• Le città visibili

    Dove inizia il cambiamento del Paese.

    Nelle città di tutto il mondo stanno cambiando gli abitanti, i loro desideri e le loro priorità: la casa, lo spazio pubblico, il modello di sostenibilità ambientale, il modo di lavorare.

    In Europa, come negli Stati Uniti, esiste una visione più o meno condivisa del modo in cui rendere le città più sostenibili, più giuste, più belle.

    Ed è una visione che si confronta con tante difficoltà, con le abitudini e i conservatorismi non solo della politica e dell’impresa, ma anche dei singoli cittadini: rompere gli equilibri è faticoso.

    Pierfrancesco Maran, assessore del Comune di Milano alla Mobilità, all’Urbanistica e ora alla Casa, racconta la sua esperienza sul campo in queste pagine che affrontano le sfide e i nodi della trasformazione di una metropoli moderna, tra nuova identità e riscoperta delle tradizioni, all’insegna dell’innovazione nella progettazione del verde, dell’edilizia, della qualità dell’aria, del turismo e dei grandi eventi, della valorizzazione delle periferie e dell’economia della conoscenza.

    Una riflessione concreta di grande attualità sull’oggi e sul domani dei luoghi del cambiamento attraverso cui passa il futuro del Paese.

    Le parole di Francesco Costa

    «Come sono le città oggi e come diventeranno domani. Chi sono le persone che le abitano, come stanno cambiando le loro vite e i loro lavori. Pierfrancesco Maran, uno dei protagonisti della trasformazione di Milano degli ultimi anni, racconta difficoltà, opportunità, contraddizioni che vivono le aree urbane in questo periodo di grandi scossoni sociali, con lo spirito di chi cerca sempre soluzioni nuove. Una guida al presente delle città per essere pronti al prossimo futuro.»

    La necessità di comprendere i bisogni di chi abita le città

    «Siamo così saturi di immagini e notizie da far fatica a distinguere quelle importanti, a prenderci il giusto tempo per riflettere e analizzare, a volte siamo addirittura socialmente obbligati a esplicitare una nostra opinione su fatti complessi, prima ancora di averla completamente formata. Negli ultimi mesi, anche grazie a questo libro, ho potuto dedicare tempo per riflettere, per comprendere i bisogni di chi abita le città, per ragionare sulle opportunità di domani, studiare qual è lo spirito del tempo degli abitanti della città, nativi e nuovi arrivati.»

    Il futuro delle città

    «Nelle città di tutto il mondo stanno cambiando gli abitanti, i loro desideri e le loro priorità: la casa, lo spazio pubblico, il modello di sostenibilità ambientale, il modo di lavorare. In Europa, come negli Stati Uniti, esiste una visione più o meno condivisa del modo in cui rendere le città più sostenibili, più giuste, più belle. Ed è una visione che si confronta con tante difficoltà, con le abitudini e i conservatorismi non solo della politica e dell’impresa, ma anche dei singoli cittadini: rompere gli equilibri è faticoso.»

    https://www.solferinolibri.it/libri/le-citta-visibili

    #livre #villes #urban_matter #changement #soutenabilité #Pierfrancesco_Maran

  • Campi di lavoro e lavoro nei campi

    Dall’agosto 1940 e fino alla fine del 1945 vennero internati, in numerosi campi sparsi sull’insieme del territorio ticinese, mediamente circa un migliaio di soldati stranieri, i quali rappresentarono una categoria specifica dell’insieme dei profughi accolti durante la Seconda guerra mondiale. Si trattò in gran parte di soldati polacchi, ma nei campi allestiti in Ticino risiedettero per periodi di tempo variabili pure francesi, italiani, tedeschi, austriaci, sovietici, indiani e vietnamiti, nonché un contingente di combattenti provenienti dal continente africano. Chi erano questi uomini? A quale regime furono sottoposti e perché? Dove sorsero i campi in cui furono confinati? Come trascorrevano le loro giornate? Quali furono i rapporti con la popolazione locale? Quale memoria della loro presenza si è sedimentata in Ticino? Attingendo a fonti archivistiche sinora poco sfruttate, il volume analizza e approfondisce il tema dell’internamento militare sul piano regionale, facendolo costantemente dialogare in senso verticale con quello nazionale. La pluralità degli approcci adottati e dei punti di vista considerati ha consentito di fare emergere alcune specificità ticinesi e, in altri casi, di fare luce su aspetti finora poco studiati dell’internamento militare nel suo insieme. Colmando una lacuna storiografica e fornendo un quadro esaustivo delle coordinate geografiche e temporali dell’internamento militare, il libro si presta a fungere da strumento imprescindibile per chiunque voglia affrontare la tematica della presenza di internati militari in Ticino ed eventualmente approfondirla sul piano locale.

    #livre
    #camps_de_travail #Tessin #Suisse #histoire #réfugiés_ukrainiens #réfugiés_polonais #Pologne #deuxième_guerre_mondiale #seconde_guerre_mondiale #WWII #mémoire

    • Polish Army in Insubrica region: the case study of Polish internees in Losone

      During the German campaign in the West, in June 1940, 2nd Polish Infantry Division under command of Bronisław Prugar-Ketling (1891-1948) was sent to the French region of Belfort to support 8th French army. After being cut off from supply, approximately 12,000 to 13,000 Polish soldiers of this Infantry Division, crossed the Swiss border on 19-20 June 1940, south of Ajoie, avoiding thus the German capture.

      The soldiers were interned in Switzerland according to the Hague Convention. After a failed attempt to concentrate all Pole servicemen in only one camp in Büren an der Aare, Polish soldiers were dispersed throughout Switzerland. From 1941, barrack camps were set up in all Switzerland, where these Poles soldiers were interned until December 1945. In the Insubrica region, many Polish soldiers were gathered and managed in Losone, nearby Locarno and Ascona.

      These interned Poles soldiers made mainly group-wise work assignments for the Swiss national defence works, related to the national infrastructure like constructions of roads and bridges, drainage of swamps as well as general works in the agriculture. A total of 450 kilometers in paths, bridges and canals were built alone in Ticino by these servicemen. At present, monuments and commemorative plaques commemorate the involuntary stay of these Polish soldiers people throughout the Ticino region. After the war, around 500 Poles were able to settle down in Switzerland, obtaining the Swiss citizenship.

      In addition to building and paving roads between Arcegno and Golino in the Canton Ticino, the Polish army soldiers, interned in the Losone camp during 1941-1945, worked hard to reclaim approximately 100 hectares of the land in the municipality of Losone between “Saleggi” and “Gerre”. This hard work reshaped radically the landscape of the region in the mid of the 1940s.

      Thanks to the intervention of Polish soldiers, a large amount of uncultivated agricultural areas in Ticino could be developed and, later, transformed in tourist and industrial zones.

      A hard work of Polish prisoners allowed a creation of a very important agricultural zone in Losone that persisted for many years until a construction of the famous 18 holes Golf place (shown in the centre of the map that can be seen above).

      Further in the North, in the 1980’s, an important industrial settlement called “Zandone” was created (on the left side of the above shown map). The Polish work allowed to erect a large camping in Melezza and the “Scuderia delle cavalli delle Gerre” in the area of Zandone. Between Arcegno and Golino, Polish soldiers managed to pave a road, that is named today “strada dei polacchi” (in English: Polish road).

      Polish soldiers were interned also in other parts of Switzerland and left unmistakable traces of their hard work. There are several so-called Polenweg‘s, which are roads that were built by Polish soldiers during the Second World War in Switzerland.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2018/04/16/polish-army-in-insubrica-region-case-of-losone
      #Losone

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      Gli internati polacchi nel Locarnese e Valle Maggia

      Avevamo già scritto nell’aprile 2018 su Insubrica Historica un breve contributo sugli internati polacchi nella regione Insubrica. Durante dei lavori di ricerca per un imminente pubblicazione di Insubrica Historica sul Locarnese, abbiamo ritrovato ulteriori dettagli, che valgono la pena di essere condivisi.

      La presenza degli internati polacchi in Ticino e soprattutto nel Locarnese è legata soprattutto alla caserma di Losone posta nella località Piana di Arbigo, la quale ospitò ben oltre la fine del conflitto un ingente numero di soldati polacchi, circa un migliaio. Da questa caserma vennero impiegati per diversi lavori di bonifica. La loro presenza viene ricordata nel Locarnese per la Strada dei Polacchi da Arcegno a Golino, o ancora ad Orselina per la cappella della Madonna di “Ostra Brama”.

      Vi erano però diversi altri campi di lavoro distribuiti nella regione, i quali ospitavano anche loro soldati polacchi. In particolare grazie ad un recente articolo di Fabio Cheda Gli internati polacchi a Maggia, vi sono alcuni dettagli di questi campi nella Valle Maggia.

      I campi erano distribuiti nella maniera seguente: ai Ronchini di Aurigeno (15-30 militi), a Bignasco (10-15 militi), a Cevio (40-50 militi), a Linescio (30-35 militi), presso l’edificio “Cortao di Bonitt” a Maggia (30-35 militi), al Piano di Peccia (fino a 15 militi) e a San Carlo (100-200 militi). Nella sola Valle Maggia vi era circa il 15% (n=200) del totale dei soldati polacchi internati in Svizzera (n=12’000) durante la guerra. La maggior parte di loro erano entrati in Svizzera nella regione del Giura Francese, duranta la disfatta dell’esercito francese nell’estate del 1940.

      L’ubicazione di alcuni di questi campi e località di lavoro come a Lodano, lascia dedurre che l’impiego di questi soldati non era confinato al solo settore agricolo ma soprattutto anche nel disboscamento delle superfici forestali della Valle.

      «Questi baldi giovanotti facevano girare spesso la testa alle ragazze e alle mogli locali, tenendo in considerazione che gran parte degli uomini del paese erano impegnati nel servizio militare. È appurato che i Polacchi abbiano lasciato il segno: una donna si presentò un giorno ai capi responsabili mostrando il ventre gonfio…» (Fabio Cheda, A tu per tu, Dicembre 2020)

      Sempre secondo Fabio Cheda, il rapporto dei soldati polacchi con la popolazione era esemplare. Molto positivo, soprattutto con le signorine della Valle, tanto che vennero celebrati anche dei matrimoni.

      Non tutti i soldati polacchi ebbero la pazienza di restare fino alla fine del conflitto, oppure di ritornare in Pologna. Ve ne sono alcuni che riuscirono anche a fuggire da questi campi di lavoro prima e dopo il conflitto, i quali pur essendo controllati da soldati dell’esercito Elvetico, non sottostavano a rigida disciplina, come invece si ebbe in altri campi soprattutto della Svizzera tedesca.

      https://insubricahistorica.ch/blog/2021/09/30/gli-internati-polacchi-nel-locarnese-e-valle-maggia
      #internement #internés

    • Internati polacchi in Svizzera tra guerra, lavoro e sentimento

      Un’analisi storica sulla presenza degli internati militari polacchi in Svizzera durante la Seconda Guerra Mondiale vuole essere un momento prezioso per una riflessione su noi stessi e sulla nostra terra elvetica: terra di transito in cui i nostri orizzonti hanno potuto incontrarsi, per pochi anni, con un popolo straordinario, che nel dolore, nella perdita e nella sofferenza del conflitto ha saputo dare, oltre che il suo sudore del lavoro - fondamentale per il nostro Paese - durante l’internamento, un esempio unico di dignità, di comunanza e di fratellanza.
      Al di là della politica e delle vicissitudini belliche, gli uomini hanno saputo ritrovarsi, anche soltanto per un istante.

      https://www.editore.ch/shopvm/varia/internati-polacchi-in-svizzera-tra-guerra-lavoro-e-sentimento-detail.html

  • Milan la ville forgée par le #socialwashing - #greenwashing au profit des riches

    Le livre super efficace de Lucia Tozzi raconte la dernière grande #transformation de Milan au bénéfice des profits de la #spéculation financière-immobilière à travers un bombardement de communication du sociawashing mixé avec le greenwashing, donc la #gentification aux dépenses des moins fortunés contraints à migrer ailleurs ou expulsés. Un cas exemplaire de contrerévolution néolibérale pervasive.

    Ceux qui visitent Milan aujourd’hui ne pourront jamais imaginer que jusqu’au début des année 1970 cette ville était la capitale du mouvement ouvrier, avec des grèves et manifs de cent-cinquante mille travailleurs, étudiants et habitants, la plus importante ville industrielle, commerciale et des groupes financiers d’Italie. Depuis la ville n’a pas arrêté de perdre des centaines de milliers d’habitants (aujourd’hui 1.371.850 résidents dont environ 40% qui y sont nés). Et le turnover de ses résidants augmente de plus en plus : de 1971 à 2022 on a eu presque deux millions de nouveaux inscrits à l’état civil et deux millions d’effacés (émigré ailleurs). De 2001 à la fin de 2021 on a eu 40.520 décès plus des naissances. Un turnover que selon Lucia Tozzi arrange bien le « modèle » de ville que les administrateurs et les acteurs dominants poursuivent : une ville de gens qui n’ont pas de racines, qui n’ont pas de mémoire du territoire, qui sont prêtes à être phagocytés par les discours dominant merci au bombardement de la communication pervasive.

    Jusqu’au début des année 2000 Milan était une ville plutôt triste et en déclin. Comme raconte Lucia Tozzi c’est avec l’Expo de 2005 que tout est bouleversé par la stratégie des grands groupes financiers-immobiliers qui misent sur une communication hyper pervasive et efficace mélangeant le discours de la pseudo-conversion verte (le greenwashing à la mode un peu partout dans le monde) et le discours pseudo-social (socialwashing) qui fait croire dans des projets qui en réalité ne font que donner aux privés de plus en plus du patrimoine public ; c’est notamment le cas de ce qu’on appelle le social housing, c.à.d. la privatisation déguisé des logements HLM et ILM ou leur insertion dans le marché des locations et ventes aux prix … de marché qui maintenant à Milan est en voie de s’approcher de celui de Paris.

    La littérature mainstream des intellos et académiciens bien aimés par les acteurs dominants (par exemple Patrick Le Galès) ne rend pas compte de ce processus et au contraire exalte les changements e cours comme une fabuleuse « renaissance » bien gouvernée. Ainsi, Lucia Tozzi n’arrête pas de décrypter cette littérature qui concerne aussi les experts des plusieurs Fondations derrière lesquelles on trouve les groupes financiers-immobilières transnationaux. De fait Milan devient la capitale ou province du capitalisme néo-libéral globalisée. Une ville à la merci de la spéculation du Real Estate, des économies souterraines, la ville la plus polluée d’Europe (comme le montrent les images satellitaires européennes ainsi que l’état des cours d’eaux, des terrains et de l’agriculture des environs, l’énorme quantité d’élevages industriels et aussi les données sur la mortalité). Une réalité effrontément coupée en deux notamment entre la très longue queue de pauvres qui quotidiennement attendent d’avoir un petit sachet d’aliments devant la porte du Pane quotidiano, les familles des périphéries (qui maintenant la langue socialwashing appelle quartier en voie de requalification), la ville des riders et des dizaines de milliers de navetteurs, des étudiants non-résidents qui n’arrivent pas à avoir un lits vue les prix hallucinants, et, de l’autre coté la ville des dizaines de nouveaux tours des grandes firmes et groupes financiers avec autour leurs squares aux bistros et boutiques de luxe. Les acteurs dominants de la ville avec le plein soutien de l’administration (de “gauche”) n’arrêtent pas de construire des logements hyper chers (pas moins de mille euros à chambre et récemment en très forte augmentation).

    Selon le site UE l’Italie est première en UE pour la TVA non collectée (évadée) et la province de Milan (ainsi que toute la Lombardie) est la région avec le plus haut montant d’évasion fiscale et des contributions sociales. 25% des contribuables ont un revenu annuel inférieur à 10 mille euros, 11% ceux avec un revenu entre 10 mille et 15 mille et 26% ceux entre 15 mille et 26 mille ; donc 62% des contribuables n’atteignent pas un revenus annuel de plus de 26 mille euros, alors que 7% dépassent 75 mille euros. Bref, le revenu annuel du quinzième plus riche de la population atteigne 105 mille euros et plus, tandis que le quart le plus pauvre ne dispose que de 4.521 euros.

    Cette situation est en rapide évolution dans le sens quel les moins fortunés sont contraints à émigrer vers les banlieues les plus pauvres. Par ailleurs les contribuables avec les plus hauts revenus sont souvent les fraudeurs du fisc, toujours bien épaulés par des experts dans ce domaine ainsi que dans celui des paradis fiscaux. Remarquons qu’en Italie presque toujours les forces de police et une partie de la magistrature sont complices des illégalismes des acteurs dominants ; cela depuis Berlusconi et l’ex-gauche qui a gouverné en alternance aux droites. Et maintenant, ce n’est pas un hasard que l’actuel gouvernement fasciste ne fait qu’adopter des décrets et lois en faveur de l’évasion fiscale et des contributions sociales, bref des économies souterraines et donc des illégalismes des dominants. Par ailleurs on constate un très fort turnover de la plupart des activités économiques, (surtout bistros, boutiques d’alimentation ou de pacotilles etc., petits restos etc.).

    Mais comme raconte Lucia Tozzi les critiques et contestations de la dérive néolibérale de la ville sont très limitées, marginalisées, obscurées tout d’abord parce que la grande majorité des habitants est prisonnière d’une double piège : celle de la communication très phagocytante/pervasive et celle des réseaux. Il y a un chape de propagande et censure diffusées merci au chantage : “On est toujours sur le bord de l’abime, mais la seule voie du salut est communiquer tous ensemble qu’ici tout va bien ! Que Milan est une exception, un modèle positif, vertueux ! Lors de l’explosion de la pandémie qui a frappé Milan plus que toutes les autres villes italiennes, le maire (de “gauche”) avait lancé le slogan : #milanononsiferma (Milan ne s’arrête pas !) et encore après les fortes critiques reçues il a déclaré : “En ville le retour à la normalité sera dans une paire de mois”. Bref l’idée est que si on collabore tous ensemble on va convaincre le monde que c’est vrai et on va gagner. Quant aux réseaux c’est l’effet de la prolifération énorme des projets et des appels d’offre pour toutes sortes de projets et n’importe quoi. Cela contraigne à se mettre en réseau et à se plier aux règles et cages de ces appels qui inévitablement conduisent à faire et dire ce qui veulent les donneurs des financements.

    La narration dominante dit : « le public n’a pas d’argent et il est nul, le privé fait mieux et rapidement ». La marche dévastatrice de la privatisation a commencé dans le secteur de la santé par œuvre de la région aux mains de la droite la plus ignoble (Comunione e Liberazione, la holding-secte de cathos de droite dont l’alors président de la région était un fidèle adepte -il fut ensuit condamné pour corruption … mais pas pour tous les délits commis pendant presque quinze ans de pouvoir). Depuis la privatisation a grimpé sans arrêt jusqu’au point que progressivement la Mairie a confié aux privés presque tout le patrimoine immobilier (piscines, parcs, squares, places publiques, jardins, écoles, bibliothèques, logements etc. etc.). La justification passée comme indiscutable a été que tout ce patrimoine était délabré, dans un état qui rendait impossible son utilisation et la Mairie n’avait pas l’argent pour les travaux nécessaires à la restauration. Dès lors toute la ville est devenue une suite de zones exclusives maitrisées par les propriétaire de fait des espaces « publics » … interdits à ceux qui par les faciès ou l’allure conformes à des quartiers de riches consommateurs ; chaque espace de ce genre est hyper surveillé par des polices privées, vidéosurveillance à gogo etc.

    Un autre fait emblématique est que la participation aux élections communales a chuté à environ 40%, ce qui permet de gouverner avec à peine 20-22% des ayants droit de vote (c’est aussi le cas de presque toutes les villes italiennes). C’est le triomphe de la post-politique et de la dépolitisation généralisée. Un processus qui convient bien à tous les partis car ainsi ils ont moins de clientèle à cultiver ou acheter. En plus comme le remarque Lucia Tozzi il est éclatant noter que la plus forte abstention concerne les banlieues (comme en France) parce que leurs habitants sont depuis longtemps abandonnés par tous : ils ne correspondent pas à aucun profil convenant pour une ville qui mise sur les consommateurs aisés ou en mesure de dépenser assez pour un after hours, pour la soirées dans les dehors ou les innombrables boites où on mange, on écoute de la musique (souvent horrible) ou quelques jeunes rappeurs… alors il est évident que les moins fortunés des banlieues ne méritent que d’être chassé le plus loin possible de la ville qui doit être réservée surtout sinon uniquement à des résidents aisés et bien réceptifs de la communication des acteurs dominants.

    Bien au-delà de ses spécificités, Milan est une réalité tout à fait similaire à celle que presque toutes les villes aspirent à imiter. L’autrice cite nombre d’exemples, de la New York de Bloomberg à Londres, Paris, Vienne, Berlin, Barcelone etc. et une vaste littérature. Il apparait alors que Milan Mais est sans doute un cas extrême dans une Italie qui maintenant est aux mains d’une coalition de droite qui gouverne avec 27% des ayants droit de vote (le fascisme "démocratique" au pouvoir). Mais comme signale Lucia Tozzi, il est possible contraster cette dérive réactionnaire suivant l’exemple de ville comme Berlin où le mouvement des habitants a réussi à obliger la mairie à investir dans un très grand parc vraiment public totalement en dehors de toutes les visées des entrepreneurs-spéculateurs privés.

    Ce livre mérite d’être publié en français.

    https://blogs.mediapart.fr/salvatore-palidda/blog/030524/milan-la-ville-forgee-par-le-socialwashing-greenwashing-au-profit-de

    #géographie_urbaine #Milan #Italie

  • Taxe sur les livres d’occasion : « parlons-en avant d’improviser ! »
    https://actualitte.com/article/116957/economie/taxe-sur-les-livres-d-occasion-parlons-en-avant-d-improviser

    « On va mettre en place au moins une contribution qui puisse permettre de protéger le prix unique et permettre à nos auteurs, éditeurs et traducteurs d’être mieux aidés. » En visite au Festival du Livre, Emmanuel Macron a annoncé vouloir mettre en place une taxe sur les livres d’occasion. La Bourse Aux Livres réagit dans cette tribune à la déclaration du Président de la République.

    #Edition #Livre_occasion #Librairie

    • Oui, mettons en place des taxations pour aider les jeunes artistes désargentés…
      https://www.lejdd.fr/culture/pagny-biolay-hallyday-la-cour-des-comptes-sinterroge-sur-la-legitimite-de-ces-

      Pourtant décédé en 2017, Johnny Hallyday a fait partie des bénéficiaires des aides à la création entre 2019 et 2022, récoltant 333 890 euros.

      Sinon, l’article est entièrement orienté sur cette histoire de rémunération des auteur·ices (parce qu’ils ont été mal rémunérés la première fois qu’on a vendu le bouquin), alors qu’à ma connaissance, le prix unique du livre est destiné à protéger les « petites » librairies face aux chaînes et aux supermarchés, pas à protéger les artistes désargentés qui vendent trois exemplaires par mois. (D’ailleurs si on commence à se demander comment on redistribue l’argent de la taxe sur les occassions, et comme la logique est tout de même, avec les droits d’auteur, d’une certaine proportionnalité en fonction des ventes, alors évidemment c’est Musso qui va toucher le poignon, pas les auteur·ices qui vendent 1 exemplaire en occaz par mois chez Gibert.)

  • Pour l’amour de l’automobile : retour sur l’histoire de nos désirs
    http://carfree.fr/index.php/2024/04/30/pour-lamour-de-lautomobile-retour-sur-lhistoire-de-nos-desirs

    Voici un article de l’économiste allemand Wolfgang Sachs publié initialement en 1984 et traduit en anglais en 1992 dans la revue Carbusters. Il s’agit d’un extrait du livre « For Love Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Insécurité_routière #Livres #Ressources #allemagne #consommation #culture #économie #féminisme #histoire #motorisation #nuisances #société #Suisse

  • Des êtres et des choses, repenser l’#histoire de la #citoyenneté

    Qu’est-ce qu’une barque à Antibes, un coffre à Alger, des terres collectives à Naples ou un mulet abandonné en Espagne disent de la citoyenneté ? L’ouvrage « La Cité des choses » observe les actions de la vie quotidienne et l’histoire de la protection des biens et des personnes pour y répondre.

    La Cité des choses. Une nouvelle histoire de la citoyenneté, voici un titre d’ouvrage bien intriguant. Il n’est pas courant que des esclaves affranchis de l’Antiquité côtoient des artisans migrants du siècle des Lumières, qu’une barque à Antibes se trouve face à un coffre à Alger, ou qu’un hôtel à Turin rencontre un mulet abandonné en Espagne. La Cité des choses. Une nouvelle histoire de la citoyenneté : quelles sont ces « choses » et que signifie « citoyenneté » ?

    Une autre définition de la citoyenneté

    Les auteurs et autrices de La Cité des choses proposent une définition de la citoyenneté qui s’éloigne de la seule conception institutionnelle de ce statut social : « La citoyenneté, dans cet ouvrage, ne correspond pas à un document, à un titre officiellement délivré par une autorité centrale », explique l’historienne Simona Cerutti, directrice avec Thomas Glesener et Isabelle Grangaud de La Cité des choses. « La citoyenneté correspond plutôt au droit de prendre part aux ressources locales. Nous avons utilisé la métaphore du banquet : (le droit) de s’asseoir autour d’une table dans laquelle des ressources de la cité – l’instruction, la santé, le mariage – sont distribuées. »
    D’autres modèles de citoyenneté

    À partir de l’espace méditerranéen, l’ouvrage propose de repenser l’histoire de la citoyenneté en s’affranchissant des seuls modèles politiques occidentaux. « La Méditerranée est un haut lieu d’une histoire traditionnelle de la citoyenneté – des cités de l’Antiquité grecque à l’ère des révolutions en passant par les cités italiennes médiévales. Nous, nous explorons une Méditerranée qui est restée dans l’ombre », avance l’historien Thomas Glesener. « L’histoire classique de la citoyenneté associe cette question à la participation, à l’accès au droit politique, qui passe souvent par le droit de vote. Nous, nous cherchons la citoyenneté dans des actions qui ne sont a priori pas identifiées comme politiques, mais dont nous nous efforçons de montrer leurs dimensions politiques. »
    Suivre les choses pour trouver de la citoyenneté

    De part et d’autre de la Méditerranée, les chercheuses et chercheurs de La Cité des choses enquêtent sur les sociétés du 16e au 21e siècle à partir de ce que leurs sources révèlent de la gestion des « choses » (objets, immeubles, terres, héritages, dettes…). « Ce sont des biens qui ne se réduisent pas à des objets de transaction ou d’appropriation, mais qui prennent de la valeur parce qu’ils sont partagés et qu’ils doivent être protégés », précise Simona Cerutti. Leurs études mettent en lumière l’importance de l’inscription dans une chaîne de succession, dont la trace se suit dans les « choses », pour reconnaître à une personne son statut de citoyen.

    En démontrant une continuité entre choses et personnes, les autrices et auteurs entendent démontrer la capacité des choses à construire et transformer des statuts sociaux. La Cité des choses invite, à travers l’histoire, à concevoir la citoyenneté comme un processus résultant d’interactions et d’actions de la vie quotidienne qui participent à la construction des hiérarchies et des statuts politiques.

    https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/le-cours-de-l-histoire/des-etres-et-des-choses-repenser-l-histoire-de-la-citoyennete-1874850

    • La Cité des choses. Une nouvelle histoire de la citoyenneté

      À partir d’une pluralité d’enquêtes ancrées sur les deux rives de la Méditerranée, du XVIe siècle à nos jours, cet ouvrage entreprend de remettre en perspective l’histoire de la citoyenneté.

      Situant les « choses » au cœur de l’investigation – qu’il s’agisse d’une barque à Antibes, d’un coffre à Alger, d’un hôtel squatté à Turin, d’une mosquée à Tunis, de terres collectives à Naples, d’un mulet abandonné en Espagne –, il dévoile comment les prises en charge des biens distribuent les hiérarchies sociales et les statuts politiques. Ce livre révèle ainsi le pouvoir instituant des actions et des pratiques, par lesquelles les individus construisent leurs appartenances.
      Dès lors, La Cité des choses s’affranchit des seuls modèles politiques occidentaux pour mieux penser la citoyenneté comme un ensemble de droits forgés par des processus localisés échappant à tout déterminisme culturaliste : un enjeu d’une portée politique actuelle évidente.

      http://www.editions-anacharsis.com/La-Cite-des-choses
      #livre

    • Matérialités citoyennes. Un projet d’#abécédaire augmenté (Méditerranée, XVIe-XXIe s.)

      Ce projet éditorial est la fruit de la rencontre entre un programme de recherche, qui place les données empiriques au coeur de son dispositif d’enquête, et d’un dispositif technique permettant de faire coexister et interagir, dans une même fenêtre, trois types de “données” : un texte long (argumentaire), des textes courts (notices) et des fichiers multimédias de toutes sortes (matériaux d’enquête, notes de lectures, interventions filmées, etc.).
      Faire coexister compte-rendus et matériaux d’enquête

      – Le texte long proposera un essai rédigé à plusieurs mains sur les droits de citoyenneté en Méditerranée, du XVIe siècle à aujourd’hui, construit à partir des enquêtes présentées dans l’abécédaire et émaillé de renvois aux différents éléments le composant (notices, matériaux, etc.).
      - Les textes courts, quant à eux, ont été pensés sur le format de notices de dictionnaire (3 à 4 p. maximum), d’un abécédaire plus exactement. En cohérence avec les objets et méthodes du groupe, il ne s’agit en effet pas de produire une série de définitions génériques des grandes catégories généralement mobilisées en SHS pour penser la citoyenneté, mais de restituer brièvement des enquêtes qui mettent en jeu à la fois, le travail du chercheur et toute une série d’objets, statuts, institutions, lieux, etc., par lesquels sont revendiqués, vivifiés, exercés ou éteints des droits de citoyenneté, dans les sociétés méditerranéennes modernes et contemporaines.
      - Au coeur de la pratique des sciences sociales revendiquée par les membres de ce projet, un des objectifs centraux de cette opération éditoriale a consisté, depuis l’origine du projet, à mettre en valeur les données empiriques à partir desquelles sont construites les enquêtes des chercheurs. Aussi, nous avons concentré nos efforts sur la recherche d’une solution technique offrant au lecteur la possibilité d’avoir simultanément accès aux textes et aux matériaux d’analyse qui les fondent (documents d’archives, extraits d’entretiens ou de carnets ethnographiques, enregistrements, photos, cartes, vidéos, sites internet, etc.).

      https://palomed.hypotheses.org

  • Maka – The Documentary
    https://www.meltingpot.org/2024/04/maka-the-documentary

    Maka presenta la storia della prima donna nera ad avere ricevuto un dottorato e ad essere diventata direttrice di un quotidiano in Italia: Geneviève Makaping (Maka). Questo documentario ispirato alla biografia e al pensiero di Maka e distribuito da OpenDDB, racconta la sua dolorosa storia di migrazione dal Camerun attraverso il deserto, l’arrivo in Calabria nel 1982 in seguito alla tragica morte del compagno di viaggio, il successo come giornalista e conduttrice televisiva, e il recente trasferimento e l’attuale attività di insegnante a Mantova. La storia di Maka offre lo spunto per ripensare l’appartenenza nazionale, e il modo in (...)

  • Lecture d’un extrait du livre « L’échec : Comment échouer mieux » de Claro, paru aux Éditions Autrement, Collection Les grands mots, en 2024.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/l-echec-comment-echouer-mieux-de-claro

    Ce livre de Claro aborde le thème de l’échec en littérature dans un texte multiforme à l’image de son œuvre, entre essai, réflexions, autobiographie, fiction et poésie, le tout agrémenté de nombreuses citations. Traducteur, écrivain, éditeur, l’auteur aborde cette « passion de la défaite » par le biais de la traduction, en effet pour lui l’échec est au fondement même de la traduction. Comment substituer une langue à une autre, un monde à un autre monde, une époque à une autre ? Puis il s’attarde sur l’écriture et la lecture. Échouer en écriture devient la condition même de l’écriture. Un livre vif, stimulant, plein d’humour et de dérision.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Cinéma, #Poésie, #Littérature, #Édition (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_l_e_chec_comment_e_chouer_mieux_claro.mp4

    https://www.autrement.com/lechec/9782080436672

  • Abolir les #prisons, une « #utopie_réelle »

    Dans « Brique par brique, mur par mur », trois chercheurs tentent la première #histoire de l’#abolitionnisme_pénal, qui place la critique radicale de la #prison, de la #justice et de la #police au cœur de ses analyses. Une tradition militante et politique riche. Y compris en Europe.

    « Les #institutions_pénales ne sont pas seulement inefficaces pour nous protéger et régler nos différends, elles sont en plus préjudiciables et néfastes. » Avec Brique par brique, mur par mur (Lux Éditeur), qui paraît en France le 17 mai, #Gwenola_Ricordeau, professeure associée en justice criminelle à l’université de l’État de Californie, #Joël_Charbit, chercheur associé au Centre lillois d’études et de recherches sociologiques et économiques, et #Shaïn_Morisse, doctorant au Centre de recherches sociologiques sur le droit et les institutions pénales, retracent l’archéologie et l’actualité de l’abolitionnisme pénal, qui défend l’abolition de la justice, de la police et de la prison.

    À la faveur de la critique radicale de la prison et de l’incarcération de masse, ce mouvement intellectuel et militant a retrouvé aux États-Unis une vivacité récente. Mais dans le monde occidental, ses racines ont poussé en Europe, dans les années 1970. Souvent ignorée, quand elle n’est pas « calomniée », taxée d’utopique, la tradition de l’abolitionnisme pénal irrigue pourtant de nombreux mouvements de la gauche radicale globale. Entretien avec Shaïn Morisse, l’un des auteurs.

    Mediapart : La France compte un nombre historique de détenus. La surpopulation est endémique, les conditions de détention sont indignes depuis des décennies. Votre livre débute avec un constat : « Les services que les prisons sont censées rendre ne compenseront jamais les torts qu’elles créent depuis leur création »…

    Shaïn Morisse : La prison impose une souffrance institutionnelle. Elle est destructrice pour les individus, leurs proches et leurs communautés. Pour les abolitionnistes, elle perpétue, comme toutes les institutions du système pénal, un ordre social et racial inégalitaire, qui surcriminalise les populations socialement défavorisées et racisées.

    Qu’est-ce que l’abolitionnisme pénal ?

    Le point de départ de l’abolitionnisme, c’est de dire, là encore, que le coût social du système pénal est supérieur aux services qu’il est censé rendre. Il y a depuis deux siècles une critique permanente du système pénal. D’abord par des réformistes, jusqu’à l’apparition de l’abolitionnisme dans les années 1960-1970. La différence, c’est que les abolitionnistes ne contestent pas simplement le système pénal dans son fonctionnement ou dans ses dysfonctionnements. Mais dans sa légitimité même.

    Ils et elles estiment que le système pénal est injuste, coûteux et destructeur. Mais aussi qu’il est inefficace et inopérant : il ne dissuade pas, ne réhabilite pas. Il traite une partie infinitésimale des situations potentiellement criminalisables. Sa fonction rétributrice, c’est-à-dire la compensation d’une souffrance commise par une souffrance équivalente, voire supérieure, n’est pas non plus satisfaisante. Certes, il neutralise les individus, soit de façon définitive avec la peine de mort, soit pour un certain temps. Mais comme l’écrit [la militante et universitaire antiraciste – ndlr] Angela Davis, « la prison ne fait pas disparaître les problèmes, elle fait disparaître les êtres humains ».

    La prison semble pourtant plus que jamais plébiscitée, dans nos sociétés contemporaines, comme le meilleur moyen de punir. Et ce depuis des décennies, notamment en lien avec ce que vous nommez dans le livre le « durcissement pénal » à partir des années 1970. Pourquoi ?

    L’abolitionnisme se développe dans les années 1960-1970, dans un contexte d’espoir révolutionnaire et de grandes espérances politiques radicales à gauche. On assiste à une médiatisation de la question carcérale, à une politisation autour des questions pénales. Les prisonniers sont érigés en sujet politique, prennent la parole eux-mêmes. Il y a des mouvements de prisonniers, de la répression mais aussi des réformes pénales radicales. Des sociologues réalisent des études empiriques pour comprendre ce qu’est l’incarcération, ce qui se passe réellement en prison.

    À partir de la fin des années 1970, et plus particulièrement au milieu des années 1980, avec l’avènement du néolibéralisme, les discours abolitionnistes deviennent inaudibles. L’intérêt pour les structures disparaît. On ne voit plus que l’individu, qui serait entièrement responsable de sa destinée. C’est « la loi et l’ordre », l’avènement de discours purement punitifs qui ne voient pas l’aspect problématique de la prison. Pourtant, ce sont toujours les mêmes catégories de population qui se retrouvent en prison. Ce n’est donc pas juste une question d’individus qui n’arriveraient pas à se réinsérer dans la société. Il y a des logiques sociales et structurelles : l’abolitionnisme cherche ainsi à réencastrer le système pénal dans la société.

    L’abolition de la prison, mais aussi « de toutes les institutions qui forment le système pénal, comme la police et les tribunaux », apparaît dans ce contexte comme une « utopie ». C’est un terme que vous assumez d’ailleurs.

    L’abolitionnisme revendique la notion d’utopie, mais une « utopie réelle », ancrée dans les potentiels réels de l’humanité. Il s’agit de donner les moyens aux gens de régler ce que le système pénal nomme « délits » et « crimes » d’une manière pérenne et satisfaisante. L’abolitionnisme ne fournit pas un modèle unique, et ne formule pas des « alternatives ». C’est logique : l’idée n’est pas de remplacer le système pénal par une autre institution. De fait, il implique de changer les structures sociales. Car on ne peut pas régler les problèmes qui sont à la source de ce qu’on appelle communément « le crime » sans considérer la société, l’économie, les différents rapports de domination, que ce soit le patriarcat, le validisme ou le racisme.

    C’est-à-dire que l’abolitionnisme du système pénal n’est possible qu’une fois que la révolution aurait eu lieu ?

    Globalement, la tendance assez générale au sein de l’abolitionnisme est révolutionnaire, surtout aujourd’hui. Pour autant, l’abolition est un horizon politique, tout comme la révolution est un horizon. Si les abolitionnistes ne sont pas des réformistes — ils ne pensent pas que le système pénal peut devenir plus acceptable ou efficace –, ils sont aussi pragmatiques. Il y a eu dans les années 1970 des abolitionnistes social-démocrates, et d’autres qui considèrent qu’on peut s’accommoder d’un certain niveau d’inégalité, d’un peu de capitalisme.

    On a tendance à croire que l’abolitionnisme pénal est d’abord américain, dans un pays où l’esclavage est, comme vous l’écrivez « la matrice du système pénal ». Pour autant, vous montrez qu’il y a une tradition française et européenne riche de l’abolitionnisme. La France, écrivez-vous, a d’ailleurs « joué un rôle prépondérant dans la circulation internationale du modèle de la prison »…

    Avec ce livre, nous voulions faire la première histoire générale de l’abolitionnisme, montrer que c’est un mouvement qui a cinquante ans. Raconter, aussi, que ce n’est pas, comme on le pense, un courant récent importé des États-Unis. La première vague de l’abolitionnisme s’est d’abord développée en Europe. La seconde vague, à partir des années 1990, démarre aux États-Unis. Elle est liée aux mouvements de libération africaine américaine, avec Angela Davis et la fondation du groupe Critical Resistance, qui va être très important pour toute la structuration des luttes abolitionnistes. Mais Angela Davis elle-même a lu des auteurs européens ! Ce qui est vrai, c’est que la question de la race, le féminisme, étaient les grands impensés de l’abolitionnisme européen. À partir des années 1990, l’abolitionnisme états-unien va enrichir la réflexion et intégrer ses questions.

    Avec le mouvement Black Lives Matter, les manifestations immenses qui ont suivi le meurtre policier de George Floyd en 2020, un large mouvement social aux États-Unis réclame le « définancement et le désarmement de la police ». Ce mouvement a obtenu des victoires locales. Pourquoi une telle vitalité de l’abolitionnisme pénal aux États-Unis alors qu’il reste chez nous une pensée marginalisée ?

    Cela tient d’abord à l’exceptionnalisme pénal états-unien : à partir des années 1980, une incarcération de masse a été mise en place. La population carcérale a quintuplé, devenant la plus grande du monde, devant la Russie et la Chine. Dans le même temps, l’État social s’est effondré totalement. Comme le souligne le sociologue Loïc Wacquant, l’État pénal s’est renforcé quand l’État social s’effondrait. Les conséquences ont été profondes. C’est de là qu’est repartie la reconfiguration de l’abolitionnisme aux États-Unis, mais aussi en Amérique du Sud. Mais ces dernières années, il y a tout un renouvellement des enjeux de l’abolitionnisme. C’est aussi vrai en Europe, en lien avec les questions de féminisme, d’antiracisme, en lien aussi avec l’action de la police, la question des frontières, ou la question des centres de rétention administrative (CRA).

    Pour beaucoup de victimes, la peine infligée à l’auteur est une reconnaissance, le début d’un chemin de réparation. Vouloir abolir la prison et la justice pénale, n’est-ce pas les priver de cette réparation possible ?

    Vu l’évidence culturelle du système pénal, il est normal que les gens attendent de lui une forme de reconnaissance du préjudice. Mais l’abolitionnisme affirme que le système pénal néglige profondément les intérêts et les besoins de tout le monde : les victimes, mais aussi les personnes criminalisées. Les abolitionnistes s’intéressent donc à des modes alternatifs de régulation des conflits, de manière radicale, c’est-à-dire en faisant en sorte qu’ils ne se reproduisent pas à l’avenir.

    En quoi consistent-ils ?

    Différents courants se sont développés depuis les années 1970-1980, qui ont pris le nom par exemple de « justice restauratrice » ou « réparatrice » au Canada. Les infractions ne sont plus considérées uniquement comme des transgressions à la loi, qui doivent être sanctionnées, mais comme des conflits ou des situations problématiques qui ont des répercussions personnelles sur la vie des gens et qui doivent être réparées. Donc il ne s’agit pas de punir, mais de remédier au tort subi par les victimes et de reconstituer le lien social.

    À partir des années 1990, ce courant de la justice restauratrice, pensé hors du système pénal, a commencé à être digéré par les différents systèmes pénaux. Elle a été utilisée comme un supplément à la peine : par exemple, elle a été intégrée dans la loi en France avec la loi Taubira en 2014.

    A alors émergé la justice transformatrice, notamment sous l’impulsion de l’abolitionniste canadienne Ruth Morris. Elle ne cherche pas juste à réparer le lien social, mais aussi à changer les individus et la société en général. Depuis plus de dix ans, il y a tout un essor militant et éditorial de la justice transformatrice, souvent initiée par des groupes qui, parce qu’ils sont souvent criminalisés, ne peuvent pas forcément recourir à la police.

    C’est le cas, surtout aux États-Unis (avec des groupes comme Generation Five, CARA, Creative Interventions). On peut citer aussi l’activiste Mariame Kaba. En France, c’est aussi la démarche du collectif Fracas. La justice transformatrice recourt à des pratiques de médiation et de guérison. Elle mobilise une palette de mesures adaptées à chaque problème (refuge, groupe de soutien, etc.). Son but est aussi de changer les valeurs, pratiques et structures qui ont rendu la commission de la violence possible, par un travail culturel et politique.

    Le Code pénal prévoit des crimes et des délits. La vision abolitionniste critique la notion de crime, la « figure mythologique du criminel » comme vous l’écrivez. Est-ce à dire que les crimes n’existent pas ?

    Les abolitionnistes considèrent que le crime est une catégorie « éponge », qui regroupe des actes qui n’ont aucune similitude la plupart du temps, que ce soit sur les situations que ça implique ou les impacts concrets que ça va avoir sur la vie des personnes. Pour les abolitionnistes, la grammaire de la criminalisation ne permet pas de comprendre les situations vécues, les circonstances, les expériences des personnes concernées. C’est pour eux une abstraction qui décontextualise, qui réduit la complexité des situations.

    C’est-à-dire qu’il n’y a pas de victimes et il n’y a pas d’auteurs ?

    Ces actes déplorables qu’il y a derrière la notion de « crime » ils sont là, ils existent. Mais les abolitionnistes partent de ces actes et de ces situations pour ensuite proposer une multiplicité d’interprétations de ces situations et de réponses possibles. Beaucoup d’entre eux remettent en cause la dichotomie auteur-victime, car beaucoup d’auteurs sont aussi victimes d’autres systèmes d’oppression. Les abolitionnistes vont dire que le « crime » n’est pas un point de départ utile pour cadrer les problèmes. Ils vont partir des actes et des situations concrètes.

    Il ne s’agit pas d’excuser telle ou telle personne pour avoir commis tel acte : l’abolitionniste cherche à reproblématiser la question de la responsabilité, pas à dédouaner la personne qui a commis l’acte. Mais c’est aussi hypocrite de voir uniquement la responsabilité individuelle comme le fait le système pénal ; et de ne pas regarder toutes les logiques sociales qui ont permis à cette situation d’advenir.

    https://www.mediapart.fr/journal/culture-et-idees/230424/abolir-les-prisons-une-utopie-reelle
    #abolitionnisme #emprisonnement

    • Brique par brique, mur par mur. Une histoire de l’abolitionnisme pénal

      Il y a d’abord une évidence : les services que les prisons sont censées rendre ne compenseront jamais les torts qu’elles causent. Depuis les années 1960, ce constat d’un immense gâchis a amené un vaste mouvement à œuvrer à l’abolitionnisme pénal : en finir avec toutes les prisons, mais aussi avec les autres institutions qui forment le système pénal, comme la police et les tribunaux. Ce projet politique poursuit ainsi un objectif ambitieux : rendre vraiment justice aux victimes et répondre à leurs besoins, en plus de prévenir les violences systémiques et interpersonnelles.

      En prenant appui sur les trajectoires transnationales des mouvements politiques qui ont mis au cœur de leur démarche la critique radicale du système carcéral et judiciaire, cet ouvrage, le premier du genre en langue française, offre une documentation indispensable pour inspirer les luttes contemporaines.

      https://luxediteur.com/catalogue/brique-par-brique-mur-par-mur
      #livre

  • De l’émeute à la démocratie | Alain Bertho
    https://blogs.mediapart.fr/alain-bertho/blog/200424/de-l-emeute-la-democratie

    Depuis le début du siècle, #émeutes et #soulèvements se succèdent partout. Les peuples y disent leur exigence d’égalité, de démocratie, de défense des communs et du vivant. Ces soulèvements sont autant de défaites. Comment rompre ce cycle de l’impuissance #politique ? Telle est la question posée par « De l’émeute à la démocratie » qui prolonge des interventions dans Mediapart ces dernières années.


    De l’émeute à la démocratie parait cette semaine aux éditions La Dispute. Ce livre est le fruit d’un long travail d’enquête jalonné déjà par quelques autres (1). Il est aussi le fruit d’une expérience militante pluri décennale et d’un constat : le bilan de notre génération est celui d’une succession d’échecs, ceux de toutes les tentatives de réinvention stratégique visant à résister au capitalisme financier : l’altermondialisme, le populisme de gauche, les « socialisme du XXI° siècle » latino-américain... Le pire est maintenant à l’ordre du jour.
    Comment puiser dans ces expériences et dans l’inventivité collective des peuples pour fonder la démocratie réelle dont l’humanité a aujourd’hui un besoin vital ? Ce #livre propose une lecture de notre expérience à partager et à débattre. En voici l’introduction (La politique n’est plus ce qu’elle était) et des extraits du premier chapitre (Une politique du corps)(11).

  • #Fascisme & #Extrême-droite – siamo tutti antifascisti

    Depuis l’arrêt de mes articles « Dans mon historique » (https://lunatopia.fr/categories/historique), je réfléchi au format qui me conviendrait pour les remplacer. Je l’ai dit dans le dernier en date, je sature du format, et j’ai envie d’écrire plus, de donner mon avis, au lieu de me contenter de relayer celui des autres.

    Et pourtant, je n’ai presque rien publié depuis janvier 2022 : un article sur mes débuts en linogravure (https://lunatopia.fr/blog/premiers-pas-linogravure), et trois articles sur mes lectures du début (https://lunatopia.fr/blog/mes-lectures-5) et de la fin de l’année (https://lunatopia.fr/blog/mes-lectures-6), ainsi que sur Mon territoire de Tess Sharpe (https://lunatopia.fr/blog/mon-territoire-tess-sharpe), mon roman préféré de 2022. [Edit : j’ai mis tellement de temps à finir cet article que j’ai depuis repris la publication des Dans mon historique (https://lunatopia.fr/categories/historique). Mais le constat de mon ras le bol tient toujours.]

    En revanche, après une grosse période de ras le bol généralisé, j’ai recommencé à lire, à écouter, à me renseigner. Mais au lieu de me laisser porter par l’actualité et surtout par les paniques morales du moment, c’est-à-dire par l’agenda médiatique de la droite et l’extrême-droite ; j’ai décidé de me tourner vers des lectures de fond, plus théoriques, ou en tout cas qui conservent leur intérêt une fois passée la polémique du moment.

    Ce qui m’a donné l’idée d’un nouveau type d’article, #recueil de liens là encore, mais avec plus de commentaires de ma part, et surtout : thématique. L’idée étant de pouvoir y revenir et les compléter au fur et à mesure que j’engrange des #ressources et des #références sur un sujet précis, afin de me constituer une base de connaissance militante à laquelle me référer et à partager, à la façon d’un #vade-mecum en quelque sorte.

    Et on commence par un sujet léger : le fascisme & l’extrême-droite.

    https://lunatopia.fr/blog/fascisme-extreme-droite-siamo-tutti-antifascisti

    #vademecum #bibliographie #liste #playlist #livres #articles #podcasts #films #vidéos #ressources

  • #Nantes, ville révoltée - Une contre visite de la cité des Ducs

    Ce livre n’est pas un manuel d’histoire ni un guide touristique mais une #dérive dans la ville de Nantes. Des grèves insurrectionnelles d’après-guerre aux récents débordements des cortèges de tête, de la Commune de Mai 68 aux journées fabuleuses contre l’aéroport de Notre-Dame-des-Landes, la Cité des Ducs se démarque par sa capacité à renverser l’ordre. Plus récemment, le gouvernement a tenté de dissoudre le média Contre Attaque, anciennement nommé Nantes Révoltée. Son équipe vous invite à travers ce livre à revisiter les #révoltes nantaises en parcourant une série de lieux emblématiques de la ville. Un « #contre-voyage à Nantes » hors des sentiers balisés, une madeleine de Proust saveur lacrymogène.

    https://www.editionsdivergences.com/livre/nantes-ville-revoltee-une-contre-visite-de-la-cite-des-ducs

    #livre #résistance #histoire #guide #contre-visite

  • Écolos, mais pas trop… - Mon blog sur l’écologie politique
    https://blog.ecologie-politique.eu/post/Ecolos-mais-pas-trop

    Jean-Baptiste Comby, Écolos, mais pas trop… Les Classes sociales face à l’enjeu environnemental, Raisons d’agir, 2024, 186 pages, 14 €

    Dans ce livre rapide et incisif, le sociologue Jean-Baptiste Comby analyse la manière dont les classes sociales, et au sein de celles-ci les pôles économique et culturel, interprètent diversement les problèmes écologiques actuels. Bourgeoisie, petite bourgeoisie et classes populaires font l’objet de trois grandes parties nourries par deux enquêtes, qualitative et quantitative, le tout étant illustré par des parcours biographiques et des extraits d’entretiens qui donnent à entendre le propos des enquêté·es.

    […]

    Lecture conseillée, donc, pour la précision des analyses en termes de classe et l’occasion pas si fréquente d’entendre les voix de personnes issues d’autres classes sur leur rapport à l’écologie. Vous pouvez aussi prendre connaissance du propos de Jean-Baptiste Comby dans une conférence gesticulée avec son camarade Anthony Pouliquen, une forme théâtralisée, à deux voix. Il y est question de yaourt bio compensé au Nutella (ou l’inverse) et de l’inspecteur Colombo. La captation vient elle aussi de sortir.

    https://www.youtube.com/watch?v=cpAY24KcGqw

    #recension #livre #Aude_Vidal #écologie #sociologie #classes_sociales #Jean-Baptiste_Comby #Anthony_Pouliquen #conférence_gesticulée

  • Le livre d’occasion en France : la grande étude
    https://actualitte.com/article/116682/economie/le-livre-d-occasion-en-france-la-grande-etude

    Pour rendre compte et comprendre les transformations du marché des livres d’occasion en France au cours de la dernière décennie, une vaste étude a été menée en 2022-2023 par le ministère de la Culture et la Sofia, sous la supervision du spécialiste du monde de l’édition, Bertrand Legendre. L’objectif : quantifier et comprendre ce secteur de la seconde main, en plein essor.

    #Livre #Edition #Occasion

    • Je ne lis pas beaucoup ces jours-ci, où l’on parle neuf et occasion, à quel point nous pourrions nous passer sans trop de dommages pour l’humanité de 90% de la production de livres...

    •  ??@roinu Si on commençait par se passer de l’armement avant les livres, ce serait nettement mieux.
      La grande baïne de l’ignorance et de la bêtise nous noie déjà avec surfant au premier rang nos dirigeantes, sur le dos de la survivance des intellectuelles et des artistes désormais inutiles, on la connait et on va pas se laisser faire.

  • Lecture d’un extrait du livre « Cent portraits vagues » de Milène Tournier, paru aux Éditions Lurlure en 2024.

    https://liminaire.fr/radio-marelle/article/cent-portraits-vagues-de-milene-tournier

    En une ou deux pages, parfois quelques lignes seulement, Milène Tournier parvient à dresser le portrait de femmes, d’hommes, d’âges et d’origines diverses, solitaires souvent, à un tournant de leur existence, avec une sensibilité bouleversante. Elle saisit l’essentielle d’une vie, d’un parcours, d’un moment, d’une personnalité, en allant droit au cœur de celle-ci, sans jamais les caricaturer, mais en rendant leur caractère au plus juste. On retrouve dans ce texte la maîtrise envoûtante de ses œuvres précédentes, entre poésie et théâtre, une voix singulière, un regard aiguisé sur le monde, à l’écoute de ses blessures, de son absurdité.

    (...) #Radio_Marelle, #Écriture, #Livre, #Lecture, #En_lisant_en_écrivant, #Podcast, #Sensation, #Biographie, #Littérature, #Édition, #Récit, #Portrait (...)

    https://liminaire.fr/IMG/mp4/en_lisant_cent_portraits_vagues_mile_ne_tournier.mp4

    https://lurlure.net/cent-portraits-vagues

  • Ligne de chemin de fer, ceinture verte, développement de la voiture individuelle
    http://carfree.fr/index.php/2024/04/11/ligne-de-chemin-de-fer-ceinture-verte-developpement-de-la-voiture-individuel

    Lisons ou re-lisons Mumford ! Dans son livre majeur publié en 1961 « La Cité à travers l’Histoire » (trad. de : The City in History, its Origins, its Transformations and its Prospects), Lewis Lire la suite...

    #Alternatives_à_la_voiture #Fin_de_l'automobile #Livres #Marche_à_pied #Ressources #Transports_publics #Vélo #banlieues #campagne #histoire #périurbanisation #planification #société #trains #transports #transports_en_commun #urbanisme #usa #ville

  • Araser, creuser, terrasser : comment le béton façonne le monde, Nelo Magalhães
    https://www.terrestres.org/2024/04/05/araser-creuser-terrasser-comment-le-beton-faconne-le-monde

    Nos infrastructures pèsent un poids matériel et écologique dont nous n’avons pas idée. Ainsi, une autoroute contemporaine exige 30 tonnes de sable et gravier par mètre. Pour commencer à explorer cette histoire environnementale des grandes infrastructures, nous publions l’introduction du livre Accumuler du béton, tracer des routes.

    #livre #béton #infrastructures #autoroutes #écologie

    • Accumuler du béton, tracer des routes. Une histoire environnementale des #grandes_infrastructures

      Dans les décennies d’après-guerre, des milliers de kilomètres de routes et d’autoroutes sortent de terre pour soutenir l’intensification du trafic et relier, à travers les paysages agricoles remembrés, les métropoles aux zones industrielles, ports, aéroports, centrales électriques et complexes touristiques. C’est le début d’une « Grande accélération » qui bouleverse la production de l’espace. Sur les chantiers, le béton coule à flots tandis que le bruit des machines (qui ne font pas grève) a remplacé le tumulte des terrassiers. La chimie et l’industrialisation des techniques affranchissent la construction des contraintes du relief, du climat et de la géologie : « abstraire le sol » pour faire passer la route – et supporter le poids des camions – devient un leitmotiv de « l’aménagement du territoire » qui nécessite l’extraction et le déplacement continus de milliards de mètres cubes de terres, sable et granulat.

      Si les dégâts se font rapidement sentir dans le lit des rivières, les abords des carrières et dans l’atmosphère – sans parler de la mortalité sur les routes –, la frénésie du bitume n’a jamais faibli : il faut sans cesse réparer, épaissir, étendre cette infrastructure dévoreuse d’hectares et d’argent public. Ce livre offre une remarquable vue en coupe de cet engrenage technique, économique et politique. Alors que les luttes se multiplient contre le modèle routier et l’industrie cimentière, il identifie quelques verrous qui rendent le bâti si pesant. Un préalable pour penser des perspectives plus légères.

      https://lafabrique.fr/accumuler-du-beton-tracer-des-routes

      #sable #livre #Nelo_Magalhães #Nelo_Magalhaes

  • Pourquoi « la naissance des divinités au néolithique est liée à la domestication des plantes au Proche-Orient »
    https://www.lemonde.fr/le-monde-des-religions/article/2024/04/07/pourquoi-la-naissance-des-divinites-au-neolithique-est-liee-a-la-domesticati

    Notre monde contemporain n’appréhende la technique qu’à l’aune de son application, d’où une approche biaisée de son origine. Or, les grandes innovations techniques sont trop complexes pour pouvoir envisager leur application dès le début.

    Les premiers développements sont en réalité le fruit d’une volonté d’explorer un phénomène fascinant, dont l’irruption interpelle les conceptions du monde et du cosmos – ainsi de la poudre à canon inventée par des alchimistes chinois fascinés par le souffle de l’explosion.

    Le concept de « technopoïèse », que j’ai récemment proposé, désigne cette phase originelle dans laquelle le processus revêt plus d’importance que le produit qui en est issu. Par la suite, dans la phase technologique qui lui succède, le produit fini se détache du processus. Devenue autonome, sa production peut se voir guidée par des critères utilitaires.

    Les trois millénaires d’extension du processus de domestication des plantes au Proche-Orient correspondent précisément à une phase de technopoïèse, dans laquelle les plantes sont mises en culture au nom de la résonance cosmique du processus, et non pas en vue de leur consommation. J’affirme donc que c’est cette dimension cosmique qui deviendra le moteur du processus de domestication.

    #agriculture #histoire #archéologie #technique #technopoïèse #spiritualité #utilitarisme #Nissim_Amzallag #livre

  • La tyrannie de l’Homo Automobilus
    http://carfree.fr/index.php/2024/04/08/la-tyrannie-de-lhomo-automobilus

    Fondateur du Groupe international d’architecture prospective, Michel Ragon montre dans cet ouvrage de 1971 intitulé « Les Erreurs Monumentales » les aberrations de la politique actuelle en matière de construction. Choisissant des Lire la suite...

    #Fin_de_l'automobile #Livres #critique #dictature #histoire #santé #urbanisme

  • Des #mines pour sauver la planète ?

    Pour réaliser la #transition_énergétique, il faudrait extraire en vingt ans autant de métaux qu’au cours de toute l’histoire de l’humanité. C’est « l’un des grands #paradoxes de notre temps », constate #Celia_Izoard.

    Journaliste, traductrice et philosophe, Celia Izoard examine depuis plusieurs années les impacts sociaux et écologiques du développement des nouvelles technologies. Ce nouvel ouvrage s’intègre dans cette veine en explorant les effets délétères de la transition énergétique et numérique.

    La #transition verte nécessite d’extraire du #sous-sol des quantités colossales de #métaux. Ils seront ensuite destinés à la production des énergies bas carbone qui sauveront la planète. Cette course aux métaux supposée sauver la planète du dérèglement climatique n’aggrave-t-elle pas le chaos écologique, les dégâts environnementaux et les inégalités sociales ?

    Celia Izoard mène une vaste enquête sur ce phénomène mondial, inédit et invisible. Si d’autres ouvrages ont également mis en avant l’insoutenabilité physique d’une telle transition, la force de ce livre est d’élaborer un panorama de cette question grâce à des enquêtes de terrain et une analyse fournie sur les aspects culturels, politiques, économiques et sociaux des mines et des métaux.

    Le #mythe de la #mine_verte

    Au début du livre, Celia Izoard part à la recherche des mines du XXIe siècle, « responsables », « relocalisées », « 4.0 », ou encore « décarbonées, digitales et automatisées ». Par un argumentaire détaillé et une plongée dans des mines en #Espagne ou au #Maroc, l’autrice démontre que derrière ce discours promu par les institutions internationales, les dirigeants politiques et les milieux d’affaires se cache un autre visage. Celui de la mine prédatrice, énergivore et destructrice. Celui qui dévore l’habitat terrestre et le vivant.

    De façon locale, le processus de « radicalisation » de la mine industrielle est détaillé par le prisme de ses ravages sociaux. La mine est avant tout « une gigantesque machine de #déracinement » (p. 54), qui vide des espaces en expropriant les derniers peuples de la planète. En outre, la mine contemporaine expose les populations à diverses maladies et à l’intoxication. Dans la mine de #Bou-Azzer au Maroc, on extrait du « #cobalt_responsable » pour les #voitures_électriques ; mineurs et riverains souffrent de cancers et de maladies neurologiques et cardiovasculaires.

    L’ampleur globale de la #prédation du #secteur_minier au XXIe siècle est aussi esquissée à travers la production grandissante de #déchets et de #pollutions. Le secteur minier est l’industrie la plus polluante au monde. Par exemple, une mine industrielle de #cuivre produit 99,6% de déchets. Stockés à proximité des #fosses_minières, les stériles, de gigantesques volumes de roches extraits, génèrent des dégagements sulfurés qui drainent les #métaux_lourds contenus dans les roches et les font migrer vers les cours d’#eau. Les tuyaux des usines crachent en permanence les #résidus_toxiques qui peuvent, en fonction du #minerai traité, se composer de #cyanure, #acides, #hydrocarbures, #soude, ou des #poisons connus comme le #plomb, l’#arsenic, le #mercure, etc. Enfin, les #mines_zéro_carbone sont des #chimères car elles sont toutes très énergivores. La quantité nécessaire pour extraire, broyer, traiter et raffiner les métaux représentent environ 8 à 10% de l’#énergie totale consommée dans le monde, faisant de l’#industrie_minière un principal responsable du dérèglement climatique.

    La face sombre de la transition énergétique

    Dans la seconde partie, Celia Izoard montre que les élites sont « en train d’enfouir la crise climatique et énergétique au fond des mines » (p. 62). Cet impératif d’extraire des métaux pour la transition coïncide avec le retour de la question des #matières_premières sur la scène publique, dans un contexte où les puissances occidentales ont perdu leur hégémonie face à la Chine et la Russie.

    Depuis quand la transition implique-t-elle une relance minière et donc le passage des #énergies_fossiles aux métaux ? Cet argument se diffuse clairement à la suite de la publication d’un rapport de la Banque mondiale en 2017. En collaboration avec le plus gros lobby minier du monde (l’ICMM, International Council on Mining and Metals), le rapport stipule que l’industrie minière est appelée à jouer un rôle majeur dans la lutte contre le changement climatique – en fournissant des technologies bas carbones. #Batteries électriques, rotors d’éoliennes, électrolyseurs, cellules photovoltaïques, câbles pour la vague d’électrification mondiale, toutes ces infrastructures et technologies requièrent néanmoins des quantités faramineuses de métaux. La transition énergétique des sociétés nécessiterait d’avoir recours à de nombreux métaux de base (cuivre, #nickel, #chrome ou #zinc) mais aussi de #métaux_rares (#lithium, #cobalt, #lanthanide). L’#électrification du parc automobile français exige toute la production annuelle de cobalt dans le monde et deux fois plus que la production annuelle de lithium.

    Au XXIe siècle, la matière se rappelle donc brusquement aux puissances occidentales alors qu’elles s’en rêvaient affranchies dans les années 1980. Pourtant, les sociétés occidentales n’avaient évidemment jamais cessé de se fournir en matières premières en s’approvisionnant dans les mines et les industries délocalisées des pays du Sud. Ce processus de déplacement avait d’ailleurs contribué à rendre invisible la mine et ses pollutions du paysage et de l’imaginaire collectif.

    Sous l’étendard de la transition qui permet d’anticiper les contestations environnementales et de faire adhérer les populations à cette inédite course mondiale aux métaux se cache le projet d’une poursuite de la croissance et des modes de vie aux besoins énergétiques et métalliques démesurés. Cette nouvelle légende de l’Occident capitaliste justifie une extraction de métaux qui seront également destinés aux entreprises européennes du numérique, de l’automobile, l’aérospatial, l’armement, la chimie, le nucléaire et toutes les technologies de pointe.

    « Déminer le #capitalisme »

    Ce #livre explore ensuite dans une troisième partie l’histoire du capitalisme à travers celle de la mine et des métaux. Elle montre comment s’est fondé un modèle extractiviste reposant sur des idéologies : le Salut, le Progrès, le Développement – et désormais la Transition ? L’extractivisme est permis par l’élaboration et le développement d’un ensemble de croyances et d’imaginaires qui lui donnent une toute puissance. C’est ce que Celia Izoard nomme : la « #cosmologie_extractiviste » (p. 211). Accompagnée par une législation favorable et des politiques coloniales menées par l’État et la bourgeoisie, puis par l’industrialisation au XIXe siècle, cette matrice a favorisé notre dépendance à un régime minier. Aux yeux du peuple amazonien des Yanomamis, les Blancs sont des « mangeurs de terre » (p. 215).

    Comment sortir de cette vision du monde occidental structuré autour de la mine dont l’objectif est l’accumulation de capital et de puissance. La solution minière, comme technologique, à la crise climatique est un piège, affirme Celia Izoard. Le mouvement climat doit passer par la #décroissance_minérale, par un « sevrage métallique autant qu’un sevrage énergétique » (p. 291). La réduction des consommations énergétiques et matérielles est une solution réaliste. Le quotidien des occidentaux est surminéralisé à l’instar de l’objet emblématique de notre surconsommation quotidienne de métaux : le smartphone. Il contient à lui seul, sous la forme d’alliage complexe, plus de 50 métaux. Les métaux ne devraient-ils pas être réservés aux usages déterminés comme essentiels à la vie humaine ?

    Pour sortir du #régime_minier, il est d’abord urgent de rendre visible la surconsommation de métaux dans le débat public. D’une part, cela doit passer par des mesures politiques. Instaurer un bilan métaux au même titre que le bilan carbone car l’idéologie de la transition a créé une séparation illusoire entre les ressources fossiles toxiques (charbon, pétrole et gaz) et l’extraction métallique, considérée comme salutaire et indispensable. Ou encore cibler la surconsommation minérale des plus riches en distinguant émissions de luxe et émissions de subsistance, comme le propose déjà Andreas Malm. D’autre part, pour « déminer le capitalisme » (p. 281), cela devra passer par un processus de réflexions et de débats collectifs et démocratiques, de mouvements sociaux et de prises de consciences individuelles, en particulier dans les pays hyperindustrialisés dont la surconsommation de métaux est aberrante.

    Non content de contourner l’obstacle de la « transition énergétique », l’extractivisme pousse les frontières toujours plus loin, justifiant la conquête de nouveaux eldorados : le Groenland, les fonds océaniques, voire les minerais extraterrestres. Face au processus de contamination et de dégradation de la planète mené par le secteur minier et industriel, les luttes contre les projets s’intensifient. Récemment, ce sont les Collas, peuple indigène du Chili, qui s’opposent aux géants miniers. Ces derniers ont pour projet d’extraire du lithium dans le salar de Maricunga ; cela entraînera le pompage de millions de mètres cubes d’eau dans les profondeurs des déserts de sel, ces emblèmes de la cordillère des Andes. La communauté colla en sera d’autant plus affaiblie d’autant plus qu’elle souffre déjà de l’exode urbain et de l’assèchement de la région. Les éleveurs devront aussi abandonner leurs élevages et s’engager vers les immenses cités minières de la région. En outre, la transhumance, la biodiversité, une quarantaine d’espèces sauvages locales (le flamant rose chilien, les vigognes ou les guanacos, etc.), sont menacées. Appuyés par leur porte-parole Elena Rivera, ils ne comptent pas se laisser faire et ont fait un recours au Tribunal environnemental de Santiago, qui traite des nombreuses controverses écologiques dans le pays. Au XXIe siècle, les débats et luttes organisés autour de l’extraction au Chili, deuxième pays concentrant le plus de lithium sur la planète, prouvent que les pauvres et les derniers peuples de la planète sont en première ligne face aux effets délétères sous-jacents à la « transition verte ».

    https://laviedesidees.fr/Des-mines-pour-sauver-la-planete
    #changement_climatique #climat #extractivisme

  • Une collègue vient de m’annoncer que #SciHub n’est plus mis à jour... donc impossible de trouver via ce canal les #articles_scientifiques récents...
    C’est une très mauvaise nouvelle... est-ce que des @seenthis·ien·nes en savent quelque chose ? Des alternatives se dessinent ?

    Sur #Z-library et #Libgen plutôt #livres qu’articles...

    Announcement : Sci-Hub has been paused, NO NEW ARTICLES will be downloadable via Sci-Hub until further notice
    https://www.reddit.com/r/scihub/comments/lofj0r/announcement_scihub_has_been_paused_no_new

    #édition_scientifique #scihub

    • Non, pas plus de nouvelles que ça de mon côté sur le devenir de scihub. Et oui, zlib ça ne remplace pas. Et trop peu de collègues jouent le jeu de déposer leurs articles acceptés sur les plateformes du type HAL. Dans mon labo, un mail a encore été envoyé il y a peu pour rappeler qu’on avait parfaitement le droit de faire ces dépôts, et que les clauses d’exclusivité édictées par les revues étaient du bullshit.

    • Les collègues qui ne mettent pas leurs texte sur #HAL, je ne comprends pas non plus...
      Mais cela ne résoudrait pas le problème... et, de manière plus radicale, je ne comprends pas comment les collègues peuvent continuer à publier dans des revues prédatrices... mais ça... c’est un combat encore plus difficile à mener... surtout vu la tournure que prennent (et que beaucoup ont déjà pris depuis bien lurettes) les universités...

    • le bot télégram : scihubot est toujours dispo (mais nécessite l’installation de l’appli)

      il suffit de poster un message avec le lien du papier et il donne un pdf en réponse...

      après les papiers très récents sont toujours difficile à dégôter

    • merci à vous toustes... je comprends la « radicalité » de @freakonometrics, mais ceci dit il y a des articles qui méritent d’être lus, même si ils faut les trouver derrière paywall (et même quand les chercheur·es mettent sur HAL ou similaires, parfois iels ne mentionnent pas les numéros de page... ce qui fait que c’est plus compliqué de les citer)...
      @ant1 le problème n’est pas l’accès à sci-hub en tant que tel, mais que sci-hub a arrêter de mettre des nouveaux articles... mais je vais peut-être essayer le bot télégram (vu que j’ai l’appli déjà).
      Toujours aussi une alternative : écrire aux auteur·es... généralement ça marche bien :-)

    • @freakonometrics , j’entends bien ton point de vue, mais pour moi il y a un hic, et même deux : déjà utiliser la notion de « mérite » pour faire un tri dans les papiers, je m’en garderais bien, terrain glissant.

      Par ailleurs, si j’ai besoin d’utiliser un résultat existant dans un papier, genre un théorème démontré par bidule, publié dans une revue prédatrice et non partagé sur HAL ou autre, je fais quoi ? Si je ne cite pas, sûr que je vais me faire reprendre par les relecteur·ices du papier. Et là je leur dit quoi ? Non désolé je ne vais pas citer bidule car iel n’a pas mis son papier en open access ? Ça m’étonnerait que ça passe.

      Et oui @cdb_77 , on oublie souvent qu’il petit mail aux auteur·es suffit souvent (et peut permettre éventuellement d’engager la discussion sur le problème de l’accès aux articles).