#pêche_industrielle

  • In Senegal la pesca artigianale è minacciata dall’industria e dalla crisi climatica

    L’Onu ha dichiarato il 2022 come l’”Anno internazionale della pesca artigianale e dell’acquacoltura” ma nel Paese africano si sta facendo poco o nulla per tutelare le risorse ittiche. Sono sempre più scarse e la sicurezza alimentare di numerosi Stati del continente risulta compromessa. Reportage dal dipartimento di #Mbour

    El Hadji Diop ha quasi sessant’anni e da quando era giovane nella sua vita non ha fatto altro che pescare. Come lui, migliaia di altre persone vivono seguendo la vocazione della lunga costa senegalese: la pesca artigianale. Dal Nord al Sud del Senegal lo scenario è sempre lo stesso e, a qualsiasi ora del giorno, pescatori, carpentieri, falegnami, venditori e trasformatrici di pesce affollano il lungomare. Un tessuto sociale intero legato al mondo della pesca. In Senegal infatti il 17% della popolazione attiva vive direttamente o indirettamente dei prodotti del mare, settore trainante dell’economia nazionale. Stando al recente studio di Diénaba Beye Traore, “Les enjeux des zones de peche artisanale en Republique du Senegal”, solo nel 2020 le esportazioni di risorse ittiche hanno raggiunto i 262,14 miliardi di franchi Cfa (Comunità finanziaria africana), circa 399 milioni di euro, equivalenti a 291.087 tonnellate di pesce.

    Tuttavia dietro ai colori esuberanti delle piroghe e alla vitalità contagiosa delle spiagge senegalesi, si cela una realtà molto meno felice. Nonostante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite abbia decretato il quasi concluso 2022 “Anno internazionale della pesca e dell’acquacoltura artigianali”, un modo quindi per evidenziare il valore della pesca su piccola scala e dell’immenso patrimonio culturale che orbita attorno a questa attività, i mari del Senegal stanno vivendo una crisi senza precedenti per gli effetti sempre più impattanti del cambiamento climatico da un lato e per la presenza di numerosi, troppi, pescherecci industriali dall’altro.

    “Amoul de”, ovvero “non ce n’è”, racconta El Hadji nella lingua locale wolof riferendosi al pesce, talmente sfruttato che alcune specie ittiche stanno letteralmente sparendo. “Questo che vedi è il simbolo del franco Cfa”, spiega il pescatore -che incontriamo a Joal, località lungo la costa, circa 100 chilometri a Sud di Dakar, nel dipartimento di Mbour- prendendo dalla tasca una moneta da 100 franchi. “Il poisson-scie, ovvero il pesce sega, impresso sui soldi degli Stati dell’Unione economica e monetaria dell’Africa occidentale, non lo si trova più. L’ultima volta che l’ho visto risale a circa quindici anni fa”. Tra i ricordi legati al passato, El Hadji cita anche un clima molto più stabile e prevedibile rispetto a quello attuale: “In passato, quando era primavera inoltrata, pativamo il caldo ma oggi un giorno è caldo e uno no. Inoltre, le piogge sono diminuite e anche questo ha un impatto sugli ecosistemi marini. A volte l’acqua ha un gusto che non riconosco, è come se fosse più salata rispetto a un tempo”. Secondo l’ultimo rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc), si prevede che a fronte di un riscaldamento globale di 1,5 °C le temperature della superficie del mare aumenteranno di 0,5 °C – 1,3 °C intorno a tutto il continente africano, alterando così la capacità di adattamento degli organismi marini.

    Oltre al cambiamento climatico, c’è una seconda grande minaccia che sta contribuendo a impoverire i mari senegalesi. Abdou Karim Sall, referente dell’Ong senegalese Oceanium che si occupa di tutela degli ecosistemi marini, spiega -anch’egli a Joal- che la presenza di grandi pescherecci industriali è una delle cause, se non la prima, del depauperamento ittico in corso. “Il pesce sta diminuendo a vista d’occhio, è dai primi anni del 2000 che si sta facendo raro. Nelle acque che lambiscono i 700 chilometri di costa senegalese ci sono molti pescherecci industriali, alcuni rapporti parlano di circa 160 imbarcazioni, anche se saranno sicuramente di più. Il numero preciso non lo conosciamo. Immagina la pressione di tutte queste navi su un tratto di oceano così limitato”.

    In aggiunta al numero elevato di grandi navi, sono anche le relative modalità di lavoro a preoccupare Abdou Karim Sall: “Con le reti tirano a bordo tutto quello che trovano tenendosi le specie nobili, come il tonno, la cernia, la dorata, il pesce spada, o il marlin blu, e rigettando in mare il pesce che non ha mercato, quello cioè di piccola taglia, che occuperebbe spazio per niente”. Della veridicità di questa testimonianza è facile rendersene conto: le maree portano periodicamente a riva i pesci scartati dai pescherecci, che si arenano lungo i litorali diventando un bottino per falchi e avvoltoi. Anche le località più chic del Paese non sono esonerate dalla brutalità di questo massacro e i turisti in passeggiata sulle spiagge dorate di Cap Skirring devono zig-zagare tra le piccole carcasse in putrefazione. “L’oceano rischia di diventare un deserto liquido e i pescherecci industriali si permettono di sprecare il pesce in questo modo”, continua Abdou Karim Sall. “Quest’anno, per la prima volta in tutta la mia vita, ho visto una piroga in vendita, ed è normale. I nostri ragazzi conoscono il mare, se non possono più lavorare nel settore ittico cosa gli resta? Migrare, sanno come organizzare la traversata e raggiungere l’Europa”.

    M.A. Ndiaye, attivista qui a Mbour, dipartimento del Senegal dove si trova uno dei porti più importanti del Paese, dirige un programma radiofonico per sensibilizzare gli attori della pesca e la popolazione sull’importanza di tutelare le acque dell’Oceano Atlantico. “Con le mie trasmissioni denuncio chi pesca in modo illegale, che siano pescatori locali o stranieri. Ma spesso sono proprio i grandi pescherecci a infrangere la legge, catturando il pesce nelle zone per loro vietate e senza distinguere tra specie protette o no. Queste navi sono autorizzate a pescare solamente oltre le sei miglia dalla costa, ma durante la notte capita di vederle in acque dedicate alla pesca su piccola scala. È da anni che stiamo chiedendo di aver accesso alla lista dei pescherecci, per conoscerne i proprietari, la provenienza”. Continua l’attivista: “Spesso i pescatori mi contattano per segnalarmi la presenza di navi battenti bandiera cinese e questo è possibile solo grazie a un sistema corrotto. Non essendoci accordi di pesca in vigore con nessuno stato asiatico, ed essendo le licenze di pesca concesse solamente a società la cui proprietà è a maggioranza senegalese, sono fiorite numerose realtà prestanome dove un senegalese detiene il 51% della quota e lo straniero il rimanente 49%”.

    Peter K., skipper tedesco in transito a Dakar per fare rifornimento di viveri e carburante, racconta di essere in viaggio da più di un anno e ricorda che quando a fine 2021 gli era capitato di passare accanto alle isole dell’arcipelago di Capo Verde, era come navigare tra le strade di una grande città: “C’erano navi ovunque ed erano sicuramente pescherecci asiatici. Lo capivo dalla comunicazione radio”. Per la rarefazione del pesce, i pescatori artigianali sono costretti a spingersi sempre più al largo, pescando nelle stesse acque dove transitano anche le grandi navi che urtano le piroghe e spesso senza neanche accorgersene. In aggiunta, in seguito a tali incidenti, è praticamente impossibile per un pescatore senegalese essere risarcito dei danni subiti a causa dell’impossibilità di rintracciare l’imbarcazione colpevole.

    La vita di un pescatore artigianale, anche se apparentemente affascinante e intrisa d’avventura, è rischiosa e piena di pericoli: “Al giorno d’oggi per trovare dei banchi sufficientemente grandi, dobbiamo spingerci perfino in Guinea-Bissau”, racconta sempre El-Hadji. “A bordo della nostra piroga siamo circa una ventina di persone, carichiamo tutto ciò di cui abbiamo bisogno per fronteggiare due settimane di navigazione, carburante, acqua, cibo, carbone. Ma la notte è quasi impossibile dormire, dobbiamo fare i turni e assicurarci che qualcuno rimanga sveglio per avvistare le navi di grandi dimensioni”. Anche recentemente, nell’estate 2022, una nave cinese ha urtato una piroga senegalese, uccidendo ben tre persone. Sebbene l’Accordo delle Nazioni Unite sugli stock ittici (rettificato dal Senegal nel 1997) stabilisca la necessità di non danneggiare la pesca di sussistenza degli Stati in via di sviluppo, l’accesso alla pesca artigianale per le comunità autoctone non sembra essere particolarmente tutelato. Ne consegue che la rarefazione delle risorse ittiche sta mettendo alla prova la pesca locale, contribuendo all’aumento all’insicurezza alimentare non solo del Senegal, ma di tutti i paesi limitrofi che dipendono dal pesce proveniente dall’Atlantico.

    A inizio giugno 2022, in occasione della Giornata mondiale degli oceani, Greenpeace Africa ha accompagnato le comunità di pescatori di Joal in una marcia di sensibilizzazione, per protestare contro il rifiuto del governo di proteggere gli stock ittici del Paese. Abdoulaye Ndiaye, responsabile della campagna per gli oceani di Greenpeace Africa, spiega ad Altreconomia che il Senegal ha firmato degli accordi di pesca con l’Unione europea che consentono a 45 pescherecci europei di pescare almeno 10.000 tonnellate di tonno e 1.750 tonnellate di nasello all’anno: “Tuttavia, in seguito alla stipula di tali contratti, lo Stato ha messo un freno all’immatricolazione delle nuove piroghe, ostacolando così l’attività dei pescatori locali che denunciano di non essere mai inclusi nei processi decisionali e di trovarsi costretti ad affrontare una concorrenza ad armi impari per l’accesso ad uno stock ittico sempre più scarso”.

    Eppure gli strumenti per tutelare gli attori della pesca tradizionale e le risorse ittiche ci sarebbero. La vicina Mauritania, ad esempio, ha da poco lanciato il suo secondo rapporto sull’Iniziativa per la trasparenza della pesca (Fisheries transparency initiative, Fiti) e relativo agli anni 2019 e 2020, che dà accesso ai dati riguardanti gli accordi di pesca tra Paesi e gruppi privati stranieri, lo stato degli stock, l’elenco dei pescherecci di grandi dimensioni. “Queste informazioni sono indispensabili e i professionisti del settore della pesca artigianale insieme alle associazioni della società civile hanno ripetutamente domandato al Presidente della Repubblica del Senegal di aderire all’iniziativa Fiti. L’unico modo per andare verso una gestione sostenibile della pesca, è tramite una comunicazione trasparente che faccia luce sull’elenco dei pescherecci autorizzati, nonché sulle risorse ittiche ancora disponibili,” conclude il responsabile di Greenpeace.

    https://altreconomia.it/in-senegal-la-pesca-artigianale-e-minacciata-dallindustria-e-dalla-cris
    #Sénégal #pêche #pêche_artisanale #changement_climatique #pêche_industrielle #exportation #poisson-scie #climat #Chine #Chinafrique

    • Sénégal : Publication d’un rapport d’étude sur les enjeux des zones de pêche artisanale

      Mbour -Sénégal – 31 mars 2022- Dans le cadre de la célébration de l’Année Internationale de la Pêche et de l’Aquaculture Artisanales (IYAFA 2022) décrétée par l’Assemblée Générale des Nations Unies, la Confédération Africaine des Organisations professionnelles de Pêche Artisanale (CAOPA) a commandité une série d’études sur les enjeux des zones de pêche artisanale en Sierra Léone, au Ghana, au Madagascar, en Mauritanie, en Gambie, en République de Guinée et au Sénégal, avec l’appui de la Coalition pour des accords de pêche équitables (CAPE) et de la Société suédoise pour la conservation de la nature (SSNC).

      La présentation des résultats de l’étude du Sénégal a été faite le jeudi 31 mars 2022, à Mbour, situé 80 km au sud de Dakar.

      Le rapport a été rédigé par Madame Diénaba BEYE TRAORE, expert juriste consultant international. L’étude présente les différentes réglementations ayant un lien avec la pêche artisanale en Sierra Léone. Sur base de discussions ayant été menées avec les pêcheurs, les lacunes dont souffrent ces textes juridiques sont ensuite identifiées et des recommandations sont proposées. Les résultats sont relatés dans un document consignant les recommandations pour la sécurisation des zones de pêche artisanale au Sénégal.

      PAS DE ZONE EXCLUSIVEMENT RÉSERVÉE À LA PÊCHE ARTISANALE

      « En République du Sénégal, en dehors des Aires marines protégées (AMP), il n’y a pas de limitation à la pêche artisanale qui peut être pratiquée dans l’ensemble de la zone maritime du Sénégal. Pour les autres types d’opérations, les zones de pêche sont situées au-delà de 03 miles nautiques de la laisse de basse mer », lit-on dans le rapport qui souligne, toutefois, qu’il n’existe pas de zone exclusivement réservée à la pêche artisanale.

      Malgré l’importance du secteur de la pêche, dont dépend une grande partie de la population sénégalaise, des problèmes persistent, principalement liés aux conflits entre pêcheurs dans les différentes zones de pêche.

      Sur la base des discussions ayant été menées avec les pêcheurs, les lacunes dont souffrent ces textes juridiques sont ensuite identifiées et des recommandations sont proposées.

      Malgré l’importance du secteur de la pêche, dont dépend une grande partie de la population sénégalaise, des problèmes persistent, principalement liés aux conflits entre pêcheurs dans les différentes zones de pêche. Ces problèmes soulignent la nécessité d’une meilleure compréhension de la réglementation relative à la pêche artisanale dans ce pays.

      ENJEUX

      D’après le rapport, l’enjeu principal qui peut retarder, voire bloquer, l’accès à des zones de pêche artisanale est lié principalement à l’obtention du permis de pêche en vertu de l’article 68 du Code des Pêches Maritimes (CPM). Cette obtention est conditionnée à plusieurs exigences préalables :

      – Tout d’abord ce permis nécessite une autorisation préalable avant l’importation, la construction ou l’acquisition d’un nouveau navire ou engin de pêche ou sa transformation en navire de pêche, cette autorisation est donnée par une autorité administrative mais dans la pratique les embarcations sont construites, achetées ou reconverties en absence de cette autorisation pour plusieurs raisons : l’ignorance de la réglementation en vigueur, le caractère informel du sous-secteur de la pêche artisanale ou le manque d’expertise au sein de l’administration responsable des autorisations.

      Depuis sa création en 2010, la CAOPA a beaucoup œuvré pour la reconnaissance de la pêche artisanale.

      « Depuis plus de dix ans, nous, les hommes, les femmes, les jeunes de la pêche artisanale africaine, avons uni nos forces pour que notre secteur soit reconnu à sa juste valeur par nos États qui sont nos premiers partenaires. Petit à petit, notre travail a donné la confiance à nos communautés pour faire valoir leurs avantages, en termes social, économique, culturel et comme gestionnaires des écosystèmes côtiers par rapport à d’autres activités qui exploitent les océans et les littoraux, comme la pêche industrielle, l’exploitation pétrolière, le tourisme côtier, etc. »

       Aujourd’hui, la pêche artisanale est mieux reconnue au niveau international, à travers les Directives Volontaires pour une pêche artisanale durable de la FAO, et à travers les Objectifs de Développement durable agréés par les Nations Unies, qui demandent à tous les pays de « Garantir aux pêcheurs artisans l’accès aux ressources et aux marchés », a expliqué Gaoussou GUEYE, président de la CAOPA.

      https://caopa.org/senegal-publication-dun-rapport-detude-sur-les-enjeux-des-zones-de-peche-artisanale/31/03/2022/actu/4063

      Pour télécharger le rapport :
      https://caopa.org/wp-content/uploads/2022/03/Senegal_Study_Oct_2021_Layout_final.pdf

      #rapport

  • Bloom Association - L’imposture du label MSC - Bloom Association
    https://www.bloomassociation.org/imposture-msc

    En instrumentalisant les petits pêcheurs côtiers dans sa communication, le MSC fait le greenwashing de la pêche industrielle et lui facilite, voire lui maintient, l’accès aux marchés au moment même où croît la défiance vis-à-vis des méthodes de production industrielle

    #label #pêche_durable #greenwashing


    www.bloomassociation.org/wp-content/uploads/2020/05/imposture-label-msc.pdf

    L’étude menée par BLOOM et ses coauteurs montre que les pêcheries certifiées « MSC pêche durable » sont très éloignées de la promesse initiale du label de garantir « qu’aucune méthode destructrice n’est autorisée ».9 En réalité, les méthodes de pêche les plus impactantes qui existent, comme les chaluts de fond et les dragues (voir page 6), ont représenté 83% des captures certifiées Msc entre 2009 et 2017. Même les plus grands navires-usines européens, atteignant 144 mètres de long, sont certifiés MSC. Rien d’étonnant à cela : le label Msc considère que seule la pêche à l’explosif et au poison, comme le cyanure, n’est pas « durable ». Tout le reste peut prétendre à une certification. Les critères du MSC permettent ainsi aux pratiques les plus impactantes d’être certifiées « durables ». Le cahier des charges n’a pas seulement été critiqué pour son laxisme et ses incohérences mais aussi pour son application partiale et entachée de conflits d’intérêts. Les vices, en amont comme en aval des processus de certification, ont fait l’objet de nombreuses critiques formelles, y compris de la part de BLOOM

  • Le vieil homme et la mer Isabelle Paré - 2 Aout 2019 - Le devoir

    Depuis 50 ans, il observe les mers se vider et combat l’océan de mensonges servi par une industrie des pêches toujours plus gourmande. Les requins qu’il décrie n’ont pas d’ailerons, mais pourchassent les derniers poissons jusqu’en Antarctique. Lanceur d’alertes, Daniel Pauly se bat contre la mer de notre indifférence.

Il est peu connu du grand public, mais ce Jacques Cousteau de l’ombre a érigé des systèmes qui permettent aujourd’hui de mesurer le piteux état de santé des océans, siphonnés jusque dans leurs plus profonds abysses.

    Après avoir sillonné les mers de la planète, Daniel Pauly, expert mondial des ressources marines, a aujourd’hui jeté l’ancre à Vancouver, où il dirige le Fisheries Center de l’Université de la Colombie-Britannique. Arête dans la gorge, ce vigile des milieux marins peine à penser que l’humanité n’aura bientôt plus que du plancton à se mettre sous la dent si elle continue de raboter les fonds océaniques.

    Ses combats répétés contre de nobles instituts maritimes ont de quoi laisser muet comme une carpe. Si le fléau de la surpêche est maintenant sur l’écran radar, c’est parce que Daniel Pauly y a attaché un grelot il y a déjà plus de 30 ans. Ses travaux ont démontré que l’industrie noyait le poisson avec de faux chiffres sur ses captures et prouvé que les stocks de poissons étaient en chute libre depuis le tournant du XIXe siècle.

    « Il ne reste que 1 % de l’état des stocks de #morue par rapport au milieu du XXe siècle, et 2 à 3 % des stocks de #thon. En gros, 90 % de la biomasse des grands poissons a disparu en 100 ans », affirme d’une douce voix à la Henri Salvador celui qui fait rager les plus grands armateurs de la planète.

    Toujours plus loin
    La surpêche n’est pas née d’hier, raconte Daniel Pauly. Depuis l’ère des bateaux à vapeur, la course vers les mers plus lointaines, partie en vrille depuis, n’a jamais cessé. On a longtemps perçu chaque effondrement des stocks de façon isolée. Au cas par cas, les experts ont observé l’affaire, sans longue-vue pour venir voir l’incendie. « C’est comme tenter de prédire le temps en regardant les nuages au-dessus de votre tête. Pour prévoir le temps, il faut analyser sur de longues périodes l’évolution des systèmes partout dans le monde. C’est pareil pour les poissons », affirme-t-il.

    Pauly a mis une paire de lunettes sur la cécité et le #déni généralisés qui aveuglaient l’industrie de la pêche jusqu’au début des années 1980.

    En créant d’abord #FishBase, puis #Sea_Around_Us, la première banque mondiale colligeant des millions de données récoltées par des scientifiques pour quantifier l’état et l’évolution des stocks de poissons et autres animaux marins. En 1996, son premier brûlot publié dans Science a fracassé le mythe de l’océan inépuisable.

    L’anguille sous la roche
    Alors que l’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture (FAO) évalue à 86 millions de tonnes la totalité des poissons pêchés dans les océans, l’équipe de Pauly l’établit plutôt à 130 millions de tonnes, si on tient compte des prises accidentelles, des rejets et des pêches illégales et artisanales, occultées par l’ONU. Du nombre, 10 millions de tonnes de crustacés rejetées en pure perte à l’échelle de la planète. L’industrie hurle, et Pauly la compare à un malade suicidaire courant à sa propre perte en réclamant sans cesse plus de corde.

    Jeune scientifique embarqué à bord d’un #navire-usine, c’est à Terre-Neuve qu’il a constaté de visu les ravages causés par la pêche industrielle. « Les chalutiers raclaient les fonds à 200 mètres, arrachant poissons et cailloux. Des blocs erratiques aussi gros que des Volkswagen atterrissaient sur le pont », rappelle-t-il dans la biographie que lui consacre l’océanologue David Grémillet.

    Vidées, les côtes ont été délaissées au profit de mers toujours plus lointaines. Armés comme des engins militaires, les chalutiers vont traquer les poissons jusqu’en Antarctique, à plus de 600 mètres de profondeur. « La pêche locale n’existe pratiquement plus », dit encore Daniel Pauly. Dans l’insouciance généralisée, le chalutage ratisse 150 fois l’équivalent de la surface déforestée chaque année sur la planète. Une coupe à blanc sous-marine et invisible de la taille de la superficie des États-Unis, où plusieurs zones sont ratiboisées jusqu’à huit fois l’an.

    Daniel Pauly dénonce cette #razzia. « Et dans bien des cas, les pays riches bouffent les poissons des pays pauvres », affirme le Franco-Canadien, né après la guerre d’une mère française et d’un G.I. afro-américain, révolté du pillage éhonté des mers de l’Afrique de l’Ouest par des bateaux occidentaux et asiatiques. Sa solution : interdire la pêche en haute mer, protéger 20 % des océans et abolir les subventions aux industries qui encouragent la sur pêche. Car c’est le bacon qui fait le poisson, affirme ce chercheur. Grâce aux subventions allant jusqu’à 30 % en Chine, pêcher demeure rentable là où les ressources sont déjà anémiées, martèle-t-il.

    L’or blanc
    « En Antarctique, ceux qui pêchent la #légine de façon illégale peuvent perdre un bateau sur cinq tellement ils gagnent de #fric. Pour ne pas être attrapés, des capitaines coulent eux-mêmes leurs bateaux. Et ça reste rentable ! » décrie l’écologiste, considéré parmi les 50 scientifiques les plus influents de la planète par le magazine Scientific American en 2003. La légine, cet or blanc recherché des gourmets occidentaux, se vend jusqu’à 40 $ la livre.

    « Après avoir vidé les plaines marines, les bateaux vident les canyons des océans où se terrent les derniers poissons », relance Pauly. À elle seule, la Chine déploie 3400 navires-usines qui pompent 4 millions de tonnes de poissons dans les eaux de 93 États, dont 75 % dans les eaux africaines.

    Noyer le poisson
    Daniel Pauly rage aussi contre l’autre grand « mensonge » du siècle : l’#aquaculture, parfois présentée comme un remède à la faim dans le monde. Or, selon lui, l’aquaculture de poissons carnivores accélère le sac des océans. « En Mauritanie et au Sénégal, 40 usines sont plantées sur les côtes pour faire de la farine de sardinelles, qui étaient avant pêchées, fumées et mangées en Afrique. Là, on produit de la farine pour engraisser des cochons ou du saumon. C’est un truc innommable ! »

    Le maître de la #biomasse parle en connaissance de cause. Produire une seule livre de saumon dépouille l’océan de trois ou quatre livres de petits poissons. « C’est une perte sèche de protéines, c’est révoltant ! Dire que ça nourrit le monde, c’est une fraude intellectuelle. Ceux qui s’alimentaient de sardinelles n’ont pas l’argent pour acheter ce saumon. C’est un vol global. J’appelle ça l’aquaculture B, pour bad. Cette aquaculture ne produit pas de poissons, elle bouffe du poisson ! »

    Médusé par la surpêche
    Un jour, un étudiant de Daniel Pauly a mesuré l’explosion des populations de #méduses partout dans le monde. En mer de Namibie, ces invertébrés ont complètement remplacé les poissons : 14 millions de tonnes de méduses ont évincé 10 millions de tonnes de poissons. « Les poissons qui mangeaient les larves de méduses ont disparu, laissant leurs proies sans prédateurs », explique Daniel Pauly.

    Des océans « gélifiés », c’est la vision d’horreur qui hante le biologiste, qui a signé en 2013 Manges tes méduses. Ces masses gélatineuses sont, en effet, faites sur mesure pour survivre aux zones lessivées de poissons que laisse la surpêche dans son sinistre sillage, explique le scientifique couronné en 2005 du prix Cosmos, l’équivalent du Nobel en écologie.

    « Pour que les poissons puissent se repeupler en haute mer et revenir ensuite vers les côtes, il faut dès maintenant créer des zones protégées. Avant, on n’avait pas les moyens techniques de pêcher jusqu’au dernier poisson. Aujourd’hui, plus rien n’est impossible », déplore-t-il.

    Cet éternel indigné, rescapé d’une enfance douloureuse vécue au sein d’une famille adoptive abusive, Pauly en connaît long sur la capacité de résilience des hommes, comme des autres espèces. « C’est toujours possible de renverser la vapeur, assure-t-il, si l’on réagit à temps. »

    Source : https://www.ledevoir.com/societe/environnement/559908/le-vieil-homme-et-la-mer
    Tiré de la revue de Presse : https://www.les-crises.fr/revue-de-presse-du-06-08-2019

    #surpêche #mer #alimentation #poissons #pêche_industrielle #pêche_illégale #aquaculture #Daniel_Pauly #ressources_marines

    • « Il ne reste que 1 % de l’état des stocks de morue par rapport au milieu du XXe siècle, et 2 à 3 % des stocks de thon. En gros, 90 % de la biomasse des grands poissons a disparu en 100 ans »

  • The Dynamics of the Global Fishing Fleet - Interactive - Global Fishing Watch
    http://globalfishingwatch.org/research/dynamics-global-fishing-fleet-interactive

    Our research paper, “Tracking the global footprint of fisheries,” was published today in Science. A key finding of the study is that fishing is remarkably non-seasonal at a global scale. What matters far more than any natural annual cycle, it turns out, are cultural and political factors: fishers in North America and Europe don’t work on Christmas and weekends, and Chinese fishers don’t work during the summer, when a moratorium limits fishing in Chinese waters, or during the Chinese New Year.

    Below is an interactive chart where you can explore how fishing changes over the course of the year. Select any two countries and see how fishing changes. The default display compares Chinese and non-Chinese vessels (see figure 2 from our paper for another representation of this graph). On this chart you can clearly see the drop in fishing during the summer months in China, and you can see the weekly pulse of fishing among non-Chinese vessels (interestingly, it looks like Chinese fishers don’t take weekends off). Note you can toggle between viewing “fishing hours” per day and “number of vessels” that are fishing on a given day.

    Below the two charts are a series of bubbles, arranged somewhat geographically, representing each flag state in our data. The inside circle shows how much fishing that flag state does on a given day, and the larger circle shows the maximum amount of fishing by that flag state. If you hit play, you can see the weekly pulse of fishing in European countries. You can also click on a bubble to see the time series for that country.

    #pêche #surpêche #pêche_industrielle #océan #cartographie #visualisation
    http://science.sciencemag.org/content/359/6378/904

  • Les nouveaux délinquants environnementaux (2/4) : Du golfe de Guinée à la Thaïlande : les ravages de la pêche illégale
    https://www.franceculture.fr/emissions/cultures-monde/culturesmonde-du-mardi-05-juin-2018


    Malgré des législations qui se renforcent depuis des années, des chalutiers persistent à prélever illégalement des stocks de poissons considérables, bouleversant les écosystèmes et la sécurité alimentaire. Mais peut-on combattre la pêche illégale sans interroger le modèle de la #pêche_industrielle ?

    #pêche_illégale #surpêche

  • Planetoscope - Statistiques : Pêche et prises mondiales de poissons
    http://www.planetoscope.com/eau-oceans/199-peche-et-prises-mondiales-de-poissons.html

    Le total de la pêche mondiale représente 154 millions de tonnes de poissons, soit 4 900 kilos de poissons chaque seconde. En 2012 selon la FAO, 91,6 millions de tonnes de poissons et animaux marins ont été capturés, un niveau relativement stable depuis 20 ans. 40% de la production de poisson proviennent de l’aquaculture et 60% de la pêche de poissons sauvages. La pêche illégale représente presque un tiers de la pêche légale.


    #pêche #poissons #industrie #statistiques

  • Le scientifique qui nie la surpêche avait caché ses liens avec la filière
    http://www.lemonde.fr/planete/article/2016/05/13/le-scientifique-qui-nie-la-surpeche-avait-cache-ses-liens-avec-la-filiere_49

    La salle est comble. Ce mercredi 4 mai, à la Maison de la chimie, à Paris, un public nombreux et conquis est venu écouter Ray Hilborn, 68 ans, un célèbre professeur de sciences halieutiques à l’université de Washington à Seattle (Etats-Unis). Invité en France et en Europe par France Filière Pêche, professionnels du secteur, l’universitaire est venu porter une parole rassurante et optimiste sur l’état des stocks de poissons. « Non, les océans ne sont pas en train de se vider ! Tout le problème vient d’un article publié par un scientifique américain en 2006, estimant que les principaux stocks auraient disparu en 2048, annonce d’emblée l’influent professeur américain. Ces allégations ont fait les gros titres de la presse, mais ne sont que des mythes. »

    A quelques variantes près, sa conférence censée faire la part des « mythes et [des] réalités » de la surpêche a été présentée quelques jours plus tôt à Bruxelles, devant des députés européens, puis à Rennes et à Lorient devant des professionnels et des parlementaires, enfin à la Maison des océans, à Paris. Les industriels de la pêche sont ravis ; les ONG le sont moins, à l’image de l’association Bloom, qui va jusqu’à qualifier M. Hilborn de « négationniste de la #surpêche ».

    ...

    Au cours de la période couverte par ceux-ci, entre 2003 et janvier 2016, M. Hilborn a reçu 3,56 millions de dollars de financements de la part d’intérêts liés à la pêche, soit 22 % de l’ensemble de ses fonds de recherche et de diffusion des connaissances. Selon le décompte de Greenpeace, ce ne sont pas moins de 69 organisations liées aux intérêts de ce secteur économique – entreprises, fondations, associations professionnelles – qui ont mis la main à la poche pour soutenir le travail du célèbre halieute. « Parmi ce que Greenpeace qualifie d’intérêts liés à la #pêche_industrielle se trouvent des communautés de pêcheurs d’Alaska qui pratiquent la pêche de subsistance », précise le professeur au Monde. Selon le chercheur, seuls 13 % de ses financements proviennent d’intérêts véritablement industriels d’entreprises comme Trident, Pacific Seafood Processors, PeterPan Seafoods, etc.

    #conflits_d'intérêts #science

  • Le déclin de la #pêche a été largement sous-estimé
    http://www.lemonde.fr/biodiversite/article/2016/01/19/le-declin-de-la-peche-a-ete-largement-sous-estime_4849986_1652692.html

    Dans les mers et les océans du globe, on prélève nettement plus de poissons que les statistiques officielles ne le prétendent. Néanmoins, malgré la forte croissance des armements, la diffusion des techniques industrielles de pêche jusque dans les coins les plus reculés de la planète et la sophistication toujours plus poussée du matériel, les tonnages des captures ne cessent de diminuer depuis les années 1990. Autrement dit, les pêcheurs dépensent toujours plus d’efforts et de carburant pour rapporter de moins en moins de poissons.

    Selon l’Organisation des Nations unies pour l’alimentation et l’agriculture, la FAO, la pêche mondiale a connu un pic en 1996, avec 86 millions de tonnes de poissons sortis de l’eau, puis elle est restée quasiment « stable » selon son administration, perdant juste 0,38 tonne par an. Il n’y aurait donc pas de quoi trop s’inquiéter pour l’état des stocks. Las, ces chiffres sont largement sous-estimés, montre une étude de Daniel Pauly et Dirk Zeller, de l’université de Colombie-Britannique, au Canada, publiée mardi 19 janvier dans Nature Communications.

    Le secteur a effectivement atteint un sommet en 1996, constatent-ils, mais qu’ils chiffrent à 130 millions de tonnes. Puis les performances de la pêche ont régressé trois fois plus fortement que les statistiques de la FAO ne l’indiquent : de 1,2 million de tonnes par an. Globalement, les deux chercheurs observent une différence de 53 % entre les quantités répertoriées officiellement et leurs propres calculs.

    #surpêche #pêche_industrielle #statistiques

    L’#étude en question avec tout plein de graphiques
    Catch reconstructions reveal that global marine fisheries catches are higher than reported and declining
    http://www.nature.com/ncomms/2016/160119/ncomms10244/full/ncomms10244.html

  • Un appel pour sauver la haute #mer, un « Etat en déliquescence »
    http://www.lemonde.fr/planete/article/2014/06/24/la-haute-mer-un-etat-en-deliquescence_4443900_3244.html

    « Il n’est pas exagéré d’affirmer que toute forme de vie sur Terre, y compris notre survie, dépend du bon état et des richesses de l’océan, écrivent ses membres. (…) Nous sommes des milliards à en avoir besoin comme source d’aliments, d’oxygène, de stabilité climatique, de pluie, d’eau potable, de transport et d’énergie, de loisirs et de moyens de subsistance. » Leur message s’adresse en particulier aux dirigeants des Etats qui vont se retrouver lors de la 69e Assemblée générale des Nations unies, à partir de septembre.

    Dans son rapport intitulé « Du déclin à la restauration : un plan de sauvetage pour l’océan mondial », la commission reprend des données déjà connues pour la plupart. Mais, mises bout à bout, celles-ci tracent un tableau cru de la situation : peut-être pas irréversible, mais indubitablement alarmant.

    #ressources_naturelles #énergie #pêche #pêche_industrielle #pollution

  • En Méditerranée, il reste du thon rouge, mais seulement pour la pêche industrielle - Reporterre
    http://www.reporterre.net/spip.php?article5967

    A l’arrière, un immense filet forme un tas de plus de deux mètres de haut : il s’agit de la senne, qui sert à encercler les bancs de thon. « Quand on repère un banc de thon, on le met à la mer, raconte Jean-Jacques, un des membres d’équipage. Il est tiré par le skiff, le canot, qui fait le tour des poissons. Puis on jette les mailles, on resserre et le poisson est à l’intérieur. »

    Le poisson est ensuite transféré en pleine mer dans la cage d’un mareyeur, un grossiste de poissons. Il les engraisse pendant quelques mois, avant de les vendre à prix d’or sur le marché japonais, qui représente environ les trois quarts de la consommation mondiale de #thon_rouge. Là-bas, le prix peut atteindre des centaines d’euros au kilo.

    Chez Greenpeace, on reconnaît également une amélioration de la situation mais on reste prudent. « La pêche est ouverte pendant un mois, mais c’est la période de reproduction du thon », déplore François Chartier, chargé de campagne océans de l’ONG. Les poissons les plus prisés au Japon sont les plus gras, c’est-à-dire les femelles encore enceintes d’œufs qu’elles n’ont pas pondus.

    La famille Avalonne, avec ses quatre thoniers senneurs concentre 600 tonnes de quotas, soit un quart des 2400 tonnes attribuées à la France en 2014. « Ils n’auraient pas dû conserver tous ces quotas », dénonce Frédéric Reste, Président du Syndicat professionnel des pêcheurs petits métiers du Languedoc Roussillon. Les pêcheurs à la ligne n’ont eux que 230 tonnes soit 10 % du quota, à répartir entre les 87 licences octroyées aux petits métiers.

    Selon ce représentant des pêcheurs artisans, au moment de la réduction des quotas en 2007, la famille Avallone a racheté des thoniers senneurs destinés à la casse : « Ils ont eu les subventions pour les détruire, et au lieu de remettre les quotas correspondants dans le pot commun, comme c’était prévu, ils les ont reportés sur leurs autres bateaux ! » Un privilège dû au fait qu’ils ont « les moyens de défendre leur position à Bruxelles », confie Frédéric Reste. En effet, c’est l’Union Européenne qui définit la politique commune de la pêche et répartit les quotas entre pays.

    Comme pour l’agriculture, les subventions vont aux industriels !

    #pêche_industrielle #surpêche #pêche_artisanale #quotas_de_pêche #ressources_naturelles

    • Mais surtout, l’avantage des petits métiers est qu’ils sont « polyvalents », insiste le syndicaliste. « On pêche la sole, la dorade, le rouget, le maquereau en fonction des saisons, détaille-t-il. C’est cela une pêche durable. » Elle permet aussi aux pêcheurs de vivre toute l’année, pas seulement un mois par an pendant la saison des thoniers senneurs, et crée plus d’emplois.

      « C’est une grosse bêtise de vouloir spécialiser la pêche, poursuit-il. Cela pousse forcément à la surpêche. Regardez, les deux espèces qui font l’objet d’une pêche spécialisée en Méditerranée, le thon rouge et l’anguille, sont menacées. »

  • L’interdiction de la pêche en eau profonde n’est pas pour demain
    http://lemonde.fr/planete/article/2013/09/20/l-interdiction-de-la-peche-en-eau-profonde-n-est-pas-pour-demain_3481327_324

    Claire Nouvian a été commissaire de l’exposition « Abysses » au Muséum d’histoire naturelle, consacrée à la faune des grandes profondeurs marines en 2007 ; elle connaît la force des images. Lundi 16 septembre, elle a rassemblé au Grand Palais à Paris, scientifiques, élus, personnalités engagées comme Richard Branson, le fondateur de Virgin, autour de ces espèces emblématiques pour lancer, encore une fois, un appel en faveur des océans et contre la pêche en eau profonde, dont les chaluts raclent les fonds et détruisent les habitats naturels. Ce n’est pas un hasard si cet évènement médiatique a eu lieu à quelques jours de la Conférence environnementale des 20 et 21 septembre.

    A priori, la fin du chalutage à plusieurs centaines de mètres de profondeur relève plutôt des instances européennes. En juillet 2012, la commissaire Maria Damanaki avait proposé un règlement qui devait aboutir à restreindre fortement cette pratique d’ici à 2014. Or, depuis, le dossier n’avance pas. Le Parlement européen joue la montre et ne décide rien ; la présidence lituanienne ne l’a même pas inscrit au menu des prochains conseils des ministres de la pêche. Tout semble se conjuguer pour renvoyer l’affaire après les élections européennes. Ou aux calendes grecques.


    #photo #militantisme #surpêche #pêche_industrielle #beau