• Raniero Panzieri, Mario Tronti, Gaspare De Caro, Toni Negri (Turin, 1962)

      Conférence de Potere operaio à l’Université de Bologne en 1970.

      Manifestation de Potere operaio à Milan en 1972.

      Negri lors de son procès après la rafle du 7 avril 1979

      #Toni_Negri
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Toni_Negri

      Lénine au-delà de Lénine, Toni Negri (extrait de 33 Leçons sur Lénine), 1972-1973
      http://revueperiode.net/lenine-au-dela-de-lenine

      Domination et sabotage - Sur la méthode marxiste de transformation sociale, Antonio Negri (pdf), 1977
      https://entremonde.net/IMG/pdf/a6-03dominationsabotage-0-livre-high.pdf

      L’Anomalie sauvage d’Antonio Negri, Alexandre Matheron, 1983
      https://books.openedition.org/enseditions/29155?lang=fr

      Sur Mille Plateaux, Toni Negri, Revue Chimères n° 17, 1992
      https://www.persee.fr/doc/chime_0986-6035_1992_num_17_1_1846

      Les coordinations : une proposition de communisme, Toni Negri, 1994
      https://www.multitudes.net/les-coordinations-une-proposition

      Le contre-empire attaque, entretien avec Toni Negri, 2000
      https://vacarme.org/article28.html

      [#travail #multitude_de_singularités à 18mn] : Toni Negri, 2014
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-chemins-de-la-philosophie/actualite-philosophique-toni-negri-5100168

      à l’occasion de la parution du Hors-Série de Philosophie Magazine sur le thème, les philosophes et le #communisme.

      Socialisme = soviets + électricité, Toni Negri, 2017
      http://revueperiode.net/les-mots-dordre-de-lenine

      L’appropriation du capital fixe : une métaphore ?
      Antonio Negri, Multitudes 2018/1 (n° 70)
      https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-1-page-92.htm

      Domination et sabotage - Entretien avec Antonio Negri, 2019
      https://vacarme.org/article3253.html

    • Les nécros de Ration et de L’imMonde ont par convention une tonalité vaguement élogieuse mais elles sont parfaitement vides. Celle de l’Huma parait plus documentée mais elle est sous paywall...

      edit L’Huma c’est encore et toujours la vilaine bêtise stalinienne :

      Figure de prou de "l’opéraïsme" dans les années 1960, arrêté durant les années de plomb en Italie, penseur de la "multitude" dans les années 2000, le théoricien politique, spécialiste de la philosophie du droit et de Hegel, est mort à Paris à l’âge de 90 ans.
      Pierre Chaillan

      (...) Figure intellectuelle et politique, il a traversé tous les soubresauts de l’histoire de l’Italie moderne et restera une grande énigme au sein du mouvement communiste et ouvrier international . Né le 1er août 1933 dans l’Italie mussolinienne, d’un père communiste disparu à la suite de violences infligées par une brigade fasciste, Antonio Negri est d’abord militant de l’Action catholique avant d’adhérer en 1956 au Parti socialiste italien, qu’il quittera rapidement.

      Le théoricien, animateurs de “l’opéraïsme”

    • Un journaliste du Monde « Gauchologue et fafologue / Enseigne @sciencespo » diffuse sur X des extraits de l’abject "Camarade P38" du para-policier Fabrizio Calvi en prétendant que cette bouse « résume les critiques ».
      Mieux vaut se référer à EMPIRE ET SES PIÈGES - Toni Negri et la déconcertante trajectoire de l’opéraïsme italien, de Claudio Albertani https://infokiosques.net/spip.php?article541

    • #opéraïsme

      http://www.zones-subversives.com/l-op%C3%A9ra%C3%AFsme-dans-l-italie-des-ann%C3%A9es-1960

      Avant l’effervescence de l’Autonomie italienne, l’opéraïsme tente de renouveler la pensée marxiste pour réfléchir sur les luttes ouvrières. Ce mouvement politique et intellectuel se développe en Italie dans les années 1960. Il débouche vers une radicalisation du conflit social en 1968, et surtout en 1969 avec une grève ouvrière sauvage. Si le post-opéraïsme semble relativement connu en France, à travers la figure de Toni Negri et la revue Multitudes, l’opéraïsme historique demeure largement méconnu.

      Mario Tronti revient sur l’aventure de l’opéraïsme, à laquelle il a activement participé. Son livre articule exigence théorique et témoignage vivant. Il décrit ce mouvement comme une « expérience de pensée - d’un cercle de personnes liées entre elles indissolublement par un lien particulier d’amitié politique ». La conflictualité sociale et la radicalisation des luttes ouvrières doit alors permettre d’abattre le capitalisme.

    • IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI, Ago 17, 2023,
      di ROBERTO CICCARELLI.

      http://www.euronomade.info/?p=15660

      Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

      Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

      Novant’anni sono un secolo breve.

      Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

      Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.

      È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

      Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?

      Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

      Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?

      Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

      E che cosa possedeva quella sinistra?

      Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

      Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?

      Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

      Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?

      Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

      L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?

      È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

      Che cosa era diventato?

      Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

      Quale?
      Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

      Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?

      Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

      In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?

      Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

      Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?

      Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

      Anche Rossanda ti criticò…

      Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

      C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?

      Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

      Perché allora hai deciso di tornare in Italia?

      Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

      Che ricordo oggi hai di lei?

      Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

      Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.

      Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

      Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?

      È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

      Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…

      Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

      Esule, ancora, oggi?

      Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

      Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?

      Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

      I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?

      Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

      *

      Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

      In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

      A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

      #autonomie #prison #exil

    • Le philosophe italien Toni Negri est mort

      Inspirant les luttes politiques en Italie dans les années 1960 et 1970, son travail a également influencé le mouvement altermondialiste du début du XXIe siècle.


      Toni Negri, à Rome (Italie), en septembre 2010. STEFANO MONTESI - CORBIS / VIA GETTY IMAGES

      Il était né dans l’Italie fasciste. Il disparaît alors que l’extrême droite gouverne à nouveau son pays. Le philosophe Toni Negri, acteur et penseur majeur de plus d’un demi-siècle de luttes d’extrême gauche, est mort dans la nuit du 15 au 16 décembre à Paris, à l’âge de 90 ans, a annoncé son épouse, la philosophe française Judith Revel.

      « C’était un mauvais maître », a tout de suite réagi, selon le quotidien La Repubblica, le ministre de la culture italien, Gennaro Sangiuliano. « Tu resteras à jamais dans mon cœur et dans mon esprit, cher Maître, Père, Prophète », a écrit quant à lui, sur Facebook, l’activiste Luca Casarini, l’un des leaders du mouvement altermondialiste italien. Peut-être aurait-il vu dans la violence de ce contraste un hommage à la puissance de ses engagements, dont la radicalité ne s’est jamais affadie.

      Né le 1er août 1933 à Padoue, Antonio Negri, que tout le monde appelle Toni, et qui signera ainsi ses livres, commence très tôt une brillante carrière universitaire – il enseigne à l’université de Padoue dès ses 25 ans –, tout en voyageant, en particulier au Maghreb et au Moyen-Orient. C’est en partageant la vie d’un kibboutz israélien que le jeune homme, d’abord engagé au parti socialiste, dira être devenu communiste. Encore fallait-il savoir ce que ce mot pouvait recouvrir.

      Cette recherche d’une nouvelle formulation d’un idéal ancien, qu’il s’agissait de replacer au centre des mutations du monde, parcourt son œuvre philosophique, de Marx au-delà de Marx (Bourgois, 1979) à l’un de ses derniers livres, Inventer le commun des hommes (Bayard, 2010). Elle devient aussi l’axe de son engagement militant, qui va bientôt se confondre avec sa vie.

      Marxismes hétérodoxes

      L’Italie est alors, justement, le laboratoire des marxismes dits hétérodoxes, en rupture de ban avec le parti communiste, en particulier l’« opéraïsme » (de l’italien « operaio », « ouvrier »). Toni Negri le rejoint à la fin des années 1960, et s’en fait l’un des penseurs et activistes les plus emblématiques, toujours présent sur le terrain, dans les manifestations et surtout dans les usines, auprès des ouvriers. « Il s’agissait d’impliquer les ouvriers dans la construction du discours théorique sur l’exploitation », expliquera-t-il dans un entretien, en 2018, résumant la doctrine opéraïste, particulièrement celle des mouvements auxquels il appartient, Potere Operaio, puis Autonomia Operaia.

      Des armes circulent. Le terrorisme d’extrême droite et d’extrême gauche ravage le pays. Bien qu’il s’oppose à la violence contre les personnes, le philosophe est arrêté en 1979, soupçonné d’avoir participé à l’assassinat de l’homme politique Aldo Moro, accusation dont il est rapidement blanchi. Mais d’autres pèsent sur lui – « association subversive », et complicité « morale » dans un cambriolage – et il est condamné à douze ans de prison.
      Elu député du Parti radical en 1983, alors qu’il est encore prisonnier, il est libéré au titre de son immunité parlementaire. Quand celle-ci est levée [par un vote que le parti Radical a permis de rendre majoritaire, ndc], il s’exile en France. Rentré en Italie en 1997, il est incarcéré pendant deux ans, avant de bénéficier d’une mesure de semi-liberté. Il est définitivement libéré en 2003.

      Occupy Wall Street et les Indignés

      Il enseigne, durant son exil français, à l’Ecole normale supérieure, à l’université Paris-VIII ou encore au Collège international de philosophie. Ce sont aussi des années d’intense production intellectuelle, et, s’il porte témoignage en publiant son journal de l’année 1983 (Italie rouge et noire, Hachette, 1985), il développe surtout une pensée philosophique exigeante, novatrice, au croisement de l’ontologie et de la pensée politique. On peut citer, entre beaucoup d’autres, Les Nouveaux Espaces de liberté, écrit avec Félix Guattari (Dominique Bedou, 1985), Spinoza subversif. Variations (in)actuelles (Kimé, 1994), Le Pouvoir constituant. Essai sur les alternatives de la modernité (PUF, 1997) ou Kairos, Alma Venus, multitude. Neuf leçons en forme d’exercices (Calmann-Lévy, 2000).
      Ce sont cependant les livres qu’il coécrit avec l’Américain Michael Hardt qui le font connaître dans le monde entier, et d’abord Empire (Exils, 2000), où les deux philosophes s’efforcent de poser les fondements d’une nouvelle pensée de l’émancipation dans le contexte créé par la mondialisation. Celle-ci, « transition capitale dans l’histoire contemporaine », fait émerger selon les auteurs un capitalisme « supranational, mondial, total », sans autres appartenances que celles issues des rapports de domination économique. Cette somme, comme la suivante, Multitude. Guerre et démocratie à l’époque de l’Empire (La Découverte, 2004), sera une des principales sources d’inspiration du mouvement altermondialiste, d’Occupy Wall Street au mouvement des Indignés, en Espagne.

      C’est ainsi que Toni Negri, de l’ébullition italienne qui a marqué sa jeunesse et décidé de sa vie aux embrasements et aux espoirs du début du XXIe siècle, a traversé son temps : en ne lâchant jamais le fil d’une action qui était, pour lui, une forme de pensée, et d’une pensée qui tentait d’agir au cœur même du monde.
      Florent Georgesco
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/12/16/le-philosophe-italien-toni-negri-est-mort_6206182_3382.html

      (article corrigé trois fois en 9 heures, un bel effort ! il faut continuer !)

    • Pouvoir ouvrier, l’équivalent italien de la Gauche prolétarienne

      Chapeau le Diplo, voilà qui est informé !
      En 1998, le journal avait titré sur un mode médiatico-policier (« Ce que furent les “années de plomb” en Italie »). La réédition dans un Manière de voir de 2021 (long purgatoire) permis un choix plus digne qui annonçait correctement cet article fort utile : Entre « compromis historique » et terrorisme. Retour sur l’Italie des années 1970.
      Diplo encore, l’iconographie choisit d’ouvrir l’oeil... sur le rétroviseur. J’identifie pas le leader PCI (ou CGIL) qui est à la tribune mais c’est évidement le Mouvement ouvrier institué et son rôle (historiquement compromis) d’encadrement de la classe ouvrière qui est mis en avant.

      #média #gauche #Italie #Histoire #Potere_operaio #PCI #lutte_armée #compromis_historique #terrorisme

      edit

      [Rome] Luciano Lama, gli scontri alla Sapienza e il movimento del ’77
      https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/17_febbraio_16/scontri-sapienza-lama-foto-6ad864d0-f428-11e6-a5e5-e33402030d6b.shtml

      «Il segretario della Cgil Luciano Lama si è salvato a stento dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli studenti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli incidenti con la testa spaccata e varie ferite». E’ la cronaca degli scontri alla Sapienza riportata da Corriere il 18 febbraio del 1977, un giorno dopo la “cacciata” del leader della CGIL Luciano Lama dall’ateneo dove stava tenendo un comizio. Una giornata di violenza che diventerà il simbolo della rottura tra la sinistra istituzionale, rappresentata dal Pci e dal sindacato, e la sinistra dei movimenti studenteschi. Nella foto il camion utilizzato come palco da Luciano Lama preso d’assalto dai contestatori alla Sapienza (Ansa)

    • ENTRE ENGAGEMENT RÉVOLUTIONNAIRE ET PHILOSOPHIE
      Toni Negri (1933-2023), histoire d’un communiste
      https://www.revolutionpermanente.fr/Toni-Negri-1933-2023-histoire-d-un-communiste

      Sans doute est-il compliqué de s’imaginer, pour les plus jeunes, ce qu’a pu représenter Toni Negri pour différentes générations de militant.es. Ce qu’il a pu symboliser, des deux côtés des Alpes et au-delà, à différents moments de l’histoire turbulente du dernier tiers du XXème siècle, marqué par la dernière poussée révolutionnaire contemporaine – ce « long mois de mai » qui aura duré plus de dix ans, en Italie – suivie d’un reflux face auquel, loin de déposer les armes, Negri a choisi de résister en tentant de penser un arsenal conceptuel correspondant aux défis posés par le capitalisme contemporain. Tout en restant, jusqu’au bout, communiste. C’est ainsi qu’il se définissait.

    • À Toni Negri, camarade et militant infatigable
      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/181223/toni-negri-camarade-et-militant-infatigable

      Toni Negri nous a quittés. Pour certains d’entre nous, c’était un ami cher mais pour nous tous, il était le camarade qui s’était engagé dans le grand cycle des luttes politiques des années soixante et dans les mouvements révolutionnaires des années soixante-dix en Italie. Il fut l’un des fondateurs de l’opéraïsme et le penseur qui a donné une cohérence théorique aux luttes ouvrières et prolétariennes dans l’Occident capitaliste et aux transformations du Capital qui en ont résulté. C’est Toni qui a décrit la multitude comme une forme de subjectivité politique qui reflète la complexité et la diversité des nouvelles formes de travail et de résistance apparues dans la société post-industrielle. Sans la contribution théorique de Toni et de quelques autres théoriciens marxistes, aucune pratique n’aurait été adéquate pour le conflit de classes.
      Un Maître, ni bon ni mauvais : c’était notre tâche et notre privilège d’interpréter ou de réfuter ses analyses. C’était avant tout notre tâche, et nous l’avons assumée, de mettre en pratique la lutte dans notre sphère sociale, notre action dans le contexte politique de ces années-là. Nous n’étions ni ses disciples ni ses partisans et Toni n’aurait jamais voulu que nous le soyons. Nous étions des sujets politiques libres, qui décidaient de leur engagement politique, qui choisissaient leur voie militante et qui utilisaient également les outils critiques et théoriques fournis par Toni dans leur parcours.

    • Toni Negri, l’au-delà de Marx à l’épreuve de la politique, Yann Moulier Boutang
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/toni-negri-lau-dela-de-marx-a-lepreuve-de-la-politique-20231217_Z5QALRLO7

      Il n’est guère de concepts hérités du marxisme qu’il n’ait renouvelés de fond en comble. Contentons-nous ici de quelques notions clés. La clé de l’évolution du capitalisme, ne se lit correctement que dans celle de la composition du travail productif structuré dans la classe ouvrière et son mouvement, puis dans les diverses formes de salariat. Le Marx le plus intéressant pour nous est celui des Grundrisse (cette esquisse du Capital). C’est le refus du travail dans les usines, qui pousse sans cesse le capitalisme, par l’introduction du progrès technique, puis par la mondialisation, à contourner la « forteresse ouvrière ». Composition de classe, décomposition, recomposition permettent de déterminer le sens des luttes sociales. Negri ajoute à ce fond commun à tous les operaïstes deux innovations : la méthode de la réalisation de la tendance, qui suppose que l’évolution à peine perceptible est déjà pleinement déployée, pour mieux saisir à l’avance les moments et les points où la faire bifurquer. Deuxième innovation : après l’ouvrier qualifié communiste, et l’ouvrier-masse (l’OS du taylorisme), le capitalisme des années 1975-1990 (celui de la délocalisation à l’échelle mondiale de la chaîne de la valeur) produit et affronte l’ouvrier-social.

      C’est sur ce passage obligé que l’idée révolutionnaire se renouvelle. L’enquête ouvrière doit se déplacer sur ce terrain de la production sociale. La question de l’organisation, de la dispersion et de l’éclatement remplace la figure de la classe ouvrière et de ses allié.e.s. L’ouvrier social des années 1975 devient la multitude. Cela paraît un diagramme abstrait. Pourtant les formes de lutte comme les objectifs retenus, les collectifs des travailleuses du soin, de chômeurs ou d’intérimaires, les grèves des Ubereat témoignent de l’actualité de cette perspective. Mais aussi de ses limites, rencontrées au moment de s’incarner politiquement. (1)

      https://justpaste.it/3t9h9

      edit « optimisme de la raison, pessimisme de la volonté », T.N.
      Ration indique des notes qui ne sont pas publiées...

      Balibar offre une toute autre lecture des apports de T.N. que celle du très recentré YMB
      https://seenthis.net/messages/1032920

      #marxisme #mouvements_sociaux #théorie #compostion_de_classe #refus_du_travail #luttes_sociales #analyse_de_la tendance #ouvrier_masse #ouvrier_social #enquête_ouvrière #production_sociale #multitude #puissance #pouvoir

    • Décider en Essaim, Toni Negri , 2004
      https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=pqBZJD5oFJY

      Toni Negri : pour la multitude, Michael Löwy
      https://www.en-attendant-nadeau.fr/2023/12/18/toni-negri

      Avec la disparition d’Antonio Negri – Toni pour les amis – la cause communiste perd un grand penseur et un combattant infatigable. Persécuté pour ses idées révolutionnaires, incarcéré en Italie pendant de longues années, Toni est devenu célèbre grâce à ses ouvrages qui se proposent, par une approche philosophique inspirée de #Spinoza et de #Marx, de contribuer à l’émancipation de la multitude

      .

    • Un congedo silenzioso, Paolo Virno
      https://ilmanifesto.it/un-congedo-silenzioso


      Toni Negri - Tano D’Amico /Archivio Manifesto

      Due anni fa, credo, telefona Toni. Sarebbe passato per Roma, mi chiede di vederci. Un’ora insieme, con Judith, in una casa vuota nei pressi di Campo de’ Fiori (un covo abbandonato, avrebbe pensato una canaglia dell’antico Pci). Non parliamo di niente o quasi, soltanto frasi che offrono un pretesto per tacere di nuovo, senza disagio.

      Ebbe luogo, in quella casa romana, un congedo puro e semplice, non dissimulato da nenie cerimoniose. Dopo anni di insulti pantagruelici e di fervorose congratulazioni per ogni tentativo di trovare la porta stretta attraverso cui potesse irrompere la lotta contro il lavoro salariato nell’epoca di un capitalismo finalmente maturo, un po’ di silenzio sbigottito non guastava. Anzi, affratellava.

      Ricordo Toni, ospite della cella 7 del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, che piange senza ritegno perché le guardie stanno portando via in piena notte, con un «trasferimento a strappo», i suoi compagni di degnissima sventura. E lo ricordo ironico e spinoziano nel cortile del penitenziario di Palmi, durante la requisitoria cui lo sottopose un capo brigatista da operetta, che minacciava di farlo accoppare da futuri «collaboratori di giustizia» allora ancora bellicosi e intransigenti.

      Toni era un carcerato goffo, ingenuo, ignaro dei trucchi (e del cinismo) che il ruolo richiede. Fu calunniato e detestato come pochi altri nel Novecento italiano. Calunniato e detestato, in quanto marxista e comunista, dalla sinistra tutta, da riformatori e progressisti di ogni sottospecie.

      Eletto in parlamento nel 1983, chiese ai suoi colleghi deputati, in un discorso toccante, di autorizzare la prosecuzione del processo contro di lui: non voleva sottrarsi, ma confutare le accuse che gli erano state mosse dai giudici berlingueriani. Chiese anche, però, di continuare il processo a piede libero, giacché iniqua e scandalosa era diventata la carcerazione preventiva con le leggi speciali adottate negli anni precedenti.

      Inutile dire che il parlamento, aizzato dalla sinistra riformatrice, votò per il ritorno in carcere dell’imputato Negri. C’è ancora qualcuno che ha voglia di rifondare quella sinistra?

      Toni non ha mai avuto paura di strafare. Né quando intraprese un corpo a corpo con la filosofia materialista, includendo in essa più cose di quelle che sembrano stare tra cielo e terra, dal condizionale controfattuale («se tu volessi fare questo, allora le cose andrebbero altrimenti») alla segreta alleanza tra gioia e malinconia. Né quando (a metà degli anni Settanta) ritenne che l’area dell’autonomia dovesse sbrigarsi a organizzare il lavoro postfordista, imperniato sul sapere e il linguaggio, caparbiamente intermittente e flessibile.

      Il mio amico matto che voleva cambiare il mondo
      Toni non è mai stato oculato né morigerato. È stato spesso stonato, questo sì: come capita a chi accelera all’impazzata il ritmo della canzone che ha intonato, ibridandolo per giunta con il ritmo di molte altre canzoni appena orecchiate. Il suo luogo abituale sembrava a molti, anche ai più vicini, fuori luogo; per lui, il «momento giusto» (il kairòs degli antichi greci), se non aveva qualcosa di imprevedibile e di sorprendente, non era mai davvero giusto.

      Non si creda, però, che Negri fosse un bohèmien delle idee, un improvvisatore di azioni e pensieri. Rigore e metodo campeggiano nelle sue opere e nei suoi giorni. Ma in questione è il rigore con cui va soppesata l’eccezione; in questione è il metodo che si addice a tutto quel che è ma potrebbe non essere, e viceversa, a tutto quello che non è ma potrebbe essere.

      Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito. Ora un po’ di silenzio benefico, esente da qualsiasi imbarazzo, come in quella casa romana in cui andò in scena un sobrio congedo.

  • Comment la filière maraîchère bretonne a recours à des travailleurs africains souvent sans papiers, et sous-payés

    Les migrants venus d’Afrique, souvent sans titre de_séjour, sont devenus un rouage essentiel de la #filière maraîchère bretonne. Dans les environs de #Lannion, aucun des producteurs qui les emploient n’a accepté de répondre aux questions d’"Envoyé spécial", mais une inspectrice du travail a souhaité dénoncer l’hypocrisie qui règne, selon elle, dans le secteur.

    En Bretagne, de juillet à octobre, c’est la récolte des célèbres #cocos_de_Paimpol. Comme les #étudiants et les #retraités français n’y suffisent plus, les maraîchers ont de plus en plus souvent recours à des #travailleurs_étrangers. Dans ce champ près de Lannion où s’est rendue une équipe d’"Envoyé spécial", assis sur une chaise sept heures par jour à ramasser les haricots, des Maliens, Camerounais, Guinéens... tous les travailleurs sont africains.

    « Les Africains, eux, ils ne connaissent pas de sot métier. Vous, les Français, vous avez honte peut-être de travailler dans les cocos, mais nous, on ne choisit pas. » (Un travailleur agricole africain, employé dans un champ de haricots en Bretagne)

    Ils affirment être déclarés par le propriétaire du champ qui les emploie, mais aucun ne semble avoir de papiers français. Seraient-ils employés illégalement ?

    Toute la filière maraîchère bretonne a recours à ces travailleurs africains, afghans ou syriens, devenus des « #saisonniers_permanents ». Aucun producteur local ne veut le reconnaître ouvertement, et tous ceux que les journalistes ont contactés ont refusé de répondre à leurs questions. La coopérative locale a même prévenu certains maraîchers, par SMS, de la présence d’une équipe d’"Envoyé spécial" cherchant à « récupérer des informations concernant la #main-d'œuvre_étrangère », avec ce conseil : « Soyez vigilants et renvoyez vers la coopérative ». Laquelle a elle aussi décliné les demandes d’interview...

    Seule une inspectrice du travail a accepté de s’exprimer, sous couvert d’anonymat. Elle veut dénoncer l’#hypocrisie qui règne, selon elle, dans le secteur : « Tout le monde ferme les yeux. Il n’y a pas que les services de l’Etat, c’est les agriculteurs, c’est tout le monde. »

    « Il n’y a pas de #main-d’œuvre française qui veut faire ce travail, parce que ce n’est pas rémunérateur. » (Une inspectrice du travail, qui témoigne anonymement dans « Envoyé spécial »)

    L’inspectrice ne nie pas que les agriculteurs déclarent leurs salariés, mais sans avoir les moyens de vérifier leur identité. Ce qui n’est pas facile, précise-t-elle, car ces travailleurs étrangers « ne sont pas forcément sans titre, mais ils ont des ’alias’ ... » (ils utilisent par exemple la carte d’identité d’un proche).

    Des travailleurs maintenus dans la #précarité

    D’après elle, beaucoup de producteurs ont intérêt à maintenir dans la précarité ces travailleurs étrangers, souvent sous-payés, voire exploités. « Comment voulez-vous revendiquer dans ces conditions-là ? » demande-t-elle. Si on lui donne 500 euros au lieu des 1 200 euros dus (l’#ouvrier_de_cueillette est censé percevoir l’équivalent du smic, voire davantage, selon le poids des denrées récoltées), « il est obligé d’accepter. A qui il va aller se plaindre ? On va lui dire ’Mais c’est même pas vous, Monsieur, c’est votre alias !’ C’est un no man’s land. »

    https://www.francetvinfo.fr/replay-magazine/france-2/envoye-special/video-tout-le-monde-ferme-les-yeux-comment-la-filiere-maraichere-breton

    #maraîchage #Bretagne #sans-papiers #France #travail #conditions_de_travail #exploitation #salaire #migrations #agriculture

    ping @karine4

  • En direct, guerre Israël-Hamas : les 13 otages israéliens ont été remis à la Croix-Rouge et sont en route vers la frontière égyptienne
    https://www.lemonde.fr/international/live/2023/11/24/en-direct-guerre-israel-hamas-la-treve-a-officiellement-commence-israel-doit

    Treize otages, en plus des douze Thaïlandais, ont bien été remis à la Croix-Rouge, annonce un porte-parole de l’ONG

    Un porte-parole de la Croix-Rouge a déclaré sur franceinfo que treize otages avaient été remis à l’ONG, en plus des douze Thaïlandais. Des sources officielles égyptiennes, citées par des médias israéliens, ont confirmé cette information.

    le titre omet 12 otages, puis l’intertitre distingue les otages des thaïlandais. ça doit être la langue de la coalition internationale.

    • Plus d’un otage du 7 octobre sur dix serait ThaÏlandais.
      https://www.lemonde.fr/international/live/2023/11/25/en-direct-guerre-israel-hamas-14-otages-seront-liberes-en-echange-de-42-pris

      Selon la Thaïlande, vingt de ses ressortissants sont encore retenus en otage dans la bande de Gaza

      Alors que dix Thaïlandais figurent parmi les vingt-quatre otages libérés vendredi par le Hamas, le ministère des affaires étrangères thaïlandais « estime maintenant à vingt, le nombre de ressortissants thaïlandais encore détenus » par le mouvement islamiste armé. [« Il reste approximativement 215 otages dans Gaza », a déclaré un porte-parole de l’armée israélienne, Doron Spielman, samedi matin.]

      Parmi les dix otages thaïlandais libérés, quatre personnes n’avaient jamais été confirmées en tant qu’otages par les autorités israéliennes, a précisé le ministère dans un communiqué.

      Les Thaïlandais libérés « resteront à l’hôpital pendant au moins quarante-huit heures, tandis que l’ambassade du royaume thaï prendra toutes les dispositions nécessaires pour leur retour en Thaïlande et celui de leurs familles dès que possible », précise le communiqué, ajoutant que du personnel diplomatique se trouvait avec le groupe d’otages libérés et avait prévenu leurs proches.

      La semaine dernière, le gouvernement thaïlandais avait reçu l’assurance du Hamas que ses ressortissants retenus en otage étaient « saufs ». Outre les #otages, Bangkok a recensé 39 citoyens morts dans l’attaque du 7 octobre, un bilan qui fait de la Thaïlande l’un des pays les plus touchés par le conflit. Le pays a depuis organisé le rapatriement de plus de 8 500 de ses ressortissants, selon le ministère des affaires étrangères.

      Quelque 30 000 Thaïlandais étaient employés en Israël, principalement dans le secteur agricole, le 7 octobre, selon les autorités de Bangkok.


      Des travailleurs thaïlandais pris en otage par le #Hamas, puis libérés dans le cadre d’un accord entre #Israël et le groupe islamiste palestinien Hamas, posent avec un membre de la mission thaïlandaise après un examen médical, à Tel Aviv, en Israël, dans cette image diffusée le 25 novembre 2023. MINISTRY OF FOREIGN AFFAIRS THAILAND / VIA REUTERS

      ils sont d’abord annoncés 12, puis 10 [edit ce qui laisse un ou deux otages à la nationalité inconnue, dont, a priori un Philippin]. ni correcteurs, ni exactitude, incohérence partout. on ne compte plus sur l’attention du lecteur mais sur l’inattention générale. on pourra bien dire ensuite que c’est à l’école que le niveau baisse.

      edit

      Les étrangers, dix Thaïlandais et un Philippin, ont fait l’objet de négociations séparées, à l’écart de celles menées par le gouvernement israélien. Quatre des Thaïlandais n’avaient jamais été officiellement comptabilisés comme otages. Selon le quotidien américain New York Times, le citoyen philippin qui les accompagnait, pris pour l’un des leurs, aurait été libéré par erreur.

      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/25/israel-entre-soulagement-et-amertume-apres-la-liberation-des-premiers-otages

      #pogrom #7oct #7_octobre_2023 #ouvriers #ouvriers_immigrés #ouvriers_Thaïlandais

    • Pour libérer une partie de ses ressortissants retenus à Gaza, le gouvernement thaïlandais s’est appuyé sur l’Iran, Brice Pedroletti(Bangkok, correspondant en Asie du Sud-Est)
      https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/25/pour-liberer-une-partie-de-ses-ressortissants-retenus-a-gaza-le-gouvernement

      (en comment plus de devoir concéder une trève, Israël se fait refiler des prolos thaïlandais)_

      Bangkok s’est livré à une intense activité diplomatique, principalement avec Téhéran, soutien du Hamas au Proche-Orient, pour récupérer dix des travailleurs agricoles capturés par le Hamas le 7 octobre.

      La libération de dix otages thaïlandais, vendredi 24 novembre, dans le cadre de la #trêve de quatre jours agréée entre Israël et le Hamas, couronne un mois d’activité diplomatique frénétique de la part d’un pays qui se veut neutre et ami de tous mais qui est peu investi au Proche-Orient. Le gouvernement de Srettha Thavisin n’est entré en fonctions que fin août, et la crise des otages a été son baptême du feu. Trente-neuf Thaïlandais sont morts sous les balles du Hamas le 7 octobre. Vingt autres restent à ce jour captifs à Gaza. Tous faisaient partie des 30 000 ouvriers agricoles thaïlandais employés dans des kibboutz israéliens dans le cadre d’un accord entre les deux pays.

      La grande majorité d’entre eux sont originaires de l’Isan, la grande région pauvre du nord-est du pays qui se trouve être le bastion du Pheu Thai (« Parti pour les Thaïlandais »), le parti de l’ancien premier ministre Thaksin Shinawatra, qui a pris la tête de la coalition formée à l’issue des élections du 14 mai.
      Le gouvernement de M. Thavisin a immédiatement missionné sur ce dossier le nouveau président de l’Assemblée, Wan Muhamad Noor Matha, « Wan Noor », un politique de confession musulmane longtemps représentant des provinces du Sud, peuplées majoritairement de Thaï-Malais, sunnites comme lui, et un proche allié du Pheu Thai. Wan Noor a activé ses réseaux, notamment en #Malaisie, où le Hamas dispose d’une présence.
      Saiyid Sulaiman Husaini, l’influent leader d’une association chiite thaïlandaise, a ensuite organisé le déplacement à Téhéran, le 27 octobre, de conseillers de Wan Noor. L’Iran est le principal soutien politique et financier du Hamas au Proche-Orient. A cette occasion, les émissaires du président de l’Assemblée ont reçu de représentants du Hamas l’assurance que les otages thaïlandais seraient libérés dès qu’Israël consentirait à une trêve.
      Après cette première percée, le ministre des affaires étrangères thaïlandais, Parnpree Bahiddha-Nukara, également premier ministre adjoint, s’est rendu au Qatar le 31 octobre. Il y a rencontré, en sus de son homologue qatari, le ministre des affaires étrangères iranien, Hossein Amir Abdollahian, qui lui a fourni « le soutien total de l’#Iran ».

      Le lendemain, le chef de la diplomatie thaïlandaise a fait une halte au Caire pour s’assurer de la coopération de l’Egypte. Les consultations se sont poursuivies jusqu’à la dernière minute. Wan Nor a accueilli, jeudi 23 novembre, à Bangkok, le ministre adjoint des affaires étrangères iranien, Ali Bagheri Kani, pour discuter là encore du dossier des otages. Vendredi soir, dès l’arrivée des ex-otages thaïlandais en Israël, où ils resteront quarante-huit heures sous surveillance médicale, Bangkok a exprimé ses remerciements à « tous ceux à qui [la Thaïlande] a demandé de l’aide, à savoir les gouvernements du Qatar, d’Israël, d’Égypte, d’Iran, de Malaisie et le Comité international de la Croix-Rouge ».

    • Les ouvriers agricoles thaïlandais, victimes collatérales des attaques du Hamas, 13/10/2023

      Les ressortissants du royaume représentent le premier contingent de travailleurs agricoles étrangers en Israël mais sont souvent particulièrement exposés au danger dans leur travail. Par Brice Pedroletti(Bangkok, correspondant en Asie du Sud-Est)


      Un travailleur thaïlandais, qui a pu quitter Israël, arrive à l’aéroport de Bangkok, le 12 octobre 2023. SAKCHAI LALIT / AP

      Avec 21 morts [39, en fait, voir ci-dessus] et 16 personnes présumées kidnappées, la Thaïlande se retrouve au deuxième rang des pays étrangers pour le nombre de victimes derrière les Etats-Unis. Un lourd bilan, qui s’explique par le nombre de #migrants thaïlandais travaillant dans l’#agriculture en Israël : ils sont environ 30 000 à être employés dans des fermes et des kibboutz, dont 5 000 autour de la bande de Gaza. Ce n’est pas la première fois que cette population compte des victimes : deux ouvriers thaïlandais étaient morts, en mai 2021, après des tirs de roquettes.

      La plupart de ces migrants sont des hommes, originaires de l’Isan, la grande région rurale du nord-est de la Thaïlande, la plus pauvre du royaume, comme Somkuan Pansa-ard. Agé de 39 ans et employé dans une plantation de fruits depuis moins d’un an, l’homme avait eu le temps de parler à sa mère samedi 7 octobre alors que des assaillants fondaient sur son lieu d’habitation. Sa famille a appris dimanche qu’il n’avait pas survécu.

      Une partie des travailleurs thaïlandais tués l’auraient été dans le kibboutz Alumim, où la plupart des habitants auraient eu la vie sauve après de longues heures de combat. « Dans ce kibboutz, les gardes ont réussi à tuer un certain nombre de terroristes du Hamas et à les empêcher d’atteindre les principales zones d’habitation. Malheureusement, un groupe de terroristes a réussi à atteindre les quartiers d’habitation de plusieurs travailleurs agricoles thaïlandais et les a massacrés », rapporte le canal Telegram israélien South first responders qui archive les images envoyées par des équipes de premiers secours. Une vidéo montre l’intérieur de baraquements sens dessus dessous, avec d’épaisses traînées de sang sur le sol.

      Des Népalais tués aussi

      Parmi les victimes du kibboutz Alumim figurent aussi dix étudiants #népalais, selon Katmandou. Quatre autres, présents au même endroit ce jour-là, ont survécu. Ils faisaient partie d’un programme de onze mois de stages payés qui concernaient 269 étudiants venus de plusieurs universités du pays. La plupart des 5 000 Népalais vivant en Israël sont eux employés dans les services de santé ou d’aide à la personne.
      La veille de l’attaque, la page Facebook d’un des Népalais qui fait partie de la liste des victimes, Ganesh Nepali, montrait des images du kibboutz, sous le titre « vue nocturne d’Alumim », avec un cœur et deux drapeaux d’Israël : on y voit la haute barrière de sécurité, le ciel qui vire au rose, des allées paisibles bordées de bosquets de fleurs. Ironie du sort, trois jours auparavant, le 3 octobre, il avait écrit un long poste de commentaire sur le couvre-feu qui venait d’être décrété à Nepalgunj, une bourgade népalaise à la frontière indienne, après des incidents entre communautés hindoues et musulmanes locales, en s’accablant de « l’incapacité des personnes religieuses à accepter la culture de l’autre, ce qui conduit à des guerres de religion ».

      Les Thaïlandais font partie des travailleurs étrangers qui ont remplacé les Palestiniens en Israël à mesure que l’emploi de ceux-ci était soumis à des restrictions. Un accord bilatéral en 2012 a formalisé leur recrutement, avec un quota annuel passé à 6 500 ouvriers par an depuis 2022. Ils sont employés pour des contrats de deux ans, renouvelables jusqu’à un maximum de cinq ans et trois mois. Payés environ 1 500 dollars (1 422 euros), ils doivent s’acquitter d’au moins un mois et demi de salaire en « frais d’agence ».

      Pas d’abri contre les roquettes

      Depuis le week-end, l’un de ces travailleurs a livré sur X, anciennement Twitter, sous le pseudonyme de SuperBallAI, le récit de sa fuite avec d’autres migrants. « Plus de vingt-quatre heures se sont écoulées depuis l’incident, et les travailleurs thaïlandais se trouvant dans les zones dangereuses n’ont toujours pas reçu d’aide ni de plan d’évacuation vers une zone sûre », écrit-il le 8 octobre, avant de montrer tout un groupe de migrants qui partent sur un tracteur. Il s’indigne ensuite que son employeur l’ait #revendu à un autre sans son accord.

      S’il a finalement réussi à être rapatrié en Thaïlande par un vol arrivé le 12 octobre, il a par ses tweets rappelé une réalité dérangeante : le traitement parfois désinvolte des droits de ces travailleurs étrangers par leurs employeurs. Dans un rapport datant de 2021 sur les droits bafoués des migrants thaïlandais à la santé, l’ONG israélienne de défense des droits des migrants Kav LaOved déplorait que « dans les zones ciblées par les tirs de roquettes lors des escalades du conflit, récemment dans la région de Gaza, les employeurs demandent souvent aux travailleurs de continuer à travailler dans les champs ou dans la ferme, sans abri, même si cela est interdit par le commandement du front intérieur israélien. Cette situation a entraîné de nombreuses blessures et de nombreux décès parmi les travailleurs. Le rapport demande que des abris soient mis à la disposition de tous les travailleurs situés à proximité des zones de combat. » Rien n’indique que ces recommandations aient été suivies.

      Un deuxième vol de rapatriés thaïlandais, dont certains blessés, est arrivé à Bangkok vendredi 13 octobre, après un premier qui a atterri jeudi. Au moins 5 000 Thaïlandais ont postulé pour quitter le pays depuis les événements de samedi.

  • Fin de grève amère dans les usines textiles du Bangladesh
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/11/17/fin-de-greve-amere-dans-les-usines-textiles-du-bangladesh_6200798_3234.html


    Des #ouvriers textiles bangladais retournent travailler dans leur usine à Ashulia, au nord de Dhaka (?), le 15 novembre 2023. MUNIR UZ ZAMAN / AFP

    Le mouvement de revendication pour de meilleurs salaires, qui a mis l’industrie textile à l’arrêt pendant trois semaines, n’a pas eu gain de cause. Presque aucun donneur d’ordre occidental n’a incité ses fournisseurs à payer décemment les ouvriers.

    Les ouvriers des usines textiles du Bangladesh n’ont pas eu gain de cause. Après trois semaines de #grève, de manifestations et de heurts avec la police, ceux qui fabriquent les vêtements #Levi’s, #Zara et autres H&M ont repris le travail, mercredi 15 novembre, sans obtenir le quasi-triplement de leurs salaires demandé.
    Le comité du #salaire minimum du secteur textile a décidé d’augmenter la rémunération de base de 56 %, la portant à 12 500 takas, soit 104 euros, mardi 8 novembre. Un montant que les syndicats jugent « ridicule » au regard des 23 000 takas, soit environ 190 euros, revendiqués.
    Sheikh Hasina, la première ministre du pays qui briguera un cinquième mandat lors des élections générales, le 7 janvier 2024, a refusé toute nouvelle hausse du salaire minimum et intimé les ouvriers de reprendre le travail sous peine de perdre leur emploi et d’avoir « à retourner dans leurs villages ».

    Troisième plus gros fournisseur mondial

    De fait, « c’est par obligation financière et sous la pression du gouvernement et la menace des autorités policières, y compris physiques, que les ouvriers grévistes ont repris le travail », observe Christie Miedema, coordinatrice de Clean Clothes Campaign, une fédération d’organisations non gouvernementales qui militent pour le respect des droits humains.
    « La situation ressemble à celle d’il y a cinq ans », déplore Mme Miedema. En 2018, le salaire minimum dans ce secteur, qui emploie quatre millions de personnes, avait été révisé à 8 000 takas, soit 65 euros, pour cinq ans. Depuis, le secteur a traversé la crise du Covid-19 et essuyé l’inflation galopante, de l’ordre de 35 % depuis 2019.

    A l’été 2023, pour la première fois, le gouvernement a monté un comité pour déterminer un #salaire_minimum applicable dans le secteur du #prêt-à-porter au 1er décembre, sans attendre l’échéance de 2024. Toutefois, aucun des syndicats représentatifs du personnel de cette puissante industrie n’y siège. A l’évidence, le patronat local rechigne à augmenter les salaires de peur de dégrader la compétitivité d’un secteur qui représente 85 % des 55 milliards d’euros d’exportations annuelles du pays. Grâce à un réseau de 3 500 usines, le secteur est connu pour être l’un des moins chers au monde : le pays est le troisième fournisseur de vêtements, derrière la Chine et le Vietnam.

    Quatre morts à Dacca

    Dix ans après l’effondrement de l’immeuble du Rana Plaza à Dacca, tuant plus de 1 100 ouvriers textiles, les conditions de travail n’ont guère évolué. En outre, le #Bangladesh est toujours dans la ligne de mire des ONG qui y dénoncent les atteintes au droit syndical. En juin dernier, Luc Triangle, secrétaire général de la Confédération syndicale internationale, a condamné le meurtre de Shahidul Islam Shahid, responsable syndical de la Fédération des travailleurs de l’industrie et des usines textiles du Bangladesh, « battu à mort » par un gang après avoir assisté à une réunion syndicale. « Cet assassinat s’inscrit dans un contexte d’attaques ciblées contre les leaders syndicaux au Bangladesh et aura un effet dissuasif sur le mouvement ouvrier déjà très restreint », avait alors réagi l’ONG américaine Human Rights Watch.

    Les manifestations de l’automne ont aussi été très violentes pour les grévistes, notamment à Dacca. Au moins quatre ouvriers ont été tués lors des manifestations, dont trois ont été abattus par les forces de l’ordre, d’après l’AFP. Quelque 140 ouvriers et plusieurs dirigeants syndicaux ont été arrêtés, et environ 10 000 travailleurs font l’objet de poursuites pour violences, selon la police, précise aussi l’agence d’informations.

    Mercredi 15 novembre, le principal dirigeant syndical, Babul Akhter, a demandé au gouvernement de « libérer tous les ouvriers arrêtés », avant d’appeler à reprendre le travail, tout en maintenant ses revendications. « Nous n’avons pas dévié de notre revendication d’un salaire minimum de 23 000 takas », a-t-il déclaré à l’AFP. « La colère des ouvriers a été alimentée par la hausse du coût de la vie, avec des denrées de base qui sont devenues inabordables, affirme Taslima Akhter, membre du mouvement d’ouvriers Bangladesh Garment Workers Solidarity, mais la violence s’exprime d’autant plus facilement que les syndicats ne sont autorisés que sur le papier et sont contrôlés par les propriétaires d’usines. »

    Les marques occidentales « responsables »

    De son côté, le patronat bangladais pointe le rôle ambivalent des #donneurs_d’ordre. L’Association des fabricants et des exportateurs de vêtements du Bangladesh a notamment estimé que le niveau de salaire pratiqué dans leurs usines découlait des prix imposés par leurs clients, dont surtout des #marques occidentales. « Elles sont autant responsables de la hausse des salaires que les fabricants bangladais », déclare au Monde Miran Ali, son vice-président. Selon lui, il n’est pas acceptable que ces donneurs d’ordre « prennent publiquement position en faveur d’une hausse des salaires et, en privé, refusent d’absorber cette hausse de coûts » en relevant leurs prix d’achat.
    De fait, rares sont les marques à avoir répondu aux appels de soutien des revendications salariales. L’association Clean Clothes Campaign avait notamment interpellé une douzaine d’entre elles, dont #H&M et #C&A, qui fabriquent leurs collections à moindre prix au Bangladesh. Mais seule Patagonia a répondu, observe Mme Miedema. La marque de sport américaine a rejoint l’association Fair Labor pour appeler Dacca à porter le salaire minimum à 23 000 takas. « Les autres fabricants sont moins explicites, voire totalement muets », pointe Mme Miedema. En septembre, Human Rights Watch constatait que la question de la liberté d’expression était « à peine abordée » dans la plupart des rapports d’audit sociaux commandés par les grandes marques d’habillement.
    En France, #Carrefour se contente de rappeler avoir « pris position le 13 septembre en faveur d’une revalorisation du salaire minimum des travailleurs des usines textiles ». En Espagne, #Inditex est aussi fort prudent. Le numéro un mondial de l’habillement refuse de commenter les événements récents et renvoie à ses déclarations de septembre. Il exprimait alors toute sa confiance envers le comité du salaire minimum du secteur textile afin « d’établir un salaire minimum au Bangladesh qui couvre le coût de la vie des ouvriers et de leurs familles ».

    Il n’en a rien été, estiment nombre d’ONG, dont la Fair Wear Foundation. L’association, qui travaille avec des marques, des usines et des syndicats pour améliorer les conditions de travail des employés dans l’industrie textile, fait partie des 2 500 signataires d’une lettre envoyée le 16 novembre à la première ministre pour exprimer « leur inquiétude » et l’inviter « à revoir sa décision » puisque, prévient-elle, le nouveau salaire minimum « ne couvre pas les besoins fondamentaux » des ouvriers textiles du Bangladesh.

    #textile #mode

  • Crise capitaliste au moyen orient | Guillaume Deloison
    https://guillaumedeloison.wordpress.com/2018/10/08/dawla-crise-capitaliste-au-moyen-orient

    ISRAËL ET PALESTINE – CAPITAL, COLONIES ET ÉTAT

    Le conflit comme Histoire

    A la fin des guerres napoléoniennes, certaines parties du Moyen-Orient se retrouvèrent envahies par le nouveau mode de production capitaliste. Dans cette région, l’industrie textile indigène, surtout en Egypte, fut détruite par les textiles anglais bon marché dans les années 1830. Dès les années 1860, les fabricants britanniques avaient commencé à cultiver le coton le long du Nil. En 1869, on ouvrit le canal de Suez dans le but de faciliter le commerce britannique et français. Conformément à cette modernisation, on peut dater les origines de l’accumulation primitive en #Palestine à la loi de l’#Empire_ottoman de 1858 sur la #propriété_terrienne qui remplaçait la propriété collective par la propriété individuelle de la terre. Les chefs de village tribaux se transformèrent en classe de propriétaires terriens qui vendaient leurs titres aux marchands libanais, syriens, égyptiens et iraniens. Pendant toute cette période, le modèle de développement fut surtout celui d’un développement inégal, avec une bourgeoisie étrangère qui prenait des initiatives et une bourgeoisie indigène, si l’on peut dire, qui restait faible et politiquement inefficace.

    Sous le #Mandat_britannique, de nombreux propriétaires absentéistes furent rachetés par l’Association de colonisation juive, entraînant l’expulsion de métayers et de fermiers palestiniens. Étant donné que les dépossédés devaient devenir #ouvriers_agricoles sur leurs propres terres, une transformation décisive des relations de production commençait, conduisant aux premières apparitions d’un #prolétariat_palestinien. Ce processus eut lieu malgré une violente opposition de la part des #Palestiniens. Le grand tournant dans une succession de #révoltes fut le soulèvement de #1936-1939. Son importance réside dans le fait que « la force motrice de ce soulèvement n’était plus la paysannerie ou la bourgeoisie, mais, pour la première fois, un prolétariat agricole privé de moyens de travail et de subsistance, associé à un embryon de classe ouvrière concentrée principalement dans les ports et dans la raffinerie de pétrole de Haïfa ». Ce soulèvement entraîna des attaques contre des propriétaires palestiniens ainsi que contre des colons anglais et sionistes. C’est dans le même temps que se développa le mouvement des #kibboutz, comme expérience de vie communautaire inspiré notamment par des anarchistes comme Kropotkine, s’inscrivant dans le cadre du sionisme mais opposées au projet d’un état.

    La Seconde Guerre mondiale laissa un héritage que nous avons du mal à imaginer. L’implantation des juifs en Palestine, déjà en cours, mais de faible importance entre 1880 et 1929, connaît une augmentation dans les années 1930 et puis un formidable élan dans l’après-guerre ; de ce processus naquit #Israël. Le nouvel Etat utilisa l’appareil légal du Mandat britannique pour poursuivre l’expropriation des Palestiniens. La #prolétarisation de la paysannerie palestinienne s’étendit encore lors de l’occupation de la Cisjordanie et de la Bande de Gaza en 1967. Cette nouvelle vague d’accumulation primitive ne se fit pas sous la seule forme de l’accaparement des #terres. Elle entraîna aussi le contrôle autoritaire des réserves d’#eau de la Cisjordanie par le capital israélien par exemple.

    Après la guerre de 1967, l’Etat israélien se retrouvait non seulement encore entouré d’Etats arabes hostiles, mais aussi dans l’obligation de contrôler la population palestinienne des territoires occupés. Un tiers de la population contrôlée par l’Etat israélien était alors palestinienne. Face à ces menaces internes et externes, la survie permanente de l’Etat sioniste exigeait l’unité de tous les Juifs israéliens, occidentaux et orientaux. Mais unir tous les Juifs derrière l’Etat israélien supposait l’intégration des #Juifs_orientaux, auparavant exclus, au sein d’une vaste colonie de travail sioniste. La politique consistant à établir des colonies juives dans les territoires occupés est un élément important de l’extension de la #colonisation_travailliste sioniste pour inclure les Juifs orientaux auparavant exclus. Bien entendu, le but immédiat de l’installation des #colonies était de consolider le contrôle d’Israël sur les #territoires_occupés. Cependant, la politique de colonisation offrait aussi aux franges pauvres de la #classe_ouvrière_juive un logement et des emplois qui leur permettaient d’échapper à leur position subordonnée en Israël proprement dit. Ceci ne s’est pas fait sans résistance dans la classe ouvrière Israélienne, certain s’y opposaient comme les #Panthéres_noire_israélienne mais l’#Histadrout,« #syndicat » d’Etat et employeur important s’efforçait d’étouffer les luttes de la classe ouvrière israélienne, comme par exemple les violents piquets de grève des cantonniers.

    En 1987, ce sont les habitants du #camp_de_réfugiés de Jabalya à Gaza qui furent à l’origine de l’#Intifada, et non l’#OLP (Organisation de Libération de la Palestine) composé par la bourgeoisie Palestinienne, basée en Tunisie et complètement surprise. Comme plus tard en 2000 avec la seconde intifada, ce fut une réaction de masse spontanée au meurtre de travailleurs palestiniens. A long terme, l’Intifada a permis de parvenir à la réhabilitation diplomatique de l’OLP. Après tout, l’OLP pourrait bien être un moindre mal comparée à l’activité autonome du prolétariat. Cependant, la force de négociation de l’OLP dépendait de sa capacité, en tant que « seul représentant légitime du peuple palestinien », à contrôler sa circonscription, ce qui ne pouvait jamais être garanti, surtout alors que sa stratégie de lutte armée s’était révélée infructueuse. Il était donc difficile pour l’OLP de récupérer un soulèvement à l’initiative des prolétaires, peu intéressés par le nationalisme, et qui haïssaient cette bourgeoisie palestinienne presque autant que l’Etat israélien.

    Quand certaines personnes essayèrent d’affirmer leur autorité en prétendant être des leaders de l’Intifada, on raconte qu’un garçon de quatorze ans montra la pierre qu’il tenait et dit : « C’est ça, le leader de l’Intifada. » Les tentatives actuelles de l’Autorité palestinienne pour militariser l’Intifada d’aujourd’hui sont une tactique pour éviter que cette « anarchie » ne se reproduise. L’utilisation répandue des pierres comme armes contre l’armée israélienne signifiait qu’on avait compris que les Etats arabes étaient incapables de vaincre Israël au moyen d’une guerre conventionnelle, sans parler de la « lutte armée » de l’OLP. Le désordre civil « désarmé » rejetait obligatoirement « la logique de guerre de l’Etat » (bien qu’on puisse aussi le considérer comme une réaction à une situation désespérée, dans laquelle mourir en « martyr » pouvait sembler préférable à vivre dans l’enfer de la situation présente). Jusqu’à un certain point, le fait de lancer des pierres déjouait la puissance armée de l’Etat d’Israël.

    D’autres participants appartenaient à des groupes relativement nouveaux, le #Hamas et le #Jihad_Islamique. Pour essayer de mettre en place un contrepoids à l’OLP, Israël avait encouragé la croissance de la confrérie musulmane au début des années 1980. La confrérie ayant fait preuve de ses sentiments anti-classe ouvrière en brûlant une bibliothèque qu’elle jugeait être un » foyer communiste « , Israël commença à leur fournir des armes.

    D’abord connus comme les « accords Gaza-Jéricho », les accords d’Oslo fit de l’OLP l’autorité palestinienne. Le Hamas a su exploiter ce mécontentement tout en s’adaptant et en faisant des compromis. Ayant rejeté les accords d’Oslo, il avait boycotté les premières élections palestiniennes issues de ces accords en 1996. Ce n’est plus le cas désormais. Comme tous les partis nationalistes, le Hamas avec son discours religieux n’a nullement l’intention de donner le pouvoir au peuple, avec ou sans les apparences de la démocratie bourgeoise. C’est d’ailleurs ce qu’il y a de profondément commun entre ce mouvement et l’OLP dans toutes ses composantes : la mise en place d’un appareil politico-militaire qui se construit au cours de la lutte, au nom du peuple mais clairement au-dessus de lui dès qu’il s’agit de prendre puis d’exercer le pouvoir. Après plusieurs années au gouvernement, le crédit du Hamas est probablement et selon toute apparence bien entamé, sans que personne non plus n’ait envie de revenir dans les bras du Fatah (branche militaire de l’OLP). C’est semble-t-il le scepticisme, voire tout simplement le désespoir et le repli sur soi, qui semblent l’emporter chaque jour un peu plus au sein de la population.

    Le sionisme, un colonialisme comme les autres ?

    Dans cette situation, la question de déterminer les frontières de ce qui délimiterait un État israélien « légitime » est oiseuse, tant il est simplement impossible : la logique de l’accaparement des territoires apparaît inséparable de son existence en tant qu’État-nation. S’interroger dans quelle mesure l’État israélien est plus ou moins « légitime » par rapport à quelque autre État, signifie simplement ignorer comment se constituent toujours les États-nations en tant qu’espaces homogènes.

    Pour comprendre la situation actuelle il faut appréhender la restructuration générale des rapports de classes à partir des années 1970. Parallèlement aux deux « crises pétrolières » de 1973-74 et 1978-80, à la fin du #nationalisme_arabe et l’ascension de l’#islamisme, la structure économique et sociale de l’État d’Israël change radicalement. Le #sionisme, dans son strict sens, fut la protection et la sauvegarde du « travail juif », soit pour le capital israélien, contre la concurrence internationale, soit pour la classe ouvrière contre les prolétaires palestiniens : ce fut en somme, un « compromis fordiste » post-1945, d’enracinement d’une fraction du capital dans dans un État-nation. Le sionisme impliquait qu’il donne alors à l’État et à la société civile une marque de « gauche » dans ce compromis interclassiste et nationaliste. C’est ce compromis que le Likoud a progressivement liquidé ne pouvant plus garantir le même niveau de vie au plus pauvres. Pourtant la définition d’Israël comme « État sioniste » résiste. Agiter des mots comme « sioniste », « lobby », etc. – consciemment ou pas – sert à charger l’existence d’Israël d’une aire d’intrigue, de mystère, de conspiration, d’exceptionnalité, dont il n’est pas difficile de saisir le message subliminal : les Israéliens, c’est-à-dire les Juifs, ne sont pas comme les autres. Alors que le seul secret qu’il y a dans toute cette histoire, c’est le mouvement du capital que peu regardent en face. La concurrence généralisé, qui oppose entre eux « ceux d’en haut » et aussi « ceux d’en bas ». L’aggravation de la situation du prolétariat israélien et la quart-mondialisation du prolétariat palestinien appartiennent bien aux mêmes mutations du capitalisme israélien, mais cela ne nous donne pour autant les conditions de la moindre « solidarité » entre les deux, bien au contraire. Pour le prolétaire israélien, le Palestinien au bas salaire est un danger social et de plus en plus physique, pour le prolétaire palestinien les avantages que l’Israélien peut conserver reposent sur son exploitation, sa relégation accrue et l’accaparement des territoires ».

    La #solidarité est devenue un acte libéral, de conscience, qui se déroule entièrement dans le for intérieur de l’individu. Nous aurons tout au plus quelques slogans, une manifestation, peut-être un tract, deux insultes à un flic… et puis tout le monde rentre chez soi. Splendeur et misère du militantisme. Entre temps, la guerre – traditionnelle ou asymétrique – se fait avec les armes, et la bonne question à se poser est la suivante : d’où viennent-elles ? Qui les paye ? Il fut un temps, les lance-roquettes Katioucha arrivaient avec le « Vent d’Est ». Aujourd’hui, pour les Qassam, il faut dire merci à la #Syrie et à l’#Iran. Il fut un temps où l’on pouvait croire que la Révolution Palestinienne allait enflammer le Tiers Monde et, de là, le monde entier. En réalité le sort des Palestiniens se décidait ailleurs, et ils servirent de chair à canon à l’intérieur des équilibres de la #Guerre_Froide. Réalité et mythe de la « solidarité internationale ».

    Nous savons trop bien comment la #religion peut être « le soupir de la créature opprimée, le sentiment d’un monde sans cœur » (Karl Marx, Contribution à la critique de la philosophie du droit de Hegel). Mais cette généralité vaut en Palestine, en Italie comme partout ailleurs. Dans le Proche et Moyen-Orient, comme dans la plupart des pays arabes du bassin méditerranéen, l’islamisme n’est pas une idéologie tombée du ciel, elle correspond à l’évolution des luttes entre les classes dans cette zone, à la fin des nationalisme arabe et la nécessité de l’appareil d’état pour assurer l’accumulation capitaliste. Le minimum, je n’ose même pas dire de solidarité, mais de respect pour les prolétaires palestiniens et israeliens, nous impose tout d’abord d’être lucides et sans illusions sur la situation actuelle ; de ne pas considérer le prolétariat palestinien comme des abrutis qui se feraient embobiner par le Hamas ni comme des saints investi par le Mandat du Ciel Prolétarien ; de ne pas considérer le prolétariat israélien comme des abruti qui serait simplement rempli de haine envers les palestinien ni comme des saint dont la situation ne repose pas sur l’exploitation d’autres. L’#antisionisme est une impasse, tout comme l’#antimondialisme (défense du #capital_national contre le capital mondialisé), ou toutes les propositions de gestion alternative du capital, qui font parties du déroulement ordinaire de la lutte des classe sans jamais abolir les classes. Sans pour autant tomber dans un appel à la révolution globale immédiate pour seule solution, il nous faut partir de la réalité concrètes et des divisions existantes du mode de production, pour s’y attaquer. Le communisme n’est pas le fruit d’un choix, c’est un mouvement historique. C’est avec cette approche que nous cherchons à affronter cette question. Il en reste pas moins que désormais – à force de réfléchir a partir de catégories bourgeoises comme « le droit », « la justice » et « le peuple » – il n’est pas seulement difficile d’imaginer une quelconque solution, mais il est devenu quasi impossible de dire des choses sensées à cet égard.

    (version partiellement corrigée de ses erreurs typo et orthographe par moi)

  • En Chine, le chômage de masse chez les jeunes embarrasse Pékin

    Le pouvoir s’inquiète particulièrement du défaitisme affiché, avec ironie, par les #jeunes internautes. Ces dernières années, tout un vocabulaire a émergé pour promouvoir une sorte de #philosophie_de_la_paresse : certains parlent de « rester couché » (« tangping »), tandis que d’autres appellent à « laisser pourrir les choses » (« bailan »). Il s’agit, à chaque fois, d’en faire le moins possible au #travail. On pense au « quiet quitting » en vogue aux Etats-Unis pendant la pandémie de Covid-19.

    Une attitude qui suscite peu de compassion de la part de leurs aînés. « Je ne pense pas que le #chômage_des_jeunes soit un gros problème en Chine, parce que beaucoup d’entre eux pourraient trouver un #emploi_, estime Dan Wang, cheffe économiste à la banque hongkongaise Hang Seng. _C’est la génération des enfants uniques, leur famille a énormément investi dans leur éducation donc ils ne veulent pas accepter un job qui soit juste “passable”. Les 12 millions de #diplômés de l’#université en 2023 sont généralement issus de familles aisées qui peuvent se permettre de les soutenir un certain temps », explique-t-elle.

    La preuve en est que certains secteurs, comme la restauration et l’industrie, peinent à recruter. « Les jeunes n’ont pas forcément envie de travailler dans les #usines. C’est vu comme une activité dégradante, non seulement par eux, mais aussi par leurs parents », explique Nicolas Musy, patron de LX Precision, une entreprise suisse qui fabrique, en périphérie de Shanghaï, des composants pour l’industrie automobile, médicale et de télécommunication. « Jusqu’au début des années 2010, c’était beaucoup plus facile de recruter : il y avait cet afflux de travailleurs migrants des campagnes : pour eux, un travail, quel qu’il soit, c’était important. Maintenant, les gens font plus attention à quelles opportunités de carrière ils accèdent », poursuit cet entrepreneur présent en #Chine depuis plus de trente ans. Un phénomène renforcé par la baisse de la population active, qui a atteint son pic en 2010.

    Profond changement de génération

    Beaucoup de jeunes des campagnes alimentant par le passé les lignes de production chinoises préfèrent aujourd’hui travailler comme #livreurs, pour les plates-formes de #commerce en ligne ou de livraison de repas. Une concurrence directe pour les ressources humaines que représentent les #ouvriers. « C’est une difficulté pour nous : travailler à l’usine, ça veut dire être soumis à une certaine discipline, et effectuer des tâches qui peuvent être ennuyeuses. Les jeunes préfèrent souvent la liberté, reconnaît Kathy Sun, directrice des ressources humaines chez Clarion Electronics pour l’Asie chez Forvia, leader français des composants automobiles. Il revient aux entreprises de faire des efforts pour attirer les cols bleus, non seulement en jouant sur la charge de travail et les salaires, mais aussi en offrant un environnement de travail et une culture plus accueillants. »

    Le changement entre générations est profond. En 2021, 58 % des jeunes entrants sur le marché du travail sortaient de l’éducation supérieure (au-delà du baccalauréat), alors qu’ils n’étaient que 30 % en 2012. Même ceux des campagnes, moins privilégiés, ont une expérience éloignée de celle de leurs parents, qui avaient grandi à la ferme et dans la pauvreté. « Pour les générations précédentes, vous pouviez aller à la ville, travailler dur et obtenir une vie meilleure pour vous et votre famille. Les jeunes migrants d’aujourd’hui ont des parents qui ont travaillé dans les grandes villes. Leurs aspirations sont proches de celles des enfants de la classe moyenne : ils sont plus éduqués, ont une idée de leurs droits sur le marché du travail. Ils ne sont plus prêts à travailler de longues journées pour un salaire de misère, décrit Ole Johannes Kaland, anthropologue, associé à l’université de Bergen, en Norvège, qui a réalisé des études sur les enfants de migrants à Shanghaï. Pas un seul des adolescents que j’ai étudiés ne souhaitait travailler dans les usines ou dans le secteur de la construction. »
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2023/10/22/en-chine-le-chomage-de-masse-chez-les-jeunes-embarrasse-pekin_6195996_3234.h
    https://archive.ph/jnmRJ

  • Quand les luttes convergent
    https://laviedesidees.fr/Marie-Cabadi-Lesbiennes-et-Gays-au-charbon

    La rencontre entre les mineurs britanniques et le militantisme gay et lesbien lors des grèves de 1984-85 a été portée au cinéma ; une historienne revient sur cet épisode mémorable et montre les continuités entre les deux mouvements, que le film avait gommées. À propos de : Marie Cabadi, Lesbiennes et Gays au charbon : Solidarités avec les mineurs britanniques en #grève, 1984-1985, EHESS

    #Histoire #ouvriers #Royaume-Uni #LGBT
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231002_minet_gays.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231002_minet_gays.docx

  • Entretien avec douze vétéran·es : « L’UTCL, un ouvriérisme à visage humain ! »
    https://www.unioncommunistelibertaire.org/?Entretien-avec-douze-veteran-es-L-UTCL-un-ouvrierisme-a-

    Entretien avec douze vétéran·es : « L’UTCL, un ouvriérisme à visage humain ! »
    26 septembre 2023 par Redac-web-01 / 83 vues

    Les locaux d’AL à Paris 19e, une après-midi devant soi, un buffet campagnard, et le plaisir de retrouver quelques camarades qu’on n’a parfois plus vu depuis plusieurs années… Le 18 septembre 2005, douze anciennes et anciens prenaient part à un entretien croisé sur l’histoire de l’Union des travailleurs communistes libertaires. Dans une ambiance décontractée, sans esquiver les questions dérangeantes, les participants ont offert une image nuancée de ce qu’avait été leur organisation.

    Une explication de l’histoire quelque peu auto-centrée mais le travers est inévitable dans ce genre d’évocation. Pour autant, il n’y a aucune raison d’ignorer le rôle des « minorités agissantes » - avec tout ce que ce terme peut receler d’ambiguïté et de dérives - dans le déroulement des luttes sociales. Un des écueils du militantisme étant, qu’au nom de l’action, l’objectif de « l’auto-organisation dans la lutte », parte dans les limbes, happé par la routine quotidienne militante - notamment syndicaliste - dont le rythme fondamental est imposé par les institutions capitalistes. L’organisation spécifique serait alors précisément le moyen d’échapper à ce travers ? Peut-être. On appréciera d’autant plus l’humilité et la sincérité des militant.es de l’UTCL quand iels évoquent nombre d’erreurs et de dévoiements contre lesquels l’orga n’a été d’aucun recours.

    De mon point de vue, ce long témoignage mérite surtout d’être lu pour les problématiques - dont un certaines sont toujours d’actualité - ayant traversé le mouvement social et sa composante, dite révolutionnaire, et, en particulier, libertaire, depuis une cinquantaine d’année.

  • Frederick Taylor , l’homme qui a bousillé le travail
    https://www.frustrationmagazine.fr/frederick-taylor-lhomme-qui-a-bousille-le-travail

    Alors que la technologie transforme en profondeur nos manières de travailler, que la souffrance au travail s’étend et détruit chaque jour des masses de plus en plus nombreuses, que les interrogations sur le sens des boulots que nous occupons deviennent de plus en plus obsédantes – car nous comprenons souvent qu’ils n’en ont pas (les […]

  • Les ouvriers sans-papiers sur les chantiers, la face sombre des JO de Paris Raphaël Grand - RTS

    Dans moins d’un an, Paris accueillera les Jeux olympiques et paralympiques d’été. La France promet des joutes exemplaires. Mais des ouvriers sans-papiers ont été identifiés sur les chantiers, embarrassant les autorités. Mise au Point a mené l’enquête.

    « Les yeux du monde vont être rivés sur Paris. On veut montrer qu’on peut faire du plus grand événement du monde un événement responsable et en lien avec son époque. » Pierre Rabadan, adjoint à la Mairie de Paris en charge des Jeux olympiques et paralympiques, a rappelé dimanche dans Mise au Point la volonté d’exemplarité affichée par les autorités françaises.

    « Tout le monde le sait, mais personne n’en parle, parce que ça les arrange. Tu travailles, tu fais ce qu’ils te demandent de faire. Sinon tu prends tes affaires et ils mettent quelqu’un d’autre à ta place », témoigne ainsi Cempara* devant les caméras de la RTS.

    Une question taboue
    Livrer les ouvrages à temps pour les Jeux olympiques est une véritable course contre la montre. « C’est le plus grand chantier monosite d’Europe. C’est absolument hors normes quand on regarde la vitesse d’exécution », témoigne Antoine du Souich, directeur de la stratégie et de l’innovation pour la SOLIDEO, la Société de livraison des ouvrages olympiques. Conséquence, pour livrer ce projet dans les temps, il faut beaucoup de main d’œuvre.

    Dans une antenne locale de la CGT à Bobigny, l’un des plus grands syndicats de France, où s’organisent plusieurs fois par mois des permanences pour travailleurs sans-papiers, la RTS a rencontré plusieurs ouvriers employés sur les chantiers des JO. Mais la situation des uns et des autres reste taboue.

    « Personne ne demande à son collègue s’il a un papier ou non. On ne parle jamais de ça sur les chantiers. Entre nous, on dit que c’est un code. Ils m’ont recruté comme manœuvre, mais on fait tout sur le chantier : nettoyage, rangement, marteau-piqueur, maçonnerie, tout… Tu as plein de choses à faire », témoigne Cempara*.
    Ils profitent de nous, vraiment, ça fait mal. Nous aussi on travaille sans-papiers, on est comme au Qatar
    Gaye*, travailleur sans-papiers sur les chantiers de jeux Olympiques de Paris

    Et pour être embauché sur les chantiers, Cempara a utilisé un alias, en louant une identité légale. « C’est un business. C’est un faux nom que j’ai fourni pour avoir le badge sans lequel tu ne peux pas rentrer sur le chantier. Je pointe comme tout le monde, il n’y a pas de différence si tu as ce badge », explique-t-il.

    Ces ouvriers parfois sans contrat, engagés sous de fausses identités, sont difficiles à détecter. « Quand on a su que Paris avait été désigné pour accueillir les Jeux olympiques, on s’est dit que ça allait nous faire du travail », explique Jean-Albert Guidou, secrétaire général de la CGT à Bobigny.

    Dénoncé, puis renvoyé
    Du travail, Gaye en a trouvé dans un premier temps sur les chantiers. Il maniait le marteau piqueur et coulait le béton. Un moyen de gagner un peu d’argent, qu’il envoyait à sa famille restée au Mali. « Quand je travaillais huit heures, je gagnais 80 euros. Mais je travaillais aussi 10, 12 heures, toujours pour 80 euros. Il n’y a pas d’heures supplémentaires et quand tu expliques ça au patron, il te répond : ’si tu veux travailler, tu travailles, sinon tu peux t’en aller et on va appeler une autre personne’. Il sait qu’il y a plein de sans-papiers… Ils profitent de nous, ça fait mal. Nous aussi on travaille sans papiers, on est comme au Qatar », compare-t-il.

    C’est ce que j’appelle de la ’chair à chantier’. Ils ne sont pas déclarés, n’ont pas de cotisations sociales, pas de congés payés... Il y a du travail : tu bosses. Il n’y a plus de travail, tu restes chez toi et tu n’es pas payé
    Jean-Albert Guidou, secrétaire général de la CGT à Bobigny

    Gaye a fini par perdre son travail sur les chantiers des JO après une dénonciation par l’inspection du travail. Son patron l’a renvoyé, il est aujourd’hui sans-papiers et sans emploi. « Il n’est pas trafiquant, il n’est pas dans un réseau. Il n’est qu’un ouvrier qui travaillait depuis des années sur les chantiers, en train de se fatiguer la vie », le défend Jean-Albert Guidou.

    « C’est ce que j’appelle de la ’chair à chantier’. Ils ne sont pas déclarés, n’ont pas de cotisations sociales, pas de congés payés... Il y a du travail : tu bosses. Il n’y a plus de travail, tu restes chez toi et tu n’es pas payé. La personne est interchangeable. Si elle a un accident, on prend la voiture, on la dépose deux kilomètres plus loin et on lui dit de se débrouiller toute seule, sans dire que c’est un accident de travail, ni pour qui elle travaille », raconte le secrétaire général de la CGT à Bobigny.

    Des boîtes aux lettres vides
    Il est difficile de savoir pour qui ces personnes travaillent. Mais la SOLIDEO confirme la présence de travailleurs sans-papiers au cœur des sites olympiques sur des chantiers où se côtoient jusqu’à 3500 ouvriers. « On a été surpris de voir du travail illégal sur nos chantiers, même si on sait que c’est une pratique qui a cours. Il y a plus de 2000 entreprises mobilisées sur les ouvrages olympiques, mais l’immense majorité ne triche pas. On a sanctionné les quatre ou cinq entreprises pour lesquelles on a constaté des manquements au droit et on a amplifié les contrôles », explique Antoine du Souich.

    Selon Solideo, la société qui chapeaute les chantiers olympiques, seules 4 à 5 entreprises sur 2000 ont été épinglées pour travail illégal. [RTS]

    Contrôler et punir les tricheurs, la tâche est complexe. Car derrière les grands noms de la construction se cachent une myriade de petites entreprise sous-traitantes qui proposent de la main d’œuvre bon marché. Mise au Point a cherché en vain à rencontrer ces patrons qui emploient des travailleurs sans-papiers. Mais les adresses des entreprises épinglées par l’inspection du travail mènent en banlieue, devant des locaux vides et de simples boîtes aux lettres. Il est donc impossible d’atteindre ces entreprises fantômes, ni de savoir combien ils sont encore à travailler sans-papiers sur les chantiers.

    Mais des lueurs d’espoir existent : Cempara et Gaye sont par exemple désormais en procédure de régularisation. Et ils ont assigné en justice plusieurs géants de la construction, pour ne plus rester dans l’ombre de la flamme olympique.

    #travail #ps #anne_hidalgo #hidalgo #ouvriers #chantiers #sans-papiers #immobilier #béton #Paris #saccageparis #ville_de_paris #jo #jeux_olympiques #JO2024 #paris2024 #clandestinité #migrants

    Source : https://www.rts.ch/info/monde/14303366-les-ouvriers-sanspapiers-sur-les-chantiers-la-face-sombre-des-jo-de-par

  • La famille d’un patron fait interdire un spectacle sur la mémoire ouvrière, Pierre Jequier-Zalc
    https://www.politis.fr/articles/2023/09/la-famille-dun-patron-fait-interdire-un-spectacle-sur-la-memoire-ouvriere


    Réunion d’ouvriers dans l’usine Piron de Bretoncelles lors de la grève de 1974 (©DR)

    À Bretoncelles, petite commune de l’Orne, la programmation d’un spectacle sur les 50 ans d’une grève historique a provoqué l’ire des descendants du #patron de l’époque. Après des menaces de mort, le #maire l’a finalement interdit, avec l’approbation du #préfet.

    Un spectacle en trois temps

    C’est un spectacle qui aurait dû rester dans l’anonymat du Perche, ce territoire niché à une centaine de kilomètres au sud-ouest de la capitale. Une œuvre vivante, amateur, pour faire sortir de l’oubli la #grève de l’usine Piron, équipementier automobile, en 1974, dans la commune de Bretoncelles. Un mouvement social très important avait en effet secoué cette entreprise où les ouvriers, dans la poursuite de la lutte historique de LIP, avaient fini par licencier leurs patrons. « Cet événement a eu un retentissement national à une époque où on rêvait d’autogestion ouvrière. Piron a été un petit exemple de ce rêve-là », raconte à Politis Jean-Baptiste Evette, écrivain et un des trois réalisateurs du spectacle. En 1974, Le Monde était même venu couvrir cette lutte.

    Mais voilà, cinquante ans plus tard, beaucoup ont oublié cette grande grève. Trois amis, à l’initiative de Patrick Schweizer, ancien #ouvrier et syndicaliste, décident de faire revivre sa mémoire. Pendant plusieurs mois, ils se plongent dans les archives, et réalisent des entretiens avec des acteurs de l’époque, ouvriers, membres du comité de soutien, etc. De ce travail de recherche naît un spectacle, Bretoncelles, si un jour ça se passait ainsi, décomposé en trois temps.

    « Il commence par une reconstitution du piquet de grève dans l’usine pour raconter les discussions qu’avaient entre eux les ouvriers », explique Jean-Baptiste Evette. Ensuite, un défilé « carnavalesque » est prévu dans la ville avec une fanfare. Enfin, tout ce beau monde termine sa route dans la salle des fêtes de Bretoncelles, occupée à l’époque par les ouvriers de l’usine Piron, pour une rencontre-débat. Le tout devait se dérouler pour les journées européennes du patrimoine, le 17 septembre.

    #classe_ouvrière #culture #censure

  • Arrachons Tronti des griffes des salons mondains ! Sergio Bologna
    https://www.contretemps.eu/mario-tronti-operaisme-bologna-classe-ouvriere

    (...) l’opéraïsme devrait être pensé à partir des luttes populaires, des conflits sociaux, du désir de liberté, du refus de courber l’échine, aujourd’hui encore plus qu’hier.

    [...]
    Vous pouvez bien sûr faire une bonne thèse de sciences politiques sur Ouvriers et capital, mais après l’avoir lu, vous pouvez aussi vous placer au milieu d’un piquet de grève de chauffeurs routiers et être assigné à résidence pendant six mois ; vous pouvez expliquer à un Pakistanais qui parle à peine l’italien qu’avec la paga globale [salaire global][1], il se fait doublement avoir et vous trouver face à quelqu’un qui vous menace d’un couteau.

    Qui sait si ce disque rayé dont on nous rebat les oreilles depuis un demi-siècle (50 ans !) pourra s’arrêter : « la classe ouvrière n’existe plus » ; « maintenant il n’y a plus d’ouvriers » ; « autrefois, il y a eu une classe ouvrière, mais elle n’existe plus ». Je me demande si quelqu’un y réfléchira à deux fois avant de le remettre sur la platine.

    On l’appelle déjà « l’été chaud », il se déroule sous nos yeux aux Etats-Unis. Il s’agit des #grèves des scénaristes d’Hollywood, des chauffeurs d’UPS, des 11 000 employés municipaux de Los Angeles, des infirmières de certains hôpitaux de New York et du New Jersey, des employés d’hôtels du sud de la Californie, des 4 500 employés municipaux de San José, des 1400 techniciens qui construisent des locomotives électriques à Eire, en Pennsylvanie, et ainsi de suite.

    #luttes #opéraïsme #Mario_Tronti #ouvriers #classe_ouvrière #Etats-Unis

  • Mario Tronti, itinéraire d’un intellectuel organique
    https://laviedesidees.fr/Mario-Tronti-itineraire-d-un-intellectuel-organique

    L’opéraïsme est un courant marxiste qui fut très influent au sein des mouvements sociaux de l’Italie des années 1970 ; il a ensuite connu une fortune philosophique jusqu’en France grâce à Toni Negri. Le parcours de Mario Tronti, disparu le 7 août dernier, illustre une autre facette de la période.

    #Philosophie #Italie #ouvriers #marxisme #Portraits
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20230829_tronti.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20230829_tronti-2.docx

  • Le retour du travail des enfants est le dernier signe du déclin des Etats-Unis Steve Fraser

    En 1906, un vieux chef amérindien visitait New York pour la première fois. Il était curieux de la ville et la ville était intéressée à lui. Un journaliste d’un magazine demande au chef amérindien ce qui l’a le plus surpris dans ses déplacements en ville. « Les petits enfants qui travaillent », répondit le visiteur.

    Le travail des enfants aurait pu choquer cet étranger, mais il n’était que trop banal à l’époque dans les Etats-Unis urbains et industriels (et dans les fermes où il était habituel depuis fort longtemps). Plus récemment, cependant, il est devenu beaucoup plus rare. La loi et la pratique l’ont presque fait disparaître, supposent la plupart d’entre nous. Et notre réaction face à sa réapparition pourrait ressembler à celle de ce chef : choc, incrédulité.


    Mais nous ferions mieux de nous y habituer, car le travail des enfants revient en force. Un nombre impressionnant d’élus entreprennent des efforts concertés ( The New Yorker , « Child Labor is on the Rise », 4 juin 2023 sur le site) pour affaiblir ou abroger les lois qui ont longtemps empêché (ou du moins sérieusement freiné) la possibilité d’exploiter les enfants.

    Reprenez votre souffle et considérez ceci : le nombre d’enfants au travail aux Etats-Unis a augmenté de 37% entre 2015 et 2022. Au cours des deux dernières années, 14 États ont introduit ou promulgué des lois annulant les réglementations qui régissaient le nombre d’heures pendant lesquelles les enfants pouvaient être employés, réduisaient les restrictions sur les travaux dangereux et légalisaient les salaires minimums pour les jeunes.

    L’État de l’Iowa autorise désormais les jeunes de 14 ans à travailler dans des blanchisseries industrielles. A l’âge de 16 ans, ils peuvent occuper des emplois dans les domaines de la toiture, de la construction, de l’excavation et de la démolition et peuvent utiliser des machines à moteur. Les jeunes de 14 ans peuvent même travailler de nuit et, dès l’âge de 15 ans, ils peuvent travailler sur des chaînes de montage. Tout cela était bien sûr interdit il n’y a pas si longtemps.
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    Les élus donnent des justifications absurdes à ces entorses à des pratiques établies de longue date. Le travail, nous disent-ils, éloignera les enfants de leur ordinateur, de leurs jeux vidéo ou de la télévision. Ou encore, il privera le gouvernement du pouvoir de dicter ce que les enfants peuvent ou ne peuvent pas faire, laissant aux parents le contrôle – une affirmation déjà transformée en fantasme par les efforts visant à supprimer la législation sociale protectrice et à permettre aux enfants de 14 ans de travailler sans autorisation parentale formelle.

    En 2014, l’Institut Cato, un groupe de réflexion de droite, a publié « A Case Against Child Labor Prohibitions » (Un cas contre les interdictions du travail des enfants), arguant que de telles lois étouffaient les perspectives pour l’avenir des enfants pauvres, et en particulier les enfants noirs. La Foundation for Government Accountability (Fondation pour l’obligation du gouvernement de rendre des comptes), un groupe de réflexion financé par une série de riches donateurs conservateurs, dont la famille DeVos [Betsy DeVos, secrétaire d’Etat à l’Education sous l’administration Trump], a été le fer de lance des efforts visant à affaiblir les lois sur le travail des enfants, et Americans for Prosperity, la fondation milliardaire des frères Koch [très engagés dans les investissements pétroliers], s’est jointe à eux.

    Ces attaques ne se limitent pas aux États rouges (républicains) comme l’Iowa ou ceux du Sud. La Californie, le Maine, le Michigan, le Minnesota et le New Hampshire, ainsi que la Géorgie et l’Ohio, ont également été l’objet d’interventions dans ce sens. Au cours des années de pandémie, même le New Jersey a adopté une loi, augmentant temporairement les heures de travail autorisées pour les jeunes de 16 à 18 ans.


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    La vérité toute crue est que le travail des enfants est rentable et qu’il est en train de devenir remarquablement omniprésent. C’est un secret de Polichinelle que les chaînes de restauration rapide emploient des mineurs depuis des années et considèrent simplement les amendes occasionnelles comme faisant partie du coût de fonctionnement. Dans le Kentucky, des enfants d’à peine 10 ans ont travaillé dans de tels centres de restauration et d’autres, plus âgés, ont dépassé les limites horaires prescrites par la loi. En Floride et au Tennessee, les couvreurs peuvent désormais avoir 12 ans.

    Récemment, le Département du Travail a découvert plus de 100 enfants âgés de 13 à 17 ans travaillant dans des usines de conditionnement de viande et des abattoirs du Minnesota et du Nebraska. Et il ne s’agissait pas d’opérations véreuses. Des entreprises comme Tyson Foods et Packer Sanitation Services – qui appartient au fonds d’investissement BlackRock, la plus grande société de gestion d’actifs au monde [voir l’article sur ces fonds publié sur ce site le 7 juillet 2023] – figuraient également sur la liste.

    A ce stade, la quasi-totalité de l’économie est remarquablement ouverte au travail des enfants. Les usines de vêtements et les fabricants de pièces automobiles (qui fournissent Ford et General Motors) emploient des enfants immigrés, parfois pendant des journées de travail de 12 heures. Nombre d’entre eux sont contraints d’abandonner l’école pour ne pas être pénalisés. De la même manière, les chaînes d’approvisionnement de Hyundai et de Kia dépendent des enfants qui travaillent en Alabama.

    Comme l’a rapporté le New York Times en février dernier (« Alone and Exploited, Migrant Children Work Brutal Jobs Across the U.S. » par Hannah Dreier, 25 février 2023) – contribuant à faire connaître le nouveau marché du travail des enfants – des enfants mineurs, en particulier des migrants, travaillent dans des usines d’emballage de céréales et des usines de transformation alimentaire. Dans le Vermont, des « illégaux » (parce qu’ils sont trop jeunes pour travailler) font fonctionner des machines à traire. Certains enfants participent à la confection de chemises J. Crew [grande firme de prêt-à-porter] à Los Angeles, préparent des petits pains pour Walmart [le plus grand distributeur des Etats-Unis] ou travaillent à la production de chaussettes Fruit of the Loom [firme très connue]. Le danger guette. Les Etats-Unis sont un environnement de travail notoirement dangereux et le taux d’accidents chez les enfants travailleurs est particulièrement élevé, avec un inventaire effrayant de colonnes vertébrales brisées, d’amputations, d’empoisonnements et de brûlures défigurantes.

    La journaliste Hannah Dreier a parlé d’une « nouvelle économie de l’exploitation », en particulier lorsqu’il s’agit d’enfants migrants. Un instituteur de Grand Rapids, dans le Michigan, observant la même situation difficile, a fait la remarque suivante : « Vous prenez des enfants d’un autre pays et vous les mettez presque en servitude industrielle. »

    Il y a longtemps, aujourd’hui
    Aujourd’hui, nous pouvons être aussi stupéfaits par ce spectacle déplorable que l’était ce chef amérindien au tournant du XXe siècle. Nos ancêtres, eux, ne l’auraient pas été. Pour eux, le travail des enfants allait de soi.

    En outre, les membres des classes supérieures britanniques qui n’étaient pas obligés de travailler dur ont longtemps considéré le travail comme un tonique spirituel capable de réfréner les impulsions indisciplinées des classes inférieures. Une loi élisabéthaine de 1575 prévoyait l’affectation de fonds publics à l’emploi d’enfants en tant que « prophylaxie contre les vagabonds et les indigents ».

    Au XVIIe siècle, le philosophe John Locke [1632-1704, auteur de l’ Essai sur l’entendement humain , un des principaux acteurs de la Royal African Company, pilier de la traite négrière], alors célèbre « défenseur de la liberté », soutenait que les enfants de trois ans devaient être inclus dans la force de travail. Daniel Defoe, auteur de Robinson Crusoé , se réjouissait que « les enfants de quatre ou cinq ans puissent tous gagner leur propre pain ». Plus tard, Jeremy Bentham [1748-1832, précurseur du libéralisme], le père de l’utilitarisme, optera pour quatre ans, car sinon, la société souffrirait de la perte de « précieuses années pendant lesquelles rien n’est fait ! Rien pour l’industrie ! Rien pour l’amélioration, morale ou intellectuelle. »

    Le rapport sur l’industrie manufacturière publié en 1791 par le « père fondateur » états-unien Alexander Hamilton [1757-1804, secrétaire au Trésor de 1789 à 1795] notait que les enfants « qui seraient autrement oisifs » pourraient au contraire devenir une source de main-d’œuvre bon marché. L’affirmation selon laquelle le travail à un âge précoce éloigne les dangers sociaux de « l’oisiveté et de la dégénérescence » est restée une constante de l’idéologie des élites jusqu’à l’ère moderne. De toute évidence, c’est encore le cas aujourd’hui.


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    Lorsque l’industrialisation a effectivement commencé au cours de la première moitié du XIXe siècle, les observateurs ont noté que le travail dans les nouvelles usines (en particulier les usines textiles) était « mieux fait par les petites filles de 6 à 12 ans ». En 1820, les enfants représentaient 40% des travailleurs des usines dans trois Etats de la Nouvelle-Angleterre. La même année, les enfants de moins de 15 ans représentaient 23% de la main-d’œuvre manufacturière et jusqu’à 50% de la production de textiles de coton (« Child Labor in the United States », Robert Whaples, Wake Forest University).

    Et ces chiffres ne feront qu’augmenter après la guerre de Sécession [1861-1865]. En fait, les enfants d’anciens esclaves ont été ré-esclavagisés par le biais d’accords d’apprentissage très contraignants. Pendant ce temps, à New York et dans d’autres centres urbains, les padroni italiens ont accéléré l’exploitation des enfants immigrés tout en les traitant avec brutalité. Même le New York Times s’est offusqué : « Le monde a renoncé à voler des hommes sur les côtes africaines pour kidnapper des enfants en Italie. »

    Entre 1890 et 1910, 18% des enfants âgés de 10 à 15 ans, soit environ deux millions de jeunes, ont travaillé, souvent 12 heures par jour, six jours par semaine.Leurs emplois couvraient le front de mer – trop littéralement puisque, sous la supervision des padroni , des milliers d’enfants écaillaient les huîtres et ramassaient les crevettes. Les enfants étaient également des crieurs de rue et des vendeurs de journaux. Ils travaillaient dans des bureaux et des usines, des banques et des maisons closes. Ils étaient « casseurs » et « ouvreurs de portes en bois permettant l’accès d’air » dans les mines de charbon mal ventilées, des emplois particulièrement dangereux et insalubres. En 1900, sur les 100 000 ouvriers des usines textiles du Sud, 20 000 avaient moins de 12 ans.

    Les orphelins des villes sont envoyés travailler dans les verreries du Midwest. Des milliers d’enfants sont restés à la maison et ont aidé leur famille à confectionner des vêtements pour des ateliers clandestins. D’autres emballent des fleurs dans des tentes mal ventilées. Un enfant de sept ans expliquait : « Je préfère l’école à la maison. Je n’aime pas la maison. Il y a trop de fleurs. » A la ferme, la situation n’est pas moins sombre : des enfants de trois ans travaillent à décortiquer des baies.

    Dans la famille
    Il est clair que, jusqu’au XXe siècle, le capitalisme industriel dépendait de l’exploitation des enfants, moins chers à employer, moins capables de résister et, jusqu’à l’avènement de technologies plus sophistiquées, bien adaptés aux machines relativement simples en place à l’époque.


    En outre, l’autorité exercée par le patron était conforme aux principes patriarcaux de l’époque, que ce soit au sein de la famille ou même dans les plus grandes des nouvelles entreprises industrielles de l’époque, détenues en grande majorité par des familles, comme les aciéries d’Andrew Carnegie. Ce capitalisme familial a donné naissance à une alliance perverse entre patron et sous-traitants qui a transformé les enfants en travailleurs salariés miniatures.

    Pendant ce temps, les familles de la classe ouvrière étaient si gravement exploitées qu’elles avaient désespérément besoin des revenus de leurs enfants. En conséquence, à Philadelphie, au tournant du siècle, le travail des enfants représentait entre 28% et 33% du revenu des familles biparentales nées dans le pays Monthly Labor Review, « History of child labor in the United States—part 1 : little children working », January 2017) . Pour les immigrés irlandais et allemands, les chiffres étaient respectivement de 46% et 35%. Il n’est donc pas surprenant que les parents de la classe ouvrière se soient souvent opposés aux propositions de lois sur le travail des enfants. Comme l’a noté Karl Marx, le travailleur n’étant plus en mesure de subvenir à ses besoins, « il vend maintenant sa femme et son enfant, il devient un marchand d’esclaves ».

    Néanmoins, la résistance commence à s’organiser. Le sociologue et photographe Lewis Hine a scandalisé le pays avec des photos déchirantes d’enfants travaillant dans les usines et dans les mines. (Il put accéder à à ces lieux de travail en prétendant qu’il était un vendeur de bibles.) Mother Jones [1837-1930], la militante syndicaliste, a mené une « croisade des enfants » en 1903 au nom des 46 000 ouvriers du textile en grève à Philadelphie. Deux cents délégués des enfants travailleurs se sont rendus à la résidence du président Teddy Roosevelt [1901-1909] à Oyster Bay, Long Island, pour protester, mais le président s’est contenté de renvoyer la balle, affirmant que le travail des enfants relevait de la compétence des Etats et non de celle du gouvernement fédéral.

    Ici et là, des enfants tentent de s’enfuir. En réaction, les propriétaires ont commencé à entourer leurs usines de barbelés ou à faire travailler les enfants la nuit, lorsque leur peur de l’obscurité pouvait les empêcher de s’enfuir. Certaines des 146 femmes qui ont péri dans le tristement célèbre incendie de la Triangle Shirtwaist Factory en 1911 dans le Greenwich Village de Manhattan – les propriétaires de cette usine de confection avaient verrouillé les portes, obligeant les ouvrières prises au piège à sauter vers la mort depuis les fenêtres des étages supérieurs – n’avaient pas plus de 15 ans. Cette tragédie n’a fait que renforcer la colère grandissante à l’égard du travail des enfants.
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    Un comité national sur le travail des enfants a été créé en 1904. Pendant des années, il a fait pression sur les Etats pour qu’ils interdisent, ou du moins limitent, le travail des enfants. Les victoires, cependant, étaient souvent à la Pyrrhus, car les lois promulguées étaient invariablement faibles, comportaient des dizaines d’exemptions et étaient mal appliquées. Finalement, en 1916, une loi fédérale a été adoptée qui interdisait le travail des enfants partout. En 1918, cependant, la Cour suprême l’a déclarée inconstitutionnelle.

    En fait, ce n’est que dans les années 1930, après la Grande Dépression, que les conditions ont commencé à s’améliorer. Compte tenu de la dévastation économique, on pourrait supposer que la main-d’œuvre enfantine bon marché aurait été très prisée. Cependant, face à la pénurie d’emplois, les adultes, et en particulier les hommes, ont pris le dessus et ont commencé à effectuer des tâches autrefois réservées aux enfants. Au cours de ces mêmes années, le travail industriel a commencé à incorporer des machines de plus en plus complexes qui s’avéraient trop difficiles pour les jeunes enfants. Dans le même temps, l’âge de la scolarité obligatoire ne cessait de s’élever, limitant encore davantage le nombre d’enfants travailleurs disponibles.
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    Plus important encore, l’air du temps a changé. Le mouvement ouvrier insurrectionnel des années 1930 détestait l’idée même du travail des enfants. Les usines syndiquées et les industries entières étaient des zones interdites aux capitalistes qui cherchaient à exploiter les enfants. En 1938, avec le soutien des syndicats, l’administration du New Deal du président Franklin Roosevelt a finalement adopté la Fair Labor Standards Act qui, du moins en théorie, a mis fin au travail des enfants (bien qu’elle ait exempté le secteur agricole dans lequel ce type de main-d’œuvre restait courant).

    En outre, le New Deal de Roosevelt a transformé les mentalités à l’échelle du pays. Un sentiment d’égalitarisme économique, un nouveau respect pour la classe ouvrière et une méfiance sans bornes à l’égard de la caste des entreprises ont rendu le travail des enfants particulièrement répugnant. En outre, le New Deal a inauguré une longue ère de prospérité, avec notamment l’amélioration du niveau de vie de millions de travailleurs et travailleuses qui n’avaient plus besoin du travail de leurs enfants pour joindre les deux bouts.

    Retour vers le passé
    Il est d’autant plus étonnant de découvrir qu’un fléau, que l’on croyait banni, revit. Le capitalisme états-unien est un système internationalisé, ses réseaux s’étendent pratiquement partout. Aujourd’hui, on estime à 152 millions le nombre d’enfants au travail dans le monde. Bien sûr, tous ne sont pas employés directement ou même indirectement par des entreprises états-uniennes. Mais ces millions devraient certainement nous rappeler à quel point le capitalisme est redevenu profondément rétrograde, tant chez nous qu’ailleurs sur la planète.

    Les vantardises sur la puissance et la richesse de l’économie des Etats-Unis font partie du système de croyances et de la rhétorique des élites. Cependant, l’espérance de vie aux Etats-Unis, mesure fondamentale de la régression sociale, ne cesse de diminuer depuis des années. Les soins de santé sont non seulement inabordables pour des millions de personnes, mais leur qualité est devenue au mieux médiocre si l’on n’appartient pas au 1% supérieur. De même, les infrastructures du pays sont depuis longtemps en déclin, en raison de leur âge et de décennies de négligence.

    Il faut donc considérer les Etats-Unis comme un pays « développé » en proie au sous-développement et, dans ce contexte, le retour du travail des enfants est profondément symptomatique. Même avant la grande récession qui a suivi la crise financière de 2008, le niveau de vie avait baissé, en particulier pour des millions de travailleurs mis à mal par un tsunami de désindustrialisation qui a duré des décennies. Cette récession, qui a officiellement duré jusqu’en 2011, n’a fait qu’aggraver la situation. Elle a exercé une pression supplémentaire sur les coûts de la main-d’œuvre, tandis que le travail devenait de plus en plus précaire, de plus en plus dépourvu d’avantages sociaux et non syndiqué. Dans ces conditions, pourquoi ne pas se tourner vers une autre source de main-d’œuvre bon marché : les enfants ?

    Les plus vulnérables d’entre eux viennent de l’étranger, des migrants du Sud, fuyant des économies défaillantes souvent liées à l’exploitation et à la domination économiques états-uniennes. Si ce pays connaît aujourd’hui une crise frontalière – et c’est le cas – ses origines se trouvent de ce côté-ci de la frontière [et non pas avant tout en Amérique centrale ou au Mexique].

    La pandémie de Covid-19 de 2020-2022 a créé une brève pénurie de main-d’œuvre, qui est devenue un prétexte pour remettre les enfants au travail (même si le retour du travail des enfants est en fait antérieur à la pandémie). Il faut considérer ces enfants travailleurs au XXIe siècle comme un signe distinct de la pathologie sociale présente. Les Etats-Unis peuvent encore tyranniser certaines parties du monde, tout en faisant sans cesse étalage de leur puissance militaire. Mais chez eux, ils sont malades.

    #capitalisme #profits #travail des #enfants #exploitation #usa #Etats-Unis #élites #esclavage #ouvrières #ouvriers #migrants #Lewis_Hine

    Source originale : Tom Dispatch https://tomdispatch.com/caution-children-at-work
    Traduit de l’anglais par A l’encontre https://alencontre.org/ameriques/americnord/usa/le-retour-du-travail-des-enfants-est-le-dernier-signe-du-declin-des-etat

  • Zahra, morte pour quelques #fraises espagnoles

    Le 1er mai, un bus s’est renversé dans la région de #Huelva, au sud de l’Espagne. À son bord, des ouvrières agricoles marocaines qui se rendaient au travail, dont l’une a perdu la vie. Mediapart est allé à la rencontre des rescapées, qui dénoncent des conditions de travail infernales.
    Aïcha* s’installe péniblement à la table, en jetant un œil derrière le rideau. « Si le patron apprend qu’on a rencontré une journaliste, on sera expulsées et interdites de travailler en Espagne. On a peur qu’un mouchard nous ait suivies, on est sous surveillance permanente. »

    Aïcha sait le risque qu’elle encourt en témoignant, même à visage couvert, sous un prénom d’emprunt. Mais elle y tient, pour honorer Zahra. Foulard assorti à sa djellaba, elle est venue clandestinement au point de rendez-vous avec Farida* et Hanane*, elles aussi décidées à parler de Zahra. « Elle était comme notre sœur. » Deux images les hantent.

    Sur la première, la plus ancienne, Zahra sourit, visage net, rond, plein de vie, lèvres maquillées de rouge, regard foncé au khôl. Sur la seconde, elle gît devant la tôle pliée dans la campagne andalouse, corps flou, cœur à l’arrêt. « Elle avait maigri à force de travailler, on ne la reconnaissait plus. Allah y rahmo [« Que Dieu lui accorde sa miséricorde » – ndlr] », souffle Aïcha en essuyant ses larmes avec son voile.

    Zahra est morte juste avant le lever du soleil, en allant au travail, le 1er mai 2023, le jour de la Fête internationale des travailleuses et des travailleurs. Elle mangeait un yaourt en apprenant des mots d’espagnol, à côté de Malika* qui écoutait le Coran sur son smartphone, quand, à 6 h 25, le bus qui les transportait sans ceinture de sécurité s’est renversé.

    Elles étaient une trentaine d’ouvrières marocaines, en route pour la « finca », la ferme où elles cueillent sans relâche, à la main, les fraises du géant espagnol Surexport, l’un des premiers producteurs et exportateurs européens, détenu par le fonds d’investissement Alantra. Le chauffeur roulait vite, au-dessus de la limite autorisée, dans un épais brouillard. Il a été blessé légèrement.

    Zahra est morte sur le coup, dans son survêtement de saisonnière, avec son sac banane autour de la taille, au kilomètre 16 de l’autoroute A484, à une cinquantaine de kilomètres de Huelva, en Andalousie, à l’extrême sud de l’Espagne, près de la frontière portugaise. Au cœur d’une des parcelles les plus rentables du « potager de l’Europe » : celle qui produit 90 % de la récolte européenne de fraises, « l’or rouge » que l’on retrouve en hiver sur nos étals, même quand ce n’est pas la saison, au prix d’un désastre environnemental et social.

    Cet « or rouge », qui génère plusieurs centaines de millions d’euros par an, et emploie, d’après l’organisation patronale Freshuelva, 100 000 personnes, représente près de 8 % du PIB de l’Andalousie, l’une des régions les plus pauvres d’Espagne et d’Europe. Et il repose sur une variable d’ajustement : une main-d’œuvre étrangère saisonnière ultraflexible, prise dans un système où les abus et les violations de droits humains sont multiples.

    Corvéable à merci, cette main-d’œuvre « bon marché » n’a cessé de se féminiser au cours des deux dernières décennies, les travailleuses remplaçant les travailleurs sous les serres qui s’étendent à perte de vue, au milieu des bougainvilliers et des pins parasols. Un océan de plastique blanc arrosé de produits toxiques : des pesticides, des fongicides, des insecticides...

    À l’aube des années 2000, elles étaient polonaises, puis roumaines et bulgares. Elles sont aujourd’hui majoritairement marocaines, depuis le premier accord entre l’Espagne, l’ancien colonisateur, et le Maroc, l’ancien colonisé, lorsqu’en 2006 la ville espagnole de Cartaya a signé avec l’Anapec, l’agence pour l’emploi marocaine, une convention bilatérale de « gestion intégrale de l’immigration saisonnière » dans la province de Huelva.

    Une migration circulaire, dans les clous de la politique migratoire sécuritaire de Bruxelles, basée sur une obligation contractuelle, celle de retourner au pays, et sur le genre : l’import à moindre frais et temporairement (de trois à neuf mois) de femmes pour exporter des fraises.

    Le recrutement se fait directement au Maroc, par les organisations patronales espagnoles, avec l’aide des autorités marocaines, des gouverneurs locaux, dans des zones principalement rurales. Ce n’est pas sans rappeler Félix Mora, cet ancien militaire de l’armée française, surnommé « le négrier des Houillères », qui sillonnait dans les années 1960 et 1970 les villages du sud marocain en quête d’hommes réduits à leurs muscles pour trimer dans les mines de la France, l’autre ancienne puissance coloniale.

    Même état d’esprit soixante ans plus tard. L’Espagne recherche en Afrique du Nord une force de travail qui déploie des « mains délicates », des « doigts de fée », comme l’a montré dans ses travaux la géographe Chadia Arab, qui a visibilisé ces « Dames de fraises », clés de rentabilité d’une industrie agro-alimentaire climaticide, abreuvée de subventions européennes.

    Elle recherche des « doigts de fée » très précis. Ceux de femmes entre 25 et 45 ans, pauvres, précaires, analphabètes, mères d’au moins un enfant de moins de 18 ans, idéalement célibataires, divorcées, veuves. Des femmes parmi les plus vulnérables, en position de faiblesse face à d’éventuels abus et violences.

    Zahra avait le profil type. Elle est morte à 40 ans. Loin de ses cinq enfants, âgés de 6 à 21 ans, qu’elle appelait chaque jour. Loin de la maison de fortune, à Essaouira, sur la côte atlantique du Maroc, où après des mois d’absence, elle allait bientôt rentrer, la récolte et le « contratación en origen », le « contrat en origine », touchant à leur fin.

    C’est ce qui la maintenait debout lorsque ses mains saignaient, que le mal de dos la pliait de douleur, lorsque les cris des chefs la pressaient d’être encore plus productive, lorsque le malaise menaçait sous l’effet de la chaleur suffocante des serres.

    L’autocar jusqu’à Tarifa. Puis le ferry jusqu’à Tanger. Puis l’autocar jusqu’au bercail : Zahra allait revenir au pays la valise pleine de cadeaux et avec plusieurs centaines d’euros sur le compte bancaire, de quoi sauver le foyer d’une misère aggravée par l’inflation, nourrir les proches, le premier cercle et au-delà.

    Pour rempiler la saison suivante, être rappelée, ne pas être placée sur « la liste noire », la hantise de toutes, elle a été docile. Elle ne s’est jamais plainte des conditions de travail, des entorses au contrat, à la convention collective.

    Elle l’avait voulu, ce boulot, forte de son expérience dans les oliveraies et les plantations d’arganiers de sa région, même si le vertige et la peur de l’inconnu l’avaient saisie la toute première fois. Il avait fallu convaincre les hommes de la famille de la laisser voyager de l’autre côté de la Méditerranée, elle, une femme seule, mère de cinq enfants, ne sachant ni lire ni écrire, ne parlant pas un mot d’espagnol. Une nécessité économique mais aussi, sans en avoir conscience au départ, une émancipation, par le travail et le salaire, du joug patriarcal, de son mari, dont elle se disait séparée.

    Et un certain statut social : « On nous regarde différemment quand on revient. Moi, je ne suis plus la divorcée au ban de la société, associée à la prostituée. Je suis capable de ramener de l’argent comme les hommes, même beaucoup plus qu’eux », assure fièrement Aïcha.

    Elle est « répétitrice » depuis cinq ans, c’est-à-dire rappelée à chaque campagne agricole. Elle gagne de 1 000 à 3 000 euros selon la durée du contrat, une somme inespérée pour survivre, améliorer le quotidien, acheter une machine à laver, payer une opération médicale, économiser pour un jour, peut-être, accéder à l’impossible : la propriété.

    Cette saison ne sera pas la plus rémunératrice. « Il y a moins de fraises à ramasser », à cause de la sécheresse historique qui frappe l’Espagne, tout particulièrement cette région qui paie les conséquences de décennies d’extraction d’eau pour alimenter la culture intensive de la fraise et d’essor anarchique d’exploitations illégales ou irriguées au moyen de puits illégaux.

    Au point de plonger dans un état critique la réserve naturelle de Doñana, cernée par les serres, l’une des zones humides les plus importantes d’Europe, classée à l’Unesco. Le sujet, explosif, est devenu une polémique européenne et l’un des enjeux des élections locales qui se tiennent dimanche 28 mai en Espagne.

    « S’il n’y a plus d’eau, il n’y aura plus de fraises et on n’aura plus de travail », s’alarme Aïcha. Elle ne se relève pas de la perte de son amie Zahra, seule passagère du bus à avoir rencontré la mort, ce 1er mai si symbolique, jour férié et chômé en Espagne, où l’on a manifesté en appelant à « augmenter les salaires, baisser les prix, partager les bénéfices ». Les autres ouvrières ont été blessées à des degrés divers.

    Trois semaines plus tard, elles accusent le coup, isolées du monde, dans la promiscuité de leur logement à San Juan del Puerto, une ancienne auberge où elles sont hébergées, moyennant une retenue sur leur salaire, par l’entreprise Surexport, qui n’a pas répondu à nos sollicitations. Privées d’intimité, elles se partagent les chambres à plusieurs. La majorité des femmes accidentées est de retour, à l’exception des cas les plus graves, toujours hospitalisés.

    « Ils nous ont donné des béquilles et du paracétamol. Et maintenant, ils nous demandent de revenir travailler alors qu’on en est incapables, qu’on est encore sous le choc. Le médecin mandaté par l’entreprise a dit qu’on allait très bien, alors que certaines ont des fractures et qu’on met des couches à l’une d’entre nous qui n’arrive pas à se lever ! On a eu droit à un seul entretien avec une psychologue », raconte Aïcha en montrant la vidéo d’une camarade qui passe la serpillère appuyée sur une béquille.

    « On a perdu le sommeil », renchérit Hanane. Chaque nuit, elles revivent l’accident. Farida fait défiler « le chaos » sur son téléphone, les couvertures de survie, les cris, les douas (invocations à Allah), le sang. Elle somnolait quand le bus s’est couché. Quand elle a rouvert les yeux, elle était écrasée par plusieurs passagères. Elle s’est vue mourir, étouffée.

    Le trio montre ses blessures, des contusions, des entorses, un bassin luxé, un traumatisme cervical. Elles n’ont rien dit à la famille au Maroc, pour ne pas affoler leurs proches. Elles ne viennent pas du même coin. « Tu rencontres ici tout le pays. » Des filles des montagnes, des campagnes, des villes, de la capitale… Elles ont la trentaine, plusieurs enfants en bas âge restés avec la grand-mère ou les tantes, sont divorcées. Analphabètes, elles ne sont jamais allées à l’école.

    « Ici ou au bled, se désole Hanane en haussant les épaules, on est exploitées, mais il vaut mieux être esclave en Espagne. Au Maroc, je gagnais à l’usine moins de cinq euros par jour, ici, 40 euros par jour. » Elles affirment travailler, certaines journées, au-delà du cadre fixé par la convention collective de Huelva, qui prévoit environ 40 euros brut par jour pour 6 h 30 de travail, avec une journée de repos hebdomadaire. Sans être payées plus.

    Elles affirment aussi avoir droit à moins de trente minutes de pause quotidienne, « mal vivre, mal se nourrir, mal se soigner », du fait d’un système qui les contrôle dans tous les aspects de leur vie et les maintient « comme des prisonnières » à l’écart des centres urbains, distants de plusieurs kilomètres.

    Il faut traverser la région de Huelva en voiture pour mesurer l’ampleur de leur isolement. Le long des routes, des dizaines d’ouvrières marocaines, casquette sur leur voile coloré, seules ou à plusieurs, marchent des heures durant, en sandales ou en bottes de caoutchouc, faute de moyen de transport, pour atteindre une ville, un commerce. Certaines osent l’autostop. D’autres se retournent pour cacher leur visage à chaque passage de véhicule.

    Les hommes sont nombreux aussi. À pied mais surtout à vélo, plus rarement à trottinette. Originaires du Maghreb ou d’Afrique subsaharienne, une grande partie d’entre eux est soumise à l’emploi illégal, qui cohabite avec « le contrat en origine », au rythme des récoltes de fruits et légumes. Dans les champs de fraises, ils sont affectés à l’épandage des pesticides, au démontage des serres, à l’arrachage des plastiques…

    « La liste des abus est interminable, surtout pendant les pics de production, quand il faut récolter, conditionner, encore plus vite », soupire Fatima Ezzohairy Eddriouch, présidente d’Amia, l’association des femmes migrantes en action. Elle vient de débarquer dans le local sombre, escortée de Jaira del Rosario Castillo, l’avocate qui représente la famille « très affectée » de Zahra au Maroc, une spécialiste du droit du travail.

    Aïcha, Hanane et Farida lui tombent dans les bras, heureuses de rencontrer en vrai « Fatima de TikTok », une épaule pour de nombreuses saisonnières qui se refilent son numéro de portable, tant elle ne vit que pour l’amélioration de leur sort, malgré « un climat d’omerta, de terreur ».

    Travail forcé ou non payé, y compris les jours fériés, les dimanches, heures supplémentaires non rémunérées, passeports confisqués par certains patrons, absence de repos, contrôles du rendement avec renvoi vers le Maroc si celui-ci est jugé insuffisant, absence de mesures de sécurité et de protection sur le lieu de travail, tromperie à l’embauche, harcèlement moral, violences sexuelles, racisme, xénophobie, logement indigne, accès aux soins de santé entravé… Fatima Ezzohairy Eddriouch est confrontée au « pire de l’humanité tous les jours ». Avant de nous rejoindre, elle aidait Rahma, qui s’est brisé le cou en cueillant les fraises : « Son employeur veut la licencier et refuse de prendre en charge les soins médicaux. »

    Elle-même a été saisonnière pendant plus de dix ans. Elle en avait 19 quand elle a quitté Moulay Bousselham, au Maroc, et rejoint Huelva. Elle doit sa « survie » à Manuel, un journalier andalou rencontré dans les champs devenu son époux. « Vingt-trois ans d’amour, ça aide à tenir », sourit-elle. Seule ombre au tableau : alors que sa famille a accueilli avec joie leur union, celle de son mari continue de la rejeter. « Le racisme est malheureusement très fort en Espagne. »

    Le 1er mai, Fatima Ezzohairy Eddriouch a été l’une des premières informées de la tragédie. Des travailleuses blessées l’ont sollicitée. Mais elle s’est heurtée aux murs de l’administration, de l’employeur : « Un accident mortel de bus qui transporte des ouvrières agricoles étrangères, le jour de la Fête des travailleurs, c’est une bombe à l’échelle locale et nationale. Heureusement pour le gouvernement et le patronat agricole, elles sont des immigrées légales, pas sans papiers. »

    Devant le logement de San Juan del Puerto, elle a découvert le portail cadenassé, une entrave à la liberté de circuler des ouvrières. Elle l’a dénoncée sur les réseaux sociaux. Et dans la presse, auprès du journaliste indépendant Perico Echevarria notamment, poil à gratter avec sa revue Mar de Onuba, seul média local à déranger un système agroalimentaire et migratoire qui broie des milliers de vies. Surexport a fini par faire sauter le verrou.

    « Elles ont été enfermées, interdites de parler à des associations, à la presse. Ce n’est pas tolérable », s’indigne encore la militante. Son regard s’arrête sur une des photos de Zahra. Celle où elle a basculé de vie à trépas. Elle n’était pas prête. Elle s’effondre. Cette fois, ce sont Aïcha, Hanane et Farida qui l’enlacent en claudiquant. Le corps de Zahra a été rapatrié, enterré dans un cimetière d’Essaouira.

    La presse, d’une rive à l’autre, spécule sur le montant des pensions et des indemnités que pourraient percevoir les proches de la défunte, selon le droit espagnol. « C’est indispensable de rendre justice à cette famille meurtrie à jamais, à défaut de pouvoir rendre la vie à Zahra », dit l’avocate. Aïcha, Hanane et Farida, elles, veulent qu’on retienne son visage souriant à travers l’Europe, en France, au Pays-Bas, en Belgique..., et qu’on l’associe à chaque barquette de fraises marquée « origine : Huelva (Espagne) ».

    https://www.mediapart.fr/journal/international/270523/zahra-morte-pour-quelques-fraises-espagnoles
    #décès #Espagne #agriculture #exploitation #esclavage_moderne #migrations #travail #Maroc #agricultrices #femmes #conditions_de_travail #ouvrières_agricoles #Surexport #industrie_agro-alimentaire #Alantra #saisonniers #saisonnières #Andalousie #or_rouge #abus #féminisation #féminisation_du_travail #convention_bilatérale #Anapec #migration_circulaire #genre #violence #contrat_en_origine #contratación_en_origen #émancipation #sécheresse #eau #isolement #travail_forcé

    –—

    ajouté au fil de discussion sur la cueillette de fraises en Espagne :
    https://seenthis.net/messages/693859

  • Bangladesh : il y a dix ans, 1 138 morts pour le profit | LO
    https://journal.lutte-ouvriere.org/2023/05/03/bangladesh-il-y-dix-ans-1-138-morts-pour-le-profit_645664.ht

    Le 24 avril 2013 l’immeuble du Rana Plaza, à Dacca, capitale du Bangladesh, s’effondrait, emportant les 4 000 ouvriers, principalement des ouvrières, qui y travaillaient. On dénombra 1 138 morts et 2 500 blessés.

    Les étages supérieurs de l’immeuble, construits illégalement, étaient occupés par des ateliers de confection. Des milliers d’ouvrières, courbées sur leur machine à coudre, y fabriquaient des vêtements pour de grandes marques occidentales ou japonaises. Non seulement le bâtiment n’était absolument pas prévu pour un usage industriel, mais l’alimentation électrique dépendait de générateurs installés sur les toits, dont les vibrations se transmettaient à tout l’immeuble. La veille du drame, les travailleurs avaient signalé des fissures dans les murs et alerté les services municipaux. Les responsables des ateliers de confection avaient contraint sous menace de licenciement les ouvrières à prendre leur poste, car les firmes clientes comme Benetton, Zara, Primark, Walmart, Auchan, Carrefour et les autres attendaient leurs marchandises et leurs bénéfices.

    La catastrophe entraîna une cascade de réactions. Tout d’abord les travailleurs de Dacca descendirent dans la rue en masse et, devant leur révolte, le gouvernement bengalais se hâta d’édicter une loi sur la sécurité des usines. Dix ans après, l’administration affirme que de nombreuses entreprises ont été mises aux normes. Les travailleurs, eux, manifestant une nouvelle fois pour ce sombre anniversaire, affirment que rien n’a changé, ni les salaires, ni les conditions de travail dans les milliers d’entreprises du textile qui emploient 4,4 millions d’ouvriers et qui produisent 80 % des exportations du Bangladesh. Et d’ajouter qu’aucune condamnation n’a été prononcée après la catastrophe, pas même à l’encontre des individus qui ont contraint les #ouvrières à entrer dans le Rana Plaza ce 24 avril 2013.

    Sous la pression de l’opinion publique, certains géants occidentaux du textile et du commerce ont fini par signer divers codes de bonne conduite. Ils y promettent monts et merveilles, contrôle des salaires et des conditions de travail, interdiction du travail des enfants et une industrie moins polluante. En France, qui importe pour 1 milliard d’euros de textile bengalais chaque année, une loi a été votée en 2017 exigeant des entreprises qu’elles contrôlent les conditions de travail de leurs #sous-traitants, y compris au bout du monde.

    On ne peut que douter de ces résolutions. D’une part, parce que les ouvrières de Dacca disent, elles, que tout continue comme avant. D’autre part, parce que les coûts de fabrication du textile au #Bangladesh sont sans cesse tirés vers le bas. Les capitalistes occidentaux exigent, et obtiennent pour l’instant, d’être livrés toujours plus vite en payant toujours moins cher. Et ils menacent, dans le cas contraire, de trouver des ouvriers sous d’autres cieux, en Éthiopie par exemple, où le salaire mensuel est encore trois fois moindre qu’à Dacca.

    Cette avidité, ces mensonges et la servilité des administrations ne promettent pas seulement de nouvelles catastrophes. Elles préparent aussi de nouvelles révoltes, par lesquelles les ouvrières de Dacca vengeront leurs sœurs du #Rana_Plaza et bien d’autres.

    #exploitation #classe_ouvrière #capitalisme

  • Retraites : dégâts importants sur le pont de Saint-Nazaire, les manifestants ont quitté les lieux
    https://www.francebleu.fr/infos/economie-social/pont-de-saint-nazaire-les-manifestants-ont-quitte-les-lieux-5445811

    Une centaine d’opposants à la réforme des retraites ont bloqué le pont de Saint-Nazaire ce mercredi. Ils ont quitté les lieux vers 14h30. Mais la colère reste visible. Un portique routier en partie incendié doit être évacué avant la rouverture du pont à la circulation.

    L’hélicoptère de la gendarmerie a survolé la zone, quelques forces de l’ordre visibles au loin, mais pas de charge, pas d’affrontements ce mercredi matin sur le pont de Saint-Nazaire où une centaine de manifestants avaient érigé des barricades. Les grévistes ont quitté les lieux vers 14h30. Il faut à présent nettoyer et sécuriser la zone avant de pouvoir rouvrir le pont à la circulation. Les pompiers sont intervenus pour éteindre les feux et il s’agit à présent d’évacuer un portique de signalisation [et des radars], en partie incendié, et qui menace de s’écrouler.

    #ouvriers #blocage #sabotage

    "Que Macron vienne décharger les containers avec moi, il tient une semaine !", un docker en colère à France Bleu.

  • Spontanéité, Médiation, Rupture by Endnotes
    https://endnotes.org.uk/translations/endnotes-spontaneite-mediation-rupture

    « Nous ne savons pas s’il faut voir dans les destins [opposés] de Luxemburg […] et de Lénine un lien avec le fait que Lénine et son groupe aient armé les #ouvriers, quand les Spartakistes ont persisté à penser l’organisation comme une #coordination […] et le #refus_du_travail comme unique arme adéquate pour les ouvriers. L’essence du léninisme évolue, du rapport entre #spontanéité et #parti au rapport entre parti et #insurrection. » Sergio Bologna.

    Est-ce que les luttes actuelles évoluent vers la #révolution ? Nous tentons de nous positionner par rapport à cette question de la seule façon possible : non seulement grâce à notre vécu actuel, mais aussi en relisant les théories révolutionnaires du passé. Se référer à de telles théories peut toutefois se révéler hasardeux : elles sont apparues en réaction à un ensemble de questions énoncées au cours d’une période spécifique — une époque qui n’est pas la nôtre. Il est vrai que les théories révolutionnaires du XXe siècle se sont développées au cours d’une séquence de luttes que nous appelons le mouvement ouvrier. Elles ne portent pas uniquement les traces du mouvement ouvrier dans son ensemble. Ces théories ont été formulées en réaction aux limites auxquelles ce mouvement a été confronté à son apogée, à savoir la période révolutionnaire de 1905-1921.

    Les limites du mouvement ouvrier étaient entièrement prises dans la question de la diffusion de la conscience de classe au sein d’une population qui n’avait alors été que partiellement prolétarisée. Confrontés à une importante paysannerie dans les campagnes et à un ensemble hétérogène de classes ouvrières dans les villes, les stratèges du mouvement ouvrier espéraient un moment futur, lorsque la prolétarisation complète, dépendante du développement des forces productives, éliminerait les divisions entre prolétaires. L’unité objective de la classe trouverait alors son corolaire subjectif. Il se trouve que ce rêve n’est pas devenu réalité. Le développement des forces productives qui s’en est suivi a renforcé certaines des divisions entre prolétaires, tout en en créant d’autres. Dans le même temps, ce développement a détruit le fondement de l’unité des ouvriers. Ils ont découvert qu’ils n’étaient plus la force vive de l’époque moderne : à la place, ils avaient été transformés en appendices — en accessoires d’un ensemble proliférant de machines et d’infrastructures qui échappait à leur contrôle2.

    Il peut être utile de se rapporter brièvement au zénith révolutionnaire du siècle précédent, avant la destitution du mouvement ouvrier, pour comprendre le contexte dans lequel les théories révolutionnaires du passé avaient pris naissance. Partant, on commencera à articuler une théorie révolutionnaire de notre époque. Mais il nous faut prendre garde lorsqu’on entreprend aujourd’hui une telle tâche : l’émergence des révolutions est, de par sa nature même, imprévisible ; notre #théorie doit d’une façon ou d’une autre intégrer cette imprédictibilité en son sein. Les révolutionnaires de l’ère précédente refusaient le plus souvent de s’ouvrir à l’inconnu — alors même que les révolutions dont ils faisaient l’expérience ne se déroulaient jamais comme ils l’avaient imaginé.

  • Il y a 175 ans, le 22 février 1848, la révolution

    ... en juin 1848, la classe ouvrière parisienne était écrasée par l’armée du général Cavaignac. Ainsi se terminait la période révolutionnaire ouverte quand, en #février_1848, une première #révolution avait chassé du pouvoir le roi Louis Philippe et mis fin à la #monarchie_de_Juillet. Avec la #Deuxième_République l’espoir d’un régime de #démocratie, de libertés et de justice sociale était alors né.

    Après les journées révolutionnaires de #juillet_1830, la monarchie de droit divin de Charles X avait été remplacée par la #monarchie_constitutionnelle de #Louis_Philippe. Mais ce changement n’en était pas un. Le #Parlement restait élu par seulement 250 000 électeurs parmi les plus riches du royaume. Face aux contestations, venant aussi bien des milieux bourgeois écartés du pouvoir que des masses populaires, le gouvernement répondait par la répression et les interdictions.

    L’opposition républicaine

    Au sein du Parlement, seuls quelques dizaines de députés, dont #Ledru-Rollin et #Lamartine, se déclaraient partisans de la république. La majorité des députés de l’opposition se contentaient de réclamer l’élargissement du droit de vote et quelques libertés supplémentaires dans le cadre de la monarchie. Au sein de la population, la crise économique de 1847 renforçait le mécontentement. Les mauvaises récoltes des deux années précédentes et la spéculation avaient renchéri le prix du pain. Dans plusieurs régions, des émeutes avaient éclaté.

    Aucune réunion politique n’étant tolérée, les députés de l’opposition organisèrent une campagne de banquets réclamant une démocratisation du régime. Les revendications exprimées lors des toasts devinrent de plus en plus radicales, jusqu’à mettre en avant la souveraineté du peuple, autrement dit le suffrage universel et la république.

    Les ouvriers imposent la république

    La campagne des banquets contribua à répandre une agitation politique dans les faubourgs populaires. Des travailleurs, des étudiants, de plus en plus exaspérés, se massaient autour des salles et reprenaient la revendication de la république, en y mettant cependant un contenu à eux. Pour les ouvriers, elle devait évidemment être sociale, garantir le droit au travail et des salaires permettant de vivre.

    Devant la radicalisation des banquets, le roi décida d’interdire celui organisé le #22_février_1848 dans la capitale. Il pensait disposer de la force et nomma Bugeaud à la tête des troupes rassemblées à Paris, un général déjà responsable de la répression des révoltes de 1834. Mais dans les heures qui virent la confrontation des troupes avec le petit peuple, l’indécision allait faire place à la fraternisation.

    Le 22 février, des groupes d’#ouvriers acclamaient les soldats, leur rappelant leur appartenance au peuple. Le 23, une #fusillade éclata. Cinquante-deux manifestants tombèrent. Le tocsin sonna dans plusieurs églises, appelant la population à s’armer et à se défendre. Les manifestants, majoritairement ouvriers, érigèrent des barricades, étalèrent sur le sol de la vaisselle cassée pour bloquer les cavaliers, pillèrent les armureries et obtinrent des armes venant des troupes. Devant l’insurrection, et constatant l’incapacité des troupes à en venir à bout, Louis Philippe dut abdiquer.

    Les députés républicains constituèrent immédiatement un #gouvernement_provisoire, puis se rendirent à l’Hôtel de Ville devant lequel la population s’était massée. Les nouveaux ministres cherchaient déjà les formules qui auraient pu leur éviter de trancher, sous la pression des masses, la question du futur régime. Celles-ci devenaient menaçantes et les barricades étant toujours hérissées, le poète Lamartine, républicain connu, ministre du nouveau gouvernement, dut se résoudre à proclamer la #république.

    Drapeau rouge ou drapeau tricolore

    Pour calmer les insurgés, Lamartine manœuvra en tenant des discours prônant la concorde entre les classes, s’opposant à la volonté exprimée par une partie des insurgés de faire du drapeau rouge le symbole de cette république nouvellement proclamée, il imposa le drapeau tricolore, auréolé selon lui de la « gloire et la liberté de la patrie », déclarant : « Je repousserai jusqu’à la mort ce drapeau de sang que vous nous rapportez . »

    Ce choix du drapeau avait un sens de classe. En défendant le drapeau tricolore, Lamartine défendait la république bourgeoise. Les ouvriers, eux, reconnaissaient dans le drapeau rouge le symbole de leurs luttes. Le discours de Lamartine était la première faille dans la fausse unanimité qui dominait cette révolution de février.

    La faille allait s’élargir dans les semaines et les mois suivants. Les ouvriers ne pouvaient accepter la confiscation de leur révolution par la bourgeoisie. Ils ne pouvaient renoncer à leur revendication principale, le droit au travail, et à leurs #aspirations_sociales.

    Dans l’affrontement de classe qui se préparait, la bourgeoisie disposait d’une longueur d’avance. La république qu’elle voulait était la sienne. Pour l’imposer il lui fallait désarmer les ouvriers et briser leur volonté de lutte.

    Pour en finir avec les travailleurs en armes, le gouvernement fit d’abord arrêter les chefs ouvriers Barbès et Blanqui après une manifestation qui avait envahi l’Assemblée. Le général Cavaignac reçut les pleins pouvoirs.

    La bourgeoisie prend l’offensive

    Le gouvernement provisoire prétendit s’attaquer à la misère en créant les #Ateliers_nationaux chargés des travaux publics, où les chômeurs trouvaient à s’embaucher. Mais, le 21 juin, les ouvriers de moins de 25 ans qui y travaillaient furent contraints de s’engager dans l’armée, et les plus âgés devaient se préparer à partir en province.

    Face à cette provocation gouvernementale, les ouvriers parisiens se soulevèrent aux cris de « La liberté ou la mort », dressèrent des barricades dans une grande partie de Paris. Puis quatre jours durant, du 23 au 26 juin, ils affrontèrent les armes à la main l’armée, les gardes mobiles et la garde nationale. La répression fit plus de 3 000 morts parmi les ouvriers.

    Écrasée, la classe ouvrière avait toutefois montré qu’elle n’était pas seulement la classe souffrante des nouveaux bagnes industriels dont la bourgeoisie commençait à couvrir l’Europe. Elle n’était plus non plus une simple masse de manœuvre que la bourgeoisie pouvait utiliser pour s’imposer au pouvoir. Pour les militants ouvriers de l’époque, et notamment pour #Marx et #Engels qui quelques jours avant la révolution de février avaient lancé le #Manifeste_du_parti_communiste, juin 1848 ouvrait une ère nouvelle. La classe ouvrière était désormais, et est restée, la seule classe véritablement révolutionnaire, la seule capable de transformer la société.

    https://journal.lutte-ouvriere.org/2018/06/27/juin-1848-la-republique-bourgeoise-ecrase-la-revolte-ouvrier

    #insurrection #éphéméride #karl_marx #friedrich_engels #répression #justice_sociale #émancipation #communisme

  • Bataille des #retraites : durcir le ton, élargir le front, Fabien Escalona et Romaric Godin
    https://www.mediapart.fr/journal/politique/180223/bataille-des-retraites-durcir-le-ton-elargir-le-front

    Face à un pouvoir radicalisé, le mouvement social doit à la fois durcir ses actions et élargir la bataille à d’autres enjeux que la réforme des retraites. La victoire n’est aucunement garantie, mais seule cette voie est constructive, même en cas d’échec.

    creuser. un autre versant d’un approfondissement possible
    https://seenthis.net/messages/991381

    Pour revenir à la situation présente : ce que nous voulons dire c’est que tout est déjà là. Les deux millions de manifestants, Macron, l’expérience de l’émeute comme du blocage, les complicités ainsi que la sécheresse, le dégoût du travail et la fin de la politique, les bureaucrates têtes-à-claques, qui n’en peuvent plus d’attendre de s’en prendre. On propose donc d’écarter un temps, disons le 7 mars, tout penchant pour la nostalgie, la résignation ou le cynisme, et d’y aller.

    • La voix du Capital
      https://www.lantivol.com/2023/02/les-breves-du-satirique-fevrier-2023.html

      Le 2 février 2023, Alain Minc était l’invité de Ruth Elkrief dans «  Un œil sur le monde   » sur LCI. Interrogé sur la réforme des retraites, il l’a joué comme à son habitude tout sourire et tout cynique, façon petit expert maître-chanteur :

      «  Je crois qu’iI est inenvisageable qu’elle ne passe pas. Et pour une raison que le pouvoir n’ose pas dire ou ne peut pas dire. Pourquoi il faut faire cette réforme ? Nous avons 3000 milliards de #dette. Le taux d’intérêt que nous payons est très proche de celui de l’Allemagne, ce qui est une espèce de bénédiction, peut-être imméritée. (…) Le marché, c’est un être primaire. S’il voit qu’on a changé l’âge, il considérera que la France demeure un pays sérieux. Vous allez me dire : c’est idiot. Peut-être, mais c’est comme ça. Quand on est #débiteur de 3000 milliards on fait attention à ce que pense son #créancier. Si aujourd’hui cette #réforme n’avait pas lieu, si les taux d’intérêt français augmentaient à cause de ça, imaginez qu’1% de plus c’est sur 10 ans 150 milliards, on parle de ces choses-là, c’est à dire des moyens de payer les retraites, mais aussi de payer les salaires des fonctionnaires, les infirmières… Donc cette réforme a une portée symbolique à laquelle il faut accepter de céder, peu importe les concessions qu’il va falloir faire. Et comme le président de la République qui sait quand même ce que sont les règles du monde financier ne peut qu’être conscient de ça, il ne cédera pas.   »

      C’est fou comme ce genre de déclarations, ça donne encore plus envie de les faire céder et d’imposer, au-delà du retrait de leur projet, nos propres réformes…

    • « C’est le mentor de Macron Alain Minc qui le dit, la réforme des retraites sert uniquement à donner des gages aux parasites de la finance.
      Sauver le système ils n’en ont rien à foutre… »
      #greve7mars #GreveGenerale #NonALaReformeDesRetraites

      https://video.twimg.com/amplify_video/1627932060798033921/vid/1280x720/o-DhXM-Uw74z5sOJ.mp4?tag=16

      https://twitter.com/realmarcel1/status/1628392611168894976?cxt=HHwWgIC--ficm5ktAAAA

    • Quand un républicain keynésien (Godin) en vient à citer Luxembourg et Lukàcs (...), ne pas hésiter à lire des analyses plus concrètes de la situation dans laquelle s’inscrivent ces réformes.

      Le mouvement contre la réforme des retraites en France, automne 2010 - SIC INTERNATIONAL JOURNAL FOR COMMUNISATION
      https://www.sicjournal.org/le-mouvement-contre-la-reforme-des-retraites-en-france-automne-2010-2

      La deuxième détermination a été sa généralisation à partir de la volonté de défense d’un statu quo qui, de fait, était déjà en grande partie obsolète.
      Avec quarante années d’annuité, il faut avoir un emploi protégé, une carrière commencée tôt, pour que la perspective de la retraite ait un sens. Une situation qui s’apparente de plus en plus à celle de dinosaures au sein des travailleurs. Si le mouvement a continué, dépassant le cycle convenu des manifestations-défilés, c’est parce que cette défense d’un statu quo s’est elle-même muée en une critique plus profonde. Les quarante annuités, c’est une condamnation au travail à perpétuité.

      La lutte contre la réforme des retraites n’est pas le révélateur d’autre chose mais de tout ce qui est inscrit dans cette réforme. La question c’est l’organisation du marché du travail dans le mode de production capitaliste issu de la restructuration des années 1970 : la #précarisation ; les jeunes de moins de 25 ans qui sont au chômage[3] ; les plus de 55 ans qui sont poussés vers la sortie (en 2010, il y a eu 350 000 licenciements conventionnels).

      Dans les nouvelles modalités de l’exploitation de la force de travail totale comme une seule force de travail sociale disponible face au capital et segmentable à l’infini, cette #segmentation est tout autant division, création de catégories, que continuum de positions qui coexistent dans un même ensemble et se contaminent les unes les autres.

      Au travers d’un grand nombre de dispositifs nouveaux, la classe capitaliste cherche désormais à soutenir l’offre de travail alors que l’objectif poursuivi jusqu’à la fin des années 1980 par l’action publique était plutôt d’encourager les retraits d’activité. La cible n’est plus de diminuer le taux de chômage, mais d’accroître le taux d’emploi [les deux étant loin de s’exclure, ndc]. On peut compter actuellement en France plus de dix millions de salariés concernés par les exonérations sur les bas #salaires, on peut dénombrer également 8,5 millions de bénéficiaires de la prime pour l’emploi. Le changement d’échelle est très net (2,8 millions de bénéficiaires de la politique de l’emploi en 2000).

      #emploi #retraites #chômage

    • « Je lutte des classes » - Le mouvement contre la réforme des retraites en France, automne 2010
      https://entremonde.net/IMG/pdf/senonevero_jeluttedesclasses.pdf

      je lutte des classes – dans ce slogan emblématique d’un mouvement sans illusion et sans espoir de victoire, on entend « je fais la lutte des classes ». Si on doit affirmer la lutte de classe sous cette forme ambiguë, humoristique et contradictoire, c’est que ce qui demeure un fait objectif, massif et incontournable, structurel, la lutte des classes, ne se reconnaissait plus elle-même comme un fait collectif et objectif intégrant et dépassant les manifestants individuels, mais comme un choix idéologique (politico-social) personnel.
      Le succès de ce slogan malicieux et sérieux à la fois montrait que pour tous, (et surtout chacun !) les mani- festations – élément central et organisateur du mou- vement – affirmaient une identité ouvrière à la fois obsolète et indispensable, idéale dans les deux sens du mot : comme idéal qui serait à atteindre et comme pur concept. Comme idée de ce qui avait existé, et qui jus- tement n’existait plus.
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      « Je lutte des classes »
      Cette dualité désignait à la fois la permanence de la contradiction de classes immanente au capitalisme et son caractère radicalement transformé ne donnant plus naissance à une identité de classe pouvant s’affir- mer contre le capital. « Je lutte des classes » fut le nom que, dans la lutte des classes, l’implosion de l’identité ouvrière en acte s’est donnée à elle-même. À côté des manifestations où se proclamait cette identité ouvrière idéale, les secteurs en grève étaient justement ceux où des communautés de travail encore plus ou moins stables pouvaient magiquement et nostalgiquement servir de référent à cette invocation. Le slogan dit très joliment la perte de l’identité ouvrière dans la volonté de l’affirmer. Le singulier du sujet est contradictoire à ce qu’est l’appartenance de classe qui n’est pas une appartenance individuelle, l’élément d’une somme. Il n’y a pas si longtemps, comme ouvrier, à Ivry ou à Port- de-Bouc, on était, par définition, de la classe ouvrière.

      #classe #ouvrier

  • « Les seniors de la deuxième ligne sont plus nombreux à être ni en emploi ni en retraite que les autres salariés »
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/02/10/les-seniors-de-la-deuxieme-ligne-sont-plus-nombreux-a-etre-ni-en-emploi-ni-e

    La crise sanitaire a mis en lumière un ensemble de salariés travaillant dans des métiers nécessaires à la continuité de notre vie économique et sociale, les « deuxième ligne », salués par le président de la République aux côtés des soignants dans son discours d’avril 2020. Parmi eux, des #ouvriers (dans l’agriculture et les industries agroalimentaires, le bâtiment, la manutention) mais aussi des conducteurs, des bouchers, des charcutiers, des boulangers, des vendeurs de produits alimentaires, des caissiers de la grande distribution, des agents du nettoyage et de la propreté, de l’aide à domicile, de la sécurité…

    La mission lancée par Elisabeth Borne en novembre 2020, dont le rapport a été publié en décembre 2021, a montré la difficulté de leurs conditions de #travail et d’emploi, marquées notamment par des salaires faibles, diverses formes de pénibilité et de faibles chances de promotion en cours de carrière… Pourtant, malgré la richesse du bilan statistique et l’ambition d’un dialogue social renouvelé dans les branches concernées, la « reconnaissance » du rôle essentiel de ces salariés s’est arrêtée à une prime exceptionnelle laissée à la discrétion des employeurs en 2021, et de plus non spécifique à ces métiers.
    Dans le contexte du débat sur la réforme des retraites, il nous semble important de renouer avec la démarche de la mission et de reprendre une approche par métiers pour analyser les fins de carrière et leurs difficultés.

    Les données de l’enquête Emploi de l’Insee permettent une première approche, en décomposant la population des seniors de 50 à 64 ans selon leur situation à l’égard du marché du travail en fonction de leur métier. Les résultats montrent que les salariés qui exercent ou ont exercé comme dernier emploi un métier de la deuxième ligne représentent 28 % du total des seniors, soit 3,6 millions de personnes. Ils sont un peu moins souvent en emploi que les autres salariés (58 % contre 66 %), et il s’agit davantage d’emplois à temps partiel (18 % contre 10 %).

    Fort risque de pauvreté

    Toutefois, comme ils sont un peu plus touchés par le chômage, et surtout par l’inactivité hors retraite, les seniors de la deuxième ligne sont nettement plus nombreux à être ni en emploi ni en retraite (26 % contre 15 %), situation associée à un fort risque de pauvreté selon une étude de la Drees de 2018. Signe de la dureté de leurs métiers, un tiers d’entre eux (9 %) est en #invalidité, le double de ce qui est observé dans les autres emplois. Chômage et inactivité, hors retraite, ne diminuent que lentement avec l’âge : pour certains métiers, comme les ouvriers du bâtiment, les caissières ou les agents de propreté, cette situation touche encore plus du quart de la population entre 60 et 64 ans. Elle renvoie très probablement à l’impossibilité de ces travailleurs à prendre leur retraite compte tenu de leurs carrières (nombre de trimestres et niveaux de salaires).

    Pour les seniors qui travaillent dans les métiers de deuxième ligne, on retrouve des salaires nettement plus faibles que ceux des autres métiers (salaire médian de 1 400 euros pour les secondes lignes, contre 2025 euros pour les autres métiers entre 50 et 54 ans). De plus, cet écart ne s’explique pas par une différence de durée du travail, mais bien par la faiblesse du salaire horaire, puisqu’il n’est que très légèrement plus faible lorsqu’on se limite à ceux qui travaillent à temps complet. Et il augmente avec l’âge (de 625 euros pour les 50-54 ans à 965 euros pour les 60-64 ans), confirmant des carrières salariales en général très plates. Les travailleurs et travailleuses de la deuxième ligne qui restent en emploi après 60 ans ont toujours des niveaux de salaires faibles relativement aux autres salariés, les métiers les plus défavorisés étant les aides à domicile et aides ménagères, les agents d’entretien, les caissiers et vendeurs en produits alimentaires.

    Ces statistiques confirment, sans surprise, un marché du travail inégal selon les métiers et légitiment le sentiment d’injustice de celles et ceux qui terminent leur carrière dans ces conditions difficiles, et sont le plus souvent exclus des dispositifs de pénibilité, centrés sur des critères correspondant au secteur industriel. L’élargissement de ces critères constitue un enjeu fondamental pour la soutenabilité des fins de carrière des salariés de la continuité économique et sociale… Mais il reste insuffisant pour répondre aux déficits de rémunération et de qualité de l’emploi accumulés tout au long des trajectoires professionnelles, pour lesquels une démarche volontariste associant les partenaires sociaux est plus que jamais nécessaire.

    Christine Erhel est professeure d’économie au Conservatoire national des arts et métiers (CNAM), directrice du Centre d’études de l’emploi et du travail (CEET).

    Laurent Berger
    https://www.lemonde.fr/economie/article/2022/10/27/reforme-des-retraites-politiques-et-syndicats-divergent_6147539_3234.html

    ... 40 % des personnes qui partent à la retraite ne sont déjà plus en emploi : ils sont en invalidité ou au chômage ...

    #retraite #chômage

    • Exploitation, vulnérabilité et résistance : le cas des #ouvriers_agricoles indiens dans l’Agro Pontino

      De nombreuses représentations trompeuses continuent à peser sur l’exploitation des ouvriers agricoles étrangers en Italie, rendant difficile la compréhension du phénomène et l’intervention sur ses causes réelles. Cet article tente de questionner les principaux lieux communs sur le sujet, en analysant un cas particulièrement éclairant : celui de la communauté #Pendjabi de #religion_sikh employée sur l’Agro Pontino, dans le Latium. Cette étude de cas permet, d’une part, de faire ressortir les conditions d’exploitation systémiques, masquées derrière des mécanismes apparemment légaux ; de l’autre, il révèle que même les individus les plus vulnérables peuvent résister à l’exploitation et revendiquer activement leurs droits.

      https://www.cairn.info/revue-confluences-mediterranee-2019-4-page-45.htm

    • #In_migrazione

      In Migrazione è una Società Cooperativa Sociale nata nel 2015 dalla volontà di persone impegnate nella ricerca, nell’accoglienza e nel sostegno agli stranieri in Italia.

      Diversi percorsi professionali e umani che hanno attraversato un ampio spaccato di esperienze diverse e che con In Migrazione si sono uniti per dare vita ad un soggetto collettivo, innovativo, aperto e trasparente.

      Una Cooperativa nata per sperimentare nuovi progetti di qualità e innovative metodologie al fine di interpretare e concretizzare percorsi d’aiuto efficaci verso i migranti che vivono nel nostro Paese situazioni di disagio e difficoltà. Esperienze concrete che sappiano diventare buone pratiche riproducibili, per contribuire a migliorare quel sistema di accoglienza e inclusione sociale degli stranieri.

      Le nostre ricerche e le concrete sperimentazioni progettuali mettono al centro la persona, con i suoi peculiari bisogni, aspettative e sogni.

      Mettiamo a disposizione queste esperienze e le nostre metodologie alle altre associazioni, cooperative, Enti pubblici e privati, professionisti e volontari del settore, convinti che nel sociale non possano e non debbano esistere copyright.

      https://www.inmigrazione.it

    • Progetto “Dignità-Joban Singh”, contro la schiavitù dei braccianti

      Una serie di sportelli di accoglienza, ascolto e sostegno, ma anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Un progetto per dare voce alle vittime di lavoro schiavo, in memoria del giovane di origini indiane, morto suicida il 6 giugno 2020 a Sabaudia

      Si chiama Dignità-Joban Singh ed è il progetto in corso organizzato dall’associazione Tempi Moderni contro le varie forme di schiavismo e sfruttamento che mortificano e riducono in schiavitù migliaia di persone, immigrati e italiani, indiani e africani, uomini e donne, in questa Italia fondata sul lavoro ma anche su una persistente presenza di razzisti, violenti, mafiosi e di sfruttatori che mortificano la democrazia ed esprimono chiaramente la loro natura predatoria.

      Joban Singh, di appena 25 anni e residente nel residence “Bella Farnia Mare”, nel Comune di Sabaudia, in provincia di Latina, il 6 giugno scorso è stato trovato senza vita all’interno del suo appartamento. Joban decise di impiccarsi dopo essere entrato in Italia mediante un trafficante di esseri umani indiano, essere stato gravemente sfruttato in una delle maggiori aziende agricole dell’Agro Pontino e aver subito il rifiuto da parte del padrone alla sua richiesta di emersione dall’irregolarità mediante art. 103 del Decreto Rilancio (D.L. n. 34/2020) del governo.

      Dedicare questo progetto alla sua memoria, per non dimenticare ciò che significa vivere come uno schiavo in un paese libero, è un impegno che viene sottoscritto da Tempi Moderni ma che può camminare solo sulle gambe di tanti, o meglio di una comunità di persone responsabili e ribelle contro i padroni e i padrini di oggi.

      In questa Italia ci sono, secondo il rapporto Agromafie e caporalato dell’Osservatorio Placido Rizzotto della Flai-Cgil (2020), tra 400 e 450mila lavoratori e lavoratrici che solo in agricoltura risultano esposti allo sfruttamento e al caporalato. Di queste ultime, più di 180mila sono impiegate in condizione di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale. Secondo il sesto Rapporto Agromafia dell’Eurispes, il business delle agromafie, che comprendono le forme di grave sfruttamento, vale 24,5 miliardi di euro l’anno, con un balzo, nel corso del 2018, del 12,4%.

      Un fiume di denaro che è espressione di un’ideologia della disuguaglianza penetrata nei processi culturali delle società occidentali e troppo spesso relazione fondamentale del mondo del lavoro, in particolare del lavoro di fatica. È questo un sistema che produce lo schiavismo contemporaneo, come più volte il “Rapporto Italia”, ancora dell’Eurispes, ha messo in luce.

      Ancora nel 2019, ad esempio, l’Eurispes aveva esplicitamente dichiarato che lo sfruttamento è una fattispecie criminale le cui principali vittime sono i migranti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina. Lo sfruttamento, infatti, risultava più diffuso nei comparti più esposti alle irregolarità, al sommerso e all’abuso, dove chi fornisce prestazioni lavorative è in condizione di maggiore vulnerabilità.

      Si registrano dunque casi più numerosi, ancora secondo l’Eurispes, nell’agricoltura e pastorizia, a danno di polacchi, bulgari, rumeni, originari dell’ex U.R.S.S., africani e, in misura crescente, pakistani e indiani; nell’edilizia, a danno di europei dell’Est; nel settore tessile e manifatturiero, a danno di cinesi; nel lavoro domestico (soprattutto come badanti), a danno di soggetti provenienti dall’Europa dell’Est, dall’ex U.R.S.S., dall’Asia e dall’America del Sud.

      Insomma, uomini e donne a cui viene violata la dignità ogni giorno, costretti ad eseguire gli ordini del padrone, a sottostare ai suoi interessi e logiche di dominio. Quando questo potere si esercita nei confronti delle donne, lo sfruttamento assume caratteri devastanti. Ci sono infatti anche casi di violenza sessuale, di subordinazione delle lavoratrici immigrate alle logiche di dominio del boss, del padrone, del capo di turno.

      In provincia di Latina e precisamente a Sabaudia, appena poco prima di Natale, un’operazione denominata “Schiavo” e condotta dalla guardia di finanza, ha permesso di liberare dallo sfruttamento 290 lavoratori, soprattutto di origine indiana, che da anni venivano retribuiti con salari mensili inferiori anche del 60% rispetto a quelli previsti dal contratto provinciale, senza il riconoscimento degli straordinari, con l’obbligo di lavorare anche la domenica, impiegati senza le necessarie misure di sicurezza.

      Dunque, cosa fare? Avere il coraggio di capire, organizzarsi e agire collettivamente. Non si hanno alternative. La povertà, lo sfruttamento, la schiavitù, la violenza, non si abrogano per decreto. Non basta una legge. Serve un’azione collettiva espressione di una volontà radicale di contrasto di questo fenomeno mediante innanzitutto l’accoglienza e l’ascolto delle sue vittime, la costruzione di una relazione orizzontale con loro, dialettica, professionale e anche in questo coraggiosa, perché si deve prevedere l’azione di denuncia dei padroni insieme a quella della tutela.

      Ed è questa la sintesi perfetta del progetto Dignità–Joban Singh che ha organizzato e avviato una serie di sportelli di accoglienza, ascolto, sostegno e anche di assistenza legale, sociale, di formazione e di informazione, in tutta la provincia di Latina. Si tratta di sportelli che hanno il compito di accogliere e di fornire assistenza legale gratuita alle donne e agli uomini gravemente sfruttati, di qualunque nazionalità, vittime di tratta e caporalato, di violenze, anche sessuali, obbligati al silenzio o alla subordinazione.

      Insomma, un progetto realizzato grazie all’ausilio di avvocati di grande esperienza e con mediatori culturali affidabili e professionali, fondato sulla pedagogia degli oppressi di Freire e gli insegnamenti di Don Milani, Don Primo Mazzolari e Don Sardelli. Un progetto che vuole anche contrastare le strategie (razziste) mediatiche, politiche e sociali di stigmatizzazione, stereotipizzazione ed esclusione di coloro che sono considerati antropologicamente diversi.

      Un progetto che però ha bisogno del sostegno della maggioranza di questo paese, donne e uomini che non vogliono vivere sotto il ricatto delle mafie, dei violenti, degli sfruttatori, dei neoschiavisti, dei razzisti, in favore di un’Italia che merita un futuro diverso, migliore.

      https://www.nigrizia.it/notizia/progetto-dignita-joban-singh-contro-la-schiavitu-dei-braccianti

    • Marco Omizzolo

      Marco Omizzolo is a sociologist, researcher and journalist, who has been documenting and denoucing human rights violations against Sikh migrant workers exploited in the fields in the province of Latina (central Italy). In a context where “agrimafia” is rampant and many farms are controlled by criminal organisations, migrants have to work for up to 13 hours a day in inhumane conditions and under the orders of “caporali” (gangmasters), they earn well below the minimum wage and they have to live in cramped accommodation. To document their situation, Marco has worked undercover in the fields and he also went to Punjab (India) to follow an Indian human trafficker, where he investigated the connections between human trafficking and the system of agrimafia. Marco is also one of the founders of InMigrazione, an organisation that supports migrant workers informing them about their rights, helping them organise and fight for labour rights, and giving them the legal support they might need. In 2016, Marco and some Sikh activists managed to organise the first mass strike in Latina, joined by over 4000 workers.

      Because of his work - and particularly because of his investigations denouncing the criminal organisations involved in the agribusiness and the local food industry - Marco Omizzolo has been receiving serious threats. His car has been repeatedly damaged, he is often under surveillance and he has been forced to relocate because of the threats received.

      https://www.frontlinedefenders.org/en/profile/marco-omizzolo

    • The Indian migrants lured into forced labor on Mussolini’s farmland

      Gurinder Dhillon still remembers the day he realized he had been tricked. It was 2009, and he had just taken out a $16,000 loan to start a new life. Originally from Punjab, India, Dhillon had met an agent in his home village who promised him the world.

      “He sold me this dream,” Dhillon, 45, said. A new life in Europe. Good money — enough to send back to his family in India. Clothes, a house, plenty of work. He’d work on a farm, picking fruits and vegetables, in a place called the Pontine Marshes, a vast area of farmland in the Lazio region, south of Rome, Italy.

      He took out a sizable loan from the Indian agents, who in return organized his visa, ticket and travel to Italy. The real cost of this is around $2,000 — the agents were making an enormous profit.

      “The thing is, when I got here, the whole situation changed. They played me,” Dhillon said. “They brought me here like a slave.”

      On his first day out in the fields, Dhillon climbed into a trailer with about 60 other people and was then dropped off in his assigned hoop house. That day, he was on the detail for zucchini, tomatoes and eggplant. It was June, and under the plastic, it was infernally hot. It felt like at least 100 degrees, Dhillon remembers. He sweated so much that his socks were soaked. He had to wring them out halfway through the day and then put them back on — there was no time to change his clothes. As they worked, an Italian boss yelled at them constantly to work faster and pick more.

      Within a few hours of that first shift, it dawned on Dhillon that he had been duped. “I didn’t think I had been tricked — I knew I had,” he said. This wasn’t the life or the work he had been promised.

      What he got instead was 3.40 euros (about $3.65) an hour, for a workday of up to 14 hours. The workers weren’t allowed bathroom breaks.

      On these wages, he couldn’t see how he would ever repay the enormous loan he had taken out. He was working alongside some other men, also from India, who had been there for years. ”Will it be like this forever?” he asked them. “Yes,” they said. “It will be like this forever.”

      Ninety years ago, a very different harvest was taking place. Benito Mussolini was celebrating the first successful wheat harvest of the Pontine Marshes. It was a new tradition for the area, which for millennia had been nothing but a vast, brackish, barely-inhabited swamp.

      No one managed to tame it — until Mussolini came to power and launched his “Battle for Grain.” The fascist leader had a dream for the area: It would provide food and sustenance for the whole country.

      Determined to make the country self-sufficient as a food producer, Mussolini spoke of “freeing Italy from the slavery of foreign bread” and promoted the virtues of rural land workers. At the center of his policy was a plan to transform wild, uncultivated areas into farmland. He created a national project to drain Italy’s swamps. And the boggy, mosquito-infested Pontine Marshes were his highest priority.

      His regime shipped in thousands of workers from all over Italy to drain the waterlogged land by building a massive system of pumps and canals. Billions of gallons of water were dredged from the marshes, transforming them into fertile farmland.

      The project bore real fruit in 1933. Thousands of black-shirted Fascists gathered to hear a brawny-armed, suntanned Mussolini mark the first wheat harvest of the Pontine Marshes.

      "The Italian people will have the necessary bread to live,” Il Duce told the crowd, declaring how Italy would never again be reliant on other countries for food. “Comrade farmers, the harvest begins.”

      The Pontine Marshes are still one of the most productive areas of Italy, an agricultural powerhouse with miles of plastic-covered hoop houses, growing fruit and vegetables by the ton. They are also home to herds of buffalo that make Italy’s famous buffalo mozzarella. The area provides food not just for Italy but for Europe and beyond. Jars of artichokes packed in oil, cans of Italian plum tomatoes and plump, ripe kiwi fruits often come from this part of the world. But Mussolini’s “comrade farmers” harvesting the land’s bounty are long gone. Tending the fields today are an estimated 30,000 agricultural workers like Dhillon, most hailing from Punjab, India. For many of them — and by U.N. standards — the working conditions are akin to slave labor.

      When Urmila Bhoola, the U.N. special rapporteur on contemporary slavery, visited the area, she found that many working conditions in Italy’s agricultural sector amounted to forced labor due to the amount of hours people work, the low salaries and the gangmasters, or “caporali,” who control them.

      The workers here are at the mercy of the caporali, who are the intermediaries between the farm workers and the owners. Some workers are brought here with residency and permits, while others are brought fully off the books. Regardless, they report making as little as 3-4 euros an hour. Sometimes, though, they’re barely paid at all. When Samrath, 34, arrived in Italy, he was not paid for three months of work on the farms. His boss claimed his pay had gone entirely into taxes — but when he checked with the government office, he found his taxes hadn’t been paid either.

      Samrath is not the worker’s real name. Some names in this story have been changed to protect the subjects’ safety.

      “I worked for him for all these months, and he didn’t pay me. Nothing. I worked for free for at least three months,” Samrath told me. “I felt so ashamed and sad. I cried so much.” He could hardly bring himself to tell his family at home what had happened.

      I met Samrath and several other workers on a Sunday on the marshes. For the Indian Sikh workers from Punjab, this is usually the only day off for the week. They all gather at the temple, where they pray together and share a meal of pakoras, vegetable curry and rice. The women sit on one side, the men on the other. It’s been a long working week — for the men, out in the fields or tending the buffaloes, while the women mostly work in the enormous packing centers, boxing up fruits and vegetables to be sent out all over Europe.

      Another worker, Ramneet, told me how he waited for his monthly check — usually around 1,300 euros (about $1,280) per month, for six days’ work a week at 12-14 hours per day. But when the check came, the number on it was just 125 euros (about $250).

      “We were just in shock,” Ramneet said. “We panicked — our monthly rent here is 600 euros.” His boss claimed, again, that the money had gone to taxes. It meant he had worked almost for free the entire month. Other workers explained to me that even when they did have papers, they could risk being pushed out of the system and becoming undocumented if their bosses refused to issue them payslips.

      Ramneet described how Italian workers on the farms are treated differently from Indian workers. Italian workers, he said, get to take an hour for lunch. Indian workers are called back after just 20 minutes — despite having their pay cut for their lunch hour.

      “When Meloni gives her speeches, she talks about getting more for the Italians,” Ramneet’s wife Ishleen said, referring to Italy’s new prime minister and her motto, “Italy and Italians first.” “She doesn’t care about us, even though we’re paying taxes. When we’re working, we can’t even take a five-minute pause, while the Italian workers can take an hour.”

      Today, Italy is entering a new era — or, some people argue, returning to an old one. In September, Italians voted in a new prime minister, Giorgia Meloni. As well as being the country’s first-ever female prime minister, she is also Italy’s most far-right leader since Mussolini. Her supporters — and even some leaders of her party, Brothers of Italy — show a distinct reverence for Mussolini’s National Fascist Party.

      In the first weeks of Meloni’s premiership, thousands of Mussolini admirers made a pilgrimage to Il Duce’s birthplace of Predappio to pay homage to the fascist leader, making the Roman salute and hailing Meloni as a leader who might resurrect the days of fascism. In Latina, the largest city in the marshes, locals interviewed by national newspapers talked of being excited about Meloni’s victory — filled with hopes that she might be true to her word and bring the area back to its glory days in the time of Benito Mussolini. One of Meloni’s undersecretaries has run a campaign calling for a park in Latina to return to its original name: Mussolini Park.

      During her campaign, a video emerged of Meloni discussing Mussolini as a 19-year-old activist. “I think Mussolini was a good politician. Everything he did, he did for Italy,” she told journalists. Meloni has since worked to distance herself from such associations with fascism. In December, she visited Rome’s Jewish ghetto as a way of acknowledging Mussolini’s crimes against humanity. “The racial laws were a disgrace,” she told the crowd.

      A century on from Italy’s fascist takeover, Meloni’s victory has led to a moment of widespread collective reckoning, as a national conversation takes place about how Mussolini should be remembered and whether Meloni’s premiership means Italy is reconnecting with its fascist past.

      Unlike in Germany, which tore down — and outlawed — symbols of Nazi terror, reminders of Mussolini’s rule remain all over Italy. There was no moment of national reckoning after the war ended and Mussolini was executed. Hundreds of fascist monuments and statues dot the country. Slogans left over from the dictatorship can be seen on post offices, municipal buildings and street signs. Collectively, when Italians discuss Mussolini, they do remember his legacy of terror — his alliance with Adolf Hitler, anti-Semitic race laws and the thousands of Italian Jews he sent to the death camps. But across the generations, Italians also talk about other legacies of his regime — they talk of the infrastructure and architecture built during the period and of how he drained the Pontine Marshes and rid them of malaria, making the land into an agricultural haven.

      Today in the Pontine Marshes, which some see as a place brought into existence by Il Duce — and where the slogans on one town tower praise “the land that Mussolini redeemed from deadly sterility” — the past is bristling with the present.

      “The legend that has come back to haunt this town, again and again, is that it’s a fascist city. Of course, it was created in the fascist era, but here we’re not fascists — we’re dismissed as fascists and politically sidelined as a result,” Emilio Andreoli, an author who was born in Latina and has written books about the city’s history, said. Politicians used to target the area as a key campaigning territory, he said, but it has since fallen off most leaders’ agendas. And indeed, in some ways, Latina is a place that feels forgotten. Although it remains a top agricultural producer, other kinds of industry and infrastructure have faltered. Factories that once bustled here lie empty. New, faster roads and railways that were promised to the city by previous governments never materialized.

      Meloni did visit Latina on her campaign trail and gave speeches about reinvigorating the area with its old strength. “This is a land where you can breathe patriotism. Where you breathe the fundamental and traditional values that we continue to defend — despite being considered politically incorrect,” she told the crowd.

      But the people working this land are entirely absent from Meloni’s rhetorical vision. Marco Omizzolo, a professor of sociology at the University of Sapienza in Rome, has for years studied and engaged with the largely Sikh community of laborers from India who work on the marshes.

      Omizzolo explained to me how agricultural production in Italy has systematically relied on the exploitation of migrant workers for decades.

      “Many people are in this,” he told me, when we met for coffee in Rome. “The owners of companies who employ the workers. The people who run the laborers’ daily work. Local and national politicians. Several mafia clans.”

      “Exploitation in the agricultural sector has been going on for centuries in Italy,” Giulia Tranchina, a researcher at Human Rights Watch focusing on migration, said. She described that the Italian peasantry was always exploited but that the system was further entrenched with the arrival of migrant workers. “The system has always treated migrants as manpower — as laborers to exploit, and never as persons carrying equal rights as Italian workers.” From where she’s sitting, Italy’s immigration laws appear to have been designed to leave migrants “dependent on the whims and the wills of their abusive employers,” Tranchina said.

      The system of bringing the workers to Italy — and keeping them there — begins in Punjab, India. Omizzolo described how a group of traffickers recruits prospective workers with promises of lucrative work abroad and often helps to arrange high-interest loans like the one that Gurinder took out. Omizzolo estimates that about a fifth of the Indian workers in the Pontine Marshes come via irregular routes, with some arriving from Libya, while many others are smuggled into Italy from Serbia across land and sea, aided by traffickers. Their situation is more perilous than those who arrived with visas and work permits, as they’re forced to work under the table without contracts, benefits or employment rights.

      Omizzolo knows it all firsthand. A Latina native, he grew up playing football by the vegetable and fruit fields and watching as migrant workers, first from North Africa, then from India, came to the area to work the land. He began studying the forces at play as a sociologist during his doctorate and even traveled undercover to Punjab to understand how workers are picked up and trafficked to Italy.

      As a scholar and advocate for stronger labor protections, he has drawn considerable attention to the exploitative systems that dominate the area. In 2016, he worked alongside Sikh laborers to organize a mass strike in Latina, in which 4,000 people participated. All this has made Omizzolo a target of local mafia forces, Indian traffickers and corrupt farm bosses. He has been surveilled and chased in the street and has had his car tires slashed. Death threats are nothing unusual. These days, he does not travel to Latina without police protection.

      The entire system could become even further entrenched — and more dangerous for anyone speaking out about it — under Meloni’s administration. The prime minister has an aggressively anti-migrant agenda, promising to stop people arriving on Italy’s shores in small boats. Her government has sent out a new fleet of patrol boats to the Libyan Coast Guard to try to block the crossings, while making it harder for NGOs to carry out rescue operations.

      At the end of February, at least 86 migrants drowned off the coast of Calabria in a shipwreck. When Meloni visited Calabria a few weeks later, she did not go to the beach where the migrants’ bodies were found or to the funeral home that took care of their remains. Instead, she announced a new policy: scrapping special protection residency permits for migrants.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      Tranchina, from Human Rights Watch, explained that getting rid of the “special protection” permits will leave many migrant workers in Italy, including those in the Pontine Marshes, effectively undocumented.

      “The situation is worsening significantly under the current government,” she said. “An army of people, who are currently working, paying taxes, renting houses, will now be forced to accept very exploitative working conditions — at times akin to slavery — out of desperation.”

      Omizzolo agreed. Meloni’s hostile environment campaign against arriving migrants is making people in the marshes feel “more fragile and blackmailable,” he told me.

      “Meloni is entrenching the current system in place in the Pontine Marshes,” Omizzolo said. “Her policies are interested in keeping things in their current state. Because the people who exploit the workers here are among her voter base.”

      And then there’s the matter of money and how people are paid. A few months into her administration, Meloni introduced a proposal to raise the ceiling for cash transactions from 2,000 euros (about $2,110) to 5,000 euros ($5,280), a move that critics saw as an attempt to better insulate black market and organized crime networks from state scrutiny.

      Workers describe that they were often paid in cash and that their bosses were always looking for ways to take them off the books. “We have to push them to pay us the official way and keep our contracts,” Rajvinder, 24, said. “They prefer to give us cash.” Being taken off a contract and paid under the table is a constant source of anxiety. “If I don’t have a work contract, my papers will expire after three months,” Samrath explained, describing how he would then become undocumented in Italy.

      Omizzolo says Meloni’s cash laws will continue to preserve the corruption and sustain a shadow economy that grips the workers coming to the Pontine Marshes. Even for people who once worked above the table, the new government’s laissez-faire attitude towards the shadow economy is pushing them back into obscurity. “That law is directly contributing to the black market — people who used to be on the books, and have proper contracts, are now re-entering the shadow economy,” he said.

      The idealistic image of the harvest was powerful propaganda at the time. Not shown were the workers, brought in from all over the country, who died of malaria while digging the trenches and canals to drain the marsh. It also stands in contrast to today’s reality. Workers are brought here from the other side of the world, on false pretenses, and find themselves trapped in a system with no escape from the brutal work schedule and the resulting physical and mental health risks. In October, a 24-year-old Punjabi farm worker in the town of Sabaudia killed himself. It’s not the first time a worker has died by suicide — depression and opioid addiction are common among the workforce.

      “We are all guilty, without exception. We have decided to lose this battle for democracy. Dear Jaspreet, forgive us. Or perhaps, better, haunt our consciences forever,” Omizzolo wrote on his Facebook page.

      Talwinder, 28, arrived on the marsh last year. “I had no hopes in India. I had no dreams, I had nothing. It is difficult here — in India, it was difficult in a different way. But at least [in India] I was working for myself.” His busiest months of the year are coming up — he’ll work without a day off. And although the mosquitoes no longer carry malaria, they still plague the workers. “They’re fatter than the ones in India,” he laughs. “I heard it’s because this place used to be a jungle.”

      Mussolini’s vision for the marsh was to turn it into an agricultural center for the whole of Italy, giving work to thousands of Italians and building up a strong working peasantry. Today, vegetables, olives and cheeses from the area are shipped to the United States and sold in upmarket stores to shoppers seeking authentic, artisan foods from the heart of the old world. But it comes at an enormous price to those who produce it. And under Meloni’s premiership, they only expect that cost to rise.

      “These days, if my family ask me if they should come here, like my nephew or relatives, I tell them no,” said Samrath. “Don’t come here. Stay where you are.”

      https://www.codastory.com/rewriting-history/indian-migrants-italy-pontine-marshes