actions menées par une coalition de 150 luttes dès le 9 décembre. Un matériau qui menace dangereusement nos ressources. Explications. Pour plus d’infos sur le monde du béton et l’actuelle campagne d’actions : Actions organisées du 9 au 12 décembre par une (...) #Les_Articles

    / #Ecologie, #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle, #Technologie

    https://reporterre.net/Un-an-apres-le-sabotage-de-l-usine-Lafarge-deuxieme-round-contre-le-beto
    https://lessoulevementsdelaterre.org/blog/appel-international-a-des-journees-d-actions-contre-lafarg
    https://mars-infos.org/revendication-action-de-sabotage-7294
    https://www.placegrenet.fr/2023/12/05/saint-egreve-un-collectif-revendique-une-action-de-sabotage-contre-la-cimenterie-vicat-qui-dement-les-faits/619303
    https://ricochets.cc/IMG/distant/html/xhlAfoFDrPg-557e-dc14877.html

  • Ecco quello che hanno fatto davvero gli italiani “brava gente”

    In un libro denso di testimonianze e documenti, #Eric_Gobetti con “I carnefici del duce” ripercorre attraverso alcune biografie i crimini dei militari fascisti in Libia, Etiopia e nei Balcani, smascherando una narrazione pubblica che ha distorto i fatti in una mistificazione imperdonabile e vigliacca. E denuncia l’incapacità nazionale di assumersi le proprie responsabilità storiche, perpetuata con il rosario delle “giornate della memoria”. Ci fu però chi disse No.

    “I carnefici del duce” è un testo che attraverso alcune emblematiche biografie è capace di restituire in modo molto preciso e puntigliosamente documentato le caratteristiche di un’epoca e di un sistema di potere. Di esso si indagano le pratiche e le conseguenze nella penisola balcanica ma si dimostra come esso affondi le radici criminali nei territori coloniali di Libia ed Etiopia, attingendo linfa da una temperie culturale precedente, dove gerarchia, autoritarismo, nazionalismo, militarismo, razzismo, patriarcalismo informavano di sé lo Stato liberale e il primo anteguerra mondiale.

    Alla luce di tali paradigmi culturali che il Ventennio ha acuito con il culto e la pratica endemica dell’arbitrio e della violenza, le pagine che raccontano le presunte prodezze italiche demoliscono definitivamente l’immagine stereotipa degli “italiani brava gente”, una mistificazione imperdonabile e vigliacca che legittima la falsa coscienza del nostro Paese e delle sue classi dirigenti, tutte.

    Anche questo lavoro di Gobetti smaschera la scorciatoia autoassolutoria dell’Italia vittima dei propri feroci alleati, denuncia l’incapacità nazionale di assumere le proprie responsabilità storiche nella narrazione pubblica della memoria – anche attraverso il rosario delle “giornate della memoria” – e nell’ufficialità delle relazioni con i popoli violentati e avidamente occupati dall’Italia. Sì, perché l’imperialismo fascista, suggeriscono queste pagine, in modo diretto o indiretto, ha coinvolto tutta la popolazione del Paese, eccetto coloro che, nei modi più diversi, si sono consapevolmente opposti.

    Non si tratta di colpevolizzare le generazioni (soprattutto maschili) che ci hanno preceduto, afferma l’autore,­ ma di produrre verità: innanzitutto attraverso l’analisi storiografica, un’operazione ancora contestata, subissata da polemiche e a volte pure da minacce o punita con la preclusione da meritate carriere accademiche; poi assumendola come storia propria, riconoscendo responsabilità e chiedendo perdono, anche attraverso il ripudio netto di quel sistema di potere e dei suoi presunti valori. Diventando una democrazia matura.

    Invece, non solo persistono ambiguità, omissioni, false narrazioni ma l’ombra lunga di quella storia, attraverso tante biografie, si è proiettata nel secondo dopoguerra, decretandone non solo la radicale impunità ma l’affermarsi di carriere, attività e formazioni che hanno insanguinato le strade della penisola negli anni Settanta, minacciato e condizionato l’evolversi della nostra democrazia.

    Di un sistema di potere così organicamente strutturato – come quello che ha retto e alimentato l’imperialismo fascista – pervasivo nelle sue articolazioni sociali e culturali, il testo di Gobetti ­accanto alle voci dei criminali e a quelle delle loro vittime, fa emergere anche quelle di coloro che hanno detto no, scegliendo di opporsi e dimostra che, nonostante tutto, era comunque possibile fare una scelta, nelle forme e nelle modalità più diverse: dalla volontà di non congedarsi dal senso della pietà, al tentativo di rendere meno disumano il sopravvivere in un campo di concentramento; dalla denuncia degli abusi dei propri pari, alla scelta della Resistenza con gli internati di cui si era carcerieri, all’opzione netta per la lotta di Liberazione a fianco degli oppressi dal regime fascista, a qualunque latitudine si trovassero.

    È dunque possibile scegliere e fare la propria parte anche oggi, perché la comunità a cui apparteniamo si liberi dagli “elefanti nella stanza” – così li chiama Gobetti nell’introduzione al suo lavoro –­ cioè dai traumi irrisolti con cui ci si rifiuta di fare i conti, che impediscono di imparare dai propri sbagli e di diventare un popolo maturo, in grado di presentarsi con dignità di fronte alle altre nazioni, liberando dalla vergogna le generazioni che verranno e facendo in modo che esse non debbano più sperimentare le nefandezze e i crimini del fascismo, magari in abiti nuovi. È questo autentico amor di patria.

    “I carnefici del duce” – 192 pagine intense e scorrevolissime, nonostante il rigore della narrazione,­ è diviso in 6 capitoli, con un’introduzione che ben motiva questa nuova ricerca dell’autore, e un appassionato epilogo, che ne esprime l’alto significato civile.

    Le tappe che vengono scandite scoprono le radici storiche dell’ideologia e delle atrocità perpetrate nelle pratiche coloniali fasciste e pre-fasciste; illustrano la geopolitica italiana del Ventennio nei Balcani, l’occupazione fascista degli stessi fino a prospettarne le onde lunghe nelle guerre civili jugoslave degli anni Novanta del secolo scorso; descrivono la teoria e la pratica della repressione totale attuata durante l’occupazione, circostanziandone norme e regime d’impunità; evidenziano la stretta relazione tra la filosofia del regime e la mentalità delle alte gerarchie militari.


    Raccontano le forme e le ragioni dell’indebita appropriazione delle risorse locali e le terribili conseguenze che ne derivarono per le popolazioni, fino a indagare l’inferno, il fenomeno delle decine e decine di campi d’internamento italiani, di cui è emblematico quello di Arbe. Ciascun capitolo è arricchito da una testimonianza documentaria, significativa di quanto appena esposto. Impreziosiscono il testo, oltre ad un’infinità di note che giustificano quasi ogni passaggio – a riprova che nel lavoro storiografico rigore scientifico e passione civile possono e anzi debbono convivere – una bibliografia e una filmografia ragionata che offrono strumenti per l’approfondimento delle questioni trattate.

    https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/librarsi/ecco-quello-che-hanno-fatto-davvero-gli-italiani-brava-gente
    #Italiani_brava_gente #livre #Italie #colonialisme #fascisme #colonisation #Libye #Ethiopie #Balkans #contre-récit #mystification #responsabilité_historique #Italie_coloniale #colonialisme_italien #histoire #soldats #armée #nationalisme #racisme #autoritarisme #patriarcat #responsabilité_historique #mémoire #impérialisme #impérialisme_fasciste #vérité #résistance #choix #atrocités #idéologie #occupation #répression #impunité #camps_d'internement #Arbe

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    ajouté à la métaliste sur le colonialisme italien:
    https://seenthis.net/messages/871953

    • I carnefici del Duce

      Non tutti gli italiani sono stati ‘brava gente’. Anzi a migliaia – in Libia, in Etiopia, in Grecia, in Jugoslavia – furono artefici di atrocità e crimini di guerra orribili. Chi furono ‘i volenterosi carnefici di Mussolini’? Da dove venivano? E quali erano le loro motivazioni?
      In Italia i crimini di guerra commessi all’estero negli anni del fascismo costituiscono un trauma rimosso, mai affrontato. Non stiamo parlando di eventi isolati, ma di crimini diffusi e reiterati: rappresaglie, fucilazioni di ostaggi, impiccagioni, uso di armi chimiche, campi di concentramento, stragi di civili che hanno devastato intere regioni, in Africa e in Europa, per più di vent’anni. Questo libro ricostruisce la vita e le storie di alcuni degli uomini che hanno ordinato, condotto o partecipato fattivamente a quelle brutali violenze: giovani e meno giovani, generali e soldati, fascisti e non, in tanti hanno contribuito a quell’inferno. L’hanno fatto per convenienza o per scelta ideologica? Erano fascisti convinti o soldati che eseguivano gli ordini? O furono, come nel caso tedesco, uomini comuni, ‘buoni italiani’, che scelsero l’orrore per interesse o perché convinti di operare per il bene della patria?

      https://www.laterza.it/scheda-libro/?isbn=9788858151396
      #patrie #patriotisme #Grèce #Yougoslavie #crimes_de_guerre #camps_de_concentration #armes_chimiques #violence #brutalité

  • Marche Populaire NO TAV de Susa à Venaus les 8-9-10 décembre !
    https://ricochets.cc/Marche-Populaire-NO-TAV-de-Susa-a-Venaus-les-8-9-10-decembre.html

    L’invitation pour tous* pour ce 8 Décembre est de rejoindre le Val de Suse, le Val qui Résiste, pour la grande marche populaire de Suse à Venaus et pour les nombreuses autres initiatives qui traverseront notre territoire ces jours-là. Les 8-9-10 seront trois jours de lutte, de débat, de sociabilité et d’initiatives sur les chantiers. Préparons-nous tous à un long week-end d’unité et de lutte ! Pour le Mouvement No TAV, le 8 décembre a toujours été un moment de se souvenir de la grande journée de lutte (...) #Les_Articles

    / #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle, #transport, #Luttes_sociales, (...)

    #Ecologie
    https://stopaulyonturin.com/un-desastre-ecologique

  • Le #village_sous_la_forêt, de #Heidi_GRUNEBAUM et #Mark_KAPLAN

    En #1948, #Lubya a été violemment détruit et vidé de ses habitants par les forces militaires israéliennes. 343 villages palestiniens ont subi le même sort. Aujourd’hui, de #Lubya, il ne reste plus que des vestiges, à peine visibles, recouverts d’une #forêt majestueuse nommée « Afrique du Sud ». Les vestiges ne restent pas silencieux pour autant.

    La chercheuse juive sud-africaine, #Heidi_Grunebaum se souvient qu’étant enfant elle versait de l’argent destiné officiellement à planter des arbres pour « reverdir le désert ».

    Elle interroge les acteurs et les victimes de cette tragédie, et révèle une politique d’effacement délibérée du #Fonds_national_Juif.

    « Le Fonds National Juif a planté 86 parcs et forêts de pins par-dessus les décombres des villages détruits. Beaucoup de ces forêts portent le nom des pays, ou des personnalités célèbres qui les ont financés. Ainsi il y a par exemple la Forêt Suisse, le Parc Canada, le Parc britannique, la Forêt d’Afrique du Sud et la Forêt Correta King ».

    https://www.villageunderforest.com

    Trailer :

    https://www.youtube.com/watch?v=ISmj31rJkGQ

    #israel #palestine #carte #Israël #afrique_du_sud #forêt #documentaire

    #film #documentaire #film_documentaire

    (copier-coller de ce post de 2014 : https://seenthis.net/messages/317236)

    • Documentary Space, Place, and Landscape

      In documentaries of the occupied West Bank, erasure is imaged in the wall that sunders families and communities, in the spaces filled with blackened tree stumps of former olive groves, now missing to ensure “security,” and in the cactus that still grows, demarcating cultivated land whose owners have been expelled.

      This materiality of the landscape becomes figural, such that Shehadeh writes, “[w]hen you are exiled from your land … you begin, like a pornographer, to think about it in symbols. You articulate your love for your land in its absence, and in the process transform it into something else.’’[x] The symbolization reifies and, in this process, something is lost, namely, a potential for thinking differently. But in these Palestinian films we encounter a documenting of the now of everyday living that unfixes such reification. This is a storytelling of vignettes, moments, digressions, stories within stories, and postponed endings. These are stories of interaction, of something happening, in a documenting of a being and doing now, while awaiting a future yet to be known, and at the same time asserting a past history to be remembered through these images and sounds. Through this there arises the accenting of these films, to draw on Hamid Naficy’s term, namely a specific tone of a past—the Nakba or catastrophe—as a continuing present, insofar as the conflict does not allow Palestinians to imagine themselves in a determinate future of place and landscape they can call their own, namely a state.[xi]

      In Hanna Musleh’s I’m a Little Angel (2000), we follow the children of families, both Muslim and Christian, in the area of Bethlehem affected by the 2000 Israeli armed forces attacks and occupation.[xii] One small boy, Nicola, suffered the loss of an arm when he was hit by a shell when walking to church with his mother. His kite, seen flying high in the sky, brings delighted shrieks from Nicola as he plays on the family terrace from which the town and its surrounding hills are visible in the distance. But the contrast between the freedom of the kite in this unlimited vista and his reduced capacity is palpable as he struggles to control it with his remaining hand. The containment of both Nicola and his community is figured in opposition to a possible freedom. What is also required of us is to think not of freedom from the constraints of disability, but of freedom with disability, in a future to be made after. The constraints introduced upon the landscape by the occupation, however, make the future of such living indeterminate and uncertain. Here is the “cinema of the lived,”[xiii] of multiple times of past and present, of possible and imagined future time, and the actualized present, each of which is encountered in the movement in a singular space of Nicola and his kite.


      http://mediafieldsjournal.squarespace.com/documentary-space-place-and-la/2011/7/18/documentary-space-place-and-landscape.html;jsessioni
      #cactus #paysage

    • Memory of the Cactus

      A 42 minute documentary film that combines the cactus and the memories it stands for. The film addresses the story of the destruction of the Palestinian villages of Latroun in the Occupied West Bank and the forcible transfer of their civilian population in 1967. Over 40 years later, the Israeli occupation continues, and villagers remain displaced. The film follows two separate but parallel journeys. Aisha Um Najeh takes us down the painful road that Palestinians have been forcefully pushed down, separating them in time and place from the land they nurtured; while Israelis walk freely through that land, enjoying its fruits. The stems of the cactus, however, take a few of them to discover the reality of the crime committed.

      https://www.youtube.com/watch?v=DQ_LjknRHVA

    • Aujourd’hui, j’ai re-regardé le film « Le village sous la forêt », car je vais le projeter à mes étudiant·es dans le cadre du cours de #géographie_culturelle la semaine prochaine.

      Voici donc quelques citations tirées du film :

      Sur une des boîtes de récolte d’argent pour planter des arbres en Palestine, c’est noté « make wilderness bloom » :

      Voici les panneaux de quelques parcs et forêts créés grâce aux fonds de la #diaspora_juive :

      Projet : « We will make it green, like a modern European country » (ce qui est en étroit lien avec un certaine idée de #développement, liée au #progrès).

      Témoignage d’une femme palestinienne :

      « Ils ont planté des arbres partout qui cachaient tout »

      Ilan Pappé, historien israëlien, Université d’Exter :

      « ça leur a pris entre 6 et 9 mois poru s’emparer de 80% de la Palestine, expulser la plupart des personnes qui y vivaient et reconstruire sur les villes et villages de ces personnes un nouvel Etat, une nouvelle #identité »

      https://socialsciences.exeter.ac.uk/iais/staff/pappe

      Témoignage d’un palestinien qui continue à retourner régulièrement à Lubya :

      « Si je n’aimais pas cet endroit, est-ce que je continuerais à revenir ici tout le temps sur mon tracteur ? Ils l’ont transformé en forêt afin d’affirmer qu’il n’y a pas eu de village ici. Mais on peut voir les #cactus qui prouvent que des arabes vivaient ici »

      Ilan Pappé :

      « Ces villages éaient arabes, tout comme le paysage alentour. C’était un message qui ne passait pas auprès du mouvement sioniste. Des personnes du mouvement ont écrit à ce propos, ils ont dit qu’ils n’aimaient vraiment pas, comme Ben Gurion l’a dit, que le pays ait toujours l’air arabe. (...) Même si les Arabes n’y vivent plus, ça a toujours l’air arabe. En ce qui concerne les zones rurales, il a été clair : les villages devaient être dévastés pour qu’il n’y ait pas de #souvenirs possibles. Ils ont commencé à les dévaster dès le mois d’août 1948. Ils ont rasé les maisons, la terre. Plus rien ne restait. Il y avait deux moyens pour eux d’en nier l’existence : le premier était de planter des forêts de pins européens sur les villages. Dans la plupart des cas, lorsque les villages étaient étendus et les terres assez vastes, on voit que les deux stratégies ont été mises en oeuvre : il y a un nouveau quartier juif et, juste à côté, une forêt. En effet, la deuxième méthode était de créer un quartier juif qui possédait presque le même nom que l’ancien village arabe, mais dans sa version en hébreu. L’objectif était double : il s’agissait d’abord de montrer que le lieu était originellement juif et revenait ainsi à son propriétaire. Ensuite, l’idée était de faire passer un message sinistre aux Palestiniens sur ce qui avait eu lieu ici. Le principal acteur de cette politique a été le FNJ. »

      #toponymie

      Heidi Grunebaum, la réalisatrice :

      « J’ai grandi au moment où le FNJ cultivait l’idée de créer une patrie juive grâce à la plantation d’arbres. Dans les 100 dernières années, 260 millions d’arbres ont été plantés. Je me rends compte à présent que la petite carte du grand Israël sur les boîtes bleues n’était pas juste un symbole. Etait ainsi affirmé que toutes ces terres étaient juives. Les #cartes ont été redessinées. Les noms arabes des lieux ont sombré dans l’oubli à cause du #Comité_de_Dénomination créé par le FNJ. 86 forêts du FNJ ont détruit des villages. Des villages comme Lubya ont cessé d’exister. Lubya est devenu Lavie. Une nouvelle histoire a été écrite, celle que j’ai apprise. »

      Le #Canada_park :

      Canada Park (Hebrew: פארק קנדה‎, Arabic: كندا حديقة‎, also Ayalon Park,) is an Israeli national park stretching over 7,000 dunams (700 hectares), and extending from No man’s land into the West Bank.
      The park is North of Highway 1 (Tel Aviv-Jerusalem), between the Latrun Interchange and Sha’ar HaGai, and contains a Hasmonean fort, Crusader fort, other archaeological remains and the ruins of 3 Palestinian villages razed by Israel in 1967 after their inhabitants were expelled. In addition it has picnic areas, springs and panoramic hilltop views, and is a popular Israeli tourist destination, drawing some 300,000 visitors annually.


      https://en.wikipedia.org/wiki/Canada_Park

      Heidi Grunebaum :

      « Chaque pièce de monnaie est devenue un arbre dans une forêt, chaque arbre, dont les racines étaient plantées dans la terre était pour nous, la diaspora. Les pièces changées en arbres devenaient des faits ancrés dans le sol. Le nouveau paysage arrangé par le FNJ à travers la plantation de forêts et les accords politiques est celui des #parcs_de_loisirs, des routes, des barrages et des infrastructures »

      Témoignage d’un Palestinien :

      « Celui qui ne possède de #pays_natal ne possède rien »

      Heidi Grunebaum :

      « Si personne ne demeure, la mémoire est oblitérée. Cependant, de génération en génération, le souvenir qu’ont les Palestiniens d’un endroit qui un jour fut le leur, persiste. »

      Témoignage d’un Palestinien :

      "Dès qu’on mange quelque chose chez nous, on dit qu’on mangeait ce plat à Lubya. Quelles que soient nos activités, on dit que nous avions les mêmes à Lubya. Lubya est constamment mentionnées, et avec un peu d’amertume.

      Témoignage d’un Palestinien :

      Lubya est ma fille précieuse que j’abriterai toujours dans les profondeurs de mon âme. Par les histoires racontées par mon père, mon grand-père, mes oncles et ma grande-mère, j’ai le sentiment de connaître très bien Lubya.

      Avi Shlaim, Université de Oxford :

      « Le mur dans la partie Ouest ne relève pas d’une mesure de sécurité, comme il a été dit. C’est un outil de #ségrégation des deux communautés et un moyen de s’approprier de larges portions de terres palestiniennes. C’est un moyen de poursuivre la politique d’#expansion_territoriale et d’avoir le plus grand Etat juif possible avec le moins de population d’arabes à l’intérieur. »

      https://www.sant.ox.ac.uk/people/avi-shlaim

      Heidi Grunebaum :

      « Les petites pièces de la diaspora n’ont pas seulement planté des arbres juifs et déraciné des arbres palestiniens, elles ont aussi créé une forêt d’un autre type. Une vaste forêt bureaucratique où la force de la loi est une arme. La règlementation règne, les procédures, permis, actions commandées par les lois, tout régulé le moindre espace de la vie quotidienne des Palestiniens qui sont petit à petit étouffés, repoussés aux marges de leurs terres. Entassés dans des ghettos, sans autorisation de construire, les Palestiniens n’ont plus qu’à regarder leurs maisons démolies »

      #Lubya #paysage #ruines #architecture_forensique #Afrique_du_Sud #profanation #cactus #South_african_forest #Galilée #Jewish_national_fund (#fonds_national_juif) #arbres #Palestine #Organisation_des_femmes_sionistes #Keren_Kayemeth #apartheid #résistance #occupation #Armée_de_libération_arabe #Hagana #nakba #exil #réfugiés_palestiniens #expulsion #identité #present_absentees #IDPs #déplacés_internes #Caesarea #oubli #déni #historicisation #diaspora #murs #barrières_frontalières #dépossession #privatisation_des_terres #terres #mémoire #commémoration #poésie #Canada_park

    • The Carmel wildfire is burning all illusions in Israel

      “When I look out my window today and see a tree standing there, that tree gives me a greater sense of beauty and personal delight than all the vast forests I have seen in Switzerland or Scandinavia. Because every tree here was planted by us.”

      – David Ben Gurion, Memoirs

      “Why are there so many Arabs here? Why didn’t you chase them away?”

      – David Ben Gurion during a visit to Nazareth, July 1948


      https://electronicintifada.net/content/carmel-wildfire-burning-all-illusions-israel/9130

      signalé par @sinehebdo que je remercie

    • Vu dans ce rapport, signalé par @palestine___________ , que je remercie (https://seenthis.net/messages/723321) :

      A method of enforcing the eradication of unrecognized Palestinian villages is to ensure their misrepresentation on maps. As part of this policy, these villages do not appear at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. Likewise, they do not appear on first sight on Google Maps or at all on Israeli maps, with the exception of army and hiking maps. They are labelled on NGO maps designed to increase their visibility. On Google Maps, the Bedouin villages are marked – in contrast to cities and other villages – under their Bedouin tribe and clan names (Bimkom) rather than with their village names and are only visible when zooming in very closely, but otherwise appear to be non-existent. This means that when looking at Google Maps, these villages appear to be not there, only when zooming on to a very high degree, do they appear with their tribe or clan names. At first (and second and third) sight, therefore, these villages are simply not there. Despite their small size, Israeli villages are displayed even when zoomed-out, while unrecognized Palestinian Bedouin villages, regardless of their size are only visible when zooming in very closely.


      http://7amleh.org/2018/09/18/google-maps-endangering-palestinian-human-rights
      Pour télécharger le rapport :
      http://www.7amleh.org/ms/Mapping%20Segregation%20Cover_WEB.pdf

    • signalé par @kassem :
      https://seenthis.net/messages/317236#message784258

      Israel lifted its military rule over the state’s Arab community in 1966 only after ascertaining that its members could not return to the villages they had fled or been expelled from, according to newly declassified archival documents.

      The documents both reveal the considerations behind the creation of the military government 18 years earlier, and the reasons for dismantling it and revoking the severe restrictions it imposed on Arab citizens in the north, the Negev and the so-called Triangle of Locales in central Israel.

      These records were made public as a result of a campaign launched against the state archives by the Akevot Institute, which researches the Israeli-Palestinian conflict.

      After the War of Independence in 1948, the state imposed military rule over Arabs living around the country, which applied to an estimated 85 percent of that community at the time, say researchers at the NGO. The Arabs in question were subject to the authority of a military commander who could limit their freedom of movement, declare areas to be closed zones, or demand that the inhabitants leave and enter certain locales only with his written permission.

      The newly revealed documents describe the ways Israel prevented Arabs from returning to villages they had left in 1948, even after the restrictions on them had been lifted. The main method: dense planting of trees within and surrounding these towns.

      At a meeting held in November 1965 at the office of Shmuel Toledano, the prime minister’s adviser on Arab affairs, there was a discussion about villages that had been left behind and that Israel did not want to be repopulated, according to one document. To ensure that, the state had the Jewish National Fund plant trees around and in them.

      Among other things, the document states that “the lands belonging to the above-mentioned villages were given to the custodian for absentee properties” and that “most were leased for work (cultivation of field crops and olive groves) by Jewish households.” Some of the properties, it adds, were subleased.

      In the meeting in Toledano’s office, it was explained that these lands had been declared closed military zones, and that once the structures on them had been razed, and the land had been parceled out, forested and subject to proper supervision – their definition as closed military zones could be lifted.

      On April 3, 1966, another discussion was held on the same subject, this time at the office of the defense minister, Levi Eshkol, who was also the serving prime minister; the minutes of this meeting were classified as top secret. Its participants included: Toledano; Isser Harel, in his capacity as special adviser to the prime minister; the military advocate general – Meir Shamgar, who would later become president of the Supreme Court; and representatives of the Shin Bet security service and Israel Police.

      The newly publicized record of that meeting shows that the Shin Bet was already prepared at that point to lift the military rule over the Arabs and that the police and army could do so within a short time.

      Regarding northern Israel, it was agreed that “all the areas declared at the time to be closed [military] zones... other than Sha’ab [east of Acre] would be opened after the usual conditions were fulfilled – razing of the buildings in the abandoned villages, forestation, establishment of nature reserves, fencing and guarding.” The dates of the reopening these areas would be determined by Israel Defense Forces Maj. Gen. Shamir, the minutes said. Regarding Sha’ab, Harel and Toledano were to discuss that subject with Shamir.

      However, as to Arab locales in central Israel and the Negev, it was agreed that the closed military zones would remain in effect for the time being, with a few exceptions.

      Even after military rule was lifted, some top IDF officers, including Chief of Staff Tzvi Tzur and Shamgar, opposed the move. In March 1963, Shamgar, then military advocate general, wrote a pamphlet about the legal basis of the military administration; only 30 copies were printed. (He signed it using his previous, un-Hebraized name, Sternberg.) Its purpose was to explain why Israel was imposing its military might over hundreds of thousands of citizens.

      Among other things, Shamgar wrote in the pamphlet that Regulation 125, allowing certain areas to be closed off, is intended “to prevent the entry and settlement of minorities in border areas,” and that “border areas populated by minorities serve as a natural, convenient point of departure for hostile elements beyond the border.” The fact that citizens must have permits in order to travel about helps to thwart infiltration into the rest of Israel, he wrote.

      Regulation 124, he noted, states that “it is essential to enable nighttime ambushes in populated areas when necessary, against infiltrators.” Blockage of roads to traffic is explained as being crucial for the purposes of “training, tests or maneuvers.” Moreover, censorship is a “crucial means for counter-intelligence.”

      Despite Shamgar’s opinion, later that year, Prime Minister Levi Eshkol canceled the requirement for personal travel permits as a general obligation. Two weeks after that decision, in November 1963, Chief of Staff Tzur wrote a top-secret letter about implementation of the new policy to the officers heading the various IDF commands and other top brass, including the head of Military Intelligence. Tzur ordered them to carry it out in nearly all Arab villages, with a few exceptions – among them Barta’a and Muqeible, in northern Israel.

      In December 1965, Haim Israeli, an adviser to Defense Minister Eshkol, reported to Eshkol’s other aides, Isser Harel and Aviad Yaffeh, and to the head of the Shin Bet, that then-Chief of Staff Yitzhak Rabin opposed legislation that would cancel military rule over the Arab villages. Rabin explained his position in a discussion with Eshkol, at which an effort to “soften” the bill was discussed. Rabin was advised that Harel would be making his own recommendations on this matter.

      At a meeting held on February 27, 1966, Harel issued orders to the IDF, the Shin Bet and the police concerning the prime minister’s decision to cancel military rule. The minutes of the discussion were top secret, and began with: “The mechanism of the military regime will be canceled. The IDF will ensure the necessary conditions for establishment of military rule during times of national emergency and war.” However, it was decided that the regulations governing Israel’s defense in general would remain in force, and at the behest of the prime minister and with his input, the justice minister would look into amending the relevant statutes in Israeli law, or replacing them.

      The historical documents cited here have only made public after a two-year campaign by the Akevot institute against the national archives, which preferred that they remain confidential, Akevot director Lior Yavne told Haaretz. The documents contain no information of a sensitive nature vis-a-vis Israel’s security, Yavne added, and even though they are now in the public domain, the archives has yet to upload them to its website to enable widespread access.

      “Hundreds of thousands of files which are crucial to understanding the recent history of the state and society in Israel remain closed in the government archive,” he said. “Akevot continues to fight to expand public access to archival documents – documents that are property of the public.”

    • Israel is turning an ancient Palestinian village into a national park for settlers

      The unbelievable story of a village outside Jerusalem: from its destruction in 1948 to the ticket issued last week by a parks ranger to a descendent of its refugees, who had the gall to harvest the fruits of his labor on his own land.

      Thus read the ticket issued last Wednesday, during the Sukkot holiday, by ranger Dayan Somekh of the Israel Nature and Parks Authority – Investigations Division, 3 Am Ve’olamo Street, Jerusalem, to farmer Nidal Abed Rabo, a resident of the Jerusalem-area village of Walaja, who had gone to harvest olives on his private land: “In accordance with Section 228 of the criminal code, to: Nidal Abed Rabo. Description of the facts constituting the offense: ‘picking, chopping and destroying an olive tree.’ Suspect’s response: ‘I just came to pick olives. I pick them and put them in a bucket.’ Fine prescribed by law: 730 shekels [$207].” And an accompanying document that reads: “I hereby confirm that I apprehended from Nidal Abed Rabo the following things: 1. A black bucket; 2. A burlap sack. Name of the apprehending officer: Dayan Somekh.”

      Ostensibly, an amusing parody about the occupation. An inspector fines a person for harvesting the fruits of his own labor on his own private land and then fills out a report about confiscating a bucket, because order must be preserved, after all. But no one actually found this report amusing – not the inspector who apparently wrote it in utter seriousness, nor the farmer who must now pay the fine.

      Indeed, the story of Walaja, where this absurdity took place, contains everything – except humor: the flight from and evacuation of the village in 1948; refugee-hood and the establishment of a new village adjacent to the original one; the bisection of the village between annexed Jerusalem and the occupied territories in 1967; the authorities’ refusal to issue blue Israeli IDs to residents, even though their homes are in Jerusalem; the demolition of many structures built without a permit in a locale that has no master construction plan; the appropriation of much of its land to build the Gilo neighborhood and the Har Gilo settlement; the construction of the separation barrier that turned the village into an enclave enclosed on all sides; the decision to turn villagers’ remaining lands into a national park for the benefit of Gilo’s residents and others in the area; and all the way to the ridiculous fine issued by Inspector Somekh.

      This week, a number of villagers again snuck onto their lands to try to pick their olives, in what looks like it could be their final harvest. As it was a holiday, they hoped the Border Police and the parks authority inspectors would leave them alone. By next year, they probably won’t be able to reach their groves at all, as the checkpoint will have been moved even closer to their property.

      Then there was also this incident, on Monday, the Jewish holiday of Simhat Torah. Three adults, a teenager and a horse arrived at the neglected groves on the mountainside below their village of Walaja. They had to take a long and circuitous route; they say the horse walked 25 kilometers to reach the olive trees that are right under their noses, beneath their homes. A dense barbed-wire fence and the separation barrier stand between these people and their lands. When the national park is built here and the checkpoint is moved further south – so that only Jews will be able to dip undisturbed in Ein Hanya, as Nir Hasson reported (“Jerusalem reopens natural spring, but not to Palestinians,” Oct. 15) – it will mean the end of Walaja’s olive orchards, which are planted on terraced land.

      The remaining 1,200 dunams (300 acres) belonging to the village, after most of its property was lost over the years, will also be disconnected from their owners, who probably won’t be able to access them again. An ancient Palestinian village, which numbered 100 registered households in 1596, in a spectacular part of the country, will continue its slow death, until it finally expires for good.

      Steep slopes and a deep green valley lie between Jerusalem and Bethlehem, filled with oak and pine trees, along with largely abandoned olive groves. “New” Walaja overlooks this expanse from the south, the Gilo neighborhood from the northeast, and the Cremisan Monastery from the east. To the west is where the original village was situated, between the moshavim of Aminadav and Ora, both constructed after the villagers fled – frightened off by the massacre in nearby Deir Yassin and in fear of bombardment.

      Aviv Tatarsky, a longtime political activist on behalf of Walaja and a researcher for the Ir Amim nonprofit organization, says the designated national park is supposed to ensure territorial contiguity between the Etzion Bloc and Jerusalem. “Since we are in the territory of Jerusalem, and building another settler neighborhood could cause a stir, they are building a national park, which will serve the same purpose,” he says. “The national park will Judaize the area once and for all. Gilo is five minutes away. If you live there, you will have a park right next door and feel like it’s yours.”

      As Tatarsky describes the blows suffered by the village over the years, brothers Walid and Mohammed al-‘Araj stand on a ladder below in the valley, in the shade of the olive trees, engrossed in the harvest.

      Walid, 52, and Mohammed, 58, both live in Walaja. Walid may be there legally, but his brother is there illegally, on land bequeathed to them by their uncle – thanks to yet another absurdity courtesy of the occupation. In 1995, Walid married a woman from Shoafat in East Jerusalem, and thus was able to obtain a blue Israeli ID card, so perhaps he is entitled to be on his land. His brother, who lives next door, however, is an illegal resident on his land: He has an orange ID, as a resident of the territories.

      A sewage line that comes out of Beit Jala and is under the responsibility of Jerusalem’s Gihon water company overflows every winter and floods the men’s olive grove with industrial waste that has seriously damaged their crop. And that’s in addition, of course, to the fact that most of the family is unable to go work the land. The whole area looks quite derelict, overgrown with weeds and brambles that could easily catch fire. In previous years, the farmers would receive an entry permit allowing them to harvest the olives for a period of just a few days; this year, even that permit has not yet been forthcoming.

      The olives are black and small; it’s been a bad year for them and for their owners.

      “We come here like thieves to our own land,” says Mohammed, the older brother, explaining that three days beforehand, a Border Police jeep had showed up and chased them away. “I told him: It’s my land. They said okay and left. Then a few minutes later, another Border Police jeep came and the officer said: Today there’s a general closure because of the holiday. I told him: Okay, just let me take my equipment. I’m on my land. He said: Don’t take anything. I left. And today I came back.”

      You’re not afraid? “No, I’m not afraid. I’m on my land. It’s registered in my name. I can’t be afraid on my land.”

      Walid says that a month ago the Border Police arrived and told him he wasn’t allowed to drive on the road that leads to the grove, because it’s a “security road.” He was forced to turn around and go home, despite the fact that he has a blue ID and it is not a security road. Right next to it, there is a residential building where a Palestinian family still lives.

      Some of Walaja’s residents gave up on their olive orchards long ago and no longer attempt to reach their lands. When the checkpoint is moved southward, in order to block access by Palestinians to the Ein Hanya spring, the situation will be even worse: The checkpoint will be closer to the orchards, meaning that the Palestinians won’t be permitted to visit them.

      “This place will be a park for people to visit,” says Walid, up on his ladder. “That’s it; that will be the end of our land. But we won’t give up our land, no matter what.” Earlier this month, one local farmer was detained for several hours and 10 olive trees were uprooted, on the grounds that he was prohibited from being here.

      Meanwhile, Walid and Mohammed are collecting their meager crop in a plastic bucket printed with a Hebrew ad for a paint company. The olives from this area, near Beit Jala, are highly prized; during a good year the oil made from them can fetch a price of 100 shekels per liter.

      A few hundred meters to the east are a father, a son and a horse. Khaled al-‘Araj, 51, and his son, Abed, 19, a business student. They too are taking advantage of the Jewish holiday to sneak onto their land. They have another horse, an original Arabian named Fatma, but this horse is nameless. It stands in the shade of the olive tree, resting from the long trek here. If a Border Police force shows up, it could confiscate the horse, as has happened to them before.

      Father and son are both Walaja residents, but do not have blue IDs. The father works in Jerusalem with a permit, but it does not allow him to access his land.

      “On Sunday,” says Khaled, “I picked olives here with my son. A Border Police officer arrived and asked: What are you doing here? He took pictures of our IDs. He asked: Whose land is this? I said: Mine. Where are the papers? At home. I have papers from my grandfather’s time; everything is in order. But he said: No, go to DCO [the Israeli District Coordination Office] and get a permit. At first I didn’t know what he meant. I have a son and a horse and they’ll make problems for me. So I left.”

      He continues: “We used to plow the land. Now look at the state it’s in. We have apricot and almond trees here, too. But I’m an illegal person on my own land. That is our situation. Today is the last day of your holiday, that’s why I came here. Maybe there won’t be any Border Police.”

      “Kumi Ori, ki ba orekh,” says a makeshift monument in memory of Ori Ansbacher, a young woman murdered here in February by a man from Hebron. Qasem Abed Rabo, a brother of Nidal, who received the fine from the park ranger for harvesting his olives, asks activist Tatarsky if he can find out whether the house he owns is considered to be located in Jerusalem or in the territories. He still doesn’t know.

      “Welcome to Nahal Refaim National Park,” says a sign next to the current Walaja checkpoint. Its successor is already being built but work on it was stopped for unknown reasons. If and when it is completed, Ein Hanya will become a spring for Jews only and the groves on the mountainside below the village of Walaja will be cut off from their owners for good. Making this year’s harvest Walaja’s last.

      https://www.haaretz.com/israel-news/.premium-israel-is-turning-an-ancient-palestinian-village-into-a-national-p
      https://seenthis.net/messages/807722

    • Sans mémoire des lieux ni lieux de mémoire. La Palestine invisible sous les forêts israéliennes

      Depuis la création de l’État d’Israël en 1948, près de 240 millions d’arbres ont été plantés sur l’ensemble du territoire israélien. Dans l’objectif de « faire fleurir le désert », les acteurs de l’afforestation en Israël se situent au cœur de nombreux enjeux du territoire, non seulement environnementaux mais également identitaires et culturels. La forêt en Israël représente en effet un espace de concurrence mémorielle, incarnant à la fois l’enracinement de l’identité israélienne mais également le rappel de l’exil et de l’impossible retour du peuple palestinien. Tandis que 86 villages palestiniens détruits en 1948 sont aujourd’hui recouverts par une forêt, les circuits touristiques et historiques officiels proposés dans les forêts israéliennes ne font jamais mention de cette présence palestinienne passée. Comment l’afforestation en Israël a-t-elle contribué à l’effacement du paysage et de la mémoire palestiniens ? Quelles initiatives existent en Israël et en Palestine pour lutter contre cet effacement spatial et mémoriel ?

      https://journals.openedition.org/bagf/6779

    • Septembre 2021, un feu de forêt ravage Jérusalem et dévoile les terrassements agricoles que les Palestinien·nes avaient construit...
      Voici une image :

      « La nature a parlé » : un feu de forêt attise les rêves de retour des Palestiniens

      Un gigantesque incendie près de Jérusalem a détruit les #pins_européens plantés par les sionistes, exposant ainsi les anciennes terrasses palestiniennes qu’ils avaient tenté de dissimuler.

      Au cours de la deuxième semaine d’août, quelque 20 000 dounams (m²) de terre ont été engloutis par les flammes dans les #montagnes de Jérusalem.

      C’est une véritable catastrophe naturelle. Cependant, personne n’aurait pu s’attendre à la vision qui est apparue après l’extinction de ces incendies. Ou plutôt, personne n’avait imaginé que les incendies dévoileraient ce qui allait suivre.

      Une fois les flammes éteintes, le #paysage était terrible pour l’œil humain en général, et pour l’œil palestinien en particulier. Car les incendies ont révélé les #vestiges d’anciens villages et terrasses agricoles palestiniens ; des terrasses construites par leurs ancêtres, décédés il y a longtemps, pour cultiver la terre et planter des oliviers et des vignes sur les #pentes des montagnes.

      À travers ces montagnes, qui constituent l’environnement naturel à l’ouest de Jérusalem, passait la route Jaffa-Jérusalem, qui reliait le port historique à la ville sainte. Cette route ondulant à travers les montagnes était utilisée par les pèlerins d’Europe et d’Afrique du Nord pour visiter les lieux saints chrétiens. Ils n’avaient d’autre choix que d’emprunter la route Jaffa-Jérusalem, à travers les vallées et les ravins, jusqu’au sommet des montagnes. Au fil des siècles, elle sera foulée par des centaines de milliers de pèlerins, de soldats, d’envahisseurs et de touristes.

      Les terrasses agricoles – ou #plates-formes – que les agriculteurs palestiniens ont construites ont un avantage : leur durabilité. Selon les estimations des archéologues, elles auraient jusqu’à 600 ans. Je crois pour ma part qu’elles sont encore plus vieilles que cela.

      Travailler en harmonie avec la nature

      Le travail acharné du fermier palestinien est clairement visible à la surface de la terre. De nombreuses études ont prouvé que les agriculteurs palestiniens avaient toujours investi dans la terre quelle que soit sa forme ; y compris les terres montagneuses, très difficiles à cultiver.

      Des photographies prises avant la Nakba (« catastrophe ») de 1948, lorsque les Palestiniens ont été expulsés par les milices juives, et même pendant la seconde moitié du XIXe siècle montrent que les oliviers et les vignes étaient les deux types de plantation les plus courants dans ces régions.

      Ces végétaux maintiennent l’humidité du sol et assurent la subsistance des populations locales. Les #oliviers, en particulier, aident à prévenir l’érosion des sols. Les oliviers et les #vignes peuvent également créer une barrière naturelle contre le feu car ils constituent une végétation feuillue qui retient l’humidité et est peu gourmande en eau. Dans le sud de la France, certaines routes forestières sont bordées de vignes pour faire office de #coupe-feu.

      Les agriculteurs palestiniens qui les ont plantés savaient travailler en harmonie avec la nature, la traiter avec sensibilité et respect. Cette relation s’était formée au cours des siècles.

      Or qu’a fait l’occupation sioniste ? Après la Nakba et l’expulsion forcée d’une grande partie de la population – notamment le nettoyage ethnique de chaque village et ville se trouvant sur l’itinéraire de la route Jaffa-Jérusalem –, les sionistes ont commencé à planter des #pins_européens particulièrement inflammables sur de vastes portions de ces montagnes pour couvrir et effacer ce que les mains des agriculteurs palestiniens avaient créé.

      Dans la région montagneuse de Jérusalem, en particulier, tout ce qui est palestinien – riche de 10 000 ans d’histoire – a été effacé au profit de tout ce qui évoque le #sionisme et la #judéité du lieu. Conformément à la mentalité coloniale européenne, le « milieu » européen a été transféré en Palestine, afin que les colons puissent se souvenir de ce qu’ils avaient laissé derrière eux.

      Le processus de dissimulation visait à nier l’existence des villages palestiniens. Et le processus d’effacement de leurs particularités visait à éliminer leur existence de l’histoire.

      Il convient de noter que les habitants des villages qui ont façonné la vie humaine dans les montagnes de Jérusalem, et qui ont été expulsés par l’armée israélienne, vivent désormais dans des camps et communautés proches de Jérusalem, comme les camps de réfugiés de Qalandiya et Shuafat.

      On trouve de telles forêts de pins ailleurs encore, dissimulant des villages et fermes palestiniens détruits par Israël en 1948. Des institutions internationales israéliennes et sionistes ont également planté des pins européens sur les terres des villages de #Maaloul, près de Nazareth, #Sohmata, près de la frontière palestino-libanaise, #Faridiya, #Kafr_Anan et #al-Samoui sur la route Akka-Safad, entre autres. Ils sont maintenant cachés et ne peuvent être vus à l’œil nu.

      Une importance considérable

      Même les #noms des villages n’ont pas été épargnés. Par exemple, le village de Suba est devenu « #Tsuba », tandis que #Beit_Mahsir est devenu « #Beit_Meir », #Kasla est devenu « #Ksalon », #Saris est devenu « #Shoresh », etc.

      Si les Palestiniens n’ont pas encore pu résoudre leur conflit avec l’occupant, la nature, elle, s’est désormais exprimée de la manière qu’elle jugeait opportune. Les incendies ont révélé un aspect flagrant des composantes bien planifiées et exécutées du projet sioniste.

      Pour les Palestiniens, la découverte de ces terrasses confirme leur version des faits : il y avait de la vie sur cette terre, le Palestinien était le plus actif dans cette vie, et l’Israélien l’a expulsé pour prendre sa place.

      Ne serait-ce que pour cette raison, ces terrasses revêtent une importance considérable. Elles affirment que la cause palestinienne n’est pas morte, que la terre attend le retour de ses enfants ; des personnes qui sauront la traiter correctement.

      https://www.middleeasteye.net/fr/opinion-fr/israel-jerusalem-incendies-villages-palestiniens-nakba-sionistes-reto

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      An Israeli Forest to Erase the Ruins of Palestinian Agricultural Terraces

      “Our forest is growing over, well, over a ruined village,” A.B. Yehoshua wrote in his novella “Facing the Forests.” The massive wildfire in the Jerusalem Hills last week exposed the underpinning of the view through the trees. The agricultural terraces were revealed in their full glory, and also revealed a historic record that Israel has always sought to obscure and erase – traces of Palestinian life on this land.

      On my trips to the West Bank and the occupied territories, when I passed by the expansive areas of Palestinian farmland, I was always awed by the sight of the long chain of terraces, mustabat or mudrajat in Arabic. I thrilled at their grandeur and the precision of the work that attests to the connection between the Palestinian fellah and his land. I would wonder – Why doesn’t the same “phenomenon” exist in the hills of the Galilee?

      When I grew up, I learned a little in school about Israeli history. I didn’t learn that Israel erased Palestinian agriculture in the Galilee and that the Jewish National Fund buried it once and for all, but I did learn that “The Jews brought trees with them” and planted them in the Land of Israel. How sterile and green. Greta Thunberg would be proud of you.

      The Zionist movement knew that in the war for this land it was not enough to conquer the land and expel its inhabitants, you also had to build up a story and an ethos and a narrative, something that will fit with the myth of “a people without a land for a land without a people.” Therefore, after the conquest of the land and the expulsion, all trace of the people who once lived here had to be destroyed. This included trees that grew without human intervention and those that were planted by fellahin, who know this land as they do their children and as they do the terraces they built in the hills.

      This is how white foreigners who never in their lives were fellahin or worked the land for a living came up with the national forestation project on the ruins of Arab villages, which David Ben-Gurion decided to flatten, such as Ma’alul and Suhmata. The forestation project including the importation of cypress and pine trees that were alien to this land and belong to colder climes, so that the new inhabitants would feel more at home and less as if they were in somebody else’s home.

      The planting of combustible cypresses and pines, which are not suited to the weather in this land, is not just an act of national erasure of the Palestinian natives, but also an act of arrogance and patronage, characteristics typical of colonialist movements throughout the world. All because they did not understand the nature, in both senses of the word, of the countries they conquered.

      Forgive me, but a biblical-historical connection is not sufficient. Throughout the history of colonialism, the new settlers – whether they ultimately left or stayed – were unable to impose their imported identity on the new place and to completely erase the place’s native identity. It’s a little like the forests surrounding Jerusalem: When the fire comes and burns them, one small truth is revealed, after so much effort went into concealing it.

      https://www.haaretz.com/opinion/.premium-an-israeli-forest-to-erase-the-ruins-of-palestinian-agricultural-t

      et ici :
      https://seenthis.net/messages/928766

    • Planter un arbre en Israël : une forêt rédemptrice et mémorielle

      Tout au long du projet sioniste, le végétal a joué un rôle de médiateur entre la terre rêvée et la terre foulée, entre le texte biblique et la réalité. Le réinvestissement national s’est opéré à travers des plantes connues depuis la diaspora, réorganisées en scènes signifiantes pour la mémoire et l’histoire juive. Ce lien de filiation entre texte sacré et paysage débouche sur une pratique de plantation considérée comme un acte mystique de régénération du monde.

      https://journals.openedition.org/diasporas/258

  • #José_Vieira : « La #mémoire des résistances face à l’accaparement des terres a été peu transmise »

    Dans « #Territórios_ocupados », José Vieira revient sur l’#expropriation en #1941 des paysans portugais de leurs #terres_communales pour y planter des #forêts. Cet épisode explique les #mégafeux qui ravagent le pays et résonne avec les #luttes pour la défense des #biens_communs.

    Né au Portugal en 1957 et arrivé enfant en France à l’âge de 7 ans, José Vieira réalise depuis plus de trente ans des documentaires qui racontent une histoire populaire de l’immigration portugaise.

    Bien loin du mythe des Portugais·es qui se seraient « intégré·es » sans le moindre problème en France a contrario d’autres populations, José Vieira s’est attaché à démontrer comment l’#immigration_portugaise a été un #exode violent – voir notamment La Photo déchirée (2001) ou Souvenirs d’un futur radieux (2014) –, synonyme d’un impossible retour.

    Dans son nouveau documentaire, Territórios ocupados, diffusé sur Mediapart, José Vieira a posé sa caméra dans les #montagnes du #Caramulo, au centre du #Portugal, afin de déterrer une histoire oubliée de la #mémoire_collective rurale du pays. Celle de l’expropriation en 1941, par l’État salazariste, de milliers de paysans et de paysannes de leurs terres communales – #baldios en portugais.

    Cette #violence étatique a été opérée au nom d’un vaste #projet_industriel : planter des forêts pour développer économiquement ces #territoires_ruraux et, par le même geste, « civiliser » les villageois et villageoises des #montagnes, encore rétifs au #salariat et à l’ordre social réactionnaire de #Salazar. Un épisode qui résonne aujourd’hui avec les politiques libérales des États qui aident les intérêts privés à accaparer les biens communs.

    Mediapart : Comment avez-vous découvert cette histoire oubliée de l’expropriation des terres communales ou « baldios » au Portugal ?

    José Vieira : Complètement par hasard. J’étais en train de filmer Le pain que le diable a pétri (2012, Zeugma Films) sur les habitants des montagnes au Portugal qui sont partis après-guerre travailler dans les usines à Lisbonne.

    Je demandais à un vieux qui est resté au village, António, quelle était la définition d’un baldio – on voit cet extrait dans le documentaire, où il parle d’un lieu où tout le monde peut aller pour récolter du bois, faire pâturer ses bêtes, etc. Puis il me sort soudain : « Sauf que l’État a occupé tous les baldios, c’était juste avant que je parte au service militaire. »

    J’étais estomaqué, je voulais en savoir plus mais impossible, car dans la foulée, il m’a envoyé baladé en râlant : « De toute façon, je ne te supporte pas aujourd’hui. »

    Qu’avez-vous fait alors ?

    J’ai commencé à fouiller sur Internet et j’ai eu la chance de tomber sur une étude parue dans la revue de sociologie portugaise Análise Social, qui raconte comment dans les années 1940 l’État salazariste avait pour projet initial de boiser 500 000 hectares de biens communaux en expropriant les usagers de ces terres.

    Je devais ensuite trouver des éléments d’histoire locale, dans la Serra do Caramulo, dont je suis originaire. J’ai passé un temps fou le nez dans les archives du journal local, qui était bien sûr à l’époque entièrement dévoué au régime.

    Après la publication de l’avis à la population que les baldios seront expropriés au profit de la plantation de forêts, plus aucune mention des communaux n’apparaît dans la presse. Mais rapidement, des correspondants locaux et des éditorialistes vont s’apercevoir qu’il existe dans ce territoire un malaise, qu’Untel abandonne sa ferme faute de pâturage ou que d’autres partent en ville. En somme, que sans les baldios, les gens ne s’en sortent plus.

    Comment sont perçus les communaux par les tenants du salazarisme ?

    Les ingénieurs forestiers décrivent les paysans de ces territoires comme des « primitifs » qu’il faut « civiliser ». Ils se voient comme des missionnaires du progrès et dénoncent l’oisiveté de ces montagnards peu enclins au salariat.

    À Lisbonne, j’ai trouvé aussi une archive qui parle des baldios comme étant une source de perversion, de mœurs légères qui conduisent à des enfants illégitimes dans des coins où « les familles vivent presque sans travailler ». Un crime dans un régime où le travail est élevé au rang de valeur suprême.

    On retrouve tous ces différents motifs dans le fameux Portrait du colonisé d’Albert Memmi (1957). Car il y a de la part du régime un vrai discours de colonisateur vis-à-vis de ces régions montagneuses où l’État et la religion ont encore peu de prise sur les habitants.

    En somme, l’État salazariste veut faire entrer ces Portugais reculés dans la modernité.

    Il y a eu des résistances face à ces expropriations ?

    Les villageois vont être embauchés pour boiser les baldios. Sauf qu’après avoir semé les pins, il faut attendre vingt ans pour que la forêt pousse.

    Il y a eu alors quelques histoires d’arrachage clandestin d’arbres. Et je raconte dans le film comment une incartade avec un garde forestier a failli virer au drame à cause d’une balle perdue – je rappelle qu’on est alors sous la chape de plomb du salazarisme. D’autres habitants ont aussi tabassé deux gardes forestiers à la sortie d’un bar et leur ont piqué leurs flingues.

    Mais la mémoire de ces résistances a peu été transmise. Aujourd’hui, avec l’émigration, il ne reste plus rien de cette mémoire collective, la plupart des vieux et vieilles que j’ai filmés dans ce documentaire sont déjà morts.

    Comment justement avez-vous travaillé pour ce documentaire ?

    Quand António me raconte cette histoire d’expropriation des baldios par l’État, c’était en 2010 et je tournais un documentaire, Souvenirs d’un futur radieux. Puis lorsqu’en 2014 un premier incendie a calciné le paysage forestier, je me suis dit qu’il fallait que je m’y mette.

    J’ai travaillé doucement, pendant trois ans, sans savoir où j’allais réellement. J’ai filmé un village situé à 15 kilomètres de là où je suis né. J’ai fait le choix d’y suivre des gens qui subsistent encore en pratiquant une agriculture traditionnelle, avec des outils de travail séculaires, comme la roue celte. Ils ont les mêmes pratiques que dans les années 1940, et qui sont respectueuses de l’écosystème, de la ressource en eau, de la terre.

    Vous vous êtes aussi attaché à retracer tel un historien cet épisode de boisement à marche forcée...

    Cette utopie industrialiste date du XIXe siècle, des ingénieurs forestiers parlant déjà de vouloir récupérer ces « terres de personne ». Puis sous Salazar, dans les années 1930, il y a eu un débat intense au sein du régime entre agrairistes et industrialistes. Pour les premiers, boiser ne va pas être rentable et les baldios sont vitaux aux paysans. Pour les seconds, le pays a besoin de l’industrie du bois pour décoller économiquement, et il manque de bras dans les villes pour travailler dans les usines.

    Le pouvoir central a alors même créé un organisme étatique, la Junte de colonisation interne, qui va recenser les baldios et proposer d’installer des personnes en leur donnant à cultiver des terres communales – des colonies de repeuplement pour résumer.

    Finalement, l’industrie du bois et de la cellulose l’a emporté. La loi de boisement des baldios est votée en 1938 et c’est en novembre 1941 que ça va commencer à se mettre en place sur le terrain.

    Une enquête publique a été réalisée, où tout le monde localement s’est prononcé contre. Et comme pour les enquêtes aujourd’hui en France, ils se sont arrangés pour dire que les habitants étaient d’accord.

    Qu’en est-il aujourd’hui de ces forêts ? Subsiste-t-il encore des « baldios » ?

    Les pinèdes sont exploitées par des boîtes privées qui font travailler des prolos qui galèrent en bossant dur. Mais beaucoup de ces forêts ont brûlé ces dernière décennies, notamment lors de la grande vague d’incendies au Portugal de 2017, où des gens du village où je filmais ont failli périr.

    Les feux ont dévoilé les paysages de pierre qu’on voyait auparavant sur les photos d’archives du territoire, avant que des pins de 30 mètres de haut ne bouchent le paysage.

    Quant aux baldios restants, ils sont loués à des entreprises de cellulose qui y plantent de l’eucalyptus. D’autres servent à faire des parcs d’éoliennes. Toutes les lois promues par les différents gouvernements à travers l’histoire du Portugal vont dans le même sens : privatiser les baldios alors que ces gens ont géré pendant des siècles ces espaces de façon collective et très intelligente.

    J’ai fait ce film avec en tête les forêts au Brésil gérées par les peuples autochtones depuis des siècles, TotalEnergies en Ouganda qui déplace 100 000 personnes de leurs terres pour du pétrole ou encore Sainte-Soline, où l’État aide les intérêts privés à accaparer un autre bien commun : l’eau.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/021223/jose-vieira-la-memoire-des-resistances-face-l-accaparement-des-terres-ete-

    #accaparement_de_terres #terre #terres #dictature #histoire #paysannerie #Serra_do_Caramulo #communaux #salazarisme #progrès #colonisation #colonialisme #rural #modernité #résistance #incendie #boisement #utopie_industrialiste #ingénieurs #ingénieurs_forestiers #propriété #industrie_du_bois #Junte_de_colonisation_interne #colonies_de_repeuplement #cellulose #pinèdes #feux #paysage #privatisation #eucalyptus #éoliennes #loi #foncier

  • Le Teil, 10 décembre : journée d’action contre le béton
    https://ricochets.cc/Le-Teil-10-decembre-journee-d-action-contre-le-beton.html

    Dans le cadre de la campagne nationale contre Lafarge-Holcim et le monde du béton (9-12 décembre), à l’appel de plus de 150 organisations autour des Soulèvements de la Terre. • Rassemblement familial, assemblée citoyenne, balade naturaliste, écoconstruction, promenade sur le fleuve, théâtre engagé, etc. : il y en aura pour tous les goûts ! • Le Comité de lutte Val de Drôme relaie l’annonce de cet événement local, y sera présent et invite tout le monde à y prendre part. #Les_Articles

    / #Le_monde_de_L'Economie, #Ecologie, #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle

  • Nouveau blocage à Cruis mardi 28 novembre : besoin de renfort
    https://ricochets.cc/Nouveau-blocage-a-Cruis-mardi-28-novembre-besoin-de-renfort.html

    Une vingtaine de militant-e-s sont à nouveau depuis 6h ce matin sur le chantier de la future centrale de Cruis et bloquent tout le site. Malgré le froid et la pluie, ielles se sont accroché au machines sur le site B et on bloqué la sortie de la base de vie vers le site A.

    Ils ont besoin toute la journée de boissons chaudes et de soutien pour photos et videos.

    Vous pouvez les rejoindre sans danger en restant derrière les clotures... vêtements chauds et couvertures seront aussi bienvenus.. Pour (...) #Les_Articles

    / #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle

    https://valleesenlutte.org/spip.php?article645

  • Feuilles du Platane, 4éme volet | Au-delà de la carte postale
    https://ricochets.cc/Enquete-du-Platane-4eme-volet-Au-dela-de-la-carte-postale.html

    C’est reparti pour un tour : à l’orée de la saison estivale 2023, le Parc National des Calanques met de nouveau en place son pass numérique pour accéder aux calanques de Sugiton et des Pierres tombées. Les visiteurs devront effectuer une réservation de leur randonnée par Internet, via une plate-forme développée par la start-up Troov. Puis, munis de leur smartphone (ou, pour les plus archaïques, d’un imprimé) montrer le QR Code au gardien ouvrant la porte vers la nature. Vous trouvez cela bizarre, vous (...) #Les_Articles

    / #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle, #Ecologie, Les enquêtes de (...)

    #Les_enquêtes_de_RICOCHETS

    • Et ce nouveau métier vous a valu d’être encore en danger…

      Oui, parce que l’OAS, qui défendait l’Algérie française par tous les moyens, a condamné à mort les journalistes qui s’opposaient à cette nouvelle guerre. En juin 1962, alors que je roulais vers Oran avec le reporter de RTL Jean-Pierre Farkas, notre voiture a été prise pour cible par l’OAS. Un attentat terrible, dont je souffre encore. J’y ai perdu un œil, et mes fractures ne se sont jamais tout à fait résorbées. Mais, après, je n’ai plus jamais été blessée. Et, un an et demi plus tard, j’étais de nouveau sur le terrain, dans les souterrains du Vietcong.

      Longtemps, vous n’avez rien dit de votre guerre. Qu’est-ce qui vous a décidée à en parler ?

      Une discussion en 1994 avec Raymond Aubrac, un de mes anciens grands chefs dans la Résistance. Au moment du cinquantenaire de la Libération, il m’a secouée : « Dis donc, tu vas enfin l’ouvrir, ta gueule ? » Pour éviter que nos copains morts ne soient oubliés, il tenait à ce que j’aille parler aux historiens, dans les écoles, partout. Au début, je n’étais pas très chaude. Raconter la vie des autres, d’accord. La mienne, non. Je n’avais aucune envie de retrouver la rue des Saussaies. En réalité, témoigner m’a offert une deuxième vie. Maintenant, je peux mourir tranquille.

      Vous êtes même devenue autrice et héroïne de BD !

      Quand cet animal de Jean-David Morvan m’a contactée, je ne savais pas ce que c’était qu’une bande dessinée. J’ai découvert que c’était un très bon moyen de transmettre la vérité.

      Vous avez saisi l’occasion pour révéler que le milicien chargé de vous faire passer la ligne de démarcation vous avait violée. Pourquoi avoir tant attendu ?

      Je me disais : « Pour quoi faire ? » Mais j’ai eu tort de ne pas parler plus tôt.

      Aujourd’hui, vous menez un nouveau combat en justice…

      Oui, contre la directrice de l’agence de maintien à domicile qui s’est occupée de moi et m’a escroquée de plus de 140 000 euros en profitant du fait que je suis aveugle. Cette femme a été mise en examen. Le procès aura lieu le 19 décembre, mais je n’ai plus un sou pour me payer un avocat. J’ai aussi écrit au président de la République. Il n’y a plus de place dans les hôpitaux, c’est le drame dans les Ehpad, alors on incite les gens à rester chez eux. Encore faut-il que le ménage soit fait dans le secteur du maintien à domicile. Je peux être une voix qui porte sur ce sujet.

      Vous avez participé à trois guerres. Que vous inspirent celles d’aujourd’hui ?

      Beaucoup de peine. Le monde est en sang. On a essayé de l’améliorer, on a sans doute échoué. Je le laisse dans un état qui n’est vraiment pas celui que j’aurais voulu. Vous voyez, il faut dire la vérité, même quand elle est sombre.

      https://archive.is/WLvps

      #Madeleine_Riffaud #guerre #Résistance #anti-colonialisme #OAS

  • Fermes, coopératives... « En #Palestine, une nouvelle forme de #résistance »

    Jardins communautaires, coopératives... En Cisjordanie et à Gaza, les Palestiniens ont développé une « #écologie_de_la_subsistance qui n’est pas séparée de la résistance », raconte l’historienne #Stéphanie_Latte_Abdallah.

    Alors qu’une trêve vient de commencer au Proche-Orient entre Israël et le Hamas, la chercheuse Stéphanie Latte Abdallah souligne les enjeux écologiques qui se profilent derrière le #conflit_armé. Elle rappelle le lien entre #colonisation et #destruction de l’#environnement, et « la relation symbiotique » qu’entretiennent les Palestiniens avec leur #terre et les êtres qui la peuplent. Ils partagent un même destin, une même #lutte contre l’#effacement et la #disparition.

    Stéphanie Latte Abdallah est historienne et anthropologue du politique, directrice de recherche au CNRS (CéSor-EHESS). Elle a récemment publié La toile carcérale, une histoire de l’enfermement en Palestine (Bayard, 2021).

    Reporterre — Comment analysez-vous à la situation à #Gaza et en #Cisjordanie ?

    Stéphanie Latte Abdallah — L’attaque du #Hamas et ses répercussions prolongent des dynamiques déjà à l’œuvre mais c’est une rupture historique dans le déchaînement de #violence que cela a provoqué. Depuis le 7 octobre, le processus d’#encerclement de la population palestinienne s’est intensifié. #Israël les prive de tout #moyens_de_subsistance, à court terme comme à moyen terme, avec une offensive massive sur leurs conditions matérielles d’existence. À Gaza, il n’y a plus d’accès à l’#eau, à l’#électricité ou à la #nourriture. Des boulangeries et des marchés sont bombardés. Les pêcheurs ne peuvent plus accéder à la mer. Les infrastructures agricoles, les lieux de stockage, les élevages de volailles sont méthodiquement démolis.

    En Cisjordanie, les Palestiniens subissent — depuis quelques années déjà mais de manière accrue maintenant — une forme d’#assiègement. Des #cultures_vivrières sont détruites, des oliviers abattus, des terres volées. Les #raids de colons ont été multipliés par deux, de manière totalement décomplexée, pour pousser la population à partir, notamment la population bédouine qui vit dans des zones plus isolées. On assiste à un approfondissement du phénomène colonial. Certains parlent de nouvelle #Nakba [littéralement « catastrophe » en Arabe. Cette expression fait référence à l’exode forcé de la population palestinienne en 1948]. On compte plus d’1,7 million de #déplacés à Gaza. Où iront-ils demain ?

    « Israël mène une #guerre_totale à une population civile »

    Gaza a connu six guerres en dix-sept ans mais il y a quelque chose d’inédit aujourd’hui, par l’ampleur des #destructions, le nombre de #morts et l’#effet_de_sidération. À défaut d’arriver à véritablement éliminer le Hamas – ce qui est, selon moi, impossible — Israël mène une guerre totale à une population civile. Il pratique la politique de la #terre_brûlée, rase Gaza ville, pilonne des hôpitaux, humilie et terrorise tout un peuple. Cette stratégie a été théorisée dès 2006 par #Gadi_Eizenkot, aujourd’hui ministre et membre du cabinet de guerre, et baptisée « la #doctrine_Dahiya », en référence à la banlieue sud de Beyrouth. Cette doctrine ne fait pas de distinction entre #cibles_civiles et #cibles_militaires et ignore délibérément le #principe_de_proportionnalité_de_la_force. L’objectif est de détruire toutes les infrastructures, de créer un #choc_psychologique suffisamment fort, et de retourner la population contre le Hamas. Cette situation nous enferme dans un #cycle_de_violence.

    Vos travaux les plus récents portent sur les initiatives écologiques palestiniennes. Face à la fureur des armes, on en entend évidemment peu parler. Vous expliquez pourtant qu’elles sont essentielles. Quelles sont-elles ?

    La Palestine est un vivier d’#innovations politiques et écologiques, un lieu de #créativité_sociale. Ces dernières années, suite au constat d’échec des négociations liées aux accords d’Oslo [1] mais aussi de l’échec de la lutte armée, s’est dessinée une #troisième_voie.

    Depuis le début des années 2000, la #société_civile a repris l’initiative. Dans de nombreux villages, des #marches et des #manifestations hebdomadaires sont organisées contre la prédation des colons ou pour l’#accès_aux_ressources. Plus récemment, s’est développée une #économie_alternative, dite de résistance, avec la création de #fermes, parfois communautaires, et un renouveau des #coopératives.

    L’objectif est de reconstruire une autre société libérée du #néolibéralisme, de l’occupation et de la #dépendance à l’#aide_internationale. Des agronomes, des intellectuels, des agriculteurs, des agricultrices, des associations et des syndicats de gauche se sont retrouvés dans cette nouvelle forme de résistance en dehors de la politique institutionnelle. Une jeune génération a rejoint des pionniers. Plutôt qu’une solution nationale et étatique à la colonisation israélienne — un objectif trop abstrait sur lequel personne n’a aujourd’hui de prise — il s’agit de promouvoir des actions à l’échelle citoyenne et locale. L’idée est de retrouver de l’#autonomie et de parvenir à des formes de #souveraineté par le bas. Des terres ont été remises en culture, des #fermes_agroécologiques ont été installées — dont le nombre a explosé ces cinq dernières années — des #banques_de_semences locales créées, des modes d’#échange directs entre producteurs et consommateurs mis en place. On a parlé d’« #intifada_verte ».

    Une « intifada verte » pour retrouver de l’autonomie

    Tout est né d’une #prise_de_conscience. Les #territoires_palestiniens sont un marché captif pour l’#économie israélienne. Il y a très peu de #production. Entre 1975 et 2014, la part des secteurs de l’agriculture et de l’#industrie dans le PIB a diminué de moitié. 65 % des produits consommés en Cisjordanie viennent d’Israël, et plus encore à Gaza. Depuis les accords d’Oslo en 1995, la #production_agricole est passée de 13 % à 6 % du PIB.

    Ces nouvelles actions s’inscrivent aussi dans l’histoire de la résistance : au cours de la première Intifada (1987-1993), le #boycott des taxes et des produits israéliens, les #grèves massives et la mise en place d’une économie alternative autogérée, notamment autour de l’agriculture, avaient été centraux. À l’époque, des #jardins_communautaires, appelés « les #jardins_de_la_victoire » avait été créés. Ce #soulèvement, d’abord conçu comme une #guerre_économique, entendait alors se réapproprier les #ressources captées par l’occupation totale de la Cisjordanie et de la #bande_de_Gaza.

    Comment définiriez-vous l’#écologie palestinienne ?

    C’est une écologie de la subsistance qui n’est pas séparée de la résistance, et même au-delà, une #écologie_existentielle. Le #retour_à_la_terre participe de la lutte. C’est le seul moyen de la conserver, et donc d’empêcher la disparition totale, de continuer à exister. En Cisjordanie, si les terres ne sont pas cultivées pendant 3 ou 10 ans selon les modes de propriété, elles peuvent tomber dans l’escarcelle de l’État d’Israël, en vertu d’une ancienne loi ottomane réactualisée par les autorités israéliennes en 1976. Donc, il y a une nécessité de maintenir et augmenter les cultures, de redevenir paysans, pour limiter l’expansion de la #colonisation. Il y a aussi une nécessité d’aller vers des modes de production plus écologiques pour des raisons autant climatiques que politiques. Les #engrais et les #produits_chimiques proviennent des #multinationales via Israël, ces produits sont coûteux et rendent les sols peu à peu stériles. Il faut donc inventer autre chose.

    Les Palestiniens renouent avec une forme d’#agriculture_économe, ancrée dans des #savoir-faire_ancestraux, une agriculture locale et paysanne (#baladi) et #baaliya, c’est-à-dire basée sur la pluviométrie, tout en s’appuyant sur des savoirs nouveaux. Le manque d’#eau pousse à développer cette méthode sans #irrigation et avec des #semences anciennes résistantes. L’idée est de revenir à des formes d’#agriculture_vivrière.

    La #révolution_verte productiviste avec ses #monocultures de tabac, de fraises et d’avocats destinée à l’export a fragilisé l’#économie_palestinienne. Elle n’est pas compatible avec l’occupation et le contrôle de toutes les frontières extérieures par les autorités israéliennes qui les ferment quand elles le souhaitent. Par ailleurs, en Cisjordanie, il existe environ 600 formes de check-points internes, eux aussi actionnés en fonction de la situation, qui permettent de créer ce que l’armée a nommé des « #cellules_territoriales ». Le #territoire est morcelé. Il faut donc apprendre à survivre dans des zones encerclées, être prêt à affronter des #blocus et développer l’#autosuffisance dans des espaces restreints. Il n’y a quasiment plus de profondeur de #paysage palestinien.

    « Il faut apprendre à survivre dans des zones encerclées »

    À Gaza, on voit poindre une #économie_circulaire, même si elle n’est pas nommée ainsi. C’est un mélange de #débrouille et d’#inventivité. Il faut, en effet, recycler les matériaux des immeubles détruits pour pouvoir faire de nouvelles constructions, parce qu’il y a très peu de matériaux qui peuvent entrer sur le territoire. Un entrepreneur a mis au point un moyen d’utiliser les ordures comme #matériaux. Les modes de construction anciens, en terre ou en sable, apparaissent aussi mieux adaptés au territoire et au climat. On utilise des modes de production agricole innovants, en #hydroponie ou bien à la #verticale, parce que la terre manque, et les sols sont pollués. De nouvelles pratiques énergétiques ont été mises en place, surtout à Gaza, où, outre les #générateurs qui remplacent le peu d’électricité fournie, des #panneaux_solaires ont été installés en nombre pour permettre de maintenir certaines activités, notamment celles des hôpitaux.

    Est-ce qu’on peut parler d’#écocide en ce moment ?

    Tout à fait. Nombre de Palestiniens emploient maintenant le terme, de même qu’ils mettent en avant la notion d’#inégalités_environnementales avec la captation des #ressources_naturelles par Israël (terre, ressources en eau…). Cela permet de comprendre dans leur ensemble les dégradations faites à l’#environnement, et leur sens politique. Cela permet aussi d’interpeller le mouvement écologiste israélien, peu concerné jusque-là, et de dénoncer le #greenwashing des autorités. À Gaza, des #pesticides sont épandus par avion sur les zones frontalières, des #oliveraies et des #orangeraies ont été arrachées. Partout, les #sols sont pollués par la toxicité de la guerre et la pluie de #bombes, dont certaines au #phosphore. En Cisjordanie, les autorités israéliennes et des acteurs privés externalisent certaines #nuisances_environnementales. À Hébron, une décharge de déchets électroniques a ainsi été créée. Les eaux usées ne sont pas également réparties. À Tulkarem, une usine chimique considérée trop toxique a été également déplacée de l’autre côté du Mur et pollue massivement les habitants, les terres et les fermes palestiniennes alentour.

    « Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement »

    Les habitants des territoires occupés, et leur environnement — les plantes, les arbres, le paysage et les espèces qui le composent — sont attaqués et visés de manière similaire. Ils sont placés dans une même #vulnérabilité. Pour certains, il apparaît clair que leur destin est commun, et qu’ils doivent donc d’une certaine manière résister ensemble. C’est ce que j’appelle des « #résistances_multispécifiques », en écho à la pensée de la [philosophe féministe étasunienne] #Donna_Haraway. [2] Il existe une relation intime entre les Palestiniens et leur environnement. Une même crainte pour l’existence. La même menace d’#effacement. C’est très palpable dans le discours de certaines personnes. Il y a une lutte commune pour la #survie, qui concerne autant les humains que le reste du vivant, une nécessité écologique encore plus aigüe. C’est pour cette raison que je parle d’#écologisme_existentiel en Palestine.

    Aujourd’hui, ces initiatives écologistes ne sont-elles pas cependant menacées ? Cet élan écologiste ne risque-t-il pas d’être brisé par la guerre ?

    Il est évidemment difficile d’exister dans une guerre totale mais on ne sait pas encore comment cela va finir. D’un côté, on assiste à un réarmement des esprits, les attaques de colons s’accélèrent et les populations palestiniennes en Cisjordanie réfléchissent à comment se défendre. De l’autre côté, ces initiatives restent une nécessité pour les Palestiniens. J’ai pu le constater lors de mon dernier voyage en juin, l’engouement est réel, la dynamique importante. Ce sont des #utopies qui tentent de vivre en pleine #dystopie.

    https://reporterre.net/En-Palestine-l-ecologie-n-est-pas-separee-de-la-resistance
    #agriculture #humiliation #pollution #recyclage #réusage #utopie

    • La toile carcérale. Une histoire de l’enfermement en Palestine

      Dans les Territoires palestiniens, depuis l’occupation de 1967, le passage par la prison a marqué les vécus et l’histoire collective. Les arrestations et les incarcérations massives ont installé une toile carcérale, une détention suspendue. Environ 40 % des hommes palestiniens sont passés par les prisons israéliennes depuis 1967. Cet ouvrage remarquable permet de comprendre en quoi et comment le système pénal et pénitentiaire est un mode de contrôle fractal des Territoires palestiniens qui participe de la gestion des frontières. Il raconte l’envahissement carcéral mais aussi la manière dont la politique s’exerce entre Dedans et Dehors, ses effets sur les masculinités et les féminités, les intimités. Stéphanie Latte Abdallah a conduit une longue enquête ethnographique, elle a réalisé plus de 350 entretiens et a travaillé à partir d’archives et de documents institutionnels. Grâce à une narration sensible s’apparentant souvent au documentaire, le lecteur met ses pas dans ceux de l’auteure à la rencontre des protagonistes de cette histoire contemporaine méconnue.

      https://livres.bayard-editions.com/livres/66002-la-toile-carcerale-une-histoire-de-lenfermement-en-pal
      #livre

  • La théorie du boxeur : quelques remarques sur ce film documentaire drômois sur l’agriculture
    https://ricochets.cc/La-theorie-du-boxeur-quelques-remarques-sur-ce-film-documentaire-dromois-s

    Ce film documentaire autoproduit et distribué par l’association Kamea Meah a beaucoup de succès dans la région. Les sujets évoquées dans ce film sont majeurs et d’importance vitale : autonomie et résilience alimentaire, futur de l’agriculture face aux catastrophes climatiques et écologiques croissantes produites par la civilisation industrielle, partage de l’eau qui se raréfie, destruction accélérée de la biodiversité... J’évoquerai les points que je trouve pertinents et utiles dans ce film, puis les (...) #Les_Articles

    / #Le_monde_de_L'Economie, #Autonomie_et_autogestion, #Agriculture, #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle, #Ecologie, Vidéos, (...)

    #Vidéos,_films...
    https://www.latheorieduboxeur.fr
    https://reporterre.net/Le-gouvernement-refuse-de-financer-plus-d-ecologie-dans-les-fermes
    https://expansive.info/Appel-a-constituer-des-greniers-des-Soulevements-3998
    https://www.terrestres.org/2021/07/29/reprendre-la-terre-aux-machines-manifeste-de-la-cooperative-latelier-pay
    https://latelierpaysan.org/PARUTION-D-UNE-NOUVELLE-PUBLICATION-Observations-sur-les-technologie
    https://ricochets.cc/IMG/distant/html/XQaOphd9LKY-c230-89ab965.html

  • DOCUMENT RTL - Les confidences du résistant qui a révélé le massacre de soldats allemands en 1944
    https://www.rtl.fr/actu/justice-faits-divers/document-rtl-les-confidences-du-resistant-qui-a-revele-le-massacre-de-soldats-al

    Le chef de ce groupe de résistants annonce alors aux prisonniers leur funeste sort. « Le capitaine leur a parlé en allemand, parce qu’il était alsacien, et leur a dit qu’ils allaient être fusillés. Sur les 54 prisonniers qui étaient présents, on a retiré les sept qui n’étaient pas allemands. C’était des Tchèques ou des Polonais », précise Edmond Réveil. Ce dernier, âgé de 19 ans en 1944, refuse de participer à la tuerie. « On était quatre ou cinq à refuser », se souvient-il.

    L’ancien résistant voit alors un « impressionnant » charnier. « Ils ont été enterrés et on a mis de la chaux dessus. C’est resté secret jusqu’ici. » Mais Edmond Réveil ne condamne pas pour autant ce massacre, alors que quelques jours auparavant 99 habitants avaient été pendus à Tulle. « Les Allemands ne respectaient pas la convention de Genève, on ne l’a pas respecté non plus. Eux ils n’ont pas hésité, ils ont tué 47 jeunes Français juste avant. C’était œil pour œil, dent pour dent », tranche-t-il.

  • Un Paese Di Resistenza

    Riace, Calabre. Après 20 ans d’harmonie, ce village qui faisait de l’accueil des migrants son avenir, devint la cible de la vague populiste qui ronge l’Italie. Le venin s’est répandu. Après des mois d’une minutieuse destruction, Riace sort d’un long cauchemar avec un dilemme : Résister ou disparaître.

    https://www.wbimages.be/films/film/un-paese-di-resistenza

    #Italie #Riace #Lucano #Mimmo_Lucano #film #documentaire #film_documentaire #accueil #réfugiés #résistance #migrations #Calabre

  • Les #voitures_électriques assoiffent les #pays_du_Sud

    Pour extraire des #métaux destinés aux voitures électriques des pays les plus riches, il faut de l’eau. Au #Maroc, au #Chili, en #Argentine… les #mines engloutissent la ressource de pays souffrant déjà de la sécheresse.

    #Batteries, #moteurs… Les voitures électriques nécessitent des quantités de métaux considérables. Si rien n’est fait pour limiter leur nombre et leur #poids, on estime qu’elles pourraient engloutir plusieurs dizaines de fois les quantités de #cobalt, de #lithium ou de #graphite que l’on extrait aujourd’hui.

    Démultiplier la #production_minière dans des proportions aussi vertigineuses a une conséquence directe : elle pompe des #ressources en eau de plus en plus rares. Car produire des métaux exige beaucoup d’eau. Il en faut pour concentrer le métal, pour alimenter les usines d’#hydrométallurgie, pour les procédés ultérieurs d’#affinage ; il en faut aussi pour obtenir les #solvants et les #acides utilisés à chacun de ces stades, et encore pour simplement limiter l’envol de #poussières dans les mines. Produire 1 kilogramme de cuivre peut nécessiter 130 à 270 litres d’eau, 1 kg de nickel 100 à 1 700 l, et 1 kg de lithium 2 000 l [1].

    Selon une enquête de l’agence de notation étatsunienne Fitch Ratings, les investisseurs considèrent désormais les #pénuries_d’eau comme la principale menace pesant sur le secteur des mines et de la #métallurgie. Elle estime que « les pressions sur la ressource, comme les pénuries d’eau localisées et les #conflits_d’usage, vont probablement augmenter dans les décennies à venir, mettant de plus en plus en difficulté la production de batteries et de technologies bas carbone ». Et pour cause : les deux tiers des mines industrielles sont aujourd’hui situées dans des régions menacées de sécheresse [2].

    L’entreprise anglaise #Anglo_American, cinquième groupe minier au monde, admet que « 75 % de ses mines sont situées dans des zones à haut risque » du point de vue de la disponibilité en eau. La #voiture_électrique devait servir à lutter contre le réchauffement climatique. Le paradoxe est qu’elle nécessite de telles quantités de métaux que, dans bien des régions du monde, elle en aggrave les effets : la sécheresse et la pénurie d’eau.

    Au Maroc, la mine de cobalt de #Bou_Azzer exploitée par la #Managem, qui alimente la production de batteries de #BMW et qui doit fournir #Renault à partir de 2025, prélèverait chaque année l’équivalent de la consommation d’eau de 50 000 habitants. À quelques kilomètres du site se trouvent la mine de #manganèse d’#Imini et la mine de #cuivre de #Bleida, tout aussi voraces en eau, qui pourraient bientôt alimenter les batteries de Renault. Le groupe a en effet annoncé vouloir élargir son partenariat avec Managem « à l’approvisionnement de #sulfate_de_manganèse et de cuivre ».

    Importer de l’eau depuis le désert

    Importer du cobalt, du cuivre ou du manganèse depuis la région de Bou Azzer, cela revient en quelque sorte à importer de l’eau depuis le désert. Les prélèvements de ces mines s’ajoutent à ceux de l’#agriculture_industrielle d’#exportation. À #Agdez et dans les localités voisines, les robinets et les fontaines sont à sec plusieurs heures par jour en été, alors que la température peut approcher les 45 °C. « Bientôt, il n’y aura plus d’eau, s’insurgeait Mustafa, responsable des réseaux d’eau potable du village de Tasla, lors de notre reportage à Bou Azzer. Ici, on se sent comme des morts-vivants. »

    Un des conflits socio-environnementaux les plus graves qu’ait connus le Maroc ces dernières années s’est produit à 150 kilomètres de là, et il porte lui aussi sur l’eau et la mine. Dans la région du #Draâ-Tafilalet, dans la commune d’Imider, la Managem exploite une mine d’#argent, un métal aujourd’hui principalement utilisé pour l’#électricité et l’#électronique, en particulier automobile. D’ailleurs, selon le Silver Institute, « les politiques nationales de plus en plus favorables aux véhicules électriques auront un impact positif net sur la demande en argent métal ». À Imider, les prélèvements d’eau croissants de la mine d’argent ont poussé les habitants à la #révolte. À partir de 2011, incapables d’irriguer leurs cultures, des habitants ont occupé le nouveau réservoir de la mine, allant jusqu’à construire un hameau de part et d’autre des conduites installées par la Managem. En 2019, les amendes et les peines d’emprisonnement ont obligé la communauté d’Imider à évacuer cette #zad du désert, mais les causes profondes du conflit perdurent.

    « Ici, on se sent comme des morts-vivants »

    Autre exemple : au Chili, le groupe Anglo American exploite la mine de cuivre d’#El_Soldado, dans la région de #Valparaiso. Les sécheresses récurrentes conjuguées à l’activité minière entraînent des #coupures_d’eau de plus en plus fréquentes. Pour le traitement du #minerai, Anglo American est autorisé à prélever 453 litres par seconde, indique Greenpeace, tandis que les 11 000 habitants de la ville voisine d’#El_Melón n’ont parfois plus d’eau au robinet. En 2020, cette #pénurie a conduit une partie de la population à occuper l’un des #forages de la mine, comme au Maroc.

    #Désalinisation d’eau de mer

    L’année suivante, les associations d’habitants ont déposé une #plainte à la Cour suprême du Chili pour exiger la protection de leur droit constitutionnel à la vie, menacé par la consommation d’eau de l’entreprise minière. Face au mouvement de #contestation national #No_más_Anglo (On ne veut plus d’Anglo), le groupe a dû investir dans une usine de désalinisation de l’eau pour alimenter une autre de ses mégamines de cuivre au Chili. Distante de 200 kilomètres, l’usine fournira 500 litres par seconde à la mine de #Los_Bronces, soit la moitié de ses besoins en eau.

    Les entreprises minières mettent souvent en avant des innovations technologiques permettant d’économiser l’eau sur des sites. Dans les faits, les prélèvements en eau de cette industrie ont augmenté de façon spectaculaire ces dernières années : l’Agence internationale de l’énergie note qu’ils ont doublé entre 2018 et 2021. Cette augmentation s’explique par la ruée sur les #métaux_critiques, notamment pour les batteries, ainsi que par le fait que les #gisements exploités sont de plus en plus pauvres. Comme l’explique l’association SystExt, composée de géologues et d’ingénieurs miniers, « la diminution des teneurs et la complexification des minerais exploités et traités conduisent à une augmentation exponentielle des quantités d’énergie et d’eau utilisées pour produire la même quantité de métal ».

    Réduire d’urgence la taille des véhicules

    En bref, il y de plus en plus de mines, des mines de plus en plus voraces en eau, et de moins en moins d’eau. Les métaux nécessaires aux batteries jouent un rôle important dans ces conflits, qu’ils aient lieu au Maroc, au Chili ou sur les plateaux andins d’Argentine ou de Bolivie où l’extraction du lithium est âprement contestée par les peuples autochtones. Comme l’écrit la politologue chilienne Bárbara Jerez, l’#électromobilité est inséparable de son « #ombre_coloniale » : la perpétuation de l’échange écologique inégal sur lequel est fondé le #capitalisme. Avec les véhicules électriques, les pays riches continuent d’accaparer les ressources des zones les plus pauvres. Surtout, au lieu de s’acquitter de leur #dette_écologique en réparant les torts que cause le #réchauffement_climatique au reste du monde, ils ne font qu’accroître cette dette.

    Entre une petite voiture de 970 kg comme la Dacia Spring et une BMW de plus de 2 tonnes, la quantité de métaux varie du simple au triple. Pour éviter, de toute urgence, que les mines ne mettent à sec des régions entières, la première chose à faire serait de diminuer la demande en métaux en réduisant la taille des véhicules. C’est ce que préconise l’ingénieur Philippe Bihouix, spécialiste des matières premières et coauteur de La ville stationnaire — Comment mettre fin à l’étalement urbain (Actes Sud, 2022) : « C’est un gâchis effroyable de devoir mobiliser l’énergie et les matériaux nécessaires à la construction et au déplacement de 1,5 ou 2 tonnes, pour in fine ne transporter la plupart du temps qu’une centaine de kilogrammes de passagers et de bagages », dit-il à Reporterre.

    « C’est un #gâchis effroyable »

    « C’est à la puissance publique de siffler la fin de partie et de revoir les règles, estime l’ingénieur. Il faudrait interdire les véhicules électriques personnels au-delà d’un certain poids, comme les #SUV. Fixer une limite, ou un malus progressif qui devient vite très prohibitif, serait un bon signal à envoyer dès maintenant. Puis, cette limite pourrait être abaissée régulièrement, au rythme de sortie des nouveaux modèles. »

    C’est loin, très loin d’être la stratégie adoptée par le gouvernement. À partir de 2024, les acheteurs de véhicules de plus de 1,6 tonne devront payer un #malus_écologique au poids. Les véhicules électriques, eux, ne sont pas concernés par la mesure.

    LES BESOINS EN MÉTAUX EN CHIFFRES

    En 2018, l’Académie des sciences constatait que le programme de véhicules électriques français repose sur « des quantités de lithium et de cobalt très élevées, qui excèdent, en fait et à technologie inchangée, les productions mondiales d’aujourd’hui, et ce pour satisfaire le seul besoin français ! » En clair : si on ne renonce pas à la voiture personnelle, il faudra, pour disposer d’une flotte tout électrique rien qu’en France, plus de cobalt et de lithium que l’on en produit actuellement dans le monde en une année.

    L’Agence internationale de l’énergie estime que la demande de lithium pour les véhicules électriques pourrait être multipliée par 14 en 25 ans, celle de cuivre par 10 et celle de cobalt par 3,5. Simon Michaux, ingénieur minier et professeur à l’Institut géologique de Finlande, a calculé récemment que si l’on devait électrifier les 1,4 milliard de voitures en circulation sur la planète, il faudrait disposer de l’équivalent de 156 fois la production mondiale actuelle de lithium, 51 fois la production de cobalt, 119 fois la production de graphite et plus de deux fois et demie la production actuelle de cuivre [3]. Quelles que soient les estimations retenues, ces volumes de métaux ne pourraient provenir du recyclage, puisqu’ils seraient nécessaires pour construire la première génération de véhicules électriques.

    https://reporterre.net/Les-voitures-electriques-assoiffent-les-pays-du-Sud
    #eau #sécheresse #extractivisme #résistance #justice #industrie_automobile #métaux_rares

    • #Scandale du « cobalt responsable » de BMW et Renault au Maroc

      Pour la fabrication des batteries de leurs véhicules électriques, BMW et Renault s’approvisionnent en cobalt au Maroc en se vantant de leur politique d’achat éthique. « Cette publicité est mensongère et indécente. L’extraction de cobalt dans la mine de Bou Azzer, au sud du Maroc, se déroule dans des conditions choquantes, au mépris des règles les plus élémentaires de sécurité, du droit du travail et de la liberté d’association », s’insurgent plusieurs responsables syndicaux et associatifs, basés en France et au Maroc.

      Pour la fabrication des batteries de leurs véhicules électriques, BMW et Renault s’affichent en champions de la mine responsable. Depuis 2020, la marque allemande s’approvisionne en cobalt au Maroc auprès de la Managem, grande entreprise minière appartenant à la famille royale. En 2022, Renault l’a imité en signant un accord avec le groupe marocain portant sur l’achat de 5000 tonnes de sulfate de cobalt par an pour alimenter sa « gigafactory » dans les Hauts de France. Forts de ces contrats, les deux constructeurs automobiles ont mené des campagnes de presse pour vanter leur politique d’achat de matières premières éthiques, BMW assurant que « l’extraction de cobalt par le groupe Managem répond aux critères de soutenabilité les plus exigeants » en matière de respect des droits humains et de l’environnement.

      Cette publicité est mensongère et indécente. L’extraction de cobalt dans la mine de Bou Azzer, au sud du Maroc, se déroule dans des conditions choquantes, au mépris des règles les plus élémentaires de sécurité, du droit du travail et de la liberté d’association. Elle est responsable de violations de droits humains, d’une pollution majeure à l’arsenic et menace les ressources en eau de la région, comme l’ont révélé l’enquête de Celia Izoard sur Reporterre et le consortium d’investigation réunissant le quotidien Süddeutsche Zeitung, les radiotélévisions allemandes NDR et WDR et le journal marocain Hawamich (2).

      Une catastrophe écologique

      Les constructeurs automobiles n’ont jamais mentionné que la mine de Bou Azzer n’est pas seulement une mine de cobalt : c’est aussi une mine d’arsenic, substance cancérigène et hautement toxique. Depuis le démarrage de la mine par les Français en 1934, les déchets miniers chargés d’arsenic ont été massivement déversés en aval des usines de traitement. Dans les oasis de cette région désertique, sur un bassin versant de plus de 40 kilomètres, les eaux et les terres agricoles sont contaminées. A chaque crue, les résidus stockés dans les bassins de la mine continuent de se déverser dans les cours d’eau.

      A Zaouit Sidi-Blal, commune de plus de 1400 habitants, cette pollution a fait disparaître toutes les cultures vivrières à l’exception des palmiers dattiers. Les représentants de la commune qui ont mené des procédures pour faire reconnaître la pollution ont été corrompus ou intimidés, si bien que la population n’a fait l’objet d’aucune compensation ou mesure de protection.

      Dans le village de Bou Azzer, à proximité immédiate du site minier, treize familles et une vingtaine d’enfants se trouvent dans une situation d’urgence sanitaire manifeste. Faute d’avoir été relogés, ils vivent à quelques centaines de mètres des bassins de déchets contenant des dizaines de milliers de tonnes d’arsenic, au milieu des émanations d’acide sulfurique, sans argent pour se soigner.

      Depuis vingt ans, la mine de Bou Azzer, exploitée en zone désertique, n’a cessé d’augmenter sa production. Le traitement des minerais consomme des centaines de millions de litres d’eau par an dans cette région durement frappée par la sécheresse. Les nappes phréatiques sont si basses que, dans certains villages voisins de la mine, l’eau doit être coupée plusieurs heures par jour. A l’évidence une telle exploitation ne peut être considérée comme « soutenable ».

      Mineurs sacrifiés

      Les conditions d’extraction à Bou Azzer sont aussi alarmantes qu’illégales. Alors que le recours à l’emploi temporaire pour les mineurs de fond est interdit au Maroc, des centaines d’employés de la mine travaillent en contrat à durée déterminée pour des entreprises de sous-traitance. Ces mineurs travaillent sans protection et ne sont même pas prévenus de l’extrême toxicité des poussières qu’ils inhalent. Les galeries de la mine s’effondrent fréquemment faute d’équipement adéquat, entraînant des décès ou des blessures graves. Les entreprises sous-traitantes ne disposent d’aucune ambulance pour évacuer les blessés, qui sont transportés en camion. Les nombreux mineurs atteints de silicose et de cancer sont licenciés et leurs maladies professionnelles ne sont pas déclarées. Arrivés à la retraite, certains survivent avec une pension de moins de 100 euros par mois et n’ont pas les moyens de soigner les maladies contractées dans les galeries de Bou Azzer.

      Enfin, si la Managem prétend « promouvoir les libertés syndicales et les droits d’association », la situation politique du Maroc aurait dû amener BMW et Renault à s’intéresser de près à l’application de ces droits humains. Il n’existe à Bou Azzer qu’un syndicat aux ordres de la direction, et pour cause ! En 2011-2012, lors de la dernière grande grève sur le site, les tentatives d’implanter une section de la Confédération des travailleurs ont été violemment réprimées. Les mineurs qui occupaient le fond et qui n’exigeaient que l’application du droit du travail ont été passés à tabac, des grévistes ont été torturés et poursuivis pour « entrave au travail », de même que les membres de l’Association marocaine pour les droits humains qui soutenaient leurs revendications.

      Comment, dans ces conditions, les firmes BMW et Renault osent-elles vanter leurs politiques d’achat de « cobalt responsable » ? Au regard ne serait-ce que des lois sur le devoir de vigilance des entreprises, elles auraient dû prendre connaissance de la situation réelle des mineurs et des riverains de Bou Azzer. Elles auraient dû tout mettre en œuvre pour faire cesser cette situation qui découle d’infractions caractérisées au droit du travail, de l’environnement et de la santé publique. Mieux encore, elles devraient renoncer à la production en masse de véhicules qui ne sauraient être ni soutenables ni écologiques. Les luxueuses BMW i7 pèsent 2,5 tonnes et sont équipées de batteries de 700 kg. La justice sociale et l’urgence écologique imposent aux constructeurs automobiles et aux dirigeants de prendre leurs responsabilités : adopter des mesures drastiques pour réduire le poids et le nombre des véhicules qui circulent sur nos routes. La « transition » pseudo-écologique portée par les pouvoirs publics et les milieux économiques ne doit pas ouvrir la voie au greenwashing le plus éhonté, condamnant travailleurs et riverains à des conditions de travail et d’environnement incompatibles avec la santé et la dignité humaines et renforçant des logiques néocoloniales.

      (1) Tous nos remerciements à Benjamin Bergnes, photographe, qui nous cède le droit de disposer de cette photo dans le cadre exclusif de cette tribune.

      Premiers signataires :

      Annie Thébaud-Mony, Association Henri-Pézerat

      Alice Mogwe, présidente de la Fédération internationale pour les droits humains

      Patrick Baudouin, président de la Ligue des droits de l’Homme

      Agnès Golfier, directrice de la Fondation Danielle-Mitterrand

      Lawryn Remaud, Attac France

      Jawad Moustakbal, Attac Maroc/CADTM Maroc

      Hamid Majdi, Jonction pour la défense des droits des travailleurs, Maroc

      Pascale Fouilly, secrétaire générale du syndicat national des mineurs CFDT, assimilés et du personnel du régime minier de sécurité sociale

      Marie Véron, coordinatrice de l’Alliance écologique et sociale (qui réunit les Amis de la Terre, Attac, la Confédération paysanne, FSU, Greenpeace France, Oxfam France et Solidaires)

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      https://reporterre.net/BMW-et-Renault-impliques-dans-un-scandale-ecologique-au-Maroc

      https://reporterre.net/Mines-au-Maroc-la-sinistre-realite-du-cobalt-responsable

      https://reporterre.net/Au-Maroc-une-mine-de-cobalt-empoisonne-les-oasis

      https://www.tagesschau.de/investigativ/ndr-wdr/umweltstandards-bmw-zulieferer-kobalt-marokko-100.html

      https://www.sueddeutsche.de/projekte/artikel/wirtschaft/bou-azzer-arsen-umweltverschmutzung-e-autos-bmw-e972346

      https://www.ndr.de/der_ndr/presse/mitteilungen/NDR-WDR-SZ-Massive-Vorwuerfe-gegen-Zulieferer-von-BMW,pressemeldungndr24278.html

      https://www.br.de/nachrichten/bayern/schmutzige-kobalt-gewinnung-vorwuerfe-gegen-bmw-zulieferer,TvPhd4K

      https://www.dasding.de/newszone/bmw-zulieferer-marokko-verdacht-umwelt-arbeit-kobalt-100.html

      https://hawamich.info/7361

      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/131123/scandale-du-cobalt-responsable-de-bmw-et-renault-au-maroc

    • Scandale du cobalt marocain : lancement d’une enquête sur BMW

      À la suite de l’enquête de Reporterre et de médias internationaux sur l’extraction de « cobalt responsable » au Maroc pour les voitures électriques, l’autorité fédérale allemande de contrôle a engagé une procédure contre BMW.

      La mine de cobalt de Bou Azzer, qui alimente la production de batteries de BMW et qui doit fournir Renault à partir de 2025, intoxique les travailleurs et l’environnement. À la suite de nos enquêtes sur ce scandale, l’Office fédéral allemand du contrôle de l’économie et des exportations (Bafa) a ouvert une enquête sur le constructeur automobile BMW. Le gouvernement a confirmé cette information après une question écrite du groupe parlementaire de gauche Die Linke le 25 novembre, selon le quotidien Der Spiegel.

      L’autorité de contrôle pourrait infliger des sanctions à BMW pour avoir enfreint la loi sur le devoir de vigilance des entreprises. Depuis 2020, BMW fait la promotion de son « approvisionnement responsable » au Maroc sans avoir mené d’audit dans cette mine de cobalt et d’arsenic, comme l’a révélé notre investigation menée conjointement avec le Süddeutsche Zeitung, les chaînes allemandes NDR et WDR et le média marocain Hawamich.
      Les mineurs en danger

      Privés de leurs droits syndicaux, les mineurs y travaillent dans des conditions illégales et dangereuses ; les déchets miniers ont gravement pollué les oasis du bassin de l’oued Alougoum au sud de Ouarzazate, où l’eau des puits et les terres présentent des concentrations en arsenic plus de quarante fois supérieures aux seuils.

      En vigueur depuis janvier 2023, la loi allemande sur le devoir de vigilance vise à améliorer le respect des droits humains et de l’environnement dans les chaînes d’approvisionnement mondiales. Comme dans la loi française, les grandes entreprises ont l’obligation de prévenir, d’atténuer ou de mettre fin à d’éventuelles violations.

      Mais les moyens de contrôle de l’autorité fédérale sont ridiculement insuffisants pour faire appliquer cette loi, estime Cornelia Möhring, députée et porte-parole du parti de gauche Die Linke au Bundestag, interviewée par Reporterre : « Le cas de BMW, qui se vante d’exercer sa responsabilité environnementale et sociale “au-delà de ses usines” et qui a préféré ignorer la réalité de cette extraction, est emblématique, dit-elle. Il montre que le volontariat et l’autocontrôle des entreprises n’ont aucun sens dans un monde capitaliste. Face au scandale du cobalt, le gouvernement fédéral doit maintenant faire la preuve de sa crédibilité en ne se laissant pas piétiner par l’une des plus grandes entreprises allemandes. »

      « L’autocontrôle des entreprises n’a aucun sens »

      Le propriétaire de BMW, Stefan Qandt, est le quatrième homme le plus riche d’Allemagne, souligne Cornelia Möhring. En cas d’infraction avérée au devoir de vigilance, les sanctions maximales prévues par l’autorité de contrôle allemande sont une exclusion des marchés publics pour une durée de trois ans ou une amende allant jusqu’à 2 % du chiffre d’affaires annuel du groupe (celui de BMW était de 146 milliards d’euros en 2022). Le constructeur s’est déclaré prêt à « exiger de son fournisseur des contre-mesures immédiates » pour améliorer la situation à Bou Azzer. De son côté, la députée Cornelia Möhring estime qu’« une action en justice à l’encontre de BMW pour publicité mensongère serait bienvenue ».

      Quid de Renault, qui a signé en 2022 un accord avec l’entreprise Managem pour une fourniture en cobalt à partir de 2025 pour les batteries de ses véhicules ? Il a lui aussi fait la promotion de ce « cobalt responsable » sans avoir enquêté sur place. Interrogé par Reporterre, le constructeur automobile assure qu’« un premier audit sur site mené par un organisme tiers indépendant » sera mené « très prochainement », et qu’« en cas de non-respect des normes et engagements ESG [environnementaux, sociaux et de gouvernance] du groupe, des mesures correctives seront prises pour se conformer aux normes ». Reste à savoir quelles « normes » pourraient protéger les travailleurs et l’environnement dans un gisement d’arsenic inévitablement émetteur de grands volumes de déchets toxiques.

      https://reporterre.net/Scandale-du-cobalt-marocain-l-Etat-allemand-va-enqueter-sur-BMW

  • Les réfractaires depuis l’invasion de l’Ukraine par la Russie (9ème partie • novembre 2023)
    https://www.obsarm.info/spip.php?article628

    Depuis octobre 2022, Guy Dechesne recense longuement les actes de désertion, d’insoumission, de désobéissance et d’exil posés pour refuser de combattre, les actions de désobéissance civiles pour entraver la guerre et les appuis que les réfractaires reçoivent tant dans les pays concernés qu’à l’étranger dans le prolongement d’un dossier paru dans le numéro 164-165 de « Damoclès ». Cette rubrique ce travail à partir d’un suivi méticuleux des médias. 9ème partie, novembre 2023. Retrouvez la huitième partie de (...) #Résistances

    / #La_trois, #Actions_contre_la_guerre, #Antimilitarisme, #Guerres, Service national / (...)

    #Service_national_/_conscription

  • #Lettre_ouverte des étudiant·es juif·ves de #Brown_University

    Depuis le 7 octobre 2023, les étudiant·es de Brown University, juif·ves et non-juif·ves, sont mobilisé·es contre la guerre. Brown University, une des universités d’élite (Ivy League), localisée à Providence (Rhode Island) est le théâtre d’importants débats. Mercredi 8 novembre, 20 étudiant·es ont été arrêté·es par la police après l’occupation de Brown University Hall ; iels exigeaient que l’université se sépare des investissements réalisés dans des firmes d’armement. La veille, les étudiant·es juif·ves de Brown University avaient publié une Lettre ouverte qu’iels ont autorisé Paul Werner à traduire pour Academia.

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    Lettre ouverte des étudiant·es juif·ves de Brown University

    « La solidarité est la dimension politique de l’amour ». — Melanie Kaye/Kantrowitz, militante féministe juive

    Voilà un mois que les attentats du 7 octobre ont envahi la réflexion et le discours politique à l’échelle du monde, sans même parler de notre quotidien de jeunes Juif·ves. Les institutions sionistes prétendent représenter tous·tes les Juif·ves, et, invoquant nos personnes telles un bouclier rhétorique, entendent justifier les actions inadmissibles de l’État d’Israël. En notre qualité de Juif·ves, nous ressentons une douleur toute particulière à devoir justifier en permanence notre prise de position contre les génocides. Nous venons de faire entendre clairement notre voix : nous sommes solidaires des Étudiants de Brown pour la justice en Palestine [Brown Students for Justice in Palestine] ainsi que du Comité de solidarité avec la Palestine [Palestine Solidarity Caucus] et de leur engagement pour la libération des peuples palestiniens. Nous sommes profondément conscient·es que les revendications des Juif·ves sont inévitablement liées aux luttes mondiales pour la liberté. Nous sommes un groupe d’étudiant·ves juif·ves rassemblé·es par une vision partagée de la justice, de l’anti-occupation, de la libération et de la communauté. Nous vous demandons de nous écouter :

    1. Que signifie pour nous l’expression « du fleuve à la mer » ?

    Le slogan From the river to the sea Palestine will be free [« Du fleuve à la mer, la Palestine sera libre »1 n’est pas un appel à l’expulsion forcée des Juif·ves de Palestine ni, comme on l’a souvent interprété à tort, un appel à « jeter les Juif·ves à la mer ». Il s’agit plutôt d’un appel à la levée de l’oppression de tous·tes les Palestinien·nes — à Gaza, en Cisjordanie et dans l’enceinte de la Ligne verte. La libération de l’ensemble de la Palestine exige un changement révolutionnaire : non pas d’éradiquer les Juif·ves de la région, mais de démanteler de fond en comble le régime d’apartheid qui s’y est implanté. L’hypothèse selon laquelle cette phrase est intrinsèquement génocidaire associe à tort la libération à l’anéantissement de tous·tes les citoyen·nes de l’État oppresseur tout en faisant fi de l’intention libératrice. Dans cette confusion manifeste, on discerne un préjugé raciste selon laquelle les Palestinien·nes sont des « animaux » sans pitié, ainsi qu’un silence volontaire sur les intentions violentes d’un gouvernement néo-fasciste — caractérisation partagée pourtant par les auteur·ices du journal de référence d’Israël2. Non seulement c’est un mensonge flagrant, mais c’est aussi une obscénité que de qualifier de génocide un appel à la libération et à la justice, alors qu’Israël se livre à un génocide à Gaza, financé par des milliards de dollars en provenance des contribuables nord-américain·es. Si le fait d’en appeler à un avenir dans lequel les Palestinien·nes peuvent vivre dans leur patrie sans entraves constitue une menace existentielle pour l’idéologie sioniste, c’est cette idéologie-là qu’il faut remettre en question, non l’appel à la libération.
    2. Est-ce que nous prétendons que l’antisémitisme n’existe pas ?

    Bien sûr que non. Chacun des signataires de ce texte a perdu des ancêtres à la suite de violences antijuives soutenues par des autorités étatiques. Tous et toutes, nous avons grandi en étant exposé·es aux répercussions intergénérationnelles de ces horreurs. La réalité de l’antisémitisme n’est pas discutable.

    Cependant nous refusons d’accepter qu’un État ethnique juif soit une issue à notre combat. En instrumentalisant la Shoah et nos souffrances collectives pour justifier l’épuration ethnique des Palestinien·nes, le dispositif militaire israélien fait injure à la mémoire de nos ancêtres. Nous ne permettrons pas que l’histoire se répète ; « plus jamais ça ! » exige la sauvegarde de tous·tes — Juif·ves et non-Juif·ves – contre le génocide3.

    Si nous ne sommes pas en mesure d’admettre et de dénoncer le massacre aveugle de milliers de Palestinien·nes et le déplacement forcé de plus d’un million et demi d’entre elleux par Israël, nous avons échoué à tirer les leçons de notre histoire.

    Nous souhaitons clarifier une distinction que de nombreux sionistes tentent d’occulter. D’abord, il y a l’entité spirituelle que représente le mot Israël — le nom acquis par le Patriarche Jacob, le nom du peuple juif, le terme qui figure dans nombre de nos prières. Puis, il y a l’État d’Israël, fondé en 1948. La désignation même de l’État comme Israël sert à confondre le sionisme politique avec le judaïsme et la judéité, amalgame dangereux qui occulte la longue histoire de l’opposition des Juif·ves à l’idéologie de l’État-nation sioniste. Notre opposition à l’État est indissociable de notre attachement à l’entité spirituelle abstraite.
    3. Nous sentons-nous vulnérables sur le campus au sein de l’activisme pro-palestinien ?

    Nous ne nous sentons pas menacé·es par celleux qui défendent la cause palestinienne dans le quartier universitaire de College Hill4. Au contraire, nous sommes tenu·es de nous engager aux côtés des Étudiant·es de Brown pour la justice en Palestine et du Comité de solidarité avec la Palestine. Leurs intentions sont claires : exiger le cessez-le-feu, le désinvestissement et la protection des étudiant·es.

    Exiger que l’Université prenne position pour un cessez-le-feu ne met pas en péril les étudiant·es juif·ves. De même pour la demande de cesser d’investir dans des industries d’armement telles que Textron et Raytheon, ou de protéger les étudiant·es palestinien·nes et leurs soutiens. De fait, et d’après notre propre expérience, ce sont les association Brown-SJP et PSC qui plaident le plus résolument en faveur de la sécurité et de la protection des étudiant·es, du personnel et du corps enseignant juif qui s’expriment contre les actions perpétrées par l’État israélien. Notre sécurité relative sur ce campus nous permet de rédiger cette déclaration en accord avec Brown-SJP et PSC et de rendre nos noms publics. Et si nous en venions jamais à ressentir un relâchement de cette protection, c’est auprès de cette communauté et de cette diaspora que nous trouverions notre réconfort et notre soutien, non pas auprès d’une quelconque organisation sioniste.

    4. Comment répondre à la lettre de l’Anti-Defamation League (ADL) et du Brandeis Center aux présidents des collèges et universités ?

    Le 25 octobre, l’Anti-Defamation League5 a adressé à des centaines d’établissements pédagogiques une lettre dans laquelle on affirme, sans raison ni preuve, que les sections de Students for Justice in Palestine [SJP] seraient en train d’ « apporter un soutien matériel au Hamas ». En tant que soutiens et membres du SJP-Brown University, dont les fonctions sont indépendantes du cadre national, nous sommes à même d’affirmer en toute confiance que cette association n’apporte aucun soutien au Hamas. En demandant aux universités de « mener une enquête immédiate au sein des sections du SJP de leur campus », l’ADL cherche à cibler, surveiller et supprimer de manière injuste les organisations de défense palestinienne au seul motif qu’elles s’opposent à l’oppression des Palestinien·nes. Cette lettre de l’ADL compte parmi les nombreuses mesures mccarthystes visant à faire taire les voix pro-palestiniennes au nom de la protection des Juif·ves. Brandeis6 a depuis lors interdit sa section de SJP, révoquant le financement et les autorisations de l’association. Nous demandons instamment à notre institution et à notre communauté de ne pas céder à ce discours et de soutenir nos efforts visant à la protection des personnes les plus vulnérables sur ce campus : les étudiant·nes palestinien·nes et leurs soutiens.
    5. Est-ce que nous condamnons le Hamas ?

    Lorsqu’ on nous pose cette question nous percevons toute une série de questions implicites supplémentaires, dont :

    « Vous admettez que l’attaque du Hamas du 7 octobre était un acte d’une violence épouvantable ? »

    Nous répondons « oui », sans équivoque.

    « Voyez-vous et ressentez-vous la souffrance que les familles israéliennes peuvent éprouver à la suite de cette violence ? »

    Oui à cela encore, également sans équivoque. Nous souffrons aussi ; certaines de nos familles ont été directement touchées.

    « Condamnez-vous l’antisémitisme expressément inscrit dans la charte du Hamas de 1988 ? »

    Oui.

    Et nous ne pouvons dissocier cette violence du contexte politique dans lequel elle est survenue : une histoire de plusieurs décennies de violence expansionniste soutenue par l’État. Les horreurs commises après le 7 octobre sont la prolongation de 75 ans d’apartheid et d’occupation. Au cours du mois dernier, le gouvernement israélien a infligé une dévastation systématique aux Palestinien·nes sur l’ensemble du territoire de Gaza, coupant l’électricité, rendant impossible l’aide aux hôpitaux et coupant toute ligne de communication avec le monde extérieur ; détruisant des maisons, des quartiers, des générations entières et des camps de réfugié·es. Il ne s’agit pas simplement d’une réponse aux attaques du Hamas, mais d’une escalade volontaire des 16 dernières années, au cours desquelles Gaza est devenue une prison à ciel ouvert où l’État israélien a réglementé l’importation, l’exportation et la gestion des ressources vitales à destination et en provenance de la zone de manière abusive.

    N’oublions pas non plus : le Hamas n’est pas Gaza ; le Hamas n’est pas la Palestine. La violence du Hamas ne peut pas servir à légitimer le génocide du peuple palestinien. Rien ne le peut.

    6. Sommes-nous en deuil ?

    Nous sommes en deuil pour nos ami·es et nos familles juives et israéliennes, et pour nos ami·es et notre communauté palestinienne. Tandis que notre communauté juive pleure ses proches disparu·es, nous reconnaissons que les membres de notre communauté palestinienne ont également le droit de se recueillir pour leurs propres souffrances. Nous sommes fermement convaincu·es que la reconnaissance de la douleur coexistante de plusieurs communautés ne devrait jamais être taboue. C’est pourquoi nous en appelons à nos communautés juives pour qu’elles ne se contentent pas de prendre le deuil, mais qu’elles agissent pour protéger les civils de Gaza bombardé·es jour après jour dans leurs foyers.

    Notre deuil est infini et nous invite à empêcher d’autres pertes. Notre deuil est notre maître — il nous enseigne que nous sommes tous·tes relié·es comme êtres humains. La manière dont nous donnons un sens au deuil se manifeste dans l’action, en répondant aux appels juifs de tikkun olam [restauration d’un monde en ruines], et de tzedek [justice]. Nous ne pourrons jamais permettre que notre deuil nous laisse passif·ves tandis que l’armée israélienne déshumanise les Palestinien·nes en utilisant des termes comme « animaux humains », en massacrant plus de 10 000 habitant·es de la bande de Gaza depuis le 7 octobre. Nous sommes en deuil pour toutes les vies sacrifiées tout en nous engageant sans équivoque pour les droits et la liberté des Palestinien·nes. Les deux peuvent être vraies7

    7. Pourquoi soutenons-nous Brown-SJP ?

    Nous soutenons Brown-SJP parce que Brown-SJP défend la libération et la survie de tous·tes, comme l’entend la tradition juive. Avec Brown-SJP, nous plaidons pour un cessez-le-feu immédiat, le désinvestissement et la sécurité des étudiant·es. Nous nous insurgeons contre la complicité de notre université dans la fabrication et la vente d’armes de guerre. La sécurité des Juif·ves et des Israélien·nes n’est pas incompatible avec la libération des Palestinien·nes ; les deux, en fait, sont inextricablement liées. Pour notre propre sécurité, pour celle de nos familles, et pour celle de nos cousin·nes palestinien·nes, nous défendons les deux. Nous nous prononçons sans ambiguïté pour la libération.

    Conclusion

    Nous n’hésiterons pas à dénoncer l’injustice dans le monde ; nous ne permettrons pas que notre identité juive soit récupérée. Notre appartenance au judaïsme nous contraint à nous opposer à l’État d’Israël. Notre Torah nous l’ordonne :

    « Tu n’opprimeras pas l’étranger. Vous-mêmes, vous savez ce qu’éprouve l’étranger car vous avez été étrangers en Égypte. » [Exode 23:9]

    Et nous devons en prendre compte. Les Palestinien·nes sont nos cousin·es, nos pair·es à Brown, des habitant·es, des humains dont la vie importe. Tu n’opprimeras pas l’étranger.

    Nous écrivons ces mots depuis la diaspora, et c’est à partir de cette position que nous espérons améliorer le monde. Nous qui sommes aux prises avec des millénaires de lutte et de survie du peuple juif, nous n’abandonnerons pas nos cousin·es et nos pairs palestinien·nes, nous ne les laisserons pas seul·es. Ce génocide ne peut plus durer.

    Pas en notre nom. En notre nom ou sans lui : jamais !

    Ingrid Ansel-Mullen, Promotion ’24, Rafi Ash ’26, Maggie Bauer ’24, Samantha Bloom ’25, Noa Brown ’26, Maize Cline ’26, Lily Cork ’25, Julia Dubnoff ’27, Jesse Edelstein ’24, Ifadayo Engel-Halfkenny ’27, Ruth Engelman ’25, Aaron Epstein ’25, Zoe Federman ’23.5, Edie Fine ’25, Lily Gardner ’26, Eli Gordon ’25, Eli Grossman ’24, monique jonath ’24, Simone Klein ’25, Lucy Lebowitz ’24, Mica Maltzman ’25, Anila Marks ’26, Oscar McNally ’25, Callie Rabinovitz ’24, Maya Renaud-Levine ’26, Ariela Rosenzweig ’24, Hannah Saiger ’25, Joe Saperstein ’24, Lola Simon ’24, Karma Selsey ’24, Isaac Slevin ’25, Sam Stewart ’24, Emilia Peters ’24, Neshima Vitale-Penniman ’25, Yoni Weil ’24 et Tema Zeldes-Roth ’24.5

    –-

    Chers ami·es,

    Je viens de finir la traduction de votre communiqué. J’en ai les larmes aux yeux. Il y a peut-être 60 ans, j’étais plus jeune que certains d’entre vous, avec un ami je suis allé faire la distribution des tracts contre la guerre au Viêt-Nam. C’était tout au début, personne n’avait l’air intéressé. Et puis un homme âgé portant une kippah est sorti d’une synagogue pour me demander ce que je faisais. Je lui expliqué que c’était pour la paix. Alors il a étendu la main pour me bénir, c’était la première fois que j’entendais de l’hébreu.

    Je suis descendant d’une longue lignée d’apikorsim ((Incroyants dans la communauté juive. Au sens littéral, partisan d’Épicure. Le mot remonte peut-être à la période alexandrine, il a été remis en vogue à la Renaissance.)). Pourtant, s’il m’arrivait jamais de vous transmettre quoi que ces soit, cela viendrait de ce vieil homme.

    Avec amour,

    Paul Werner

    https://academia.hypotheses.org/53546
    #7_octobre_2023 #à_lire #Gaza #résistance #Brown_University

  • Du 9 au 12 décembre : appel international à des actions contre Lafarge et le monde du béton
    https://ricochets.cc/Du-9-au-12-decembre-appel-international-a-des-actions-contre-Lafarge-et-le

    Des infos circulent concernant un appel à actions contre le monde du béton. Il semble que les gros bétonneurs ne sont plus à la page, sauf auprès des écocidaires professionnels du monde politico-économique. 🌿 DU 9 AU 12 DÉCEMBRE : APPEL INTERNATIONAL À DES ACTIONS CONTRE LAFARGE ET LE MONDE DU BÉTON Une coalition de plus de 150 luttes locales, d’organisations nationales écologistes et sociales, de regroupements paysans, de sections syndicales et de comités locaux des Soulèvements de la terre appellent (...) #Les_Articles

    / #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle

    https://www.terrestres.org/2023/10/30/contre-lafarge-et-le-monde-du-beton

  • MacDo, Carrefour, Axa, Thalès... Ces entreprises qui soutiennent les crimes et le colonialisme de l’Etat d’Israël
    https://ricochets.cc/MacDo-Carrefour-Axa-Thales-ces-entreprises-qui-soutiennent-crimes-et-colon

    Les gouvernements français et israéliens sont loins et ils sont très peu affectés par nos manifs, rassemblements et pétitions. En revanche, les nombreuses entreprises qui collaborent à l’effort et de guerre et/ou de colonialisme de l’Etat d’Israël sont implantées ici, tout près de chez nous, un peu partout. Et tout le monde sait que le monde de l’Economie n’aime pas les perturbations qui gênent son business, son image de marque et sa logistique en flux tendu. Et puis quand les capitalistes sont embêtés (...) #Les_Articles

    / #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle, #Guerres

    https://cethalesvalence.fr/-L-etablissement-THALES-de-Valence-.html
    https://rebellyon.info/Plusieurs-actions-de-boycott-contre-des-25334
    https://www.liberation.fr/checknews/conflit-israelo-palestinien-pourquoi-le-groupe-francais-carrefour-est-il-

  • « Plus haute #ZAD d’Europe » : faut-il encore aménager les #glaciers alpins ?

    Du 8 au 10 novembre, la France accueille le #One_Planet#Polar_Summit, premier sommet international consacré aux glaciers et aux pôles, pour appeler à une mobilisation exceptionnelle et concertée de la communauté internationale. Dans les #Alpes, les projets d’aménagements des glaciers à des fins touristiques ou sportives sont pourtant toujours en cours malgré leur disparition annoncée. C’est le cas par exemple dans le massif des Écrins (#Hautes-Alpes), sur le glacier de la #Girose où il est prévu d’implanter depuis 2017 le troisième tronçon du téléphérique de la #Grave.

    Du 7 au 13 octobre dernier, les #Soulèvements_de_la_Terre (#SLT) ont occupé le chantier afin d’en bloquer les travaux préparatoires. Ce nouvel aménagement a pour objectif de prolonger les deux tronçons existant, qui permettent depuis 1978 d’accéder au #col_des_Ruillans à 3 221 mètres et ainsi rallier à terme le #Dôme_de_La_Lauze à 3559 mètres. Porté par la #Société_d’aménagement_touristique_de_la_Grave (#SATG) et la municipalité, ce projet est estimé à 12 millions d’euros, investissement dont le bien fondé divise les habitants de #La_Grave depuis cinq ans.

    En jeu derrière ces désaccords, la direction à donner à la transition touristique face au changement climatique : renforcement ou bifurcation du modèle socio-économique existant en montagne ?

    Une #occupation surprise du glacier

    Partis du village de La Grave à 1 400 mètres dans la nuit du 6 au 7 octobre, une quinzaine de militants des SLT ont gravi 2 000 mètres de dénivelé avec des sacs à dos de 15 à 20 kg. Au terme de 12 heures d’ascension, ils ont atteint le haut d’un rognon rocheux émergeant du glacier de la Girose où doit être implanté un pylône du nouveau téléphérique. Ils y ont installé leur camp de base dans l’après-midi, avant d’annoncer sur les réseaux sociaux la création de « la plus haute zone à défendre (ZAD) d’Europe ».

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    Par cette mobilisation surprise, les SLT ont montré qu’ils pouvaient être présents sur des terrains où ils ne sont pas forcément attendus et que pour cela :

    - ils disposent de ressources logistiques permettant d’envisager une mobilisation de type occupationnelle de plusieurs jours à 3 400 mètres d’altitude

    - ils maîtrisent les techniques d’alpinisme et l’engagement physique qu’implique la haute montagne.

    Sur le glacier de la Girose, les conditions de vie imposées par le milieu n’ont en effet rien à voir avec celles des autres ZAD en France, y compris celles de La Clusaz (en novembre 2021 et octobre 2022), premières du type en montagne, dans le bois de la Colombière à 1 400 mètres d’altitude. Au cours de la semaine d’occupation, les températures étaient toutefois clémentes, oscillant entre -7° à 10 °C, du fait d’un automne anormalement chaud.
    Une communication bien rodée

    Très rapidement, cette occupation du glacier a donné un coup de projecteur national sur ce projet controversé d’aménagement local. Dès son annonce publique, les articles se sont succédés dans les médias nationaux à partir des éléments de communication (photographies, vidéos, communiqués de presse, live sur les réseaux sociaux) fournis par les SLT depuis le glacier de la Girose. Les militants présents disposaient en effet des compétences et du matériel nécessaires pour produire des contenus professionnels à 3400 mètres. Ils ont ainsi accordé une attention particulière à la mise en scène médiatique et à sa dimension esthétique.

    Bien qu’inédite par sa forme ainsi que les lieux et les moyens mobilisés, cette mobilisation s’inscrit dans une grammaire politique partagée faisant référence au bien commun ainsi qu’aux imaginaires et narratifs habituels des SLT, qu’elle actualise à partir de cette expérience en haute montagne. Elle est visible dans les stratégies de communication mobilisées : les références à la ZAD, à la stratégie du désarmement, l’apparition masquée des militants, les slogans tels que la « lutte des glaces », « nous sommes les glaciers qui se défendent » et « ça presse mais la SATArde ». Une fois déployée, cette grammaire de la mobilisation est aisément reconnaissable par les publics, qu’ils y soient favorables ou non.
    Une plante protégée sur le chantier

    Cette occupation du glacier a été imaginée dans l’urgence en quelques jours par les SLT pour répondre au début des travaux préliminaires entrepris par la SATG quelques jours auparavant. Son objectif était de stopper ces derniers suite à la décision du tribunal administratif de Marseille de rejeter, le 5 octobre, un référé liberté demandant leurs interruptions d’urgence. Déposé le 20 septembre par les associations locales et environnementales, ce dernier visait notamment à protéger l’androsace du Dauphiné présente sur le rognon rocheux.

    Cette plante protégée, dont la découverte formelle ne remonte qu’à 2021, a été identifiée le 11 juillet sur les lieux par deux scientifiques du Laboratoire d’écologie alpine (CNRS, Université Grenoble Alpes et Université Savoie Mont Blanc) et certifiée par l’Office français de la biodiversité (OFB). Leur rapport d’expertise écologique a été rendu public et remis aux autorités administratives le 18 juillet : il montre qu’il existe plusieurs spécimens de l’androsace du Dauphiné dans un rayon de moins de 50 mètres autour du projet d’implantation du pylône. Or, elle ne figure pas dans l’étude d’impact et le bureau d’étude qui l’a réalisée affirme l’avoir cherchée sans la trouver.

    Deux jours après le début de l’occupation, la SATG a demandé à la préfecture des Hautes-Alpes l’évacuation du campement des SLT afin de pouvoir reprendre au plus vite les travaux. Le 10 octobre, la gendarmerie s’est rendue sur le glacier pour notifier aux militants qu’un arrêté municipal interdisant le bivouac jusqu’au printemps avait été pris. Et que le campement était illégal, et donc passible de poursuites civiles et pénales.

    En réponse, un nouveau recours « référé-suspension » en justice a été déposé le lendemain par les associations locales et environnementales pour stopper les travaux… à nouveau rejeté le 30 octobre par le tribunal administratif de Marseille. Cette décision s’appuie sur l’avis de la Direction régionale de l’environnement, de l’aménagement et du logement (DREAL) et du préfet des Hautes-Alpes qui estiment que le risque d’atteinte à l’androsace du Dauphiné n’était pas suffisamment caractérisé. MW et LGA envisagent désormais de former un recours en cassation devant le Conseil d’État.

    Entre-temps, les SLT ont décidé de redescendre dans la vallée dès le 13 octobre, leur présence n’étant plus nécessaire pour empêcher le déroulement des travaux, puisque les conditions météorologiques rendent désormais leur reprise impossible avant le printemps 2024.

    https://twitter.com/lessoulevements/status/1712817279556084122

    Bien qu’illégale, cette occupation « à durée déterminée » du glacier pourrait permettre à la justice d’aboutir à un jugement de fond sur l’ensemble des points contestés par les associations locales et environnementales. En ce sens, cette occupation a permis de faire « gagner du temps » à Mountain Wilderness (MW) et à La Grave Autrement (LGA) engagées depuis cinq ans contre le projet. Leurs actions menées depuis le 3 avril dernier, date du permis de construire accordée par la mairie de la Grave à la SATG, n’ont jusqu’alors pas été en mesure d’empêcher le début des travaux… alors même que leurs recours juridiques sur le fond ne vont être étudiés par la justice que l’année prochaine et que les travaux auraient pu avoir lieu en amont.

    Cette mobilisation des SLT a aussi contraint les promoteurs du projet à sortir du silence et à prendre position publiquement. Ils ont ainsi dénoncé « quatorze hurluberlus qui ne font rien de leur vie et entravent ceux qui travaillent », ce à quoi la presse montagne a répondu « les glaciers disent merci aux hurluberlus ».
    Sanctuarisation et manque de « cohérence »

    En Europe, cette mobilisation des SLT en haute montagne est inédite dans l’histoire des contestations socio-environnementales du tourisme, et plus largement dans celles des mouvements sociaux. Cela lui confère une forte dimension symbolique, en même temps que le devenir des glaciers est lui-même devenu un symbole du changement climatique et que leur artificialisation à des fins touristiques ou sportives suscite de plus en plus de critiques dans les Alpes. Dernier exemple en date, le creusement d’une piste de ski dans un glacier suisse à l’aide de pelles mécaniques afin de permettre la tenue d’une épreuve de la coupe du monde de ski.

    Une telle situation où un engin de travaux publics brise de la glace pour l’aplanir et rendre possible la pratique du ski alpin a déjà été observée à la Grave en septembre 2020. L’objectif était alors de faire fonctionner le vieux téléski du glacier de la Girose, que le troisième tronçon du téléphérique entend remplacer à terme… sauf que l’objectif de ce dernier est d’accroître le nombre de skieurs alpins sur un glacier qui subit de plein fouet le réchauffement climatique, ce qui impliquera ensuite la mise en place d’une sécurisation des crevasses à l’aide de pelleteuses. Dans ce contexte, la question que pose la mobilisation des SLT peut donc se reformuler ainsi : ne faut-il pas désormais laisser le glacier de la Girose libre de tout moyen de transport pour en faire un avant-poste de la transition touristique pour expérimenter une nouvelle approche de la montagne ?

    Cette question résonne avec la position du gouvernement français au One Planet Summit sur la nécessaire sanctuarisation des écosystèmes que représentent les glaciers… dont le projet d’aménagement du glacier de la Girose représente « quelques accrocs à la cohérence », reconnaît Christophe Béchu, ministre de la Transition écologique, du fait d’un dossier complexe.
    Un dialogue à rouvrir pour avancer

    Au lendemain de la fin de l’occupation du glacier par les SLT, le 14 octobre, une manifestation a été organisée à l’initiative des Enseignes de La Meije (association des commerçants de la Grave) pour défendre l’aménagement du troisième tronçon du téléphérique. Pour eux, comme pour la SATG et la municipalité, l’existence de la station est en péril sans celui-ci, ce que conteste LGA dans son analyse des retombées économiques sur le territoire. Le bureau des guides de la Grave est lui aussi divisé sur le sujet. Le débat ne se résume donc pas à une opposition entre les amoureux du glacier, là-haut, et ceux du business, en bas ; entre ceux qui vivent sur le territoire à l’année et les autres qui n’y sont que quelques jours par an ; entre des « hurluberlus qui ne font rien de leur vie » et ceux qui travaillent, etc.

    Comme partout en montagne, le débat à la Grave est plus complexe qu’il n’y paraît et appelle à rouvrir le dialogue si l’on prend au sérieux l’inévitable bifurcation du modèle de développement montagnard face aux effets du changement climatique. Considérer qu’il n’y a pas aujourd’hui deux montagnes irréconciliables n’implique pas d’être d’accord sur tout avec tout le monde en amont. Les désaccords peuvent être féconds pour imaginer le devenir du territoire sans que l’artificialisation du glacier soit l’unique solution pour vivre et habiter à La Grave.

    Si les travaux du troisième tronçon du #téléphérique étaient amenés à reprendre au printemps prochain, les SLT ont d’ores et déjà annoncé qu’ils reviendront occuper le glacier de la Girose.

    https://theconversation.com/plus-haute-zad-deurope-faut-il-encore-amenager-les-glaciers-alpins-
    #tourisme #aménagement_du_territoire #résistance

    • Écologie : dans un village des Hautes-Alpes, le #téléphérique de la discorde

      À La Grave, dans les Hautes-Alpes, des habitants se mobilisent contre la construction d’un téléphérique, vu comme un levier de #tourisme_de_masse. Éleveurs, mais aussi artisan ou guide de haute montagne, ils défendent un mode de vie alternatif et adapté à la crise climatique.

      Comme tous les matins d’hiver, Agathe Margheriti descend à ski, avec précaution, le sentier enneigé et pentu qui sépare sa maison de la route. Son sac à dos est chargé d’une précieuse cargaison : les œufs de ses 200 poules, qu’elle vend au porte-à-porte, une fois par semaine, aux habitant·es de la vallée de la Romanche. Chaque jour, elle descend la ponte du jour et la stocke dans des boîtes isothermes dans sa camionnette qui stationne en bord de route, au pied du chemin.

      Il y a six ans, cette jeune femme a fait un choix de vie radical. Avec son compagnon Aurélien Routens, un ancien snowboardeur professionnel, elle a acheté un hameau en ruine, le #Puy_Golèfre, dans le village de La Grave (Hautes-Alpes). « Pour 140 000 euros, c’est tout ce que nous avons trouvé à la portée de nos moyens. Il n’y a ni eau ni électricité, et il faut 20 minutes pour monter à pied depuis la route, mais regardez cette vue ! », montre Agathe, rayonnante.

      La petite maison de pierre retapée par le couple, orientée plein sud, chauffée au bois et dotée d’énergie solaire, offre un panorama époustouflant sur la face nord de la Meije, la plus impressionnante montagne des Alpes françaises, toute de glace et de roche, qui culmine à 3 983 mètres.

      Son sommet occupe une place à part dans l’histoire de l’alpinisme : il n’a été atteint qu’en 1877, un siècle après le mont Blanc. L’autre originalité du lieu, à laquelle Agathe et Aurélien tiennent tant, c’est que La Grave est le seul village d’Europe à être doté d’un téléphérique dont la gare d’arrivée, à 3 200 mètres d’altitude, débouche sur un domaine skiable sauvage. Ni piste damée ni canon à neige, mais des vallons de neige vierge aux pentes vertigineuses, paradis des snowboardeurs freeride qui font leurs traces dans la poudreuse.

      Ce paradis, Agathe et Aurélien veulent le préserver à tout prix. Avec une poignée d’amis du village, ils luttent depuis trois ans contre un projet qu’ils jugent aussi inutile qu’anachronique : la construction d’un troisième tronçon de téléphérique par son exploitant, le groupe #SATA, qui permettrait de monter jusqu’au #dôme_de_la_Lauze, à 3 559 mètres. Ce nouvel équipement, d’un coût de 14 millions d’euros (dont 4 millions d’argent public), permettrait de skier sur le #glacier de la #Girose, actuellement doté d’un #téléski vieillissant, dont l’accès est devenu problématique en raison du réchauffement climatique.

      Un téléphérique sur un glacier, alors que les Alpes se réchauffent deux fois plus vite que le reste de la planète et que les scientifiques alertent sur la disparition de la moitié des glaciers de montagne d’ici à 2100 ?

      Pour tenter d’empêcher la réalisation de ce projet fou, des habitant·es de la Grave, constitué·es dans le collectif #La_Grave_autrement, luttent sur deux fronts : judiciaire et médiatique. Deux recours ont été déposés devant le tribunal administratif pour contrer le projet de la SATA, un groupe qui exploite aussi les domaines skiables de l’Alpe d’Huez et des Deux-Alpes, emploie 800 personnes et réalise un chiffre d’affaires de 80 millions d’euros. Les jugements au fond n’interviendront pas avant le printemps 2024… Trop tard, peut-être, pour empêcher le démarrage des travaux.

      Alors, parallèlement, des militant·es se sont activé·es sur le terrain : en octobre, l’association #Mountain_Wilderness a déployé une banderole sur le glacier, puis #Les_Soulèvements_de_la_Terre ont symboliquement planté leurs tentes sur le rognon rocheux situé au milieu du glacier, sur lequel doit être édifié le pylône du téléphérique et où des botanistes ont découvert une plante rare et protégée, l’#androsace_du_Dauphiné.

      Enfin, en novembre, des habitant·es de La Grave, accompagné·es de la glaciologue Heidi Sevestre, ont symboliquement apporté un gros morceau de glace de la Girose à Paris, le jour de l’ouverture du One Planet-Polar Summit, et interpellé le gouvernement sur l’urgence de protéger les glaciers.

      Depuis, la neige est tombée en abondance sur la Meije et dans la vallée. À La Grave et dans le village voisin de Villar d’Arène, les opposant·es au projet prouvent, dans leur vie quotidienne, qu’une #alternative au tout-ski est possible et que la vallée peut se réinventer sans porter atteinte à ce milieu montagnard si menacé.

      Thierry Favre, porte-parole de La Grave autrement, vit dans une ancienne bergerie, au cœur du hameau des Hières, à 1 800 mètres d’altitude, qu’il a achetée il y a trente ans, après être tombé amoureux du site pour la qualité de sa neige et la verticalité de ses pentes. Après avoir travaillé dans l’industrie de la soierie à Lyon et à Florence, il a fondé ici sa propre entreprise de création d’étoffes, #Legend’Enhaut, qui fabrique des tissus haut de gamme pour des décorateurs. « Nous sommes bien situés, sur un grand axe de circulation entre Grenoble et Briançon. Nous avons l’immense chance de ne pas avoir vu notre cadre de vie massacré par les ensembles immobiliers qui défigurent les grandes stations de ski des Alpes. Mais il faut être vigilants. La Grave compte déjà 75 % de #résidences_secondaires. Et le projet de nouveau téléphérique s’accompagnera inévitablement de la construction d’une résidence de tourisme. Il y a urgence à proposer un autre modèle pour l’avenir. »

      À 60 ans, Thierry Favre s’applique à lui-même ce souci de sobriété dans son activité professionnelle. « Mon entreprise marchait bien mais j’ai volontairement mis le pied sur le frein. Je n’ai conservé que deux salariés et deux collaborateurs extérieurs, pour préserver ma qualité de vie et garder du temps pour militer. »

      À deux kilomètres de là, à la ferme de Molières, Céline Gaillard partage la même philosophie. Après avoir travaillé à l’office du tourisme de Serre-Chevalier et à celui de La Grave, cette mère de deux enfants s’est reconvertie dans l’élevage de chèvres. Elle et son mari Martin, moniteur de ski trois mois par an, exploitent un troupeau de 50 chèvres et fabriquent des fromages qu’ils vendent sur place. Pendant les six mois d’hiver, les bêtes vivent dans une vaste chèvrerie, où elles ont de l’espace pour bouger, et en été, elles paissent sur les alpages voisins. « Je ne veux pas en avoir plus de cinquante, par souci du bien-être animal. Nous pourrions produire plus de fromages, car la demande est forte. Mais le travail saisonnier de Martin nous apporte un complément de revenus qui nous suffit. »

      Avec les œufs de ses poules, Agathe fait le même constat : « Je pourrais en vendre dix fois plus. L’an dernier, nous avons planté de l’ail et des framboisiers : nous avons tout vendu très vite. Ce serait bien que d’autres éleveurs s’installent. Si nous avions une production locale plus fournie, nous pourrions ouvrir une épicerie coopérative au village. »

      Contrairement à Agathe qui milite dans le collectif La Grave autrement, Céline, la chevrière, ne s’oppose pas ouvertement au nouveau téléphérique. Mais elle n’est « pas d’accord pour se taire » : « Nous n’avons pas pu avoir un vrai débat sur le projet. Il faudrait un moratoire, le temps d’échanger avec la population. Je ne comprends pas cette volonté d’exploiter la montagne jusqu’à son dernier souffle. »

      Céline et Martin Gaillard ne sont pas seuls à pratiquer l’élevage autrement dans le village. Au hameau des #Cours, à #Villar_d’Arène, un autre jeune couple, originaire de l’ouest de la France, s’est installé en 2019. Sylvain et Julie Protière, parents d’un enfant de 4 ans, ont repris la ferme du Lautaret, dans laquelle ils élèvent 35 vaches d’Herens, une race alpine particulièrement adaptée à la rudesse du climat montagnard.

      Alors que la plupart des fermiers traditionnels de La Grave et de Villar d’Arène élèvent des génisses qu’ils revendent à l’âge de 3 ans et n’exploitent donc pas le lait, Sylvain et Julie traient leurs vaches et fabriquent le fromage à la ferme. Cela leur procure un meilleur revenu et leur permet de fournir en fromage les consommatrices et consommateurs locaux. « Nous vendons toute notre production aux restaurants, refuges et gîtes dans un rayon de 5 kilomètres, et nous n’en avons pas assez pour satisfaire la demande », témoigne Sylvain.

      À mesure que le combat des opposants et opposantes au nouveau téléphérique se médiatise et se radicalise, les tensions s’avivent au sein de la communauté villageoise. Les partisans du téléphérique accusent les opposants de vouloir la mort de l’économie de la vallée. Selon eux, sans le troisième tronçon, le téléphérique actuel n’est plus viable.

      Aucun·e des opposant·es que Mediapart a rencontré·es, pourtant, ne souhaite l’arrêt des remontées mécaniques. Benjamin Ribeyre, guide de haute montagne et cofondateur du collectif La Grave autrement, pense au contraire que l’actuel téléphérique pourrait servir de base à un développement touristique tourné vers la transition écologique. « L’actuelle plateforme d’arrivée, à 3 200 mètres, permet un accès facile au glacier de la Girose. C’est unique en France, bien mieux que la gare du Montenvers de Chamonix, d’où l’on ne voit de la mer de glace que des moraines grises. Ici, grâce au téléphérique, nous pourrions proposer des sorties d’éducation au climat, en particulier pour les enfants des écoles. Le réchauffement climatique bouleverse notre activité de guides de haute montagne. Nous devons d’urgence nous réinventer ! »

      Niels Martin, cofondateur de La Grave autrement, conteste, pour sa part, les calculs économiques des promoteurs du projet. Père de deux jeunes enfants, il partage sa vie entre La Grave et la Savoie, où il travaille dans une institution de la montagne. « Ce troisième tronçon n’est pas indispensable à la survie du téléphérique. Le fait que La Grave soit restée à l’écart des grands aménagements du plan neige des années 1970 doit devenir son principal attrait. » Au nom du collectif, Niels vient d’envoyer une lettre au préfet coordonnateur du massif des Alpes dans laquelle il propose que le village devienne en 2024 un site pilote des États généraux de la transition du tourisme en montagne, où se concoctent des solutions d’avenir pour faire face au réchauffement climatique dans les Alpes. Les Soulèvements de la Terre, eux, n’ont pas dit leur dernier mot. Dès la fonte des neiges, ils ont promis de remonter sur le glacier de la Girose.

      https://www.mediapart.fr/journal/ecologie/251223/ecologie-dans-un-village-des-hautes-alpes-le-telepherique-de-la-discorde

    • #Guillaume_Gontard : Glacier de la #Girose - La #Grave :

      J’ai interrogé le ministre @Ecologie_Gouv sur l’avenir du glacier de la #Girose dans les #Alpes.
      Ce lieu unique est menacé par un projet de prolongation d’un téléphérique permettant de skier sur un glacier dont les jours sont comptés.

      https://twitter.com/GuillaumGontard/status/1740306452957348349

  • Paris Underground (1945) AKA Madame Pimpernel
    http://rarefilmm.com/2018/04/paris-underground-1945

    Constance Bennett occupe une place impressionnante dans le développement du cinéma états-unien d’Hollywood et indépendant. Elle a réussi d’abord dans le cinéma muet. Sa carrière d’actrice a connu un développement sensationnel dans le cinéma sonore avec des comédies légères. En tant que businesswoman et productrice elle a été un exemple brillant du american dream . Elle a été la productrice de Paris Underground et y a joué le rôle principal.

    C’est une comédie qui n’égale pas To Be or Not to Be d’Ernst Lubitsch, mais c’est une sophisticated comedy amusante portée par le sentiment de soulagement après la défaite de l’occupant allemand.

    Bennett and Gracie Fields play, respectively, an American and an English citizen trapped in Paris when the Nazis invade. The women team up to help Allied aviators escape from the occupied city into Free French territory.

    Constance Bennett
    https://en.wikipedia.org/wiki/Constance_Bennett

    Constance Campbell Bennett (October 22, 1904 – July 24, 1965) was an American stage, film, radio, and television actress and producer. She was a major Hollywood star during the 1920s and 1930s; during the early 1930s, she was the highest-paid actress in Hollywood.
    ...
    Shrewd investments had made her a wealthy woman, and she founded a cosmetics and clothing company.
    ...
    Personal life
    Bennett and her daughters with painting (background) of her and her son, 1944
    Bennett was married five times and had three children.
    Chester Hirst Moorehead
    On June 15, 1921, Bennett eloped with Chester Hirst Moorehead of Chicago, a student at the University of Virginia[8] who was the son of oral surgeon, Frederick Moorehead.[9] They were married by a justice of the peace in Greenwich, Connecticut. Bennett was 16 at the time.
    ...
    Henri de la Falaise
    In 1931, Bennett made headlines when she married one of Gloria Swanson’s former husbands, Henri le Bailly, the Marquis de La Coudraye de La Falaise, a French nobleman and film director. She and de la Falaise founded Bennett Pictures Corp. and co-produced two films which were the Hollywood films shot in the two-strip Technicolor process, Legong: Dance of the Virgins (1935) filmed on location in Bali, and Kilou the Killer Tiger (1936), filmed in Indochina. The couple divorced in Reno, Nevada in 1940.

    Bennett Pictures Corp. avec Henry de La Falaise
    https://fr.wikipedia.org/wiki/Henry_de_La_Falaise
    Legong (1935) tourné à Bali
    https://en.wikipedia.org/wiki/Legong_(film)
    Kilou the Killer Tiger / Kliou the Tiger (1936) tourné en Indochine
    https://www.imdb.com/title/tt0431202/mediaviewer/rm1184308737

    #cinéma #Hollywood #femmes #guerre #résistance #comédie #nazis

  • Carte des saccages des JOP 2024 - La Grappe
    https://lagrappe.info/?Carte-des-saccages-des-JOP-2024-462

    Pourquoi cette carte ?

    Les Jeux Olympiques et Paralympiques (JOP) sont très complexes : ils transforment des quartiers, des villes, parfois des régions. Leurs impacts sociaux et écologiques sont multiples et souvent liés à d’autres grands projets d’aménagement. Cette carte a donc été créée parce que beaucoup de gens nous disent qu’iels ont du mal à se représenter les conséquences des JOP. On pense qu’elle est nécessaire, parce que les cartes et visuels produits par celleux qui organisent les JOP 2024 et réalisent leurs aménagements ne permettent pas de bien comprendre ce qui est construit, où, quelles activités y auront lieu, qui n’y sera pas bienvenu·e. Ces images cachent aussi tout ce qui vient avec les JOP : gentrification, surveillance, gâchis d’argent public, mauvaises conditions de travail sur les chantiers, expulsions des plus pauvres, urbanisation d’espaces naturels, emplois précaires, etc. On voudrait donc que cette carte soit un outil militant, une contre-carte qui donne la parole aux collectifs, aux personnes, aux lieux concernés, et propose un récit alternatif à celui de l’État, des collectivités, des sponsors et des entreprises de construction.

    #jeux_olympiques #grands_projets #GPII #cartographie #cartographie_radicale #urbanisme

    cc @reka @cdb_77

  • Que vive la révolte
    https://laviedesidees.fr/Candice-Delmas-Le-devoir-de-resister

    On peut penser que les citoyens des démocraties libérales ont l’obligation générale d’obéir aux lois, et qu’ils ont le droit d’y résister quand elles sont injustes. Mais ont-ils de surcroît le devoir d’y désobéir, même de façon « incivile », violente ? C’est la thèse de la philosophe Candice Delmas. À propos de : Candice Delmas, Le devoir de résister : Apologie de la désobéissance incivile, Hermann

    #Philosophie #justice #résistance #citoyenneté #Rawls #désobéissance_civile
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231108_delmas-2.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231108_delmas-2.docx

  • L’Italie enterre son revenu de citoyenneté

    Le 31 décembre 2023, l’équivalent italien du #RSA , supprimé pendant l’été pour la plupart des bénéficiaires, disparaîtra définitivement. Reportage à Pescara, dans le centre-sud du pays, où la mairie a mis en place une politique de #substitution.

    L’histoire de Juanito La Selva est celle d’une vie revenue doucement à l’équilibre, après des années de précarité. « C’est une renaissance », soufflent les travailleurs sociaux qui l’ont entouré ces dernières années. Depuis l’instauration du revenu de citoyenneté, en mars 2019, il a touché presque tous les mois 500 euros.

    « J’ai toujours fait en sorte que ça suffise pour couvrir toutes mes dépenses, pour ne pas devoir solliciter les services sociaux », raconte, non sans une pointe de fierté, Juanito La Selva. Son petit appartement à loyer modéré, situé dans un quartier populaire de Pescara, lui coûte vingt euros par mois. Alors, avec le revenu de citoyenneté, il a eu, enfin, des comptes qui tournaient rond. « J’ai même pu acheter un nouvel appareil électroménager », glisse-t-il.

    Mais depuis le 27 juillet, comme près de 169 000 foyers italiens, Juanito La Selva a reçu un SMS pour l’informer de la fin du revenu de citoyenneté. « On est dans une phase d’attente, pour l’instant, c’est la mairie qui me soutient », commente pudiquement le quinquagénaire. Au cœur de l’été, le gouvernement de Giorgia Meloni, la cheffe de file du parti d’extrême droite Fratelli d’Italia, a mis en application l’une de ses promesses de campagne : en finir avec le revenu de citoyenneté, introduit par le gouvernement d’alliance du Mouvement 5 Étoiles et de la Ligue de Matteo Salvini.

    Pensé comme un outil de « lutte contre la pauvreté, les inégalités et l’exclusion sociale et de politique active du travail », c’est un peu l’équivalent italien du RSA. Destiné aux foyers déclarant moins de 9 360 euros par an, le revenu de citoyenneté permettait de toucher un maximum de 780 euros par mois. Dans les faits, selon l’Institut national de prévoyance sociale, d’avril 2019 à juin 2023, la moyenne nationale perçue s’élevait à 571,58 euros.

    « Quand ils ont reçu la nouvelle, les bénéficiaires étaient déboussolés, frustrés, ils n’avaient aucune idée de ce qui allait se passer pour eux », explique Pierluigi Romagnolo, travailleur social pour la mairie de Pescara. À Naples, Palerme ou Rome, des manifestant·es descendent dans la rue et crient leur colère et leur désarroi. Rapidement, le conseil municipal de Pescara vote une délibération pour augmenter le budget des services sociaux.

    D’abord, les travailleuses et travailleurs sociaux passent de 9 à 23 en quelques mois. Ensuite, un budget est dégagé pour aider les habitant·es en grande difficulté à payer les factures. « Cela a finalement été moins sollicité que ce à quoi on s’attendait », s’étonne l’adjoint aux politiques sociales de la ville, Adelchi Sulpizio.

    Un « #chèque_d’inclusion » plus restrictif

    Les foyers qui accueillent une personne handicapée, au moins un mineur et les plus de 60 ans ont encore un sursis jusqu’au 31 décembre. Ce sont les potentiels futurs bénéficiaires du « chèque d’inclusion » qui entrera en vigueur le 1er janvier. Ils sont 1 300 à Pescara.

    Parmi eux, Gino Silipo. À bientôt 62 ans, il touche encore 414 euros par mois. Sa femme, 400 euros pour un temps partiel de femme de ménage. « On mène une vie simple, sans prétention, on paie nos factures et à la fin du mois, on arrive parfois à mettre cinquante euros de côté », raconte celui qui a été tour à tour policier, ouvrier dans des usines lombardes et travailleur dans le bâtiment.

    Dès le 1er janvier, il devrait bénéficier du « chèque d’inclusion », d’un montant maximal de 500 euros – lequel est assorti de 280 euros pour les personnes locataires de leur logement. Ce dispositif est limité à une durée de 18 mois, renouvelable une fois pour un an. À celles et ceux qui n’y sont pas éligibles, les centres pour l’emploi proposeront des formations d’une durée maximale d’un an et rémunérées 350 euros par mois.

    Le message est clair : « Faire la différence entre ceux qui sont capables de travailler et ceux qui ne le sont pas », selon les mots de Giorgia Meloni. Vilipendé par le centre-droit, « symbole de l’assistanat », le revenu de citoyenneté n’a jamais eu bonne presse en Italie. Toutes les semaines ou presque, les médias nationaux ont partagé des histoires de fraudes au point de faire naître l’expression des « petits fourbes du revenu de citoyenneté ». Ils étaient pourtant une infime minorité. En quatre ans et demi, le montant des allocations indûment perçues pour le revenu et la retraite de citoyenneté s’est élevé à 505 millions d’euros, sur une dépense publique totale de 31,5 milliards d’euros soit à peine 1,6 % du total.

    Les chiffres officiels dressent un tableau un peu plus complexe du profil des bénéficiaires . D’abord, en avril 2019, le ministère du travail avait publié leur répartition par âge : 61 % avaient entre 45 et 67 ans. À cette période, selon les chiffres de l’Institut national de prévoyance sociale, le nombre de bénéficiaires s’élevait à 512 569 foyers, contre 895 723 au mois de juin 2023. Sans surprise, c’est au cœur de la pandémie de Covid-19 que les bénéficiaires ont été le plus nombreux.

    « Ça a été une bouée de sauvetage à ce moment-là », se souvient Gino Silipo, qui a touché le revenu de citoyenneté pour la première fois en janvier 2020. Dans la foulée, il avait été appelé par le centre pour l’emploi, avait refait son CV, lancé des recherches de travail, avant que tout ne soit suspendu, jusqu’à l’hiver 2021. « Nous payons encore les conséquences de la pandémie de Covid-19. Certains habitants ont demandé de l’aide à nos services pour la toute première fois dans la foulée des fermetures liées aux mesures de restriction et depuis, ils n’ont pas toujours remonté la pente », analyse l’adjoint aux politiques sociales de la ville, Adelchi Sulpizio, depuis son bureau qui surplombe la place Italie.

    De 2019 à 2023, les habitant·es de Pescara qui ont fait appel aux services sociaux de la ville sont passés de 8 000 à 13 000, sur une population totale de 120 000 personnes. Pourtant, c’est sans regret que Roberta Pellegrino, la directrice des services sociaux de la mairie, voit le revenu de citoyenneté disparaître : « Cela devait inclure une politique active du travail : d’un côté, une aide économique, de l’autre, une aide pour trouver un emploi ou une formation, sauf que mettre en place ce système sans d’abord repenser le marché du travail et le rôle des centres pour l’emploi, ça a été un échec total. »
    Les petits boulots de Pescara

    Selon des chiffres publiés en mars 2023 par l’Institut national pour l’analyse des politiques publiques, qui a interrogé les services sociaux et centres pour l’emploi, entre 3 % et 8 % estimaient que le revenu de citoyenneté a produit des résultats concrets pour les bénéficiaires concernant l’emploi ou la formation. Car elles et ils devaient signer un pacte pour l’emploi ou, le cas échéant, un pacte d’inclusion sociale. Ce dernier prévoyait d’adhérer à un PUC, un projet d’intérêt général. Sur ce front, la mairie de Pescara a été l’une des plus actives d’Italie et souhaite continuer de l’être.

    « Nous avons été la première ville d’Italie à mettre sur pied une force de travail composée de près de 400 personnes ! », commente le maire, Carlo Masci, du parti de droite libérale Forza Italia. « Le projet “Grands-parents vigilants” a déployé 70 bénéficiaires du revenu de citoyenneté pour aider les enfants à traverser devant les écoles, 40 autres ont participé au projet de pédibus, d’autres sont devenus des “sentinelles de quartier”, sortes de concierge dans les immeubles pour signaler les problèmes, ou ont participé au nettoyage des rues », détaille le travailleur social Pierluigi Romagnoli, coordinateur du projet PUC.

    Juanito La Selva a été affecté à la manutention des routes, à la propreté des rues, aux travaux de peinture puis a effectué un stage au service de propreté d’un hôpital. « Je fais tout pour me réinsérer sur le marché du travail. Se dire qu’on a un mieux économique, c’est bien, mais ce qui est important c’est qu’à un moment, ça débouche sur une embauche », espère celui qui se forme aussi chez un tailleur.

    Gino Silipo, lui, a encore cinq ans avant de pouvoir prendre sa retraite, au taux le plus bas. Depuis deux ans, il a réalisé son PUC comme concierge à la mairie. Il sait que ses chances de retrouver un emploi sur le marché du travail classique sont faibles : « Je ne sais pas encore si je pourrai continuer en janvier, moi ça me plaît, c’est une aide qu’on reçoit mais aussi qu’on donne et vu mon âge, ça me va très bien. »

    Tous les deux le savent : le retour sur le marché du travail est ardu. Dans un rapport sur le revenu de citoyenneté, publié en février 2022, l’Institut national pour l’analyse des politiques publiques conclut que « le travail ne parvient pas à maintenir les travailleurs en dehors de la pauvreté, le phénomène des travailleurs pauvres est largement répandu en Italie puisque parmi les bénéficiaires du revenu de citoyenneté, 30 % sont des travailleurs classiques et 15,4 % des travailleurs précaires ».

    Pour rappel, l’Italie n’a toujours pas adopté de salaire minimum. Alors, pour permettre aux près de 400 habitant·es de la ville qui ont participé aux projets d’intérêt général « d’avoir une continuité et une vraie rétribution économique », Roberta Pellegrino rêve de mettre sur pied une coopérative sociale. Elle pourrait être financée par le GOL, un plan de soutien au retour à l’emploi financé à hauteur de quatre milliards d’euros par le plan de relance national.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/071123/l-italie-enterre-son-revenu-de-citoyennete
    #revenu_de_base #revenu_de_citoyenneté #Italie #Pescara #résistance #résistance_locale #Pescara #suppression

    • Reddito di cittadinanza: a Pescara anche il Comune pensa a come aiutare chi lo ha perso

      Lo stop al reddito di cittadinanza ha coinvolto 169mila famiglie italiane. A Pescara sono 2.100 i nuclei interessati. Il Comune promette: “Non lasceremo indietro nessuno”

      Il Governo ha previsto nuovi strumenti, l’assegno di inclusione per chi continua ad aver diritto ad un sussidio e la formazione per i soggetti cosiddetti ‘occupabili’. Tra la fine dell’erogazione del rdc (ieri) e l’attivazione delle nuove misure c’è però un lasso di tempo, un gap, che in qualche modo rischia di gravare maggiormente sulle persone fragili.

      Il Comune di Pescara, in particolare l’assessorato alle politiche sociali ribadisce: “Noi non lasceremo indietro nessuno”. Più dettagliatamente come nel servizio del Tg8.

      Nel pomeriggio di oggi si è svolta in Comune una riunione con la struttura dei servizi sociali che ha individuato gli stanziamenti di bilancio da destinare alle attività di contrasto alla povertà acuite dalla cessazione dell’erogazione del Reddito di cittadinanza. Ammontano a circa 190mila euro le risorse disponibili e serviranno a soddisfare le esigenze di circa 350 400 nuclei familiari. Non sarà necessaria alcuna variazione di bilancio in quanto le somme sono già stanziate nei capitoli dei sociale.

      https://www.youtube.com/watch?v=_UCK92GB59A&embeds_referring_euri=https%3A%2F%2Fwww.rete8.it%2F&sou

      https://www.rete8.it/cronaca/pescara/reddito-di-cittadinanza-a-pescara-anche-il-comune-pensa-a-come-aiutare-chi-lo-

  • Los estibadores de Barcelona deciden “no permitir la actividad” de barcos que envíen armas a Palestina e Israel

    Los estibadores del puerto de Barcelona han decidido “no permitir la actividad de barcos que contengan material bélico”. Así lo han explicado en un comunicado que se ha hecho público tras una asamblea del comité de empresa.

    La Organización de #Estibadores_Portuarios_de_Barcelona (#OEPB), el sindicato mayoritario entre los 1.200 estibadores barceloneses, apunta que han tomado esta decisión para “proteger a la población civil, sea del territorio que sea”.

    Con todo, los trabajadores aseguran un “rechazo absoluto a cualquier forma de violencia” y ven como una “obligación y un compromiso” defender “con vehemencia” la Declaración Universal de los Derechos Humanos. Unos derechos, dicen, que están siendo “violados” en Ucrania, Israel o en el territorio palestino.

    De esta manera, los trabajadores se comprometen a no cargar, descargar ni facilitar las tareas de cualquier buque que contenga armas. Ahora bien, los estibadores no tienen “capacidad para saber de facto que hay en los contenedores”, han afirmado a este diario.

    Los trabajadores se ponen en manos de ONG y entidades de ayuda humanitaria que sí puedan tener conocimiento sobre envíos de armas desde el puerto barcelonés. En esta línea, recuerdan el boicot que ya llevaron a cabo en 2011 en el marco de la guerra de Libia, durante la cual colaboraron con diversas entidades para entorpecer el envío de material bélico y, a su vez, se facilitó el envió de agua y alimentos.

    A pesar de que el Gobierno ha asegurado que no prevé exportar a Israel armas letales que se puedan usar en Gaza, los estibadores son conscientes de que, sólo en 2023, España ha comprado material militar a Israel por valor de 300 millones de euros, unido a otros 700 millones comprometidos en adquisición de armamento para los próximos años.

    Los trabajadores insisten en que con este comunicado no se están posicionado políticamente en el conflicto, simplemente abogan por el alto al fuego y la distribución de ayuda humanitaria. “No es un comunicado político, sólo queremos que se agoten todas las vías de diálogo antes de usar la violencia”.

    Este argumento fue el mismo que estos trabajadores portuarios usaron para negarse a dar servicio a los cruceros en los que la Policía Nacional se alojó durante los días previos al 1 de Octubre. En aquella ocasión también aseguraron que tomaban la decisión “en defensa de los derechos civiles”.

    Con este gesto, los estibadores se suman a otros colectivos de trabajadores portuarios, como los belgas, que también han anunciado que no permitirán el envío de material militar a Israel o Palestina. La del boicot es una estrategia que no es nueva: estibadores de diversos lugares del mundo ya la han llevado a cabo en momentos crudos del conflicto durante los últimos años. Por ejemplo durante el conflicto en la Franja de Gaza de 2008 y 2009, estibadores de Italia, Sudáfrica y Estados Unidos ya se negaron a a manipular cargamentos provenientes de Israel.

    https://www.eldiario.es/catalunya/estibadores-barcelona-deciden-no-permitir-actividad-barcos-envien-armas-pal
    #Barcelone #résistance #armes #armement #Israël #Palestine

    • Espagne : les #dockers du #port de Barcelone refusent de charger les #navires transportant des armes à destination d’Israël

      - « Aucune cause ne justifie la mort de civils », déclare le syndicat des dockers OEPB dans un #communiqué

      Les dockers du port espagnol de Barcelone ont annoncé qu’ils refuseraient de charger ou de décharger des navires transportant des armes à destination d’Israël, à la lumière des attaques de ce pays contre Gaza.

      « En tant que collectif de travailleurs, nous avons l’obligation et l’engagement de respecter et de défendre avec véhémence la Déclaration universelle des droits de l’homme », a déclaré l’OEPB, le seul syndicat représentant quelque 1 200 dockers du port, dans un communiqué.

      « C’est pourquoi nous avons décidé en assemblée de ne pas autoriser les navires contenant du matériel de guerre à opérer dans notre port, dans le seul but de protéger toute population civile », a ajouté le communiqué, notant qu’"aucune cause ne justifie la mort de civils".

      L’OEPB appelle à un cessez-le-feu immédiat et à un règlement pacifique des conflits en cours dans le monde, et notamment du conflit israélo-palestinien.

      Les Nations unies devraient abandonner leur position de complicité, due à l’inaction ou à leur renoncement dans l’exercice de leurs fonctions, a ajouté le communiqué.

      Israël mène, depuis un mois, une offensive aérienne et terrestre contre la Bande de Gaza, à la suite de l’attaque transfrontalière menée par le mouvement de résistance palestinien Hamas le 7 octobre dernier.

      Le ministère palestinien de la Santé a déclaré, mardi, que le bilan des victimes de l’intensification des attaques israéliennes sur la Bande de Gaza depuis le 7 octobre s’élevait à 10 328 morts.

      Quelque 4 237 enfants et 2 719 femmes figurent parmi les victimes de l’agression israélienne, a précisé le porte-parole du ministère, Ashraf al-Qudra, lors d’une conférence de presse.

      Plus de 25 956 autres personnes ont été blessées à la suite des attaques des forces israéliennes sur Gaza, a-t-il ajouté.

      Le nombre de morts israéliens s’élève quant à lui à près de 1 600, selon les chiffres officiels.

      Outre le grand nombre de victimes et les déplacements massifs, les approvisionnements en produits essentiels viennent à manquer pour les 2,3 millions d’habitants de la Bande de Gaza, en raison du siège israélien, qui s’ajoute au blocus imposé par Israël à l’enclave côtière palestinienne.

      https://www.aa.com.tr/fr/monde/espagne-les-dockers-du-port-de-barcelone-refusent-de-charger-les-navires-transportant-des-armes-%C3%A0-destination-disra%C3%ABl/3046909

    • #Genova, Barcellona, #Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di #Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo). Un’iniziativa simile è in atto nel porto di Sidney, in Australia, dove si protesta contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana #Zim. All’appello dei colleghi palestinesi hanno aderito ieri anche i lavoratori dello scalo di Barcellona, annunciando che impediranno “le attività delle navi che portano materiale bellico”. Come lavoratori, si legge nel comunicato degli spagnoli, “difendiamo con veemenza la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo“, aggiungendo che “nessuna causa giustifica il sacrificio dei civili”. In Belgio a rifiutarsi di caricare armi sono da alcune settimane gli addetti aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così come è molto attivo il coordinamento dei sindacati greci #Pame.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di #Tacoma, mossi dal sospetto che la #Cape_Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di #Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense #Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis. Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di #Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana #Elbit_Systems.

      https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/11/07/genova-barcellona-sidney-i-lavoratori-portuali-si-rifiutano-di-caricare-le-navi-con-le-armi-per-israele/7345757
      #Gênes

    • La logistica di guerra

      Venerdì 10 novembre i lavoratori del porto di Genova hanno lanciato un blocco della logistica di guerra. I porti sono uno snodo fondamentale della circolazione delle armi impiegate in ogni dove.
      A Genova è stato osservato un carico di pannelli per pagode militari che verrà destinato ad una delle navi della compagnia saudita Bahri.
      Dal terminal dei traghetti nelle scorse settimane sono stati caricati camion militari dell’Iveco destinati alla Tunisia, con ogni probabilità destinati alla repressione dei migranti.
      Le organizzazioni operaie palestinesi hanno fatto appello alla solidarietà internazionalista, alla lotta degli sfruttati contro tutti i padroni a partire da quelli direttamente coinvolti nel conflitto.
      Nel porto di Genova opera una compagnia merci, l’israeliana ZIM, che il 10 novembre gli antimilitaristi puntano a bloccare.
      Inceppare il meccanismo è un obiettivo concreto che salda l’opposizione alla guerra con la lotta alla produzione e circolazione delle armi.
      L’appuntamento per il presidio/picchetto è alle 6 del mattino al varco San Benigno.
      Ne abbiamo parlato con Christian, un lavoratore del porto dell’assemblea contro la guerra e la repressione.

      https://www.rivoluzioneanarchica.it/genova-fermare-la-logistica-di-guerra
      #logistique

    • Porti bloccati contro l’invio di armi a Israele

      Genova, Barcellona, #Oackland, #Tacoma, Sidney. I lavoratori portuali si rifiutano di caricare le navi con le armi per Israele

      L’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele” è stato raccolto dai sindacati in diversi paesi.

      Diverse organizzazioni di lavoratori portuali hanno indetto mobilitazioni e iniziative per protestare contro i bombardamenti della striscia di Gaza. Venerdì prossimo a Genova si svolgerà il presidio indetto dai portuali del capoluogo ligure. La mobilitazione raccoglie l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. I lavoratori dello scalo genovese si rifiutano di gestire l’imbarco di carichi di armi diretti in Israele (e non solo).

      “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invita alla partecipazione.

      Anche i lavoratori del porto australiano di Sidney, stanno protestando contro l’attracco di una nave della compagnia israeliana Zim. All’appello dei sindacati palestinesi. E’ di ieri la dichiarazione della Organización de Estibadores Portuarios di Barcellona (OEPB) i cui aderenti si rifiuteranno di caricare armi destinate al conflitto israelo-palestinese dal porto catalano. E’ la risposta all’appello lanciato dai sindacati palestinesi per fermare «i crimini di guerra di Israele» sin dall’inizio dell’invasione di Gaza

      In Belgio già da alcune settimane a rifiutarsi di caricare armi sono i lavoratori aeroportuali che nel comunicato spiegano “caricare e scaricare ordigni bellici contribuisce all’uccisione di innocenti“. Solidarietà con i lavoratori palestinesi è arrivata inoltre dal sindacato francese Cgt, così dal sindacato greco Pame che il 2 novembre ha bloccato l’aeroporto di Atene per protesta contro i bombardamenti israeliani.

      Negli Stati Uniti, nei pressi di Seattle, sono invece stati un centinaio di attivisti a bloccare il porto di Tacoma, mossi dal sospetto che la Cape Orlando, nave statunitense alla fonda, trasportasse munizioni ed armamenti per Israele. La nave era già stata fermata alcuni giorni prima nello scalo di Oakland, nella baia di San Francisco. Iniziative di questo genere si stanno moltiplicando. Nei giorni scorsi gli attivisti avevano bloccato tutte le entrate di un impianto della statunitense Boeing destinato alla fabbricazione di armamenti nei pressi di St Louis.

      Manifestazioni si sono svolte alla sede londinese di Leonardo, gruppo italiano che ad Israele fornisce gli elicotteri Apache. Il 26 ottobre scorso un centinaio di persone avevano invece bloccato l’accesso alla filiale britannica dell’azienda di armi israeliana Elbit Systems.

      Di fronte al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza, in tutto il mondo sta montando un’ondata di indignazione che chiede il boicottaggio degli apparati militari ed economici di Israele, con un movimento che somiglia molto a quello che portò alla fine del regime di apartheid in Sudafrica.

      A livello internazionale da anni è attiva in tal senso la campagna BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni) verso Israele che le autorità di Tel Aviv temono moltissimo e contro cui hanno creato un apposito dipartimento, lanciando una contro campagna di criminalizzazione del Bds in vari paesi europei e negli USA. Un tentativo evidentemente destinato a fallire.

      https://www.osservatoriorepressione.info/porti-bloccati-linvio-armi-israele

    • Genova: In centinaia bloccano il porto contro l’invio di armi a Israele

      E’ iniziato all’alba, presso il porto di Genova, il presidio per impedire il passaggio della nave della #ZIM, carica di armamenti e diretta a Israele.

      Dal varco San Benigno già centinaia le persone solidali con il popolo palestinese, tra lavoratori del porto, studenti, cittadini e realtà che vanno dal sindacalismo di base alle associazioni pacifiste e che si sono ritrovati questa mattina uniti sotto gli slogan “la guerra comincia da qui” “fermiamo le navi della morte”. Oltre al varco della ZIM bloccato anche il varco dei traghetti.

      Oltre al varco della ZIM, la principale compagnia logistica di Israele, è stato bloccato anche il varco dei traghetti.

      Il cielo di Genova si è anche illuminato di rosso (clicca qui per il video: https://www.facebook.com/watch/?v=348645561154990) con una serie di torce, a simulare quello che, tutti i giorni, accade a Gaza con l’occupazione militare israeliana: “i popoli in rivolta – dicono camalli e solidali – scrivono la storia”.

      «Sono cinque anni che facciano una serie di blocchi, scioperi, presidi, azioni anche con la comunità europea per contrastare i traffici. Principalmente contro la compagnia Bahri. Nel 2019 siamo riusciti a evitare che una nave dell’azienda saudita caricasse dal porto di Genova armi che sarebbero state utilizzate in Yemen», spiega Josè Nivoi, sindacalista dell’Usb dopo essere stato per 16 anni un lavoratore del porto: «Nella nostra chat abbiamo condiviso anche un piccolo manuale, scritto insieme all’osservatorio Weapon Watch, su come identificare i container che contengono armi. Perché ci sono degli obblighi internazionali, ad esempio, che costringono le compagnie ad applicare una serie di adesivi utili per quando i vigili del fuoco devono intervenire in caso di incendio. Che rendono riconoscibili i carichi. Mentre in altre navi le armi sono facilmente individuabili, visibili ad occhio nudo».

      Nel 2021 il Collettivo autonomo dei lavoratori portuali di Genova, insieme quelli di Napoli e Livorno ha anche cercato di bloccare una nave israeliana che stava trasportando missili italiani a Tel Aviv: «Non siamo riusciti a fermarla perché abbiamo saputo troppo tardi, dalle carte d’imbarco, che cosa trasportava. Ma da quel momento sono iniziate le nostre operazioni in solidarietà con il popolo palestinese. E abbiamo deciso di accogliere l’appello lanciato lo scorso 16 ottobre dai sindacati palestinesi per “smettere di armare Israele”. Rifiutando di gestire l’imbarco di carichi di armi. Non vogliamo essere complici della guerra».
      A convocare l’iniziativa l’Assemblea contro la guerra e la repressione. “Mentre da quasi due anni in Ucraina si combatte una guerra fra blocchi di paesi capitalisti, mentre lo stato d’Israele massacra i palestinesi, mentre la guerra nucleare è dietro l’angolo, il Porto di Genova continua a caratterizzarsi come snodo della logistica di guerra: imbarchi di camion militari diretti alla Tunisia per il contrasto dei flussi migratori, passaggio di navi della ZIM, principale compagnia navale israeliana, nuovi materiali militari per l’aeronautica Saudita pronti per la prossima Bahri. Questo è quello che sta dietro ai varchi del porto di Genova. Basta traffici di armi in porto. Solidarietà internazionalista agli oppressi/e palestinesi. Il nemico è in casa nostra. Guerra alla Guerra” si legge nel comunicato che invitava alla partecipazione.
      L’iniziativa di oggi raccoglie l’invito dei sindacati palestinesi, che nei giorni scorsi avevano diffuso un appello nel quale chiedono ai lavoratori delle industrie coinvolte di rifiutarsi di costruire armi destinate ad Israele, di rifiutarsi di trasportare armi ad Israele, di passare mozioni e risoluzioni al proprio interno volte a questi obiettivi, di agire contro le aziende complicitamente coinvolte nell’implementare il brutale ed illegale assedio messo in atto da Israele, in particolare se hanno contratti con la vostra istituzione, di mettere pressione sui governi per fermare tutti i commerci militari ed in armi con Israele, e nel caso degli Stati Uniti, per interrompere il proprio sostegno economico diretto.a lottare e a opporci con tutta la nostra forza a questa guerra, boicottandola praticamente con i mezzi che abbiamo a disposizione e quindi chiediamo a tutte e tutti di partecipare al presidio.

      Il collegamento dal porto di Genova con Rosangela della redazione di Radio Onda d’Urto e le interviste ai manifestanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosangela-da-Genova.mp3

      Le interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-due.mp3



      Il blocco del molo è poi diventato corteo fino alla sede della compagnia israeliana ZIM dove si è verificato un fitto lancio di uova piene di vernice rossa. La cronaca di Rosangela della Redazione di Radio Onda d’Urto: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Rosi-da-sede-Zim-Genova.mp3

      Ancora interviste ai partecipanti: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/interviste-Rosangela-tre.mp3

      Corrispondenza conclusiva con un bilancio dell’iniziativa di Riccardo del Collettivo autonomo lavoratori portuali: https://www.radiondadurto.org/wp-content/uploads/2023/11/Corrispondenza-conclusiva-di-Riccardo-Calp-Genova.mp3

      https://www.osservatoriorepressione.info/genova-centinaia-bloccano-porto-linvio-armi-israele
      #camalli

    • Shutting Down the Port of Tacoma

      Since October 7, the Israeli military has killed over 10,000 people in Palestine, almost half of whom were children. In response, people around the world have mobilized in solidarity. Many are seeking ways to proceed from demanding a ceasefire to using direct action to hinder the United States government from channeling arms to Israel. Despite the cold weather on Monday, November 6, several hundred people showed up at the Port of Tacoma in Washington State to block access to a shipping vessel that was scheduled to deliver equipment to the Israeli military.

      In the following text, participants review the history of port blockades in the Puget Sound, share their experience at the protest, and seek to offer inspiration for continued transoceanic solidarity.
      Escalating Resistance

      On Thursday, November 2, demonstrators protesting the bombing and invasion of Gaza blocked a freeway in Durham, North Carolina and shut down 30th Street Station in Philadelphia. Early on Friday, November 3, at the Port of Oakland in California, demonstrators managed to board the United States Ready Reserve Fleet’s MV Cape Orlando, which was scheduled to depart for Tacoma to pick up military equipment bound for Israel. The Cape Orlando is owned by the Department of Transportation, directed by the Department of Defense, and managed and crewed by commercial mariners. After an hours-long standoff, the Coast Guard finally managed to get the protesters off the boat.

      Afterwards, word spread that there would be another protest when the boat arrived in Tacoma. The event was announced by a coalition of national organizations and their local chapters: Falastiniyat (a Palestinian diaspora feminist collective), Samidoun (a national Palestinian prisoner support network), and the Arab Resource & Organizing Center, which had also participated in organizing the protest in Oakland.

      The mobilization in Tacoma was originally scheduled for 2:30 pm on Sunday, November 5, but the organizers changed the time due to updated information about the ship’s arrival, calling for people to show up at 5 am on Monday. Despite fears that the last-minute change would undercut momentum, several hundred demonstrators turned out that morning. The blockade itself consisted of a continual picket at multiple points, bolstered by quite a few drivers who were willing to risk the authorities impounding their cars.

      All of the workers that the ILWU deployed for the day shift were blocked from loading the ship. Stopping the port workers from loading it was widely understood as the goal of the blockade; unfortunately, however, this did not prevent the military cargo from reaching the ship. Acting as scabs, the United States military stepped in to load it, apparently having been snuck into the port on Coast Guard vessels.

      Now that the fog of war is lifting, we can review the events of the day in detail.

      Drawing on Decades of Port Blockades

      The Pacific Northwest has a long history of port shutdowns.

      In 1984, port workers in the International Longshore and Warehouse Union (ILWU) coordinated with anti-Apartheid activists and refused to unload cargo ships from South Africa. Between 2006 and 2009, the Port Militarization Resistance movement repeatedly blockaded the ports of Olympia and Tacoma to protest against the occupation of Iraq and Afghanistan. In 2011 and 2012, participants in Occupy/Decolonize Seattle organized in solidarity with port workers in the ILWU in Longview and shut down the Port of Seattle, among other ports.

      In 2014, demonstrators blockaded the Port of Tacoma using the slogan Block the Boat, singing “Our ports will be blocked to Israel’s ships until Gaza’s ports are free.” One of the participants was the mother of Rachel Corrie, a student who was murdered in Gaza by the Israeli military in 2002 while attempting to prevent them from demolishing the homes of Palestinian families. In 2015, an activist chained herself to a support ship for Royal Dutch Shell’s exploratory oil drilling plans, using the slogan Shell No. In 2021, Block the Boat protesters delayed the unloading of the Israeli-operated ZIM San Diego ship for weeks. The Arab Resource & Organizing Center played a part in organizing the Block the Boat protests.

      Today, the Port of Tacoma appears to be the preferred loading point for military equipment in the region—perhaps because the Port Militarization Resistance successfully shut down logistics at the Port of Olympia, while Tacoma police were able to use enough violent force to keep the Port of Tacoma open for military shipments to Iraq and Afghanistan. The various port blockades fostered years of organizing between ILWU workers, marginalized migrant truck workers, environmentalists, and anti-war activists. New tactics of kayaktivism emerged out of anti-extractivism struggles in Seattle, where seafaring affinity groups were able to outmaneuver both the Coast Guard and the environmental nonprofit organizations that wanted to keep things symbolic. On one occasion, a kayaking group managed to run a Shell vessel aground without being apprehended. Some participants brought reinforced banners to the demonstration on Monday, November 6, 2023, because they remembered how police used force to clear away less-equipped demonstrators during the “Block the Boat” picket at the Port of Seattle in 2021.

      Over the years, these port blockades have inspired other innovations in the genre. In November 2017, demonstrators blockaded the railroad tracks that pass through Olympia.1 At a time when Indigenous water protector and land defense struggles were escalating and locals wanted to act in solidarity, blockading the port seemed prohibitively challenging, so they chose a section of railroad tracks via which fracking proppants were sent to the port. This occupation was arguably more defensible and effective than a port blockade would have been, lasting well over a week. It may indicate a future field for experimentation.
      Gathering at the Port

      The Port of Tacoma and the nearby ICE detention center are located in an industrial area that also houses a police academy. They are only accessible through narrow choke points; in the past, police have taken advantage of these to target and harass protesters. The preceding action at the Port of Oakland took place in a more urban terrain; as protesters prepared for the ship to dock in Tacoma, concerns grew about the various possibilities for repression. Veterans of the Port Militarization Resistance and other logistically-minded individuals compiled lists of considerations to take into account when carrying out an action at this particular port.

      On Monday morning, people showed up with positive energy and reinforced banners. Hundreds of people coordinated to bring in supplies and additional waves of picketers. The plan was to establish a picket line at every of the three entrances into Pier 7. As it turned out, the police preemptively blocked the entrances, sitting in their vehicles behind the Port fence. Demonstrators marched in circles, chanting, while others gathered material with which to create impromptu barricades.

      Other anarchists remained at a distance, standing by to do jail support and advising the participants on security precautions. Others set up at the nearby casino, investigating and squashing rumors in the growing signal groups and helping to link people to the information or communication loops they needed. Whether autonomously or in conversation with the organizers, all of them did their best to contribute to the unfolding action.

      The demonstration successfully accomplished what some had thought might be impossible, preventing the ILWU workers from loading the military shipment. Unexpectedly, this was not enough. Even seasoned longshoremen were surprised that the military could be brought in to act as scabs by loading the ship.

      Could we have focused instead on blocking the equipment from reaching the port in the first place? According to publicly available shift screens, the cargo that was eventually loaded onto the ship had already arrived at the port before the action’s originally planned 2:30 pm start time on November 5. Considering that Sunday afternoon was arguably the earliest that anyone could mobilize a mass action on such short notice, it is not surprising that the idea of blocking the cargo was abandoned in favor of blocking the ILWU workers. Of course, if the information that military supplies were entering the port had circulated earlier, something else might have been possible.

      The organizers chose the approach of blocking the workers in spite of the tension it was bound to cause with the ILWU Local 23. Our contacts in the ILWU describe the Local 23 president as a Zionist; most workers in Local 23 were supposedly against the action, despite respecting the picket.2 The president allegedly went so far as to suggest bringing in ILWU workers on boats, a plan that the military apparently rejected.

      There were rumors that a flotilla of kayaks was organizing to impede the Orlando’s departure the following morning. In the end, a canoe piloted by members of the Puyallup, Nisqually, and other Coast Salish peoples and accompanied by a few kayakers blocked the ship’s path for a short time on November 6, but nothing materialized for November 7.

      This intervention is an important reminder of the ethical and strategic necessity of working with Indigenous groups who know the land and water and preserve a living memory of struggle against colonial violence that includes repeatedly outmaneuvering the United States military.

      The ship departed, but one Stryker Armored Personnel Carrier that was scheduled for work according the ILWU shift screens was not loaded, presumably due to the picket. Given the military work-crew’s inexperience in loading shipping containers, it’s unclear how much of the shipment was completely loaded in the time allotted for the ship, as ports hold to a strict schedule in order not to disrupt capital’s global supply chains.
      Evaluation

      The main organizers received feedback in the course of the protest and adapted their strategy as the situation changed, shifting their communication to articulate what they were trying to do and explaining their choices rather than simply appealing to their authority as an organization or as Palestinians. Nonetheless, some participants have expressed displeasure about how things unfolded. It was difficult to get comprehensive information about what was going on, and this hindered people from making their own decisions and acting autonomously. Some anarchists who were on the ground report that the vessel was still being loaded when the organizers called off the event; others question the choice not to reveal the fact that the military was loading the equipment while the demonstration still had numbers and momentum.

      It is hard to determine to what extent organizers intentionally withheld information. We believe that it is important to offer constructive feedback and principled criticism while resisting the temptation to make assumptions about others’ intentions (or, at worst, to engage in snitch-jacketing, which can undermine efforts to respond to actual infiltration and security breaches in the movement and often contributes to misdiagnosing the problems in play).

      Cooperating with the authorities—especially at the expense of other radicals—is always unacceptable. This is a staple of events dominated by authoritarian organizations. Fortunately, nothing of this kind appears to have occurred during the blockade on November 6. Those on either side of this debate should be careful to resist knee-jerk reactions and to avoid projecting bad intentions onto imagined all-white “adventurists” or repressive “peace police.”

      In that spirit, we will spell out our concern. The organizers simultaneously announced that the weapons had been loaded onto the ship, and at the same time, declared victory. This fosters room for suspicion that the original intention had been to “block the boat” symbolically without actually hampering the weapons shipment, in order to create the impression of achieving a “movement win” without any substantive impact. Such empty victories can deflate movements and momentum, sowing distrust in the hundreds of people who showed up on short notice with the intention of stopping weapons from reaching Israel. It might be better to acknowledge failure, admitting that despite our best efforts, the authorities succeeded in their goal, and affirming that we have to step up our efforts if we want to save lives in Gaza. We need organizers to be honest with us so we know what we are up against.

      It’s important to highlight that ultimately it was the military that loaded the ship, not the ILWU. This move was unprecedented, just like the military spying on demonstrators during the Port Militarization Resistance. But it should not have been unexpected. From now on, we should bear in mind that the military is prepared to intervene directly in the logistics of capitalism.

      This also highlights a weakness in the strategy of blocking a ship by means of a picket line and blockading the streets around the terminal. To have actually stopped the ship, a much more disruptive action would have been called for, potentially including storming the terminal itself and risking police violence and arrests. This isn’t to say that storming the port would have been practical, nor to argue that there is never any reason to blockade the terminal in the way that we did. Rather, the point is that the mechanics of war-capitalism are more pervasive and adaptable than the strategies that people employed to block it in Oakland and Tacoma. Any form of escalation will require more militancy and risk tolerance.

      At the same time, we should be honest about our capabilities, our limits, and the challenges we face. Although many people were prepared to engage in a picket, storming a secured facility involves different considerations and material preparation, and demands a cool-headed assessment of benefits versus consequences. We should not simply blame the organizers for the fact that it did not happen. A powerful enough movement cannot be held back, not even by its leaders.

      Considering that the United States military outmaneuvered the picket strategy—and in view of the grave stakes of what is occurring Palestine—”Why not storm the port?” might be a good starting point for future strategizing. Yet from this point forward, the port is only going to become more and more secure. Another approach would be to pan back from the port, looking for points of intervention outside it. In this regard, the rail blockade in Olympia in 2017 might offer a promising example.

      Likewise, while we should explore ways to resolve differences when we have to work together, we can also look for ways to share information and coordinate while organizing autonomously. We might not be able to reach consensus about what strategy to use, but we can explore where we agree and diverge, acquire and circulate intelligence, and try many different strategies at once.

      The logic and logistics of the ruling order are intertwined all the world over. Israeli weapons helped Azerbaijan invade the Armenian enclave of Nagorno-Karabakh in September. The technologies of surveillance, occupation, and repression, refined from besieging Gaza and fragmenting the West Bank, are deployed along the deadly southern border of the United States. The FBI calls Israeli tech firms when they need to hack into someone’s phone. Everything is connected, from the ports on the Salish Sea to the eastern coast of the Mediterranean.

      Here’s to mutiny in the belly of the empire. If not us, then who? If not now, then when?

      https://pugetsoundanarchists.org/shutting-down-the-port-of-tacoma

    • Des #syndicats du monde entier tentent d’empêcher les livraisons d’armes vers Israël

      #Liège, Gênes, Barcelone, #Melbourne, #Oakland, #Toronto et peut-être bientôt différents ports français… Depuis le début du bombardement de Gaza, des syndicats ont tenté de bloquer des livraisons d’armes vers Israël, rappelant la tradition de lutte internationaliste du syndicalisme. Des initiatives insuffisantes pour entraver l’armement du pays, mais qui ont le mérite de mettre les États exportateurs d’armes face à leurs responsabilités.

      Peut-on compter sur la solidarité internationaliste des syndicats pour mettre fin à l’attaque de Gaza ? C’est en tout cas ce que veut croire la coordination syndicale Workers in Palestine. Composée de dizaines de syndicats palestiniens rassemblant travailleurs agricoles, pharmaciens ou encore enseignants, elle a lancé un appel aux travailleurs du monde entier afin d’entraver l’acheminement de matériel militaire vers Israël.

      « Nous lançons cet appel alors que nous constatons des tentatives visant à interdire et à réduire au silence toute forme de solidarité avec le peuple palestinien. Nous vous demandons de vous exprimer et d’agir face à l’injustice, comme les syndicats l’ont fait historiquement », écrivait-elle le 16 octobre. Dans la foulée, elle appelait à deux journées d’actions internationales les 9 et 10 novembre pour empêcher les livraisons d’armes.

      Tradition de lutte anti-impérialiste du syndicalisme

      En rappelant la tradition internationaliste du syndicalisme, Workers in Palestine inscrit son appel dans l’histoire des luttes syndicales contre les guerres impérialistes et coloniales. Une tradition qui n’est pas étrangère aux syndicats Français. Ainsi, en 1949, une grève organisée par les dockers de la CGT sur le port de Marseille permettait de bloquer plusieurs bateaux destinés à acheminer des armes vers l’Indochine, alors en pleine guerre de décolonisation. Et ce mode d’action n’a pas été oublié depuis. En 2019, les dockers du port de Gênes se sont mis en grève afin de ne pas avoir à charger un navire soupçonné de transporter des armes (françaises) vers l’Arabie Saoudite. « On a aussi fait des actions pendant la guerre en Irak », se remémore Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE, un des syndicats belge qui a récemment refusé de transporter des armes vers Israël.

      Qu’ils répondent consciemment à l’appel de Workers in Palestine ou non, des syndicats et des collectifs citoyens ont organisé des actions sur des lieux stratégiques du commerce d’armes depuis le début des bombardements sur Gaza. Des blocages et des manifestations ont eu lieu sur les ports de Tacoma aux Etat-unis, ou encore à Melbourne, en Australie ou à Toronto au Canada. A Barcelone, des dockers ont déclaré vouloir refuser de charger ou de décharger tout matériel militaire en lien avec les bombardements à Gaza. Nous avons choisi de nous attarder sur quatre de ces initiatives.

      A Gênes, les dockers visent une entreprise de matériel militaire

      « De 2019 à aujourd’hui, nous avons bloqué presque deux fois par an les navires transportant des armes vers des zones de guerre comme le Yémen, le Kurdistan, l’Afrique et Gaza », explique Josè Nivoi, docker génois et syndicaliste à l’Unions Sindicale di Base (USB). C’est dans la continuité de ces actions qu’il s’est mobilisé avec ses collègues et son syndicat, à l’appel de Workers in Palestine. Vendredi 10 novembre, près de 400 personnes ont manifesté devant le port de Gênes pour protester contre l’envoi d’armes en Israël. Les dockers ont ensuite marché vers les locaux de Zim integrated Shipping Service, une entreprise israélienne de transport de marchandises et de matériel militaire.

      Après l’attaque du Hamas le 7 octobre, cette dernière a proposé son aide à Israël afin d’y acheminer du matériel. « Nous avons des camarades qui surveillent les navires et peuvent voir s’il y a des armes à bord », glisse le docker. Il ajoute que cette action s’inscrit dans la tradition, encore très forte à Gênes, des mobilisation anti-fasciste et anti-impérialsites : « Nous avons toujours été solidaires des peuples qui luttent pour l’autodétermination, et la question palestinienne fait partie de ces luttes. Nous sommes des travailleurs internationalistes et c’est pourquoi nous voulons nous battre pour essayer de changer les choses », explique le docker.

      En Angleterre, une usine d’armes bloquée temporairement

      Le même jour, près de 400 syndicalistes ont bloqué l’usine d’armes de l’entreprise BAE, à Rochester en Angleterre. L’usine d’arme fabrique notamment des « systèmes d’interception actif » pour les jet F35, « utilisés actuellement par Israël pour bombarder Gaza », écrivent les syndicats organisateurs de cette mobilisation. Art, culture, éducation, santé, sept organisations syndicales se sont retrouvées sous le mot d’ordre « Travailleurs pour une Palestine libre », répondant également à l’appel des syndicats palestiniens du 16 octobre.

      « L’industrie d’armement britannique, subventionnée par de l’argent public, est impliquée dans les massacres de Palestiniens. Nous sommes ici aujourd’hui pour perturber la machine de guerre israélienne et prendre position contre la complicité de notre gouvernement et nous exhortons les travailleurs de tout le Royaume-Uni à prendre des mesures similaires sur leurs lieux de travail et dans leurs communautés », explique une professeur qui manifestait vendredi à Dorchester.

      En Belgique les syndicats de l’aviation refusent de charger des armes vers Israël

      Si les avions de passagers ne relient plus Israël et la Belgique depuis l’attaque du Hamas, des avions cargos continuent de transporter des armes vers l’État hébreu, selon des syndicats. « On constate même une augmentation des vols cargo depuis Liège vers Tel Aviv », confie Christian Delcourt, porte-parole de l’aéroport de Liège, à la presse belge. Un phénomène qui n’a pas échappé aux travailleurs de ces sites. « Dans le courant du mois d’octobre, des manutentionnaires nous ont informés qu’ils chargeaient des armes dans des avions civils commerciaux. D’habitude, ces cargaisons doivent être transportées par des avions militaires. Mais quoi qu’il en soit, il n’était pas question pour eux de participer à une guerre, particulièrement quand on sait que des civils sont massacrés », explique Didier Lebbe, secrétaire permanent de la CNE. Le syndicat chrétien, majoritaire dans ces aéroports, prend alors contact avec trois autres syndicats du secteur pour rédiger un communiqué commun. « Alors qu’un génocide est en cours en Palestine, les travailleurs des différents aéroports de Belgique voient des armes partir vers des zones de guerre », écrivent-ils fin octobre. L’initiative fait en partie mouche : « parmi les deux compagnies aériennes qui effectuent ces livraisons, l’une d’elle les a arrêtées. L’autre, c’est une compagnie israélienne », soutient Didier Lebbe.

      En France, les dockers s’organisent

      En France, si aucun syndicat n’a pour l’instant appelé à des actions sur les lieux de travail, la fédération CGT Ports et docks pourrait bientôt rejoindre le mouvement international. La semaine prochaine, au port du Pirée à Athènes,12 organisations syndicales de dockers et portuaires européennes, membres de l’EDC (European Dockworkers Council )doivent se réunir pour une assemblée générale. « Au niveau français, on va pousser pour obtenir une journée d’arrêt de travail dans tous les ports européens pour manifester notre volonté d’un processus de paix, et dénoncer tous les conflits armés », affirme Tony Hautbois, secrétaire général de la fédération CGT Ports et docks. La possibilité d’un boycott des syndicats sur le transport d’armes vers Israël sera aussi en débat, il pourrait déboucher sur une position commune entre ces syndicats, qui regroupent 20 000 dockers à travers l’Europe.

      D’autres syndicats français ont également mis en avant la nécessité d’une action sur l’outil de travail pour empêcher les livraisons d’armes vers Israël. La fédération Sud-Rail a ainsi appelé à s’exprimer dans la rue « mais aussi avec les méthodes de la lutte des classes, comme la grève ». Sur le réseau social X (ex-Twitter), l’union locale CGT de Guingamp a relayé l’appel de Workers in Palestine.

      Des actions symboliques qui ne pèsent pas réellement sur le conflit…

      Pourtant, même si les initiatives syndicales essaiment, elles ne suffisent pas à entraver la capacité d’armement d’Israël. « Même si la vente de matériel militaire était bloquée en France, cela ne pèserait pas beaucoup. On estime que notre pays vend environ 20 millions d’euros de composants militaires par an à Israël. C’est incomparable avec ce que l’on vend aux Emirats arabes unis, par exemple », explique Patrice Bouveret, cofondateur de l’Observatoire des armements, centre d’étude antimilitariste basé à Lyon. A cela s’ajoutent les ventes de biens dits « à double usage », des composants qui peuvent servir pour produire du matériel militaire, ou non. « Mais il s’agit de matériel d’une telle précision qu’il est bien souvent utilisé uniquement pour les armes », commente Patrice Bouveret. Ces biens représentent une somme évaluée à 34 millions par le ministère de l’économie dans un rapport (voir tableau p. 38) remis aux parlementaires en juin 2023.

      « Le principal fournisseur d’armes à Israël, ce sont les États-Unis : près de 4 milliards d’euros de vente d’armes. Les américains entreposent également des stocks d’armes en Israël dans laquelle cette dernière peut puiser. Enfin, comme Israël a des capacités de production, elle peut importer des composants moins chers, qu’elle pourra elle-même transformer », continue Patrice Bouveret.

      …mais qui mettent les États face à leurs responsabilités

      Ces actions ont toutefois le mérite de poser la question de la responsabilité des États producteurs ou exportateurs d’armes dans les bombardements israéliens sur la bande de Gaza et sa population. Alors que 10 000 personnes sont mortes sous les bombes israéliennes, dont 4000 enfants, les termes « nettoyage ethnique », « génocide », ou « crimes de guerre » commencent à se faire entendre dans les plus hautes instances internationales. « La punition collective infligée par Israël aux civils palestiniens est également un crime de guerre, tout comme l’évacuation forcée illégale de civils », a déclaré Volker Türk, Haut Commissaire des Nations unies pour les réfugiés, le 8 novembre.

      Les accords et traités internationaux sont très clairs sur l’implication de pays tiers dans la commission de crimes de guerre, notamment par le biais de la vente d’armes. Le traité sur le commerce des armes (TCA), interdit tout transfert d’armes qui pourrait être employé dans le cadre de crimes de guerre. Amnesty international a déjà alerté sur l’implication de la France dans la vente d’armes à l’Arabie Saoudite, accusée de bombarder sans distinction la population civile au Yémen, où elle mène une guerre contre les rebelles Houthis, depuis huit ans.

      Quant à savoir si les bombardement israéliens constituent un crime de guerre ou un génocide, c’est à la cour pénale Internationale d’en décider. Une plainte pour « génocide » a déjà été déposée par une centaines de palestiniens, tandis que la France enquête déjà sur de possibles « crimes de guerre » du Hamas. Reporter sans Frontière a aussi déposé une plainte pour « crimes de guerres » après la mort de journalistes palestiniens et israéliens. Enfin, l’ONU enquête actuellement en Israël et en Palestine sur de possibles crimes de guerres, en lien avec l’attaque du Hamas le 7 octobre, ou les bombardements israéliens sur la bande de Gaza depuis un mois.

      https://rapportsdeforce.fr/linternationale/des-syndicats-du-monde-entier-tentent-dempecher-les-livraisons-darme

  • #Marseille contre #Airbnb

    Cela fait des années que la question du logement insalubre et de la #gentrification galopante hérisse Marseille, tant il devient difficile de s’y loger décemment. D’autant qu’un acteur en pleine expansion accélère la #dépossession_urbaine : Airbnb, plateforme vampire, plateforme à fuir.
    Ce vendredi soir de la mi-octobre, à quelques encablures du fort animé cours Julien, deux touristes anglophones galèrent à localiser leur Airbnb. Dans un décor où s’agitent fatigués et traînards, ils font clairement tache. Elle, robe orange de marque et chapeau mou hideux. Lui, pantalon blanc, mocassins et chemise saumon. Chacun traîne une valise à roulettes, suivie de son horripilant rllrrrllrl. De mon banc, je les observe s’agiter : lui gueule dans son téléphone à propos d’une histoire de boîte à clés introuvable ; elle fait nerveusement les cent pas, feignant de ne pas entendre une épithète fleurie que lui lance un groupe d’ados. Des extra-terrestres.

    Pour caricaturale qu’elle soit, tant les profils des adeptes du Airbnb sont divers, cette scène devenue banale en terre phocéenne comme dans d’autres villes d’Europe condense bien des aspects de l’explosif phénomène en cours. Soit : un déferlement de personnes étrangères à la ville et ses usages, profitant d’un système de location courte durée qui favorise l’artificialisation des rues, au détriment d’une population qui n’hésite plus à afficher son hostilité.

    Spéculer sur les ruines

    Cette invasion des profanateurs de quartiers s’inscrit dans un temps long. 5 novembre 2018 : deux immeubles s’effondrent rue d’Aubagne, en plein quartier de Noailles. 8 morts. Et le début d’une vaste opération d’expulsions, des milliers de personnes se voyant sommées de quitter leur « immeuble en péril », terminologie devenue ici aussi familière qu’un apéritif anisé. À ce champ de ruine frappant les plus pauvres se greffe vite une gentrification accélérée, encouragée par la fin de la répulsive ère Gaudin en juin 2020 et une certaine « hype » post-confinements accolée à la ville. Marseille n’étant plus associée uniquement à ses poubelles, ses kalash’ et ses magouilles, elle attirait de nouveau. C’est alors qu’Airbnb s’est imposée dans le game, plantant un nouveau clou dans le cercueil d’une ville de moins en moins populaire. Aujourd’hui, Marseille est la deuxième ville de l’Hexagone offrant le plus d’appartements en location sur Airbnb. Alors qu’on y a longtemps décompté quelques petits milliers d’annonces, à l’été 2023 la plateforme en dénombrait plus de 15 000. Peaufinant un ouvrage sur la gentrification à Marseille1, l’ami Victor Collet se déclare « époustouflé par la vitesse à laquelle ça se passe ». Il n’hésite pas à parler de « carnage », de « dérégulation totale », ou encore de « start-up nation à bloc ». Car l’irruption de la multinationale californienne a des effets concrets sur les résidents « normaux », ni riches ni touristes, qui se voient boutés hors de la ville. Victor estime aussi que « la ville passe en précarité résidentielle », de nombreux propriétaires basculant vers un « bail mobilité » – 9 mois de location hors plateforme et 3 mois estivaux consacrés à de lucratives locations courte durée. Dans un marché locatif bouché, beaucoup d’aspirants locataires n’ont d’autre choix que d’accepter. Quant à l’État macronien, il ne fait rien pour juguler le phénomène, ayant récemment sabordé à l’Assemblée une loi visant à limiter les avantages fiscaux dont bénéficient les nouveaux marchands de sommeil (jusqu’à 71 % d’abattement fiscal pour les locations meublées de tourisme2).

    Federico, l’un des créateurs de l’Observatoire de la gentrification, s’échine depuis 2021 à mettre en cartes ce désastreux raz-de-marée. Il a choisi comme objet d’études un rectangle de 800 mètres sur 600, autour de l’emblématique place Jean-Jaurès, dite la Plaine. Puis, en moine militant, il a patiemment emmagasiné les données. Sur cette zone, détaille-t-il, les locations Airbnb seraient passées de 140 à 370 de 2012 à 2023, avec un prix moyen de la nuitée à 124 euros. Ce qui, ramené au taux d’occupation, assurerait un revenu moyen de 2 530 euros mensuels par location. De quoi attirer les requins qui, pour certains, mettent la main sur des dizaines d’appartements reconvertis en locations de courte durée. « Les profils à la manœuvre sont divers, résume Frederico. On trouve aussi bien des fonds d’investissements américains qu’un bourgeois de Lyon ou un petit propriétaire marseillais. »

    Le pire : ses cartes montrent que les secteurs les plus impactés par les problématiques de l’habitat insalubre sont ceux où les prix à la location Airbnb sont les plus chers, tant la spéculation s’y déchaîne pour des appartements convertis en résidences de luxe. Une sorte de théorie du choc versant immobilier, les effondrements du 5 novembre 2018 ayant déchaîné les appétits du capitalisme sauvage. Victor résume : « Ils ont transformé la reconversion de l’insalubrité en opportunité touristique. »

    L’empire (immobilier) du côté obscur

    Rendre visite aux immeubles transformés en niches à touristes ne donne pas une vision précise des transformations. De l’extérieur, on ne voit presque rien. Parfois, on devine juste. En face des immeubles effondrés de la rue d’Aubagne, un bâtiment dont les sonnettes portent des drôles de noms : « Basquiat », « Van Gogh », « Rouge ». 30, rue Thiers, où 14 appartements seraient la propriété d’un chirurgien ne vivant pas à Marseille, une inscription en vitrine, « La Niche », couverte de quelques autocollants « Origine gentrificateur de merde garantie » ; 3, rue de la Rotonde, une sonnette « Conciergerie », indiquant qu’ici on fait l’intermédiaire entre touristes et proprios, notamment en fournissant les clés ; rue des Trois-Rois, où l’entreprise NocNoc propose d’onéreux appartements grand luxe, pas un indice visible de l’invasion. Cette invisibilisation du phénomène est battue en brèche par les boîtiers à code disséminés sur le mobilier urbain, du Panier à la Plaine en passant par Belsunce. Dans certaines rues, on en compte des dizaines. Le touriste ayant l’adresse et le code, il n’y a même plus besoin de l’accueillir. L’avantage, si l’on sature des valises à roulettes : on peut facilement les saboter. Colle, peinture, piratage, tout est bon. Le 14 octobre dernier, un collectif de « Marseillais du centre-ville » a ainsi revendiqué le kidnapping de quarante boîtes à clés et la mise hors service de 21 autres3. Autre moyen de lutte, plus cash, le saccage : en mars 2023, un appart en location Airbnb s’est vu mis à l’amende et recouvert de tags – « Appartement fantôme tue nos vies », « Spéculation immobilière = gens mis à la rue ». Une action fort opportune, au vu du résultat : « Ils ont gagné, je vais le retirer d’Airbnb et le remettre en location longue durée », a lâché le proprio4. Face au désastre, la mairie a longtemps fait le dos rond, évoquant les opportunités touristiques et le ruissellement de la moula. Elle a fini par admettre des abus et prendre quelques mesures, censées freiner la spéculation, sans pour autant se donner les moyens de les appliquer. De nombreux appartements mis en location sur Airbnb ne sont d’ailleurs pas enregistrés auprès de la mairie, ce qui explique que les chiffres de cette dernière soient minorés par rapport à ceux de la plateforme – en août 2022, elle annonçait 11 500 logements contre 16 000 pour Airbnb.

    Les JO 2024 pointant leur nez à l’horizon, avec à la clé une explosion du tourisme zombie, les décideurs restent bien frileux. Patrice D’Amico, le Monsieur Com’ du maire de Marseille Benoît Payan, a certes récemment annoncé sur BFM la mise en place d’une « brigade d’agents assermentés5 », mais les actions concrètes se font attendre. Et puisqu’il y a urgence et que cette lutte semble gagnable, ils sont nombreux parmi les contempteurs de la plateforme à vouloir profiter des commémorations du 5 novembre pour mettre la pression sur une mairie jusqu’ici démissionnaire. Puisque New York a drastiquement réglementé Airbnb en septembre dernier, pourquoi Marseille ne ferait pas de même ? C’est tout le propos de l’appel à se mobiliser le dimanche 5 novembre pour une « marche de toutes les galères et de toutes les colères du mal-logement », qui se finit sur cet avertissement : « Acculé·e·s ? Certainement. Impuissant·e·s ? Wallou ! »

    https://cqfd-journal.org/Marseille-contre-Airbnb
    #résistance #tourisme #spéculation