• “Ciò che è tuo è mio”. Fare i conti con la violenza economica

    In Italia una donna su due ha subito violenza economica. WeWorld ha raccolto in un dettagliato report le storie di donne vittime di questa forma di abuso che colpisce in modo particolare chi subisce forme multiple di discriminazione legate all’età, al background migratorio o a una condizione di disabilità.

    “Ogni mese lui mi portava alle Poste, mi faceva prelevare tutti i soldi della mia pensione di 550 euro in contanti e poi pagare le bollette. Se rimanevano dei soldi, anche cinquanta euro, lui li prendeva. Nella vita di tutti i giorni io non avevo controllo su nulla: ogni volta dovevo giustificare come spendevo. Veniva sempre con me e decideva che cosa potessi acquistare e cosa no. Soprattutto per le spese alimentari. Non mi lasciava mai più di uno o due euro nel borsellino per bere un caffè o fare delle stampe”.

    Anna (nome di fantasia) è una donna di 55 anni che ha deciso di lasciare il marito dopo dieci anni di violenze fisiche, sessuali e psicologiche. Una relazione segnata anche da una forma di abuso che ancora troppo spesso viene sottovalutata: quella economica. La donna, che da una quindicina d’anni è in carico al Centro di salute mentale di Bologna per depressione, doveva chiedere il permesso al marito per ogni singola spesa, comprese quelle sanitarie: “Tutte quelle per la mia cura personale dovevano passare per una contrattazione perché non aveva piacere che spendessi. Per più di dieci anni ho chiesto di potermi fare sistemare i denti, ma lui non ha mai acconsentito. Nel 2020 gli ho fatto vedere che uno dei miei ponti in bocca era saltato e allora ha acconsentito, ma non ha mai pagato tutto. Quindi sono rimasta con i lavori a metà”.

    Quella di Anna è una delle diverse testimonianze raccolte dalla Ong WeWorld all’interno degli “Spazi donna” attivi in diverse città italiane (Milano, Napoli, Bologna, Brescia, Roma, Pescara e Cosenza) e contenute nel report “Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica” pubblicato in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne con l’obiettivo di fare luce su questa forma di abuso.

    Il rapporto unisce alle testimonianze un’indagine inedita realizzata da WeWorld in collaborazione con Ipsos, da cui emerge che il 49% delle donne intervistate dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita, percentuale che sale al 67% tra le divorziate e le separate. Più di una donna separata o divorziata su quattro (il 28%) ha affermato di aver subito le decisioni finanziarie prese dal partner senza essere stata consultata in precedenza. A una su dieci il marito o il compagno ha vietato di lavorare.

    Dai dati e dalle storie raccolte emerge poi come “gli abusi economici abbiano una natura trasversale, ma colpiscano maggiormente quelle persone che subiscono forme cumulative di discriminazione: donne molto anziane o molto giovani, con disabilità o dal background migratorio -commenta Martina Albini, coordinatrice del centro studi WeWorld-. E ha radici ben precise in sistemi socioculturali maschio-centrici e patriarcali che alimentano asimmetrie di potere”.

    Una delle definizioni più riportate nella letteratura scientifica identifica questa forma di violenza come “tutti i comportamenti volti a controllare l’abilità della donna di acquisire, utilizzare e mantenere risorse economiche”. Viene agita prevalentemente all’interno di relazioni intime o familiari ed è raro che avvenga singolarmente: tende infatti a essere parte di un più ampio ciclo di violenza fisica, psicologica e sessuale. “Le donne -si legge nel report– hanno maggiori probabilità di subirla perché sono proprio quei sistemi economici e sociali basati sul controllo maschile a favorirla”.

    Esemplificativa, in questo caso, è la vicenda di una giovane di origini sudamericane che si è rivolta allo “Spazio donna” del quartiere Corvetto di Milano. Ha conosciuto l’uomo che sarebbe diventato suo marito mentre frequentava l’università, nel volgere di poco tempo la coppia è andata a convivere ed è nata una bambina: la neomamma è stata quindi costretta a interrompere gli studi: “Tutte le decisioni economiche in casa spettavano a lui, io non pensavo a questi aspetti: non pensavo fossero cose importanti e lasciato che lui si prendesse la responsabilità -racconta-. Anche il bonus statale per la nascita della bambina l’ha preso lui, io non avevo nulla, né conto bancario né Poste Pay. Mi aveva detto che aprire un altro conto corrente non era conveniente”.

    Come avviene per altre forme di violenza, anche quella economica affonda le proprie radici nelle disuguaglianze di genere, nelle aspettative di ruoli tradizionali (la donna che rinuncia al lavoro per prendersi cura della casa e dei figli). Sempre dal sondaggio realizzato da Ipsos per WeWorld, infatti, emerge come il 15% degli intervistati pensi che la violenza sia frutto di comportamenti provocatori delle donne. Mentre il 16% degli uomini ritiene sia giusto che sia il marito o il compagno a comandare in casa.

    Per inquadrare meglio questo fenomeno può essere utile anche fare riferimento ad altri dati che mettono in evidenza la particolare fragilità della popolazione femminile: in Italia il 21,5% delle donne si trova in una condizione di dipendenza finanziaria. E il maggiore carico di cura familiare può costituire un fattore di rischio: prendersi cura della casa a dispetto dell’accesso al mondo del lavoro retribuito incrementa del 25,3% la probabilità di essere vittima di violenza economica. Un altro indicatore preoccupante è il fatto che il 37% delle donne italiane non possiede un conto corrente.

    In altre parole: nel nostro Paese sono ancora troppe le donne che non hanno adeguate competenze finanziarie, considerano “troppo complessi” questi temi e si affidano completamente alle scelte del partner. Oppure hanno sempre dato per scontato che dovessero essere gli uomini a occuparsi di gestire i bilanci familiari. “All’inizio della relazione con mio marito era mio padre a pensare agli aspetti economici in modo da non farmi mancare nulla -racconta una donna che si è rivolta allo “Spazio donna” di Scampia, periferia di Napoli-. Pensavo che fosse quella la normalità. Io non ricevevo soldi, se si doveva fare la spesa andavamo assieme ed è capitato che, a volte, al momento del pagamento lui era fuori a fumare e io facevo passare avanti le persone, perché non potevo pagare senza di lui. Queste piccole cose erano la normalità”.

    Il report di WeWorld evidenzia poi come le esperienze di violenza economica possono essere diverse e sfaccettate tra loro, a seconda dei contesti in cui si inseriscono, e si manifestano in modi differenti. A partire dal controllo economico: l’autore della violenza impedisce, limita o controlla l’uso delle risorse economiche e finanziarie della vittima e il suo potere decisionale, ad esempio monitorando le spese o facendo domande su come questa ha speso i propri soldi. Le donne possono anche essere vittima di sfruttamento economico all’interno della relazione di coppia (il partner ruba denaro, beni o proprietà, oppure costringe la vittima a lavorare più del dovuto) o di sabotaggio quando l’autore della violenza le impedisce di cercare, ottenere o mantenere un lavoro o un percorso di studi.

    Tutto questo ha gravi conseguenze sulla vita delle donne, non solo nel momento in cui vivono all’interno di una relazione violenta e che limita la loro libertà di autodeterminarsi, ma anche dopo che ne sono uscite. L’autonomia economica, infatti, rappresenta un elemento essenziale nella decisione della vittima di lasciare un partner violento, come emerge da uno studio condotto negli Stati Uniti: il 73% delle vittime di violenza economica intervistate ha riferito di essere rimasta con l’aggressore a causa di preoccupazione finanziarie per mantenere sé stessa o i propri figli.

    “L’impossibilità di allontanarsi dal compagno violento per mancanza di risorse economiche le espone inevitabilmente a ulteriori abusi -si legge nel report-. È stato dimostrato che questo rischio è maggiore tra le donne con uno status economico elevato rispetto agli uomini e nelle società in cui le donne hanno iniziato a entrare nel mondo del lavoro, poiché l’emancipazione femminile interviene come elemento di ‘disturbo’ nel contesto coercitivo instaurato dal partner violento”.

    Altrettanto gravi sono le conseguenze economiche indirette di lunga durata, che si ripercuotono sulla vita delle vittime anche quando si è conclusa la relazione abusante: l’impossibilità di studiare e il mancato inserimento nel mondo del lavoro, ad esempio, rendono più difficile per queste donne trovare un lavoro che permetta di mantenere sé stesse e i propri figli. Non hanno quindi nemmeno risparmi a cui poter attingere e spesso sono costrette a chiedere aiuto a familiari e conoscenti per sostenere le spese legali durante la fase di separazione.

    Uscire da queste situazioni di violenza è possibile, come dimostra la vicenda della donna che si è rivolta allo “Spazio donna” di Scampia e che, attraverso il supporto offerto dalle operatrici, ha potuto avviare prima un percorso di auto-consapevolezza della propria situazione e successivamente uno di formazione professionale. “Quando ho realizzato cosa stessi subendo non sono stata più bene, perché nel momento in cui ti rendi conto che hai speso anni di vita pensando di non meritare e precludendoti qualsiasi cosa, stai male -racconta la donna-. Mi sono sentita come una bomba che esplode”. Questa consapevolezza ha fatto maturare una voglia di riscatto unita all’esigenza di fare qualcosa per sé stessa e di costruirsi una professionalità. Ha seguito un corso di cucito e ha avviato una piccola attività sartoriale: “Questo ha naturalmente cambiato il mio rapporto di coppia perché è cambiata la mia mentalità: ora se dico a mio marito che voglio uscire, anche se sa che ho i soldi, mi dice di prendere quello che mi serve. Ora siamo separati in casa, ma se potessi me ne andrei. Sono molto diversa da quella che ero prima e voglio fare il mio lavoro, mi fa stare bene, è una fonte di guadagno, e se io devo andare a lavorare ora non ho problemi a dire a mio marito di prepararsi da mangiare da solo perché io sono impegnata”.

    https://altreconomia.it/cio-che-e-tuo-e-mio-fare-i-conti-con-la-violenza-economica
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    • “Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica”: il nostro report sulla violenza economica sulle donne in Italia

      Il 49% delle donne intervistate dichiara di aver subito violenza economica almeno una volta nella vita, percentuale che sale al 67% tra le donne divorziate o separate; più di 1 donna separata o divorziata su 4 (28%) dichiara di aver subito decisioni finanziarie prese dal partner senza essere stata consultata prima. Eppure, la violenza economica è considerata “molto grave” solo dal 59% dei cittadini/e.

      Sono alcune delle evidenze del report “Ciò che è tuo è mio. Fare i conti con la violenza economica” pubblicato in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Il rapporto vuole fare luce su una delle forme di violenza contro le donne più subdola e meno conosciuta, concentrandosi sui risultati dell’indagine inedita realizzata insieme a Ipsos per valutare la percezione di italiani e italiane della violenza contro le donne e, in particolare, della violenza economica e dell’esperienza diretta.

      Un tempo considerata una forma di abuso emotivo o psicologico, oggi la violenza economica è riconosciuta come un tipo distinto di violenza, con cu si intendono tutti i comportamenti per controllare l’abilità della donna di acquisire, utilizzare e mantenere risorse economiche. Questo tipo di violenza viene messo in atto soprattutto all’interno di relazioni intime e/o familiari e spesso la violenza economica è parte di un più ampio ciclo di violenza intima e/o familiare (fisica, psicologica, sessuale, ecc.).

      LA VIOLENZA ECONOMICA IN ITALIA: I DATI DELL’INDAGINE

      Relazione tra violenza di genere e stereotipi

      - Più di 1 italiano/a su 4 (27%) pensa che la violenza dovrebbe essere affrontata all’interno della coppia.
      - Il 15% degli italiani/e pensa che la violenza sia frutto di comportamenti provocatori delle donne.
      – Il 16% degli uomini, contro il 6% delle donne, pensa che sia giusto che in casa sia l’uomo a comandare.

      L’immagine sociale delle diverse forme di violenza

      - Per 1 italiano/a su 2 la violenza sessuale è la forma più grave di violenza contro le donne.
      - La violenza economica è considerata molto grave solo dal 59% dei cittadini/e.
      – Per il 9% delle donne separate o divorziate, contro il 3% dei rispondenti, gli atti persecutori (stalking) rappresentano la forma più grave di violenza.

      La violenza economica

      - Il 49% delle donne intervistate dichiara di aver subito nella vita almeno un episodio di violenza economica. Il 67% tra le donne separate o divorziate.
      - 1 donna su 10 dichiara che il partner le ha negato di lavorare.
      – Più di 1 donna separata o divorziata su 4 (28%) dichiara di aver subito decisioni finanziarie prese dal suo partner senza essere stata consultata prima.
      – Quasi 1 italiano/a su 2 ritiene che le donne siano più spesso vittime di violenza economica perché hanno meno accesso degli uomini al mercato del lavoro.

      La situazione economica nei casi di separazione e divorzio

      - Dopo la separazione/divorzio, il 61% delle donne riporta un peggioramento della condizione economica.
      - Il 37% delle donne separate o divorziate dichiara di non ricevere la somma di denaro concordata per la cura dei figli/e.
      - 1 donna separata o divorziata su 4 avverte difficolta a trovare un lavoro con un salario sufficiente al suo sostentamento.

      L’educazione per contrastare la violenza economica

      - La quota di donne che non si sentono preparate rispetto ai temi finanziari è più del doppio di quella degli uomini (10% vs 4%).
      – Quasi 9 italiani/e su 10 (88%) sostengono che bisognerebbe introdurre programmi di educazione economico-finanziaria a partire dalle scuole elementari e medie.
      – Quasi 9 italiani/e su 10 (89%) pensano che bisognerebbe introdurre programmi di educazione sessuo-affettiva a partire dalle scuole elementari e medie.

      ”Dietro ai dati raccolti in questa indagine si trovano storie vere, voci di donne che hanno subito violenza economica e che vogliono raccontarla. Per questo abbiamo voluto inserire nel rapporto testimonianze dai nostri Spazi Donna WeWorld. Da qui emerge come gli abusi economici abbiano una natura trasversale, ma colpiscano maggiormente persone che subiscono forme cumulative di discriminazione: donne molto anziane o molto giovani, con disabilità o dal background migratorio”, commenta Martina Albini, Coordinatrice Centro Studi di WeWorld. “La violenza economica, come tutti gli altri tipi di violenza, ha radici ben precise in sistemi socioculturali maschio-centrici e patriarcali che alimentano asimmetrie di potere. Per questo è necessario un approccio trasversale che sappia sia includere gli interventi diretti, sia stimolare una presa di coscienza collettiva a tutti i livelli della società”.

      VIOLENZA ECONOMICA: I COMPORTAMENTI

      Le esperienze di violenza economica possono essere particolarmente complesse e sfaccettate a seconda dei contesti in cui si inseriscono: ad esempio, gli autori di violenza possono agire comportamenti abusanti culturalmente connotati nel Nord o Sud globale.

      I principali tipi di violenza economica identificati dalle evidenze in materia si distinguono in:

      – CONTROLLO ECONOMICO: L’autore della violenza impedisce, limita o controlla l’uso delle risorse economiche e finanziarie della vittima e il suo potere decisionale. Questo include, tra le altre cose, fare domande alla vittima su come ha speso il denaro; impedire alla vittima di avere o accedere al controllo esclusivo di un conto corrente o a un conto condiviso; monitorare le spese della vittima tramite estratto conto; pretendere di dare alla vittima la propria autorizzazione prima di qualsiasi spesa.
      - SFRUTTAMENTO ECONOMICO: L’autore della violenza usa le risorse economiche e finanziarie della vittima a suo vantaggio. Ad esempio rubando denaro, proprietà o beni della vittima; costringendo la vittima a lavorare più del dovuto (per più ore, svolgendo più lavori, incluso il lavoro di cura, ecc.); relegando la vittima al solo lavoro domestico.
      – SABOTAGGIO ECONOMICO: L’autore della violenza impedisce alla vittima di cercare, ottenere o mantenere un lavoro e/o un percorso di studi distruggendo, ad esempio, i beni della vittima necessari a lavorare o studiare (come vestiti, computer, libri, altro equipaggiamento, ecc.); non prendendosi cura dei figli/e o di altre necessità domestiche per impedire alla vittima di lavorare e/o studiare; adottando comportamenti abusanti in vista di importanti appuntamenti di lavoro o di studio della vittima.

      CONTRASTO ALLA VIOLENZA ECONOMICA: LE PROPOSTE DI WEWORLD

      Grazie all’esperienza maturata in dieci anni di intervento a sostegno delle donne e dei loro diritti, abbiamo sviluppato una serie di proposte per contrastare la violenza economica:

      PREVENIRE

      – Introduzione di curricula obbligatori di educazione sessuo-affettiva nelle scuole di ogni ordine e grado a partire dalla scuola dell’infanzia.
      – Introduzione di curricula obbligatori di educazione economico-finanziaria nelle scuole a partire dalla scuola primaria.
      – Campagne di sensibilizzazione multicanale e rivolte alla più ampia cittadinanza che individuino il fenomeno e le sue specificità.

      (RI)CONOSCERE E MONITORARE

      – Adozione di una definizione condivisa di violenza economica che ne specifichi i comportamenti.
      - Attuazione della Legge 53/2022, riservando attenzione alla raccolta e monitoraggio di dati sul fenomeno della violenza economica e su altri dati spia (condizione di comunione/separazione dei beni, presenza o meno di un conto in banca, condizione occupazionale, titolo di studio, presenza o meno di immobili o beni intestati, ecc.)

      INTERVENIRE

      - Maggiori e strutturali finanziamenti al reddito di libertà (sostegno economico per donne che cercano di allontanarsi da situazioni di violenza e sono in condizione di povertà) integrato a politiche abitative e del lavoro più solide e inclusive
      – Attività di prevenzione ed empowerment femminile che possano integrare l’operato della filiera dell’antiviolenza attraverso presidi territoriali permanenti.
      – Allargamento della filiera dell’antiviolenza a istituti finanziari con ruolo di “sentinella”.

      Pour télécharger le rapport:
      https://ejbn4fjvt9h.exactdn.com/uploads/2023/11/CIO-CHE-E-TUO-E-MIO-previewsingole-3.pdf

      https://www.weworld.it/news-e-storie/news/cio-che-e-tuo-e-mio-fare-i-conti-con-la-violenza-economica-il-nostro-report-
      #sabotage_économique #WeWorld

  • La théorie du boxeur : quelques remarques sur ce film documentaire drômois sur l’agriculture
    https://ricochets.cc/La-theorie-du-boxeur-quelques-remarques-sur-ce-film-documentaire-dromois-s

    Ce film documentaire autoproduit et distribué par l’association Kamea Meah a beaucoup de succès dans la région. Les sujets évoquées dans ce film sont majeurs et d’importance vitale : autonomie et résilience alimentaire, futur de l’agriculture face aux catastrophes climatiques et écologiques croissantes produites par la civilisation industrielle, partage de l’eau qui se raréfie, destruction accélérée de la biodiversité... J’évoquerai les points que je trouve pertinents et utiles dans ce film, puis les (...) #Les_Articles

    / #Le_monde_de_L'Economie, #Autonomie_et_autogestion, #Agriculture, #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle, #Ecologie, Vidéos, (...)

    #Vidéos,_films...
    https://www.latheorieduboxeur.fr
    https://reporterre.net/Le-gouvernement-refuse-de-financer-plus-d-ecologie-dans-les-fermes
    https://expansive.info/Appel-a-constituer-des-greniers-des-Soulevements-3998
    https://www.terrestres.org/2021/07/29/reprendre-la-terre-aux-machines-manifeste-de-la-cooperative-latelier-pay
    https://latelierpaysan.org/PARUTION-D-UNE-NOUVELLE-PUBLICATION-Observations-sur-les-technologie
    https://ricochets.cc/IMG/distant/html/XQaOphd9LKY-c230-89ab965.html

  • Les aventures de l’enquête militante, Davide Gallo Lassere, Frédéric Monferrand, Rue Descartes 2019/2 (N° 96), pages 93 à 107
    https://www.cairn.info/revue-rue-descartes-2019-2-page-93.htm

    Depuis la crise de 2008, on assiste à un retour en force de la notion de « capitalisme » sur la scène intellectuelle et dans le débat public, ce qui soulève au moins deux questions : que faut-il au juste entendre par « capitalisme » ? Et qu’est-ce qui en justifie la critique ? Dans une perspective marxienne, la réponse à la première question ne paraît guère problématique, même si elle peut faire l’objet de développements divergents. Par « capitalisme », on entend en effet un mode de production fondé sur la généralisation de l’échange marchand, l’exploitation d’une force de travail « libre » et l’accumulation indéfinie de survaleur. La réponse à la seconde question est en revanche moins évidente, ne serait-ce que parce qu’on trouve dans Le Capital différents modèles de critique du capitalisme.

    Dans les deux premières sections de l’ouvrage, Marx explique que l’échange marchand génère des illusions socialement nécessaires qui imposent aux individus des rôles sociaux unilatéraux en les transformant en simples « porteurs » d’un processus de valorisation anonyme. De la lecture des deux cent premières pages du Capital, on retire donc l’impression que le capitalisme doit être critiqué parce qu’il constitue un système opaque animé d’une tendance incontrôlable à élargir la base de sa reproduction.

    Or, une telle critique, menée du point de vue objectif du capital, resterait formelle si elle n’était complétée par une description, menée du point de vue subjectif du travail, des effets concrets de l’accumulation capitaliste sur l’expérience sociale de celles et ceux qui en assurent la continuité. Dès lors qu’on quitte la sphère de la circulation marchande pour descendre dans l’« antre secret de la production , le capital n’apparaît en effet plus comme un « sujet automate, mais comme une forme de #commandement sur le travail qui suscite des conflits portant sur le #temps et sur l’#organisation de l’activité, qui oppose différentes stratégies d’extraction du surtravail et de refus de l’exploitation et qui se traduit par des dégradations physiques et morales dont Marx, à la suite des inspecteurs de fabrique, fournit la patiente description . Dans cette seconde perspective, le #capitalisme ne doit plus être critiqué parce qu’il constitue un système irrationnel et autoalimenté, mais parce qu’il produit des effets négatifs sur la vie physique, psychique et sociale des subjectivités.

    L’objectif de cet article est de développer ce second modèle critique – qu’on peut qualifier de « critique par les effets » – en montrant qu’il a reçu dans la pratique de l’enquête militante un appui théorique et une continuation politique. Partant des élaborations pionnières du jeune Engels, nous soutiendrons la thèse selon laquelle l’enquête militante permet d’articuler la connaissance des rapports sociaux et l’organisation des pratiques visant à en accomplir la transformation. Car, comme nous tenterons de le montrer ensuite en parcourant la séquence menant des élaborations de Socialisme ou Barbarie en France à celles des _Quaderni rossi puis de Classe operaia en Italie, c’est bien la question de l’organisation qui fournit à l’enquête militante sa raison d’être et en détermine les différentes modalités.

    #enquête_ouvrière #enquête_militante #opéraïsme #stratégie #travail #subjectivité #refus #organisation_autonome #autonomie #barbarie

  • « En sociologie, la prise en compte du ressenti peut aider à identifier les inégalités les plus critiques », Nicolas Duvoux
    https://www.lemonde.fr/idees/article/2023/11/20/en-sociologie-la-prise-en-compte-du-ressenti-peut-aider-a-identifier-les-ine

    La sociologie ne peut prétendre à la neutralité, puisqu’elle est une science étudiant la société au sein de laquelle elle émerge. Elle est prise dans les divisions et conflits sociaux, elle met au jour des formes de contrainte et de domination auxquelles elle ne peut rester indifférente. De quel côté penchons-nous ?, demandait à ses pairs le sociologue américain Howard Becker, dans un texte majeur (« Whose Side Are We on ? », Social Problems, 1967). Cependant, cette discipline n’a pas vocation à se substituer à la politique et aux choix collectifs qui relèvent du débat public. La contribution qu’elle peut apporter est de formuler un diagnostic aussi précis que possible sur les dynamiques sociales et la différenciation de leurs effets selon les groupes sociaux.

    L’inflation et la hausse des prix alimentaires très forte depuis l’année 2022 affectent beaucoup plus durement les ménages modestes. Ceux-ci consacrent en effet une part plus importante de leurs revenus à ce poste de consommation. Le relever revient à formuler un constat objectif. De même, la hausse des taux d’intérêt immobiliers exclut davantage de l’accès à la propriété les ménages sans apport (plutôt jeunes et de milieux populaires) que les autres. Il y va ainsi des évolutions de courte durée, mais aussi de celles de longue durée : le chômage touche plus fortement les moins qualifiés, les ouvriers et employés, même s’il n’épargne pas les cadres, notamment vieillissants ; la pauvreté touche davantage les jeunes, même si elle n’épargne pas les retraités.
    Formuler un diagnostic suppose d’éviter deux écueils qui se répondent et saturent un débat public fait d’oppositions, voire de polarisation, au détriment d’une compréhension de l’état de la société. La littérature du XIXe siècle – comme les sciences sociales avec lesquelles elle a alors partie liée – a souvent oscillé entre d’un côté une représentation misérabiliste du peuple, en soulignant la proximité des classes laborieuses et des classes dangereuses, et de l’autre une vision populiste qui exalte les vertus des classes populaires. Claude Grignon et Jean-Claude Passeron l’ont montré dans un livre qui a fait date (Le Savant et le Populaire, Gallimard, 1989). De la même manière, le débat public semble aujourd’hui osciller entre un optimisme propre aux populations favorisées économiquement et un catastrophisme des élites culturelles.

    Cruel paradoxe

    Pouvoir envisager l’avenir de manière conquérante vous place du côté des classes aisées ou en ascension. Cette thèse a un enjeu politique évident : le rapport subjectif à l’avenir nous informe sur la position sociale occupée par un individu et non sur sa représentation de la société. Pour ne prendre qu’un exemple, sur la fracture entre les groupes d’âge, on n’est guère surpris qu’en pleine période inflationniste le regain de confiance en son avenir individuel soit le privilège quasi exclusif [d’un %] des seniors. Il faut être déjà âgé pour penser que l’on a un avenir, cruel paradoxe d’une société qui fait porter à sa jeunesse le poids de la pauvreté et de la précarité de l’emploi, au risque de susciter une révolte de masse.
    Peut-être est-ce un signe de l’intensité des tensions sociales, nombre d’essais soulignent le décalage entre la réalité d’une société où les inégalités sont relativement contenues et le pessimisme de la population. Les dépenses de protection sociale sont parmi les plus élevées du monde, sinon les plus élevées. En conséquence de ces dépenses, les Français jouissent d’un niveau d’éducation, d’égalité et d’une sécurité sociale presque sans équivalent. Ces faits sont avérés.

    Mais le diagnostic ne se borne pas à ce rappel : les données objectives qui dressent le portrait d’une France en « paradis » sont, dans un second temps, confrontées à l’enfer du « ressenti », du mal-être, du pessimisme radical exprimé par les Français, souvent dans des sondages. Ainsi, dans « L’état de la France vu par les Français 2023 » de l’institut Ipsos, il apparaît que « 70 % des Français se déclarent pessimistes quant à l’avenir de la France ». Les tenants de la vision « optimiste », qui se fondent sur une critique du ressenti, tendent à disqualifier les revendications de redistribution et d’égalité.

    Or l’écart entre le « ressenti » et la réalité objective des inégalités peut être interprété de manière moins triviale et surtout moins conservatrice. Cet écart peut être travaillé et mis au service d’un diagnostic affiné de la situation sociale, un diagnostic qui conserve l’objectivité de la mesure tout en se rapprochant du ressenti.

    Une autre mesure de la pauvreté

    La notion de « dépenses contraintes » en porte la marque : ce sont les dépenses préengagées, qui plombent les capacités d’arbitrage des ménages, notamment populaires, du fait de la charge du logement. Entre 2001 et 2017, ces dépenses préengagées occupent une part croissante du budget, passant de 27 % à 32 %, selon France Stratégie. « Le poids des dépenses préengagées dans la dépense totale dépend d’abord du niveau de vie. Il est plus lourd dans la dépense totale des ménages pauvres que dans celle des ménages aisés, et l’écart a beaucoup augmenté entre 2001 (6 points d’écart) et 2017 (13 points d’écart). »
    Cette évolution et le renforcement des écarts placent de nombreux ménages – même s’ils ne sont pas statistiquement pauvres – en difficulté. La volonté de rapprocher « mesure objective » et « ressenti » permet de prendre une tout autre mesure de la pauvreté, qui double si l’on prend en compte le niveau de vie « arbitrable » , soit le revenu disponible après prise en compte des dépenses préengagées.

    De ce point de vue, l’équivalent du taux de pauvreté, c’est-à-dire la part des personnes dont le revenu arbitrable par unité de consommation est inférieur à 60 % du niveau de vie arbitrable médian, s’établissait à 23 % en 2011, selon des travaux réalisés par Michèle Lelièvre et Nathan Rémila pour la direction de la recherche, des études, de l’évaluation et des statistiques. Ce chiffre atteint même 27 % si l’on prend en compte les dépenses peu compressibles, comme l’alimentation. Comparativement, le taux de pauvreté tel qu’on le définit traditionnellement se fixait en 2011 à 14,3 %. L’augmentation de la fréquentation des structures d’aide alimentaire témoigne des difficultés croissantes d’une part conséquente de la population.

    Le parti du catastrophisme

    L’optimisme empêche de penser les réalités dans toute leur violence et d’identifier les remèdes qui conviennent le mieux à ces maux. Le catastrophisme doit également être évité. Il a tendance à accuser exclusivement les super-riches dans la genèse des maux sociaux, en mettant en avant une explosion des inégalités démentie par les faits, si l’on exclut le patrimoine et la forte augmentation de la pauvreté dans la période post-Covid-19. En prenant le parti du catastrophisme, la sociologie, et avec elle la société, s’exonérerait d’un travail de fond.
    Un certain nombre de points soulignés par ceux qui critiquent le pessimisme restent vrais. La société française a connu une relative mais réelle démocratisation de l’accès à des positions privilégiées. Les postes d’encadrement n’ont cessé d’augmenter en proportion de la structure des emplois, une partie non négligeable de la population – y compris au sein des catégories populaires – a pu avoir accès à la propriété de sa résidence principale, a pu bénéficier ou anticipe une augmentation de son patrimoine. Les discours sur la précarisation ou l’appauvrissement généralisés masquent la pénalité spécifique subie par les groupes (jeunes, non ou peu qualifiés, membres des minorités discriminées, femmes soumises à des temps partiels subis, familles monoparentales) qui sont les plus affectés et qui servent, de fait, de variable d’ajustement au monde économique. Le catastrophisme ignore ou feint d’ignorer les ressources que les classes moyennes tirent du système éducatif public par exemple.

    Le catastrophisme nourrit, comme l’optimisme, une vision du monde social homogène, inapte à saisir les inégalités les plus critiques et les points de tension les plus saillants, ceux-là mêmes sur lesquels il faudrait, en priorité, porter l’action. La prise en compte du ressenti peut aider à les identifier et à guider le débat et les décideurs publics, à condition de ne pas entretenir de confusion sur le statut des informations produites, qui ne se substituent pas aux mesures objectives, mais peuvent aider à les rapprocher du sens vécu par les populations et ainsi à faire de la science un instrument de l’action.

    Nicolas Duvoux est professeur de sociologie à l’université Paris-VIII, auteur de L’Avenir confisqué. Inégalités de temps vécu, classes sociales et patrimoine (PUF, 272 pages, 23 euros).

    voir cette lecture des ressorts du vote populaire RN depuis les années 2000
    https://seenthis.net/messages/1027569

    #sociologie #inflation #alimentation #aide_alimentaire #dépenses_contraintes #revenu_arbitrable #revenu #pauvreté #chômage #jeunesse #femmes #mères_isolées #précarité #taux_de_pauvreté #patrimoine #inégalités #riches #classes_populaires

    • « Les inégalités sont perçues comme une agression, une forme de mépris », François Dubet - Propos recueillis par Gérard Courtois, publié le 12 mars 2019
      https://www.lemonde.fr/idees/article/2019/03/12/francois-dubet-les-inegalites-sont-percues-comme-une-agression-une-forme-de-

      Entretien. Le sociologue François Dubet, professeur émérite à l’université Bordeaux-II et directeur d’études à l’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS), vient de publier Le Temps des passions tristes. Inégalités et populisme (Seuil, 112 p., 11,80 €).

      Reprenant l’expression de Spinoza, vous estimez que la société est dominée par les « passions tristes ». Quelles sont-elles et comment se sont-elles imposées ?

      Comme beaucoup, je suis sensible à un air du temps porté sur la dénonciation, la haine, le #ressentiment, le sentiment d’être méprisé et la capacité de mépriser à son tour. Ce ne sont pas là seulement des #émotions personnelles : il s’agit aussi d’un #style_politique qui semble se répandre un peu partout. On peut sans doute expliquer ce climat dangereux de plusieurs manières, mais il me semble que la question des #inégalités y joue un rôle essentiel.

      Voulez-vous parler du creusement des inégalités ?

      Bien sûr. On observe une croissance des inégalités sociales, notamment une envolée des hyper riches qui pose des problèmes de maîtrise économique et fiscale essentiels. Mais je ne pense pas que l’ampleur des inégalités explique tout : je fais plutôt l’hypothèse que l’expérience des inégalités a profondément changé de nature. Pour le dire vite, tant que nous vivions dans une société industrielle relativement intégrée, les inégalités semblaient structurées par les #classes sociales : celles-ci offraient une représentation stable des inégalités, elles forgeaient des identités collectives et elles aspiraient à une réduction des écarts entre les classes [et, gare à la revanche ! à leur suppression]– c’est ce qu’on appelait le progrès social. Ce système organisait aussi les mouvements sociaux et plus encore la vie politique : la #gauche et la #droite représentaient grossièrement les classes sociales.

      Aujourd’hui, avec les mutations du capitalisme, les inégalités se transforment et se multiplient : chacun de nous est traversé par plusieurs inégalités qui ne se recouvrent pas forcément. Nous sommes inégaux « en tant que » – salariés ou précaires, diplômés ou non diplômés, femmes ou hommes, vivant en ville ou ailleurs, seul ou en famille, en fonction de nos origines… Alors que les plus riches et les plus pauvres concentrent et agrègent toutes les inégalités, la plupart des individus articulent des inégalités plus ou moins cohérentes et convergentes. Le thème de l’#exploitation de classe cède d’ailleurs progressivement le pas devant celui des #discriminations, qui ciblent des inégalités spécifiques.

      Pourquoi les inégalités multiples et individualisées sont-elles vécues plus difficilement que les inégalités de classes ?

      Dans les inégalités de classes, l’appartenance collective protégeait les individus d’un sentiment de mépris et leur donnait même une forme de fierté. Mais, surtout, ces inégalités étaient politiquement représentées autour d’un conflit social et de multiples organisations et mouvements sociaux. Dans une certaine mesure, aussi injustes soient-elles, ces inégalités ne menaçaient pas la dignité des individus. Mais quand les inégalités se multiplient et s’individualisent, quand elles cessent d’être politiquement interprétées et représentées, elles mettent en cause les individus eux-mêmes : ils se sentent abandonnés et méprisés de mille manières – par le prince, bien sûr, par les médias, évidemment, mais aussi par le regard des autres.

      Ce n’est donc pas simplement l’ampleur des inégalités sociales qui aurait changé, mais leur nature et leur perception ?
      Les inégalités multiples et individualisées deviennent une expérience intime qui est souvent vécue comme une remise en cause de soi, de sa valeur et de son identité : elles sont perçues comme une agression, une forme de #mépris. Dans une société qui fait de l’#égalité_des_chances et de l’#autonomie_individuelles ses valeurs cardinales, elles peuvent être vécues comme des échecs scolaires, professionnels, familiaux, dont on peut se sentir plus ou moins responsable.

      Dans ce régime des inégalités multiples, nous sommes conduits à nous comparer au plus près de nous, dans la consommation, le système scolaire, l’accès aux services… Ces jeux de comparaison invitent alors à accuser les plus riches, bien sûr, mais aussi les plus pauvres ou les étrangers qui « abuseraient » des aides sociales et ne « mériteraient » pas l’égalité. L’électorat de Donald Trump et de quelques autres ne pense pas autre chose.

      Internet favorise, dites-vous, ces passions tristes. De quelle manière ?

      Parce qu’Internet élargit l’accès à la parole publique, il constitue un progrès démocratique. Mais Internet transforme chacun d’entre nous en un mouvement social, qui est capable de témoigner pour lui-même de ses souffrances et de ses colères. Alors que les syndicats et les mouvements sociaux « refroidissaient » les colères pour les transformer en actions collectives organisées, #Internet abolit ces médiations. Les émotions et les opinions deviennent directement publiques : les colères, les solidarités, les haines et les paranoïas se déploient de la même manière. Les #indignations peuvent donc rester des indignations et ne jamais se transformer en revendications et en programmes politiques.

      La démultiplication des inégalités devrait renforcer les partis favorables à l’égalité sociale, qui sont historiquement les partis de gauche. Or, en France comme ailleurs, ce sont les populismes qui ont le vent en poupe. Comment expliquez-vous ce « transfert » ?

      La force de ce qu’on appelle les populismes consiste à construire des « banques de colères », agrégeant des problèmes et des expériences multiples derrière un appel nostalgique au #peuple unique, aux travailleurs, à la nation et à la souveraineté démocratique. Chacun peut y retrouver ses indignations. Mais il y a loin de cette capacité symbolique à une offre politique, car, une fois débarrassé de « l’oligarchie », le peuple n’est ni composé d’égaux ni dénué de conflits. D’ailleurs, aujourd’hui, les politiques populistes se déploient sur tout l’éventail des politiques économiques.

      Vous avez terminé « Le Temps des passions tristes » au moment où émergeait le mouvement des « gilets jaunes ». En quoi confirme-t-il ou modifie-t-il votre analyse ?

      Si j’ai anticipé la tonalité de ce mouvement, je n’en avais prévu ni la forme ni la durée. Il montre, pour l’essentiel, que les inégalités multiples engendrent une somme de colères individuelles et de sentiments de mépris qui ne trouvent pas d’expression #politique homogène, en dépit de beaucoup de démagogie. Dire que les « gilets jaunes » sont une nouvelle classe sociale ou qu’ils sont le peuple à eux tout seuls ne nous aide guère. Il faudra du temps, en France et ailleurs, pour qu’une offre idéologique et politique réponde à ces demandes de justice dispersées. Il faudra aussi beaucoup de courage et de constance pour comprendre les passions tristes sans se laisser envahir par elles.

      #populisme

  • Combien faut-il de smartphones pour faire une vie humaine ?
    https://tagrawlaineqqiqi.wordpress.com/2023/11/18/combien-faut-il-de-smartphone-pour-faire-une-vie-humaine

    Pour environ la quarante-deux millionième fois, on m’a expliqué que ne pas avoir et ne pas vouloir de smartphone, c’est être un individu archaïque réfractaire au progrès. Parce que depuis le début du XIXe siècle, on nous présente tout nouvel objet, et désormais toute nouvelle automatisation comme un progrès inéluctable, insistant sur le fait qu’il […]

    #Article #autonomie #chroniques_agricoles #Société #contrôle_social
    https://0.gravatar.com/avatar/cd5bf583a4f6b14e8793f123f6473b33bb560651f18847079e51b3bcad719755?s=96&d=

  • « Après le dieselgate, nous nous dirigeons tout droit vers un “#electric_gate” »

    Pour l’ingénieur et essayiste #Laurent_Castaignède, le développement actuel de la #voiture_électrique est un désastre annoncé. Il provoquera des #pollutions supplémentaires sans réduire la consommation d’énergies fossiles.

    Avec la fin de la vente des #voitures_thermiques neuves prévue pour #2035, l’Union européenne a fait du développement de la voiture électrique un pilier de sa stratégie de #transition vers la #neutralité_carbone. Le reste du monde suit la même voie : la flotte de #véhicules_électriques pourrait être multipliée par 8 d’ici 2030, et compter 250 millions d’unités, selon l’Agence internationale de l’énergie.

    Mais la #conversion du #parc_automobile à l’électricité pourrait nous conduire droit dans une #impasse désastreuse. Toujours plus grosse, surconsommatrice de ressources et moins décarbonée qu’il n’y parait, « la voiture électrique a manifestement mis la charrue avant les bœufs », écrit Laurent Castaignède dans son nouvel ouvrage, La ruée vers la voiture électrique. Entre miracle et désastre (éditions Écosociété, 2023).

    Nous avons échangé avec l’auteur, ingénieur de formation et fondateur du bureau d’étude BCO2 Ingénierie, spécialisé dans l’empreinte carbone de projets industriels. Démystifiant les promesses d’horizons radieux des constructeurs de #SUV et des décideurs technosolutionnistes, il pronostique un crash dans la route vers l’#électrification, un « #electrigate », bien avant 2035.

    Reporterre — Vous écrivez dans votre livre que, si l’on suit les hypothèses tendancielles émises par l’Agence internationale de l’énergie, la production de batteries devrait être multipliée par 40 entre 2020 et 2040, et que la voiture électrique accaparerait à cet horizon la moitié des métaux extraits pour le secteur « énergies propres ». Ces besoins en métaux constituent-ils la première barrière au déploiement de la voiture électrique ?

    Laurent Castaignède — La disponibilité de certains #métaux constitue une limite physique importante. Les voitures électriques ont surtout besoin de métaux dits « critiques », relativement abondants mais peu concentrés dans le sous-sol. L’excavation demandera d’ailleurs beaucoup de dépenses énergétiques.

    Pour le #lithium, le #cobalt, le #nickel, le #manganèse et le #cuivre notamment, ainsi que le #graphite, la voiture électrique deviendra d’ici une quinzaine d’années la première demandeuse de flux, avec des besoins en investissements, en capacités d’#extraction, de #raffinage, de main d’œuvre, qui devront suivre cette hausse exponentielle, ce qui n’a rien d’évident.

    L’autre problème, c’est la mauvaise répartition géographique de ces #ressources. On est en train de vouloir remplacer le pétrole par une série de ressources encore plus mal réparties… Cela crée de forts risques de constitution d’#oligopoles. Un « Opep du cuivre » ou du lithium serait catastrophique d’un point de vue géostratégique.

    Une autre limite concerne notre capacité à produire suffisamment d’électricité décarbonée. Vous soulignez que se répandent dans ce domaine un certain nombre « d’amalgames complaisants » qui tendent à embellir la réalité…

    Même lorsqu’on produit beaucoup d’électricité « bas carbone » sur un territoire, cela ne signifie pas que l’on pourra y recharger automatiquement les voitures avec. Le meilleur exemple pour comprendre cela est celui du Québec, où 100 % de l’électricité produite est renouvelable — hydroélectrique et éolienne. Mais une partie de cette électricité est exportée. Si le Québec développe des voitures électriques sans construire de nouvelles capacités d’énergies renouvelables dédiées, leur recharge entraînera une baisse de l’exportation d’électricité vers des régions qui compenseront ce déficit par une suractivation de centrales au charbon. Ces voitures électriques « vertes » entraîneraient alors indirectement une hausse d’émissions de #gaz_à_effet_de_serre

    De même, en France, on se vante souvent d’avoir une électricité décarbonée grâce au #nucléaire. Mais RTE, le gestionnaire du réseau de transport d’électricité, précise que la disponibilité actuelle de l’électricité décarbonée n’est effective que 30 % du temps, et que cette proportion va diminuer. On risque donc fort de recharger nos voitures, surtout l’hiver, avec de l’électricité au gaz naturel ou au charbon allemand, à moins de déployer davantage de moyens de production d’énergies renouvelables en quantité équivalente et en parallèle du développement des voitures électriques, ce qui est rarement ce que l’on fait.

    En d’autres termes, ce n’est pas parce que le « #kWh_moyen » produit en France est relativement décarboné que le « kWh marginal », celui qui vient s’y ajouter, le sera aussi. Dans mon métier de conseil en #impact_environnemental, j’ai vu le discours glisser insidieusement ces dernières années : on parlait encore des enjeux de la décarbonation du #kWh_marginal il y a dix ans, mais les messages se veulent aujourd’hui exagérément rassurants en se cachant derrière un kWh moyen « déjà vert » qui assurerait n’importe quelle voiture électrique de rouler proprement…

    Vous alertez aussi sur un autre problème : même si ce kWh marginal produit pour alimenter les voitures électriques devient renouvelable, cela ne garantit aucunement que le bilan global des émissions de carbone des transports ne soit à la baisse.

    Il y a un problème fondamental dans l’équation. On n’arrive déjà pas à respecter nos objectifs antérieurs de développement des énergies renouvelables, il parait compliqué d’imaginer en produire suffisamment pour recharger massivement les nouveaux véhicules électriques, en plus des autres usages. Et beaucoup d’usages devront être électrifiés pour la transition énergétique. De nombreux secteurs, des bâtiments à l’industrie, augmentent déjà leurs besoins électriques pour se décarboner.

    De plus, rien ne garantit que le déploiement de voitures électriques ne réduise réellement les émissions globales de gaz à effet de serre. En ne consommant plus d’essence, les voitures électriques baissent la pression sur la quantité de pétrole disponible. La conséquence vicieuse pourrait alors être que les voitures thermiques restantes deviennent moins économes en se partageant le même flux pétrolier.

    Imaginons par exemple que l’on ait 2 milliards de voitures dans le monde en 2040 ou 2050 comme l’indiquent les projections courantes. Soyons optimistes en imaginant qu’un milliard de voitures seront électriques et que l’on consommera à cet horizon 50 millions de barils de pétrole par jour. Le milliard de voitures thermiques restant pourrait très bien se partager ces mêmes 50 millions de barils de pétrole, en étant juste deux fois moins économe par véhicule. Résultat, ce milliard de voitures électriques ne permettrait d’éviter aucune émission de CO₂ : rouler en électrique de manière favorable nécessite de laisser volontairement encore plus de pétrole sous terre…

    L’électrification, seule, n’est donc pas une réponse suffisante. Cela signifie qu’une planification contraignant à la sobriété est nécessaire ?

    La #sobriété est indispensable mais il faut être vigilant sur la manière de la mettre en place. Il serait inaudible, et immoral, de demander à des gens de faire des efforts de sobriété si c’est pour permettre à leur voisin de rouler à foison en gros SUV électrique.

    La sobriété, ce serait d’abord mettre un terme à « l’#autobésité ». L’électrification accentue la prise de #poids des véhicules, ce qui constitue un #gaspillage de ressources. Au lieu de faire des voitures plus sobres et légères, les progrès techniques et les gains de #productivité n’ont servi qu’à proposer aux consommateurs des véhicules toujours plus gros pour le même prix. On n’en sortira pas en appelant les constructeurs à changer de direction par eux-mêmes, ce qu’on fait dans le vide depuis 30 ans. Il faut réguler les caractéristiques clivantes des véhicules, en bridant les voitures de plus d’1,5 tonne à vide à 90 km/h par exemple, comme on le fait pour les poids lourds, et à 130 km/h toutes les autres.

    Un autre effet pervers pour la gestion des ressources est l’#obsolescence des véhicules. Pourquoi écrivez-vous que l’électrification risque de l’accélérer ?

    La voiture électrique porte dans ses gènes une #obsolescence_technique liée à la jeunesse des dernières générations de #batteries. Les caractéristiques évoluent très vite, notamment l’#autonomie des véhicules, ce qui rend leur renouvellement plus attractif et le marché de l’occasion moins intéressant.

    Paradoxalement, alors que les moteurs électriques sont beaucoup plus simples que les moteurs thermiques, l’électronification des voitures les rend plus difficiles à réparer. Cela demande plus d’appareillage et coûte plus cher. Il devient souvent plus intéressant de racheter une voiture électrique neuve que de réparer une batterie endommagée.

    Les constructeurs poussent en outre les gouvernements à favoriser les #primes_à_la casse plutôt que le #rétrofit [transformer une voiture thermique usagée en électrique]. Ce dernier reste artisanal et donc trop cher pour se développer significativement.

    Vous écrivez qu’une véritable transition écologique passera par des voitures certes électriques mais surtout plus légères, moins nombreuses, par une #démobilité, une réduction organisée des distances du quotidien… Nous n’en prenons pas vraiment le chemin, non ?

    Il faudra peut-être attendre de se prendre un mur pour changer de trajectoire. Après le dieselgate, nous nous dirigeons tout droit vers un « electric gate ». Je pronostique qu’avant 2035 nous nous rendrons compte de l’#échec désastreux de l’électrification en réalisant que l’empreinte carbone des transports ne baisse pas, que leur pollution baisse peu, et que le gaspillage des ressources métalliques est intenable.

    La première pollution de la voiture électrique, c’est de créer un écran de fumée qui occulte une inévitable démobilité motorisée. Le #technosolutionnisme joue à plein, via des batteries révolutionnaires qui entretiennent le #messianisme_technologique, comme pour esquiver la question politique du changement nécessaire des modes de vie.

    On continue avec le même logiciel à artificialiser les terres pour construire des routes, à l’instar de l’A69, sous prétexte que les voitures seront bientôt « propres ». Il faut sortir du monopole radical, tel que décrit par Ivan Illich, constitué par la #voiture_individuelle multi-usages. La première liberté automobile retrouvée sera celle de pouvoir s’en passer avant de devoir monter dedans.

    https://reporterre.net/Apres-le-dieselgate-nous-nous-dirigeons-tout-droit-vers-un-electric-gate
    #réparation #terres_rares #réparabilité #extractivisme

    • La ruée vers la voiture électrique. Entre miracle et désastre

      Et si les promesses du miracle électrique n’étaient en fait que le prélude à un désastre annoncé ?

      La voiture électrique a le vent en poupe. Dans un contexte d’urgence écologique, elle semble être la solution pour résoudre les principaux problèmes sanitaires et climatiques causés par la voiture à essence. Pour l’expert en transports #Laurent_Castaignède, il est urgent de prendre la mesure de la révolution en cours. En Occident comme en Chine, un remplacement aussi rapide et massif du parc automobile est-il possible ? Les promesses écologiques de la voiture électrique seront-elles au rendez-vous ou risquent-elles de s’évanouir dans un nouveau scandale environnemental ?

      Pour Laurent Castaignède, nous sommes sur le point d’accepter une nouvelle dépendance énergétique, verdie, sur fond de croissance économique jusqu’au-boutiste. Remontant aux origines de la mobilité routière électrique, l’ancien ingénieur automobile fait le point sur la situation actuelle, dont le dynamisme de déploiement est inédit. Si la voiture électrique n’émet pas de gaz polluants à l’utilisation, elle pose de nombreux problèmes. Elle mobilise des ressources critiques pour sa fabrication et ses recharges, pour des gabarits de véhicules toujours plus démesurés. Elle maintient aussi le modèle de l’auto-solo, sans rien changer aux problèmes d’embouteillage et au poids financier des infrastructures routières sur les collectivités.

      La ruée vers la voiture électrique propose une autre électrification de la mobilité automobile, crédible et véritablement respectueuse de notre santé et de celle de la planète. Tâchons d’éviter que les promesses technologiques du virage électrique ne débouchent sur un désastre annoncé.

      https://ecosociete.org/livres/la-ruee-vers-la-voiture-electrique
      #livre

    • il dit lui même « synthèse » et « truc que je ne connais pas », et il le prouve, par exemple en laissant entendre que le sionisme est un mouvement fondamentaliste religieux, alors que c’était en bonne partie un mouvement de juifs sécularisés et laïcs, qui a émergé non seulement en raison des persécutions en Europe mais danse le cadre du développement des nationalismes européens du XIXeme, repris ensuite encore ailleurs et par d’autres.
      idem, si on n’évoque pas la spécificité de l’antisémitisme (il n’y qu’aux juifs que sont attribué des pouvoirs occultes, ce qui permet le « socialisme des imbéciles » et le complotisme antisémite) ou celles du racisme anti-arabe (à la fois « judéo- chrétien », depuis les monothéisme antérieurs à l’islam, et colonial, effectivement). si on veut faire des machins à l’oral plutôt que de tabler sur la lecture d’ouvrages approfondis et contradictoires, ça me semble plus intéressant de livrer des témoignages, des récits, ou des confrontations entre énonciateurs qui travaillent pour de bon sur ces questions que de prétendre tout embrasser sous l’angle d’une grille de lecture préétablie (décoloniale or whatever).

    • oui, @rastapopoulos, il tâche d’être précautionneux sur l’antisémitisme et il dit vrai dans le passage que tu cites (guerre de religion). mais il loupe ce point historiquement décisif de la (re)confessionalisation progressive des deux mouvements nationalistes, sioniste et palestinien. des deux cotés, la religion n’était en rien essentiele, bien que de part et d’autre cela ai aussi joué initialement un rôle, minoritaire (cf. l’histoire du sionisme et celle de l’OLP). voilà qui est altéré par ce qu’il dit du sionisme originel (où il se plante), dont les coordonnées se définissaient dans un espace résolument mécréant, dans un rapport conflictuel avec le Bund, avec le socialisme révolutionnaire européen.
      pour ce que je comprends d’Israël, on peut dire grossièrement que le religieux se divise en deux, un fondamentalisme messianique et guerrier qui caractérise nombre de colons (dans l’acception israélienne du terme) et l’État israélien, et de l’autre une religiosité qui refuse la sécularisation dans l’État guerrier (exemptions du service militaire pour des orthodoxes d’une part, qui fait scandale, dissidence pacifiste au nom de la Thora d’autre part).

      j’avais vu ce bobino avant qu’il soit cité par Mona et repris par toi et ne l’avait pas aimé. la vulgarisation historique est un exercice à haut risque (simplifications impossibles, déperditions, erreurs), le gars d’Histoires crépues en est d’ailleurs conscient.
      un récit au présent qui sait tirer des fils historiques et politiques nécessaires à ce qu’il énonce (comme l’a si bien réussi Mona avec son dernier papier) ne se donne pas pour objectif une synthèse historique. celle-ci émerge par surcroit depuis le présent (une critique, une représentation du présent).

      edit @sandburg, les persécutions des juifs et l’éclosion des nationalismes en Europe sont déterminantes dans cette « histoire du XXeme ». le sionisme nait, lui aussi, au XIXeme...

      #histoire #politique #présent

  • Appel à constituer des greniers des Soulèvements
    https://lessoulevementsdelaterre.org/comites/appel-a-constituer-des-greniers-des-soulevements

    C’est en lisant le texte du comité caennais des Soulèvements de la Terre "Reprendre, Démanteler, Communiser" que nous, membres du Réseau de ravitaillement des luttes du pays rennais et du comité rennais des SDT, avons eu envie de poursuivre les propositions sur la #subsistance qui semblent traverser les comités des SDT nouvellement créés.

    Comme le soulignent les camarades de Caen, la structuration de l’économie capitaliste coupe une majorité de la population de tout moyen d’autosubsistance et son fonctionnement sous sa forme actuelle pousse 8 millions de personnes à dépendre de l’aide alimentaire. Nous pensons qu’il faut continuer à dire et à défendre que l’idéologie bourgeoise repose sur une #dépossession. Les populations ont été dépossédées avec le temps des moyens et des savoir-faire qui leur permettaient d’assurer des formes d’#autonomie_matérielle. C’est cette idéologie qui les oblige, pour survivre, à vendre leur temps et leur énergie sur le marché du travail. Plus cette dépendance au marché est grande et les moyens d’autonomie des populations sont faibles, plus les conditions de l’accumulation capitaliste et le désir de contrôle des classes dirigeantes et possédantes sont satisfaits.

    Or, notre attachement aux biens matériels produits par l’économie capitaliste rend difficile la construction d’une opposition sérieuse à cette perte d’autonomie. Cette situation complexe est résumée par Aurélien Berlan, dans son livre Terre et Liberté :

    "l’impasse socio-écologique dans laquelle nous nous enfonçons tient au fait que nous sommes devenus vitalement dépendants d’un système qui sape à terme les conditions de vie de la plupart des êtres vivants [...] nous en sommes prisonniers, matériellement et mentalement, individuellement et collectivement."

    Dans le même sens, nous pensons qu’il faut aussi questionner la désirabilité du travail de la subsistance. En effet, ce "piège idéologique" de la culture bourgeoise "classe dans le même ensemble le travail servile, le travail paysan et le travail domestique des femmes au foyer modernes et repose sur le mépris envers les processus naturels liés à la vie".

    Nous avons alors ressenti l’importance de nous demander comment se réapproprier et construire collectivement nos conditions d’existence.
    Mais, nous faisons face à un deuxième constat, partagé par le comité de Caen :

    "un isolement des différentes initiatives de résistance, leur morcellement, qui les vouent à l’impuissance : les luttes syndicales paysannes empêtrées dans une forme de corporatisme sectoriel ; les marches pour le climat confrontées à l’impuissance sans horizon des manifestations, même massives, réduites à interpeller les gouvernant.e.s pour qu’ils agissent contre leurs intérêts ; l’inconséquence libérale-libertaire des modes d’action « autonomes » égarés par leur propre dispersion et leur absence de stratégie coordonnée ; les collectifs d’habitant·e·s de territoires en lutte qui mènent des batailles locales contre des projets industriels écocidaires, sans avoir — trop souvent — les moyens de vaincre."

    Face à ce morcellement de nos résistances, il serait merveilleux que la formule médiatique "l’inaction climatique du gouvernement" se vérifie. Or, l’expression est en partie malheureuse : inactifs, ils nous laisseraient la possibilité de nous organiser, de déployer des alternatives. Mais ils attaquent sans répit et de tous les côtés, celui des retraites comme celui des méga-bassines. Les classes dirigeantes et possédantes œuvrent à renforcer les structures qui assurent leur domination, avec d’autant plus d’entrain qu’elles espèrent ainsi échapper aux conséquences les plus dramatiques de la #crise_écologique un peu plus longtemps que les autres. La stratégie est immorale, mais relativement rationnelle, du moins à court terme.
    Face à ce niveau de conflictualité, les alternatives seules sont inoffensives. Mais s’opposer seulement n’est pas non plus suffisant. Il est essentiel que chaque geste d’opposition soit organiquement mêlé à une proposition positive, à l’ébauche du monde que l’on aspire à voir émerger à la place du leur. Il est essentiel stratégiquement mais aussi pour nous, pour que la lutte soit désirable, habitée par des affects joyeux.

    La tentative de construction mutualiste rennaise

    Au sortir de la lutte contre la loi travail en 2016, une partie du milieu #autonome rennais a engagé un travail de réflexion autour des questions d’autonomie, que ce soit le logement, la formation ou l’alimentation. Cette dernière dimension a amené à la création du Cartel des #cantines, qui deviendra par la suite le Réseau de ravitaillement des Luttes (R2R). L’objectif du réseau était alors de répondre pratiquement à la question : "Comment nourrir efficacement les luttes sociales ?" 

    Dès 2016, on veut se donner les moyens de réaliser notre "plan quinquennal" : nourrir 200 personnes deux fois par jour, tout en continuant à faire des cantines pour les événements militants importants (pendant les expulsions de la ZAD, lors de festivals militants, etc.). S’inscrivant dans la dynamique du réseau mutualiste à Rennes le R2R est un outil de la base arrière du mouvement social, qui essaye de construire des bases matérielles solides pour soutenir les fronts de conflictualité du mouvement social.
    On pense, ainsi, dès l’origine, la subsistance de nos luttes. En effet, il nous appartient de ne pas recréer "la contradiction primaire de l’autonomie" (Julien Allavena).
    L’alimentation étant souvent une condition pour qu’une lutte dure, voire qu’elle existe, il nous fallait nous doter d’outils et de réseaux capables d’assurer une collecte ou une production de denrées alimentaires, ainsi que de moyens de les transformer, en quantité importante. Très vite, on se procure le matériel pour organiser des cantines pour plusieurs milliers de personnes ; on prend contact avec des maraîcher·es du coin pour organiser des réseaux de solidarité entre grévistes et producteur.ices ; on remplit chaque semaine un 18m3 avec de la nourriture de recup’ issue de la grande distribution ; on se fait prêter des bouts de champs sur lesquels on cultive de quoi alimenter nos cantines. L’idée est toujours de faire durer ou rendre possible les luttes par l’autonomie alimentaire. L’histoire du mouvement ouvrier montre en effet que c’est une condition pour arracher de grandes victoires.

    #autonomie

  • Matthieu Amiech, Lettre ouverte aux organisatrices du rassemblement estival Les Résistantes, 2023 – Et vous n’avez encore rien vu…
    https://sniadecki.wordpress.com/2023/10/16/amiech-les-resistantes

    Suivi de deux textes sur l’autonomie des luttes, notamment alimentaire.

    L’organisation de ce rassemblement visait précisément à faire se rencontrer des gens qui n’en sont pas tous au même point, dont les objectifs ne concordent pas tout à fait et doivent être mis en discussion : à faire avancer un mouvement en construction. Mais ici, il ne s’agit pas de cela. Imaginons que, peu après l’atelier « Discussion et retours sur nos expériences d’autodéfense féministe », ou avant la table ronde « Reprendre les terres dans une perspective féministe », il y ait eu une formation « Être féministe et sexy, pour réussir », ou « Faire avancer l’émancipation des femmes par la filière nucléaire (ou l’armée) » : on peut penser qu’il y aurait eu à juste titre un malaise, voire un scandale. Sur la question du numérique, par contre, la contradiction ne pose pas de problème. On a beau savoir que ces technologies sont au cœur des phénomènes de surveillance, de précarisation du travail, d’isolement social, d’aggravation des problèmes écologiques, elles restent « un outil incontournable pour nos luttes » – qui visent pourtant plus de liberté et d’égalité, moins de violence et de destructions.

    […]

    De façon générale, il est temps pour cette écologie terrestre, pour l’ensemble des luttes contre les petits et grands projets qui pillent les ressources et dévastent les territoires, de faire un choix. Ou bien nous luttons avec les outils numériques, dans un souci de soi-disant efficacité et au nom de l’urgence absolue-permanente ; ou bien nous luttons, de plus en plus, sans eux, pour trouver une nouvelle consistance humaine, pour tisser quelque chose de réellement hétérogène au développement (économique), à la transition (énergétique), à la vie administrée et artificialisée. Ou bien on continue de laisser au second plan de la conscience collective – derrière les écrans – l’impact effrayant de la numérisation sur les milieux naturels, la consommation d’énergie et d’électricité qui explose, la course aux métaux et l’ouverture de mines partout dans le monde ; ou bien on met cette question au premier plan : on insiste sur le rôle essentiel des ordinateurs et d’Internet dans l’accélération des prédations, de la bétonisation des sols, de la confiscation des terres et de la pollution des eaux (ou vice versa).

    #Matthieu_Amiech #critique_techno #numérique #informatisation #qrcode #gestion #autonomie #luttes_sociales #organisation

  • Condamner la violence, Judith Butler

    Il serait étrange de s’opposer à quelque chose sans comprendre de quoi il s’agit, ou sans la décrire de façon précise. Il serait plus étrange encore de croire que toute condamnation nécessite un refus de comprendre, de peur que cette compréhension ne serve qu’à relativiser les choses et diminuer notre capacité de jugement. Mais que faire s’il est moralement impératif d’étendre notre condamnation à des crimes tout aussi atroces, qui ne se limitent pas à ceux mis en avant et répétés par les médias ? Quand et où doit commencer et s’arrêter notre acte de condamnation ? N’avons-nous pas besoin d’une évaluation critique et informée de la situation pour accompagner notre condamnation politique et morale, sans avoir à craindre que s’informer et comprendre nous transforme, aux yeux des autres, en complices immoraux de crimes atroces ?

    Certains groupes se servent de l’histoire de la violence israélienne dans la région pour disculper le Hamas, mais ils utilisent une forme corrompue de raisonnement moral pour y parvenir. Soyons clairs. Les violences commises par Israël contre les Palestiniens sont massives : bombardements incessants, assassinats de personnes de tous âges chez eux et dans les rues, torture dans les prisons israéliennes, techniques d’affamement à Gaza, expropriation radicale et continue des terres et des logements. Et ces violences, sous toutes leurs formes, sont commises sur un peuple qui est soumis à un régime colonial et à l’apartheid, et qui, privé d’État, est apatride.

    Mais quand les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard (Harvard Palestine Solidarity Groups) publient une déclaration disant que « le régime d’apartheid est le seul responsable » des attaques mortelles du Hamas contre des cibles israéliennes, ils font une erreur et sont dans l’erreur. Ils ont tort d’attribuer de cette façon la responsabilité, et rien ne saurait disculper le Hamas des tueries atroces qu’ils ont perpétrées. En revanche, ils ont certainement raison de rappeler l’histoire des violences : « de la dépossession systématique des terres aux frappes aériennes de routine, des détentions arbitraires aux checkpoints militaires, des séparations familiales forcées aux assassinats ciblés, les Palestiniens sont forcés de vivre dans un état de mort, à la fois lente et subite. » Tout cela est exact et doit être dit, mais cela ne signifie pas que les violences du Hamas ne soient que l’autre nom des violences d’Israël.

    (...) Si l’on nous demandait de comprendre la violence palestinienne comme une continuation de la violence israélienne, ainsi que le demandent les Groupes Solidarité pour la Palestine de Harvard, alors il n’y aurait qu’une seule source de culpabilité morale, et même les actes de violence commis par les Palestiniens ne seraient pas vraiment les leurs. Ce n’est pas rendre compte de l’#autonomie d’action des Palestiniens.

    (...) La question de savoir quelles vies méritent d’être pleurées fait partie intégrante de la question de savoir quelles sont les vies qui sont dignes d’avoir une valeur. Et c’est ici que le racisme entre en jeu de façon décisive.

    (...) tous les gens que je connais vivent dans la peur de ce que va faire demain la machine militaire israélienne, si le discours génocidaire de Netanyahu va se matérialiser par une option nucléaire ou par d’autres tueries de masse de Palestiniens.

    https://aoc.media/opinion/2023/10/12/condamner-la-violence

    https://justpaste.it/9zy1v

    #Judith_Butler #violence #pleurer #Palestine #Hamas #Israël #discours_génocidaire

    • où l’on voit une intello BDS qui plane au point de penser que le Hamas se crée après les accords d’Oslo, sans voir que c’est bien avant 1987 qu’Israël à produit les conditions d’émergence d’une telle organisation. donc outre le fait de signaler ce « discours génocidaire » qui gouverne Israël, pas mal de bêtises de quelqu’un qui s’est débattu pour arriver à écrire dans l’après 7 octobre 2023, après l’attaque du Hamas.
      le point qui m’intéresse c’est celui qu’elle évoque trop rapidement : l’autonomie politique, celle des palestiniens en l’occurence, et ce depuis un aspect décisif qu’elle fait mine de résoudre par une « non-violence » ici encore absurde.

      on arrive bien à essentialiser « la violence » lorsque l’on est pas confronté en première personne à la question de son usage, de sa nécessité (ou que cet usage vous est garanti par la la force et la loi). ça nous donne des indignations qui loupent totalement le coeur du problème qu’exemplifie cette attaque du Hamas : de quelle type de violence use-t-on ? quelles limites est on a même de lui donner ? de quoi parle-t-on au juste, concrètement ?

      c’est sur ce point à mon sens que pour le Hamas la comparaison avec Daesh vaut quelque chose. un proto-État à moins encore de limites que bien des États (Hiroshima, Sétif, etc.) et se situe exactement dans le même registre : s’autoriser le massacre de civils.

      c’est la visée politique qui donne sa forme à la violence employée. le contenu vient avec : attentats massacre (extrême droite), pogroms (dont le Hamas vient de fournir un exemple qui surpasse spectaculairement, bravo ! ce que les meurtres quotidiens de palestiniens dans les territoires occupés donnent à voir).

      l’autonomie, se donner une, des lois, ce n’est pas l’État, cela a souvent voulu dire s’empêcher, autant que faire se peut, prendre des précautions (souvent coûteuses) et avant tout s’interdire le massacre sans distinction d’aucune sorte. c’est à ce titre que les organisations combattantistes des années 70 étaient critiqués non pas depuis des positions extérieures mais depuis d’autres usages de la violence révolutionnaire.

  • Projection de « Une autre faim du monde » & discussion : l’autonomie alimentaire, un outil de lutte, une perspective politique et sociale
    https://ricochets.cc/Projection-de-Une-autre-faim-du-monde-discussion-l-autonomie-alimentaire-u

    Bienvenue à cette soirée apéro-partagé-film-discussion, autour d’un moyen-métrage original qui mêle effondrement, autonomie alimentaire, zombies, coopération... Synopsis du film de fiction « Une autre faim du monde » Il s’est passé quelque chose, on ne sait pas quoi, on en parle sans le nommer. Le pétrole n’est plus abordable aux particuliers et bientôt plus autorisé. Les terres saines sont introuvables, les semences hors de prix, beaucoup de maisons sont abandonnées. À la radio, on entend parler de (...) #Les_Articles

    / #Crest, #Autonomie_et_autogestion

  • Le sionisme, l’antisémitisme et la gauche, par Moishe Postone
    http://www.palim-psao.fr/2019/02/le-sionisme-l-antisemitisme-et-la-gauche-par-moishe-postone.html


    Graffiti antisémite en Belgique en 2013

    Moishe Postone : Il est exact que le gouvernement israélien se sert de l’accusation d’#antisémitisme comme d’un bouclier pour se protéger des critiques. Mais ça ne veut pas dire que l’antisémitisme lui-même ne représente pas un problème grave.

    Ce qui distingue ou devrait distinguer l’antisémitisme du #racisme a à voir avec l’espèce d’imaginaire du pouvoir attribué aux #Juifs, au sionisme et à #Israël, imaginaire qui constitue le noyau de l’antisémitisme. Les Juifs sont perçus comme constituant une sorte de pouvoir universel immensément puissant, abstrait et insaisissable qui domine le monde. On ne trouve rien d’équivalent à la base d’aucune autre forme de racisme. Le racisme, pour autant que je sache, constitue rarement un système complet cherchant à expliquer le monde. L’antisémitisme est une critique primitive du monde, de la modernité capitaliste. Si je le considère comme particulièrement dangereux pour la gauche, c’est précisément parce que l’antisémitisme possède une dimension pseudo-émancipatrice que les autres formes de racisme n’ont que rarement.

    MT : Dans quelle mesure pensez-vous que l’antisémitisme aujourd’hui soit lié aux attitudes vis-à-vis d’Israël ? On a l’impression que certaines des attitudes de la #gauche à l’égard d’Israël ont des sous-entendus antisémites, notamment celles qui ne souhaitent pas seulement critiquer et obtenir un changement dans la politique du gouvernement israélien à l’égard des Palestiniens, mais réclament l’abolition d’Israël en tant que tel, et un monde où toutes les nations existeraient sauf Israël. Dans une telle perspective, être juif, sentir qu’on partage quelque chose comme une identité commune avec les autres Juifs et donc en général avec les Juifs israéliens, équivaut à être « sioniste » et est considéré comme aussi abominable qu’être raciste.

    MP : Il y a beaucoup de nuances et de distinctions à faire ici. Dans la forme que prend de nos jours l’#antisionisme, on voit converger de façon extrêmement dommageable toutes sortes de courants historiques.

    L’un d’eux, dont les origines ne sont pas nécessairement antisémites, plonge ses racines dans les affrontements entre membres de l’intelligentsia juive d’Europe orientale au début du XXesiècle. La plupart des intellectuels juifs – intellectuels laïques inclus ? – sentaient qu’une certaine forme d’#identité_collective faisait partie intégrante de l’expérience juive. Cette identité a pris de plus en plus un caractère national étant donné la faillite des formes antérieures, impériales, de collectivité – c’est-à-dire à mesure que les vieux empires, ceux des Habsbourg, des Romanov, de la Prusse, se désagrégeaient. Les Juifs d’Europe orientale, contrairement à ceux d’Europe occidentale, se voyaient avant tout comme une collectivité, pas simplement comme une religion.

    Ce sentiment national juif s’exprima sous diverses formes. Le sionisme en est une. Il y en eut d’autres, représentées notamment par les partisans d’une #autonomie_culturelle juive, ou encore par le #Bund, ce mouvement socialiste indépendant formé d’ouvriers Juifs, qui comptait plus de membres qu’aucun autre mouvement juif et s’était séparé du parti social-démocrate russe dans les premières années du XXe siècle.

    D’un autre côté, il y avait des Juifs, dont un grand nombre d’adhérents aux différents partis communistes, pour qui toute expression identitaire juive constituait une insulte à leur vision de l’humanité, vision issue des Lumières et que je qualifierais d’abstraite. Trotski, par exemple, dans sa jeunesse, qualifiait les membres du Bund de « sionistes qui ont le mal de mer ». Notez que la critique du #sionisme n’avait ici rien à voir avec la Palestine ou la situation des Palestiniens, puisque le Bund s’intéressait exclusivement à la question de l’autonomie au sein l’empire russe et rejetait le sionisme. En assimilant le Bund et le sionisme, Trotski fait plutôt montre d’un rejet de toute espèce d’identité communautaire juive. Trotski, je crois, a changé d’opinion par la suite, mais cette attitude était tout à fait typique. Les organisations communistes avaient tendance à s’opposer vivement à toute espèce de #nationalisme_juif : nationalisme culturel, nationalisme politique ou sionisme. C’est là un des courants de l’antisionisme. Il n’est pas nécessairement antisémite mais rejette, au nom d’un #universalisme_abstrait, toute identité collective juive. Encore que cette forme d’antisionisme soit souvent incohérente : elle est prêt à accorder l’autodétermination nationale à la plupart des peuples, mais pas aux Juifs. C’est à ce stade que ce qui s’affiche comme abstraitement universaliste devient idéologique. De surcroît, la signification même d’un tel universalisme abstrait varie en fonction du contexte historique. Après l’Holocauste et la fondation de l’État d’Israël, cet universalisme abstrait sert à passer à la trappe l’#histoire des Juifs en Europe, ce qui remplit une double fonction très opportune de « nettoyage » historique : la violence perpétrée historiquement par les Européens à l’encontre des Juifs est effacée, et, dans le même temps, on se met à attribuer aux Juifs les horreurs du colonialisme européen. En l’occurrence, l’universalisme abstrait dont se revendiquent nombre d’antisionistes aujourd’hui devient une idéologie de légitimation qui permet de mettre en place une forme d’#amnésie concernant la longue histoire des actes, des politiques et des idéologies européennes à l’égard des Juifs, tout en continuant essentiellement dans la même direction. Les Juifs sont redevenus une fois de plus l’objet d’une indignation spéciale de la part de l’Europe. La solidarité que la plupart des Juifs éprouvent envers d’autres Juifs, y compris en Israël – pour compréhensible qu’elle soit après l’Holocauste – est désormais décriée. Cette forme d’antisionisme est devenue maintenant l’une des bases d’un programme visant à éradiquer l’autodétermination juive réellement existante. Elle rejoint certaines formes de nationalisme arabe – désormais considérées comme remarquablement progressistes.

    Un autre courant d’antisionisme de gauche – profondément antisémite celui-là – a été introduit par l’Union Soviétique, notamment à travers les procès-spectacles en Europe de l’Est après la Seconde Guerre mondiale. C’est particulièrement impressionnant dans le cas du #procès_Slánský, où la plupart des membres du comité central du parti communiste tchécoslovaque ont été jugés puis exécutés. Toutes les accusations formulées à leur encontre étaient des accusations typiquement antisémites : ils étaient sans attaches, cosmopolites, et faisaient partie d’une vaste conspiration mondiale. Dans la mesure où les Soviétiques ne pouvaient pas utiliser officiellement le discours de l’antisémitisme, ils ont employé le mot « sionisme » pour signifier exactement ce que les antisémites veulent dire lorsqu’ils parlent des Juifs. Ces dirigeants du PC tchécoslovaque, qui n’avaient aucun lien avec le sionisme – la plupart étaient des vétérans de la guerre civile espagnole – ont été exécutés en tant que sionistes.

    Cette variété d’antisionisme antisémite est arrivée au Moyen-Orient durant la #guerre_froide, importée notamment par les services secrets de pays comme l’#Allemagne_de_l’Est. On introduisait au Moyen-Orient une forme d’antisémitisme que la gauche considérait comme « légitime » et qu’elle appelait antisionisme. Ses origines n’avaient rien à voir avec le mouvement contre l’installation israélienne. Bien entendu, la population arabe de Palestine réagissait négativement à l’immigration juive et s’y opposait. C’est tout à fait compréhensible. En soi, ça n’a certes rien d’antisémite. Mais ces deux courants de l’antisionisme se sont rejoints historiquement.

    Pour ce qui concerne le troisième courant, il s’est produit, au cours des dix dernières années environ, un changement vis-à-vis de l’existence d’Israël, en premier lieu au sein du mouvement palestinien lui-même. Pendant des années, la plupart des organisations palestiniennes ont refusé d’accepter l’existence d’Israël. Cependant, en 1988, l’OLP a décidé qu’elle accepterait cette existence. La seconde Intifada, qui a débuté en 2000, était politiquement très différente de la première et marquait un revirement par rapport à cette décision. C’était, à mon avis, une faute politique fondamentale, et je trouve surprenant et regrettable que la gauche s’y soit laissée prendre au point de réclamer elle aussi, de plus en plus, l’abolition d’Israël. Dans tous les cas, il y a aujourd’hui au Moyen-Orient à peu près autant de Juifs que de #Palestiniens. Toute stratégie fondée sur des analogies avec la situation algérienne ou sud-africaine est tout simplement vouée à l’échec, et ce pour des raisons aussi bien démographiques que politico-historiques.

    Moishe Postone est notamment l’auteur de Critique du fétiche-capital. Le capitalisme, l’antisémitisme et la gauche (PUF, 2013)

    #Moishe_Postone #URSS #nationalités #autodétermination_nationale #anti-impérialisme #campisme #islam_politique

    • Il y a un siècle, la droite allemande considérait la domination mondiale du capital comme celle des Juifs et de la Grande Bretagne. À présent, la gauche la voit comme la domination d’Israël et des États-Unis. Le schéma de pensée est le même. Nous avons maintenant une forme d’antisémitisme qui semble être progressiste et « anti-impérialiste » ; là est le vrai danger pour la gauche. Le #racisme en tant que tel représente rarement un danger pour la gauche. Elle doit certes prendre garde à ne pas être raciste mais ça n’est pas un danger permanent, car le racisme n’a pas la dimension apparemment émancipatrice qu’affiche l’antisémitisme.

    • Israël, ce ne sont pas les juifs ; heureusement. Le pouvoir d’extrême droite israélien aimerait bien que tout le monde raisonne comme cela. Afin de perpétuer cet amalgame confus, qui permet de dire « t’es anti-impérialiste ? t’es antisémite ! ». on le voit arriver, le glissement dans cette dernière citation. Cet instrumentalisation l’air de rien. On passe de Juif+Grande-Bretagne à Israël+Usa, comme par magie. Et on nie tous les faits politiques qui objectivement démontrent que les Us et Israël sont à la manœuvre conjointement, géopolitiquement, au Moyen Orient, depuis plusieurs dizaines d’années.

      Le pouvoir israélien est un pouvoir fasciste et colonialiste. Cela dure depuis plusieurs dizaines d’années. Le pouvoir américain est un pouvoir impérialiste. Et cela dure depuis plusieurs dizaines d’années. Ce sont des faits objectifs.

      Renvoyer tous leurs adversaires plus ou moins progressistes dans la cuvette de l’antisémitisme, c’est confus, pour rester courtois.

    • La partie sur l’antisionisme et la Palestine repose sur un tour de passe-passe sémantique très classique : la création d’Israël est sobrement qualifiée d’« autodétermination nationale », et sa critique est systématiquement accolée à l’accusation d’être favorable à l’autodétermination des peuples, « sauf des juifs » ; tout en minimisant (voire en niant carrément) le fait que cette « autodétermination » a nécessité – et nécessite toujours – le nettoyage ethnique à grande échelle de la population indigène.

      Encore que cette forme d’antisionisme soit souvent incohérente : elle est prêt à accorder l’autodétermination nationale à la plupart des peuples, mais pas aux Juifs.

      […]

      Cette forme d’antisionisme est devenue maintenant l’une des bases d’un programme visant à éradiquer l’autodétermination juive réellement existante.

      […]

      Cette idée que toute nation aurait droit à l’autodétermination à l’exception des Juifs est bel et bien un héritage de l’Union Soviétique.

      À l’inverse, le termine « colonisation » n’est ici utilisé que pour être nié.

      la violence perpétrée historiquement par les Européens à l’encontre des Juifs est effacée, et, dans le même temps, on se met à attribuer aux Juifs les horreurs du colonialisme européen.

      […]

      Subsumer le conflit sous l’étiquette du colonialisme, c’est mésinterpréter la situation.

      Évidemment : l’euphémisation « immigration juive », alors qu’on parle de la période de la guerre froide (la Nakba : 1948) :

      Bien entendu, la population arabe de Palestine réagissait négativement à l’immigration juive et s’y opposait.

  • Luzi & Berlan, L’écosocialisme du XXIe siècle doit-il s’inspirer de Keynes ou d’Orwell ?, 2020 – Et vous n’avez encore rien vu…
    https://sniadecki.wordpress.com/2023/10/03/luzi-ecosocialisme

    Keynes s’inscrit consciemment dans ce machiavélisme économique, en considérant que l’amour de l’argent « comme objet de possession », de même que les pratiques capitalistes en elles-mêmes « détestables et injustes », doivent être tolérés, étant les moyens les plus efficaces pour résoudre le « problème économique » (la rareté). Et il renvoie à ses petits-enfants la tâche de revenir sur cet immoralisme, une fois ce problème résolu.

    Le raisonnement de Keynes, qui repose sur la distinction entre les besoins absolus et les besoins relatifs, est pourtant sans consistance, puisqu’il méconnait la nature socio-culturelle des besoins. Même Adam Smith savait que le développement du commerce n’était pas une nécessité pour couvrir les besoins absolus

    […]

    À l’opposé de Keynes, qui, faisant de la « résolution du problème économique » une finalité indiscutable, reporte dans un futur indéterminé la contestation de l’infamie des pratiques capitalistes, Orwell suggère qu’un art de vivre conforme à la common decency permettrait aux gens ordinaires d’affronter ce « problème » de façon autonome, en associant la norme du suffisant et un commerce avec la nature se tenant à égale distance de l’impuissance technique et de la volonté de puissance technoscientifique.

    […]

    Emporté par la perspective de l’abondance, Keynes est indifférent au « chômage technologique », pour lui un effet collatéral transitoire. Cette perspective lui permet également de taire les conditions du travail industriel, les conséquences culturelles et politiques de la division technique du travail (pourtant déjà analysées par Adam Smith, Tocqueville et Marx), de même que celles des perfectionnements du machinisme. La connaissance de ces conditions de travail, Orwell la déduit du partage concret de celles des mineurs de Wigan. Et le machinisme lui semble, plutôt que de les délivrer de la nécessité, rendre les humains dépendants de macro-systèmes technologiques (et de leurs concepteurs) et les réduire progressivement « à quelque chose qui tiendrait du cerveau dans un bocal ».

    Les réflexions d’Orwell prolongent les intuitions de Rousseau sur le machinisme :

    « Plus nos outils sont ingénieux, plus nos organes deviennent grossiers et maladroits ; à force de rassembler des machines autour de nous, nous n’en trouvons plus en nous-mêmes [des capacités]. »

    #économie #socialisme #capitalisme #Keynes #Orwell #George_Orwell #Aurélien_Berlan #Jacques_Luzi #autonomie

  • « 90 kg de pain sans subir la hausse des coûts de l’énergie » : pourquoi le modèle du four solaire se diffuse - Basta !
    https://basta.media/90-kg-de-pain-sans-subir-la-hausse-des-couts-de-l-energie-pourquoi-le-model

    Pour produire suffisamment de pain et rendre l’activité viable, Arnaud Crétot a doublé la surface de son four il y a trois ans, passant de 5 m2 à 11 m2 de miroirs. Aujourd’hui, la coopérative emploie quatre personnes. Le four est mis en route tous les jours de soleil de la semaine pour cuire le pain ou des graines. Et il est visité par des scolaires, des associations, des entreprises et des porteurs de projet en formation. Près de 150 artisans y ont été formés depuis 2021.

    L’alternative de NeoLoco consiste à s’adapter à l’énergie intermittente qu’est le soleil. Puisque celui-ci ne brille en moyenne que 40 % du temps en Normandie, il faut utiliser ces moments en priorité pour la cuisson. « Il suffit de transformer le modèle économique en pensant l’organisation du travail en fonction d’une énergie qui ne peut pas être utilisée en continu détaille le boulanger ingénieur. Pour les produits périssables, comme le pain, il faut remettre à plat les savoir-faire et maximiser la production à chaque étape : utiliser une farine au levain, qui permet une plus longue conservation du pain, varier les temps de levée et de cuisson en fonction de l’ensoleillement disponible, précommander les pains à l’avance pour ne cuire que ce dont on aura besoin et livrer le jour prévu… »

    Et si vraiment le soleil ne se lève pas, on cuit au feu de bois ! « Avec ce système, on arrive à produire 90 kg de pain en une journée sans avoir à subir la hausse des coûts de l’énergie et donc à augmenter nos coûts auprès de nos clients », indique le boulanger.

    #électricité #autonomie #coopérative

  • UPEC en faillite : quel avenir pour une université en banlieue ?
    https://academia.hypotheses.org/52073

    Academia est alertée depuis plusieurs mois sur la situation désastreuse de l’UPEC, qui, de grande université de banlieue, pluridisciplinaire et reconnue, est en passe de devenir un symbole particulièrement spectaculaire de l’écroulement du service public universitaire, sous les coups conjugués … Continuer la lecture →

  • Entretien avec douze vétéran·es : « L’UTCL, un ouvriérisme à visage humain ! »
    https://www.unioncommunistelibertaire.org/?Entretien-avec-douze-veteran-es-L-UTCL-un-ouvrierisme-a-

    Entretien avec douze vétéran·es : « L’UTCL, un ouvriérisme à visage humain ! »
    26 septembre 2023 par Redac-web-01 / 83 vues

    Les locaux d’AL à Paris 19e, une après-midi devant soi, un buffet campagnard, et le plaisir de retrouver quelques camarades qu’on n’a parfois plus vu depuis plusieurs années… Le 18 septembre 2005, douze anciennes et anciens prenaient part à un entretien croisé sur l’histoire de l’Union des travailleurs communistes libertaires. Dans une ambiance décontractée, sans esquiver les questions dérangeantes, les participants ont offert une image nuancée de ce qu’avait été leur organisation.

    Une explication de l’histoire quelque peu auto-centrée mais le travers est inévitable dans ce genre d’évocation. Pour autant, il n’y a aucune raison d’ignorer le rôle des « minorités agissantes » - avec tout ce que ce terme peut receler d’ambiguïté et de dérives - dans le déroulement des luttes sociales. Un des écueils du militantisme étant, qu’au nom de l’action, l’objectif de « l’auto-organisation dans la lutte », parte dans les limbes, happé par la routine quotidienne militante - notamment syndicaliste - dont le rythme fondamental est imposé par les institutions capitalistes. L’organisation spécifique serait alors précisément le moyen d’échapper à ce travers ? Peut-être. On appréciera d’autant plus l’humilité et la sincérité des militant.es de l’UTCL quand iels évoquent nombre d’erreurs et de dévoiements contre lesquels l’orga n’a été d’aucun recours.

    De mon point de vue, ce long témoignage mérite surtout d’être lu pour les problématiques - dont un certaines sont toujours d’actualité - ayant traversé le mouvement social et sa composante, dite révolutionnaire, et, en particulier, libertaire, depuis une cinquantaine d’année.

  • Unser Abschiedsbrief - Wir stellen die elinor Plattform ein
    https://elinor.network/de/posts/abschiedsbrief

    Ces jeunes gens sympatiques ont travaillé pendant six an pour l’idée de la création d’une plateforme collective et démocratique de financement d’initiatives citoyennes naissantes. Son grand succès est à l’origine de la mort du projet.

    On nous fait comprendre que toutes les administrations de l’état se réuniront et nous menaceront comme le ferait n’importe quelle mafia si nous risquons d’avoir du succès avec nos tentatives de démocratisation.

    Pourtant les gens à l’origine du projet ont respecté toutes les lois. Ils ont obtenu l’aval de la BAFIN et ils travaillaient en étroite collaboration avec la banque GLS qui les protégeait contre les risques d’abus par les professionnels du blanchiment d’argent.

    Le constat est atterrant : il n’y aura jamais de gestion démocratique du financement de nos activités tant que l’état allemand existera dans sa forme présente. Nous aurons toujours besoin pour agir de personnages bizarres comme Parvus ou de mécènes et philantropes .

    Un collectif ? Il semble qu’il n’y ait rien que l"état bougeois craigne plus que nos forces réunies hors de sa tutelle.

    1. September 2023 von elinor Team - Diese Entscheidung ist uns alles andere als leichtgefallen. Wir sind für eine zivilgesellschaftliche Infrastruktur zur gemeinschaftlichen Geldverwaltung angetreten, weil wir wissen, dass ihr und viele andere Gruppen für eure Aktivitäten genau eine solche Lösung braucht. Aber in den letzten Monaten haben sich immer mehr öffentliche Stellen dagegen positioniert. Darum müssen wir mit schwerem Herzen die elinor Plattform einstellen.

    Wir haben gehofft, diesen Text niemals schreiben zu müssen. Dass diese Entscheidung eure Projekte, eure Aktivitäten und euer Engagement ausbremst, tut uns besonders leid. Das Angebot von elinor war aber so ungewöhnlich, dass unsere Arbeit in den letzten Monaten von Auseinandersetzungen mit einer ganzen Reihe von öffentlichen Stellen geprägt war. Das hat unsere Handlungsfähigkeit erstickt. Als Start-up konnten wir das nicht länger durchhalten. Darüber sind wir außerordentlich traurig. Trotzdem wollen wir an dieser Stelle auch auf eine sehr spannende und erfahrungsreiche Zeit zurückschauen, für die wir von Herzen dankbar sind.

    Alles fing 2018 an, mit Lukas Kunert, Ruben Rögels, Falk Zientz und der Finanz-Mathematikerin Daria Urman. Sie gründeten elinor zur peer-to-peer Absicherung als solidarische Alternative zu Versicherungen. Doch die Nachfrage entwickelte sich anders, als erwartet: Die Fridays for Future Aktivist*innen haben 2019 die Plattform positiv zweckentfremdet, um gemeinschaftlich ihre Gelder zu verwalten. Schlagartig wurde uns klar, dass genau solche Gruppenkonten einen echten Bedarf decken könnten. Tatsächlich kamen schnell weitere Gruppen hinzu, die über elinor gemeinsame Projekte und Ideen realisierten. Darum bündelten wir unsere Ressourcen für ein Relaunch, so dass die elinor Plattform ab 2021 auf Gruppenkonten spezialisiert war. Über die Umsetzung im deutschen Rechtsrahmen waren wir von Anfang an mit der Bankenaufsicht (BaFin) im Austausch. Nach eingehender Prüfung stimmte uns diese in allen Punkten zu. Damit hatten wir das erste digitale Gruppenkonto für Projekte und Initiativen in Deutschland geschaffen! Mit viel Leidenschaft entwickelten wir elinor weiter. Unsere Community ist gewachsen, genauso wie unser Team, und wir durften immer wieder eure Dankbarkeit spüren, weil wir es geschafft haben, für Initiativen wie euch eine große Hürde abzubauen.
    Es war sehr bereichernd und motivierend zu sehen, wie viele Menschen sich zu Gemeinschaften zusammenschließen, um Projekte umzusetzen, aktiv an unserer Gesellschaft mitzuwirken und einen Wandel anzustoßen. Dabei langen uns auch besonders die kleinen zarten und sich noch im werden befindenden Initiativen besonders am Herzen, denn gerade sie brauchen ein förderndes und ermöglichendes Umfeld.

    Zwischendurch haben wir eigene Initiativen gestartet, teilweise mit großer öffentlicher Aufmerksamkeit: Am ersten Tag des Lockdowns im März 2020 riefen wir die #KunstNothilfe ins Leben, um betroffene Kunst- und Kulturschaffende zu unterstützen. Mehr als 500 Menschen machten ad hoc mit, lange bevor die öffentliche Hand darüber nachdachte. 2022 starteten wir am ersten Tag des russischen Angriffs auf die Ukraine ohne zu zögern das Projekt #Unterkunft Ukraine, eine digitale Bettenbörse für ukrainische Geflüchtete. Daraus wurde die bislang größte zivilgesellschaftliche Initiative dieser Art. Beide Initiativen lösten eine riesige öffentliche Resonanz aus und brachten damit auch weitere Aufmerksamkeit für die Gruppenkonten. Solche Projekte stellten unser kleines Team vor großen Herausforderungen, doch sie zeigten gleichzeitig, wie wertvoll eine solche agile Plattform gerade in Krisensituationen sein kann. Durch Kooperationen mit Ministerien und Berichten auf den besten Sendeplätzen sahen wir das bestätigt.

    Ihr könnt euch bestimmt vorstellen, wie sehr es uns nun trifft, dass wir unsere Ermöglichungsplattform nicht mehr zur Verfügung stellen können. Für uns ist es nicht nur eine Firma, die wir aufgeben müssen, sondern auch unsere Ideen, unsere Wünsche für Gemeinschaften und Gruppen, ein wunderbares Team und eine große Portion Idealismus dahinter.
    Wir sind besonders traurig darüber, dass unsere Idee an vielen Stellen befürwortet wird, wir jedoch wegen eng ausgelegten Regularien und politischem Druck keine Möglichkeit mehr haben, unseren Betrieb aufrecht erhalten zu können.

    Darum ist es für uns Zeit, tschüss zu sagen. Unser großes Herzensthema bleibt weiterhin, Gemeinschaft zu leben und dafür passende Formen zu entwickeln. Scheitern gehört immer wieder dazu und kann Entwicklung und Solidarität auslösen. In diesem Sinne danken wir allen, die uns an unterschiedlichen Ecken und Enden unterstützt und mit uns mitgefiebert haben. Mit euch haben wir erlebt, was gemeinschaftlich möglich ist. Lasst uns das weitertragen.

    Euer elinor Team

    Chiara, Bonina, Ruben, Calvin, Guida, Richard, Anne, Falk und Lukas

    Wir brauchen eure Solidarität!

    elinor muss seine Arbeit einstellen. Das geht nicht ohne Aufwand, vor allem für Rechtskosten, Jahresabschlüsse und die letzten Gehälter. Hier könnt ihr euch daran solidarisch beteiligen:

    Kontoinhaber: elinor Treuhand e.V.
    IBAN: DE37430609677918887704
    BIC: GENODEM1GLS

    Vielen Dank!

    #Allemagne #finances #répression #autonomie

  • La Frontière - des outils qui rendent libres | La Frontière - outils manuels agricoles pour l’autonomie
    https://www.la-frontiere.fr
    Et la boutique
    https://stock.la-frontiere.fr

    Des haches, des houes, des faulx, des faucilles ! Tout ça fabriqué en Europe, essentiellement forgé en Italie, et préparé et aiguisé (si demandé) en Dordogne.

    J’ai pris une houe-pioche polyalente car j’ai un horrible sol argileux et pierreux, et une faucille simple pour « tondre » à la main une petite surface.

    Trouvé chez @tranbert :)

    https://www.youtube.com/watch?v=kr1fAjfKfZI

    #autonomie #agriculture #forge #outils

    • Lors de la dernière audition, à court de nouvelles déductions, Z. avait finit par me questionner à propos d’un billet de France Culture sur la dissolution des Soulèvements de la Terre, écouté le matin même dans sa voiture. Il me précise que l’éditorialiste Jean Leymarie y critique la dissolution mais interroge la « radicalisation du mouvement » : « Leymarie cite le philosophe Pascal et son adage - la justice sans la force est impuissante mais la force sans la justice est tyrannique ? Continuerez vous malgré votre mesure de garde à vue à légitimer l’usage de la violence ? N’avez vous pas peur que votre mouvement devienne tyrannique ? Allez vous vous ranger du côté de la justice ? »

      Ce qui est bien quand on est seul à faire les questions et à savoir que les réponses ne viendront pas, c’est que l’on a toujours la possibilité de se les poser à soi-même et à son corps de métier. Une semaine après nos sorties de garde à vue, des policiers tuaient une fois de plus dans la rue un adolescent des quartiers populaires, provoquant le soulèvement politique le plus fracassant qu’ait connu ce pays depuis les Gilets Jaunes, avant d’envoyer des centaines de nouvelles personnes en prison. Alors que la conséquence que les policiers en tirent quant à eux est de revendiquer aujourd’hui, avec l’appui du ministère de l’Intérieur, un statut d’exception à même de les faire échapper à la loi, la question de ce que devient la force sans la justice est tragiquement d’actualité.

    • Quand je suis emmené pour la dernière fois dans son bureau pour l’audition finale, il ne nous cache cette fois pas sa forte déception et l’étonnement des enquêteurs de ne pas avoir été suivis par la juge. L’un deux soufflera d’ailleurs à une autre personne que celle-ci est « à moitié en burn out ». Lui confirme en tout cas qu’elle a estimé que « les conditions de sérénité des débats n’étaient pas réunies ». On peut imaginer, au-delà de toute autres considérations guidant cette décision, que la juge doit à minima répugner à ce que son indépendance soit publiquement mise en débat et à ce que le doute continue à se distiller sur son instrumentalisation au profit d’une urgence gouvernementale à mettre fin aux Soulèvements de la Terre. D’autant que depuis l’affaire Tarnac, les juges d’instruction savent bien que la fragnolite peut toujours les attendre au tournant, et depuis Bure que les associations de malfaiteurs trop enflées politiquement peuvent finir en relaxe.

    • Le capitaine nous affirme d’ailleurs que justement la SDAT « cherche aujourd’hui de nouveaux débouchés » du côté de l’« écologie » et « des violences extrêmes ».

      [...]

      Z. dira à plusieurs reprises que la seule raison pour laquelle la SDAT a pu « lever le doigt » pour être chargée de l’affaire était les « tentatives d’incendies sur des véhicules de l’usine », et que « sans le feu » tout ceci serait sans doute resté dans une catégorie de délit inférieur sans bénéficier de leur attention

      [...]

      Au long des 4 jours, on constate que Z. oscille quant à lui maladroitement entre une surqualification des faits incriminés seule à même de justifier que les moyens de la SDAT soit employée dans cette affaire, et une posture opposée visant à déjouer les critiques sur l’emploi des moyens de l’anti-terrorisme à l’encontre d’actions écologistes qui peuvent difficilement être qualifiée comme telles. Il estime d’un côté que notre mise en cause de l’emploi de la SDAT dans la presse est déplacée puisque la qualification « terroriste » n’est pas retenue dans le classement de cette affaire et que la SDAT agirait ici comme un « simple corps de police ». Mais il nous exposera par ailleurs dans le détail comment seuls les moyens exceptionnels de l’anti-terrorisme ont pu permettre de mener une telle enquête et que « nul autre qu’eux » aurait été capable de fournir ce travail.

      Il faut dire que la taille du dossier d’instruction encore incomplet est de 14 000 pages, ce qui représente à ce que l’on en comprend six mois de plein emploi pour un nombre significatif de policiers, et donne une idée du sens des priorités dans l’exercice de la justice dans ce pays. A sa lecture ultérieure et en y explorant dans le détail l’amplitude des moyens qu’ont jugé bon de déployer les enquêteurs pour venir à la rescousse de Lafarge, les mis en examen constateront qu’ils avaient effectivement carte blanche. L’officier concède d’ailleurs à mon avocat que la police est, ces dernières années, une des institutions les mieux dotées financièrement du pays, et admet que leurs syndicats font quand même bien du cinéma. En l’occurrence cette manne a été mise au service de ce qui paraît être devenu ces derniers mois deux impératifs catégoriques pour le gouvernement français et les entreprises qui comptent sur sa loyauté à leur égard. En premier lieu produire une secousse répressive suffisante pour décourager toute velléité de reproduction d’un telle intrusion. Il doit demeurer absolument inconcevable que la population fasse le nécessaire et mette elle-même à l’arrêt les infrastructures qui ravagent ses milieux de vie. En second lieu, étendre encore le travail de surveillance et de fichage déjà à l’œuvre sur un ensemble de cercles jugés suspects en s’appuyant sur les moyens débridés offerts par l’enquête.

    • Il veux savoir si j’ai lu les brochures visant à attaquer les #Soulèvements_de_la_Terre, de ceux qu’il qualifie d’« #anarchistes individualistes ». Les accusations portées à notre égard y sont selon lui fort instructives et mettent en cause les faits et gestes de certaines personnes d’une manière qui s’avère sans doute pertinente pour l’enquête. C’est notamment à partir de ces fables intégralement versées au dossier que la SDAT justifie certaines des #arrestations, et fonde une partie de la structure incriminante de son récit sur ces « cadres des Soulèvements » qui resteraient « au chaud » en envoyant d’autres personnes au charbon. Ce sont d’ailleurs ces mêmes pamphlets, publiées sur certains sites militants, que le ministère de l’Intérieur reprend avec application pour fournir des « preuves » de l’existence et de l’identité de certains soit-disant « #dirigeants », et alimenter, dans son argumentaire sur la dissolution, l’idée d’un mouvement « en réalité vertical ». Z. est en même temps « bien conscient », dit-il, que ces écrits, sont « probablement l’expression de « guerres de chapelles », comme ils peuvent en avoir eux-même de services à service ». Cela ne l’empêche pas de proposer à une autre personne, arrêtée lors de la première vague, de prendre le temps de les lire pendant sa garde à vue « pour réaliser à quel point » elle se serait fait « manipuler ».

      #récit #autonomie #surveillance #police_politique #SDAT (héritage du PS années 80) #arrestations #interrogatoires #SLT #écologie #sabotage #anti_terrorisme #Lafarge #Béton

    • Lafarge, Daesh et la DGSE
      La raison d’Etat dans le chaos syrien

      https://lundi.am/Lafarge-Daesh-et-la-DGSE

      Ce mardi 19 septembre se tenait une audience devant la cour de cassation concernant l’affaire Lafarge en Syrie dans laquelle le cimentier et ses dirigeants sont soupçonnés de financement du terrorisme. Alors que le terme terrorisme plane frauduleusement autour du désarmement de l’usine de Bouc-bel-Air, voilà l’occasion d’une petite mise en perspective.

      #lafarge #daesh #dgse #syrie

  • Quelques heures avec un participant à l’Atelier Paysan, éleveur agriculteur paysan boulanger, et qui construit des trucs low tech en partant dans tous les sens (moutons, chèvres, maraichage, céréales, boulangerie, poules, canards, verger, agrumes, toutes les constructions, parabole solaire, four à pain, biogaz, réacteur Jean Pain amélioré…)

    Il a construit une MAISON SOUS SERRE en TERRE PAILLE pour moins de 15000 EUROS en AUTONOMIE - YouTube
    https://www.youtube.com/watch?v=Dx2Ctthz63A

    Son livre sur le biogaz
    https://www.terran.fr/produit/47/9782359810493/le-biogaz

    Livre sur la maison à 15000€ à venir.

    #agriculture #élevage #paysan #low_tech #autonomie #énergie

    • Oui il est assez fou fou hyper actif sympathique pas dogmatique. Ça donne envie de s’y mettre.

      Après en vrai, sur le temps de travail réel je pense qu’il sous estime pas mal, ou alors lui et ses copains sur son chantiers sont tous très « efficaces ! ».

    • Je pense que ça doit correspondre pour des gens qui s’y connaissent déjà pas mal. Mais du coup ça donne quand même le temps si c’était une technique reconnue officiellement par l’État et qu’elle pouvait donc être « industrialisée », et faite par des pros, pas que en autoconstruction. Si des pros pouvaient vendre ça, en une semaine t’aurais une maison complète, posée, isolée, et avec presque pas d’emprise au sol. Après évidemment faut ajouter la plomberie et l’électricité, qui prennent quand même un moment (quoi que pour des pros ça peut aller vite aussi SI les plans sont bien faits d’avance).

    • @rastapopoulos
      donc si je comprends bien, ce qui empêche la possibilité que des pros vendent ce genre de service c’est toutes les normes et lois en vigueur (française en l’occurrence).

      Qu’est ce qu’on a comme autres références sur ces différentes façons de construire et habiter - et sur ce qui l’interdit ? Notamment roulotte, yourte, cabane, etc...

    • Il y a le code de l’urbanisme et les PLU (plans locaux d’urbanisme à la discrétion des maires) qui rajoutent une couche de complexité à la chose.

      Quelques liens concernant les habitations légères de loisir (HLL) et les résidences mobiles de loisir (RML)
      (À remarquer que ces structures légères sont toujours considérées comme appartenant au domaine du loisir alors que pour certaines personnes - de plus en plus nombreuses au demeurant, ces habitations constituent une nécessité économique)

      https://blog.urbassist.fr/installer-un-mobil-home-sur-terrain-prive

      https://droitsurterrain.com/terrains-loisirs-zone-naturelle

      https://droitsurterrain.com/chalets-mobilhomes-et-autorisations

      https://fabriquersayourte.fr/reglementation-yourte

      Maintenant, la construction décrite (et bien documentée) dont parle la vidéo n’entre pas dans ces catégories. Pas d’autre choix que de s’attaquer à la lecture du code de l’urbanisme.
      https://www.legifrance.gouv.fr/codes/texte_lc/LEGITEXT000006074075

    • Ici, c’est sans guère de doute l’activité agricole qui ouvre à des souplesses quant à la possibilité de construire sans avoir à faire mine d’être mobile pour respecter la loi. cheval de Troie : je connais des cas où pour en jouir, des gens préparent des diplômes agricoles afin d’acquérir du #foncier à prix raisonnable, et prétendent vouloir cultiver (pour la vente, comme le stipule la loi...) tel ou tel machin, éventuellement pas trop contraignant (herboristerie par ex.), afin de disposer d’un habitat populaire hors acheloume et taudis. c’est du taf (formation, administration, dossier de projet, emprunt, construction, aménagement) de castors 2.0, pas ceux qui font « barrage » dans les urnes, ceux prennent le monde tel qu’ils l’ont trouvé.

      edit : rien ne prouve que ce gars dispose d’un permis de construire autre chose qu’un bâtiment agricole (y mettre la maison serait alors aussi une belle embrouille à l’encontre des norme). la reconnaissance « officielle » ("taf avec des institutions" sur les expérimentations biomasse) et tacite (il bosse, il produit, et même il vend) est aussi à construire. là-aussi, j’ai vu de cas où il a fallut d’abord démontrer deux ou trois ans de taf sur place pour limiter le risque d’embrouille légale sur la pérennisation dun habitat. toute personne du coin doit reconnaître une légitimité à ce qui a lieu, sous peine de poukaveries et d’attitude hostile de la commune. c’est long. et tout compte fait cela exige comme il se doit beaucoup de ressources, de singularité et de coopération, que de pallier le manque d’argent et de contourner la loi en limitant les risques.
      #habiter_le_monde #technocratie #logement

    • C’est très sympa à écouter, avec l’esprit autoconstructeur qui ne s’embarrasse pas des détails, très pertinent.

      Même si c’est contradictoire avec le fait de vouloir une toiture plate et en plus végétale, pour le coup ce sont des complications inutiles qui rendent le résultat peu robuste dans le temps. Tout ce qui est enduit terre sur les murs prend un temps extraordinairement long si c’est fait à la main (quand il cite une durée d’une semaine à plusieurs, ça me paraît pas possible, ou alors c’est projeté avec une machine).
      La quantité de terre mise en toiture est assez folle (mais nécessaire pour avoir un confort d’été comme la maison est sous une serre).
      Globalement toute la technique repose sur des engins de levage, il faut être à l’aise avec si jamais on en loue pour le faire soi-même, il faut avoir de la place pour tourner autour avec.
      Bref, le résultat est bizarre, car finalement c’est assez sophistiqué par rapport à des constructions bois plus classiques réalisables avec des éléments manuportables.

  • Soutien à des maraîchers à #Nyons, où leur habitat est menacé par les autorités
    https://ricochets.cc/Soutien-a-des-maraichers-a-Nyons-ou-leur-habitat-est-menace-par-les-autori

    Tout près de Nyons, à Les Pilles, un coupe de maraîchers bio résiste pour pouvoir poursuivre leur activité. Un événement de soutien est prévu le 09 septembre. << Depuis nous mettons toutes nos forces à exploiter cette terre dans le plus strict respect de la nature : serres non chauffées, utilisation exclusive de traitements confectionnés à base de plantes, arrêt de l’utilisation du tracteur, plantation de haies… dans le but de recréer un sol vivant et de favoriser la biodiversité. Pour ce faire (...) #Les_Articles

    / Nyons, #Agriculture, #Autonomie_et_autogestion, #Ecologie

    https://ricochets.cc/IMG/distant/html/watchvFxhJmN552e-86cee9c.html

  • Così la fine del #reddito_di_cittadinanza colpisce le donne vittime di violenza

    Secondo l’Istat il 38% delle donne inserite in un percorso di uscita dalla violenza ha subìto anche violenza economica e il 60% non ha autonomia finanziaria. Molte di loro per ricominciare avevano fatto ricorso al Rdc: adesso non ne usufruiranno più. I percorsi protetti sono rischio ed è possibile che tornino dal partner maltrattante

    Quando ha lasciato il marito che la picchiava, Alessia aveva sei figli da mantenere. Lavorava ma ha scelto di licenziarsi per mettersi in sicurezza. Arrivare a fine mese era difficile, soprattutto in una città costosa come Roma. Così è finita in una casa rifugio per donne vittime di violenza. Ha fatto domanda per ricevere il reddito di cittadinanza, che dopo qualche mese le è stato riconosciuto: insieme agli assegni familiari, arrivava a prendere circa 1.600 euro al mese. Con i soldi messi da parte, Alessia (il nome è di fantasia, come gli altri di questo articolo) si è poi trasferita con i figli in un piccolo paese nel Sud Italia: ha trovato un nuovo lavoro, e questo le ha permesso di ricominciare.

    Dal primo gennaio 2024 il reddito di cittadinanza verrà definitivamente sospeso, e questo rischia di compromettere i percorsi di uscita dalla violenza di molte donne. “Grazie al reddito di cittadinanza molte donne hanno lasciato il maltrattante e hanno trovato il coraggio di iniziare una nuova vita”, spiega Federica Scrollini, operatrice del centro antiviolenza BeFree di Roma. “Quel sostegno economico è stato volàno per la ricerca di una nuova autonomia che comprende casa, lavoro, cura di stesse e dei figli. Senza questa base di partenza, molti percorsi di fuoriuscita dalla violenza non vedranno la luce. D’altronde, con un mercato del lavoro in asfissia, i servizi sociali ridotti dall’osso e l’ennesima crisi economica alle porte, dove possiamo andare senza soldi?”.

    Secondo l’Istat il 38% delle donne inserite in un percorso di uscita dalla violenza ha subìto anche violenza economica. Il 60% non ha autonomia finanziaria, quota che sale al 69% se si considera la fascia tra i 18 e i 29 anni. Alcune di loro per ricominciare hanno fatto ricorso al reddito di cittadinanza, che da gennaio 2024 sarà sostituito dall’assegno di inclusione, concesso a tutte le famiglie con un minore, una persona con disabilità o con più di 60 anni, oppure con componenti svantaggiati inseriti in programmi di cura e assistenza certificati dalla pubblica amministrazione. L’importo è fino a 6mila euro l’anno, 500 al mese, più un contributo affitto di 3.360 euro l’anno, 280 al mese: il totale è di un massimo di 780 euro al mese, l’equivalente del reddito di cittadinanza. La misura prevede alcune agevolazioni per le donne vittime di violenza: nel conteggio dell’Isee, le donne potranno costituire nucleo familiare indipendente da quello del marito, e non avranno l’obbligo di partecipare percorsi di inclusione lavorativa, né di accettare le proposte di lavoro eventualmente offerte. “Il problema è che l’assegno esclude di fatto le donne che non hanno figli a carico, anche se si trovano in una situazione di difficoltà economica”, denuncia l’organizzazione ActionAid.

    Per le donne che non hanno figli, dal primo settembre c’è la possibilità di richiedere il supporto per la formazione e lavoro, pensato per le famiglie con una persona in grado di lavorare (i cosiddetti “occupabili”). Questo sussidio però è molto più ridotto -350 euro al mese- ed è vincolato alla partecipazione a progetti di formazione e di accompagnamento al lavoro individuati dal governo. Il limite massimo di Isee per ottenerlo, inoltre, è stato abbassato a 6mila euro, molto meno rispetto ai 9.360 euro del reddito di cittadinanza: gli “occupabili” che si trovano nella fascia intermedia restano senza aiuti. ActionAid ha lanciato quindi una petizione per chiedere al governo di garantire reddito, lavoro e autonomia abitativa affinché le donne non ricadano nella violenza.

    “Nei nostri servizi ci sono diverse donne che ancora ricevono il reddito di cittadinanza”, afferma Simona Lanzoni, vicepresidente della fondazione Pangea e coordinatrice della rete nazionale antiviolenza Reama, che ha aperto lo sportello Mia Economia sulla violenza economica. “Da gennaio rischiano di perdere quella sicurezza economica: ancora non sappiamo che cosa succederà. Comunque il reddito di cittadinanza non era una misura risolutiva: è utile in una fase iniziale, ma poi oltre quello che cosa c’è? In Italia mancano i sostegni al lavoro”.

    Lo sa bene Mara, brasiliana, arrivata in Italia da giovane. Per molti anni è stata vittima di violenza in ambito familiare, e ha anche subìto un abuso sessuale. Poi c’è stata la denuncia alla polizia: quando è arrivata in casa rifugio, aveva quasi cinquant’anni e non aveva niente in mano. Sono state le operatrici ad aiutarla a fare domanda per il reddito di cittadinanza: percepiva circa 700 euro al mese, e così si è sentita pronta a intraprendere un tirocinio, che da solo non le avrebbe garantito un guadagno sufficiente a sopravvivere. Dalla casa rifugio è passata alla casa di semi-autonomia: il tirocinio si è trasformato in un’assunzione, anche se a tempo determinato. Il contratto però le viene rinnovato di mese in mese, e il compenso non è sufficiente a pagare un affitto. Così Mara sta pensando di tornare in Brasile.

    Un altro strumento pensato per aiutare le donne che escono da una situazione di violenza e si trovano in condizione di povertà è il reddito di libertà: istituito nel 2020, consiste in un contributo economico di 400 euro al mese per un massimo di dodici mesi. Per il periodo tra il 2020 e il 2022 la misura è stata finanziata con 12 milioni di euro, a cui si aggiungono 1,8 milioni per il 2023: in tutto ne hanno potuto beneficiare meno di 3mila donne, un numero molto ridotto se si considera che secondo l’Istat ogni anno sarebbero circa 21mila le persone che avrebbero i requisiti per accedervi. In più non sono state adottate linee guida nazionali per valutare lo stato di bisogno delle richiedenti e oggi vige il principio del “chi prima arriva meglio alloggia”: le donne possono fare domanda e risultare idonee, ma una volta finiti i fondi non otterranno comunque il contributo.

    “Abbiamo molte donne che aspettano di ricevere il reddito di libertà”, spiega Mariangela Zanni, presidente del Centro Veneto Progetti Donna e consigliera dell’associazione nazionale Donne in rete contro la violenza(D.i.Re), che in Italia raccoglie più di cento centri antiviolenza e più di 50 case rifugio. “Si tratta di una misura importante, ma i finanziamenti sono pochi e le liste di attesa sono lunghe”.

    La violenza economica continua così ad essere uno dei principali strumenti di controllo sulla donna da parte del maltrattante. “La privazione del salario, l’impedimento di lavorare, l’obbligo a prendersi cura da sole dei figli, impedisce a molte donne che subiscono violenza di avere un’autonomia economica”, conclude Anita Lombardi, operatrice dello sportello di orientamento al lavoro del centro antiviolenza Casa delle donne di Bologna. “Per questo tutti gli strumenti che danno un sostegno economico, a partire dal reddito di cittadinanza fino al reddito di libertà, sono importanti affinché venga assicurato a queste donne il diritto a progettare la propria vita in libertà e autonomia”.

    https://altreconomia.it/cosi-la-fine-del-reddito-di-cittadinanza-colpisce-le-donne-vittime-di-v

    #revenu_de_Base #rdb #revenu_universel #Italie #femmes #violence_domestique #VSS #violences_sexuelles #violence_économique #autonomie_financière #autonomie #reddito_di_libertà

  • L’impossible autogestion du système industriel
    https://ricochets.cc/L-impossible-autogestion-du-systeme-industriel.html

    Une partie de la gauche pense encore qu’il suffirait de virer patrons et actionnaires, et d’autogérer le système industriel de production inchangé, pour que tout s’arrange. Rien n’est moins vrai, y compris sur le plan social - les règles capitalistes imposent leurs modalités d’exploitation quels que soient les gestionnaires aux manettes des entreprises. D’autres ont raison de dire qu’en sortant vraiment du capitalisme (en finir avec le capital, la concurrence, la valeur, l’emploi capitaliste, voir la (...) #Les_Articles

    / #Résistances_au_capitalisme_et_à_la_civilisation_industrielle, #Autonomie_et_autogestion, Le monde de (...)

    #Le_monde_de_L'Economie
    https://antitechresistance.org/demolir-mythe-autogestion-industrie
    https://mouais.org/hydrogene-le-nouveau-colonialisme-vert-en-afrique-du-nord

  • Cédric de Queiros, Réflexions sur une épidémie, 2020 – Et vous n’avez encore rien vu…
    https://sniadecki.wordpress.com/2023/08/18/queiros-epidemie

    Un texte fort honnête, ne faisant pas l’impasse sur le fait que c’est pas pendant une grosse crise en plein milieu qu’on peut tout d’un coup retrouver plein d’autonomie. Car durant des crises de cette ampleur là, il est relativement difficile de se passer des moyens industriels et/ou étatiques pour « calmer », diminuer (mais certainement pas résoudre vraiment) les problèmes.

    Enfin la liquidation des services publics, et en particulier la dégradation des systèmes de santé, induites par les politiques néolibérales (dans les pays industrialisés où ces systèmes de santé existent) joue aussi un rôle décisif dans la mortalité de la maladie. On sait par exemple qu’il y a un lien direct entre le nombre de lits disponibles en réanimation dans un pays et le nombre de morts que va y faire l’épidémie. C’est l’aspect le plus visible et le plus commenté dans les médias du lien entre l’épidémie et l’état de notre société ; cet aspect est évidemment réel mais ne doit pas faire oublier les liens plus profonds évoqués ci-dessus : il s’agit dans un cas du traitement de la crise, et dans l’autre de ces causes et de sa prévention.

    […]

    On voit ici, une fois de plus, que si les productions de notre époque sont catastrophiques, ce n’est pas nécessairement parce que des choses absolument nouvelles adviennent, mais aussi parce qu’elles adviennent à une échelle et à un rythme qui sont eux tout-à-fait inédits.

    […]

    Ces mesures sont à l’image de notre société : inégalitaires et injustes, autoritaires et infantilisantes, et souvent arbitraires voire irrationnelles. Elles sont une opportunité rêvée pour les gouvernants d’accélérer les transformations de la société auxquels ils aspirent (numérisation, état d’urgence permanent) qui, toutes, vont dans le sens d’une perte toujours aggravée de liberté. Mais il n’y a à peu près personne pour remettre en cause le principe de ces mesures ; tout simplement parce que personne n’a rien de mieux à proposer pour faire face à cette crise, étant donné la situation dans laquelle se trouve notre société. Aussi mauvaises et horribles que soient ces mesures de confinement autoritaire, elles ont probablement une certaine efficacité ; et si les États ne les avaient pas prises, la situation – en tout cas la propagation de l’épidémie – aurait sans doute été aggravée.

    Le texte publié dans le Creuse-citron n°62 devrait donc, pour correspondre à notre situation actuelle, être modifié comme suit : « Les gouvernements font partie du problème sanitaire et écologique en cours, mais si ils ne font pas partie de la solution, ils sont quand même les seuls à disposer d’un remède d’urgence, qui permettra au moins de limiter la casse… en attendant la prochaine fois. »

    Les gouvernements sont effectivement des pyromanes-pompiers, mais dans la situation d’urgence dans laquelle nous nous trouvons, avec la dépendance dans laquelle nous sommes tombés depuis si longtemps, il n’y a pas d’autre choix que de s’en remettre à ces pompiers-là, car ce sont les seuls disponibles.

    […]

    La situation de crise aiguë que nous vivons est un révélateur de notre situation ordinaire, avant la crise, et certainement après elle. La pandémie révèle l’ampleur de notre dépendance à l’État, à la médecine industrielle, aux moyens de communication de masse, à la grande distribution, aux marchandises produites dans des pays lointains, aux transports internationaux, etc. Et elle illustre cruellement la folie de cette dépendance. Nous avons les meilleures raisons – sensibles, morales, politiques, « écologiques », ou même esthétiques – de rejeter ces réalités aliénantes. Mais nous dépendons de chacune d’elles. Et bien évidemment cette dépendance ne date pas de la crise – mais la crise les aggrave, mortellement, et en somme, grotesquement. C’est ce que les auteurs de Catastrophisme, administration du désastre, et soumission durable (Jaime Semprun & René Riesel, éd. l’Encyclopédie des nuisances, 2008) appellent « l’incarcération dans le monde industriel ».

    […]

    Il est possible que le Covid-19 apparaisse après coup comme un épisode relativement mineur, au regard des événements plus graves (pandémies ou autre) qui lui succéderont inévitablement à plus ou moins brève échéance. Mais il aura illustré assez clairement que ce n’est pas pendant une crise que l’on peut arriver à construire plus d’autonomie et plus de liberté ; quand la crise est là, il est le plus souvent trop tard. Ceux qui se sont penchés sérieusement « au-dessus du gouffre nucléaire » nous l’avait déjà dit de longue date

    #covid #santé #crise #capitalisme #États #autonomie #anti-industriel