• Raniero Panzieri, Mario Tronti, Gaspare De Caro, Toni Negri (Turin, 1962)

      Conférence de Potere operaio à l’Université de Bologne en 1970.

      Manifestation de Potere operaio à Milan en 1972.

      Negri lors de son procès après la rafle du 7 avril 1979

      #Toni_Negri
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Toni_Negri

      Lénine au-delà de Lénine, Toni Negri (extrait de 33 Leçons sur Lénine), 1972-1973
      http://revueperiode.net/lenine-au-dela-de-lenine

      Domination et sabotage - Sur la méthode marxiste de transformation sociale, Antonio Negri (pdf), 1977
      https://entremonde.net/IMG/pdf/a6-03dominationsabotage-0-livre-high.pdf

      L’Anomalie sauvage d’Antonio Negri, Alexandre Matheron, 1983
      https://books.openedition.org/enseditions/29155?lang=fr

      Sur Mille Plateaux, Toni Negri, Revue Chimères n° 17, 1992
      https://www.persee.fr/doc/chime_0986-6035_1992_num_17_1_1846

      Les coordinations : une proposition de communisme, Toni Negri, 1994
      https://www.multitudes.net/les-coordinations-une-proposition

      Le contre-empire attaque, entretien avec Toni Negri, 2000
      https://vacarme.org/article28.html

      [#travail #multitude_de_singularités à 18mn] : Toni Negri, 2014
      https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/les-chemins-de-la-philosophie/actualite-philosophique-toni-negri-5100168

      à l’occasion de la parution du Hors-Série de Philosophie Magazine sur le thème, les philosophes et le #communisme.

      Socialisme = soviets + électricité, Toni Negri, 2017
      http://revueperiode.net/les-mots-dordre-de-lenine

      L’appropriation du capital fixe : une métaphore ?
      Antonio Negri, Multitudes 2018/1 (n° 70)
      https://www.cairn.info/revue-multitudes-2018-1-page-92.htm

      Domination et sabotage - Entretien avec Antonio Negri, 2019
      https://vacarme.org/article3253.html

    • Les nécros de Ration et de L’imMonde ont par convention une tonalité vaguement élogieuse mais elles sont parfaitement vides. Celle de l’Huma parait plus documentée mais elle est sous paywall...

      edit L’Huma c’est encore et toujours la vilaine bêtise stalinienne :

      Figure de prou de "l’opéraïsme" dans les années 1960, arrêté durant les années de plomb en Italie, penseur de la "multitude" dans les années 2000, le théoricien politique, spécialiste de la philosophie du droit et de Hegel, est mort à Paris à l’âge de 90 ans.
      Pierre Chaillan

      (...) Figure intellectuelle et politique, il a traversé tous les soubresauts de l’histoire de l’Italie moderne et restera une grande énigme au sein du mouvement communiste et ouvrier international . Né le 1er août 1933 dans l’Italie mussolinienne, d’un père communiste disparu à la suite de violences infligées par une brigade fasciste, Antonio Negri est d’abord militant de l’Action catholique avant d’adhérer en 1956 au Parti socialiste italien, qu’il quittera rapidement.

      Le théoricien, animateurs de “l’opéraïsme”

    • Un journaliste du Monde « Gauchologue et fafologue / Enseigne @sciencespo » diffuse sur X des extraits de l’abject "Camarade P38" du para-policier Fabrizio Calvi en prétendant que cette bouse « résume les critiques ».
      Mieux vaut se référer à EMPIRE ET SES PIÈGES - Toni Negri et la déconcertante trajectoire de l’opéraïsme italien, de Claudio Albertani https://infokiosques.net/spip.php?article541

    • #opéraïsme

      http://www.zones-subversives.com/l-op%C3%A9ra%C3%AFsme-dans-l-italie-des-ann%C3%A9es-1960

      Avant l’effervescence de l’Autonomie italienne, l’opéraïsme tente de renouveler la pensée marxiste pour réfléchir sur les luttes ouvrières. Ce mouvement politique et intellectuel se développe en Italie dans les années 1960. Il débouche vers une radicalisation du conflit social en 1968, et surtout en 1969 avec une grève ouvrière sauvage. Si le post-opéraïsme semble relativement connu en France, à travers la figure de Toni Negri et la revue Multitudes, l’opéraïsme historique demeure largement méconnu.

      Mario Tronti revient sur l’aventure de l’opéraïsme, à laquelle il a activement participé. Son livre articule exigence théorique et témoignage vivant. Il décrit ce mouvement comme une « expérience de pensée - d’un cercle de personnes liées entre elles indissolublement par un lien particulier d’amitié politique ». La conflictualité sociale et la radicalisation des luttes ouvrières doit alors permettre d’abattre le capitalisme.

    • IL SECOLO BREVE DI TONI NEGRI, Ago 17, 2023,
      di ROBERTO CICCARELLI.

      http://www.euronomade.info/?p=15660

      Toni Negri hai compiuto novant’anni. Come vivi oggi il tuo tempo?

      Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non c’erano l’assistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. L’ultima volta che l’ho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo è anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa età sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. È come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto è la vita, probabilmente. È una delle sue grandi virtù.

      Novant’anni sono un secolo breve.

      Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. C’è il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. C’è stato il secolo americano che però è stato molto più breve. È durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo è iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed è continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.

      Questo secolo breve è terminato con una sconfitta colossale.

      È vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata l’epoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di più falso, come vediamo ogni giorno da più di trent’anni. Siamo in un’età di transizione, ma in realtà lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali c’è una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di più con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertà di movimento, o ecologiste.

      Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dell’operaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dall’impetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual è stato il momento politico culminante di questa storia?

      Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme all’intero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche l’aria, l’acqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare l’abbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.

      Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?

      Perché è mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, c’è stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, c’è stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare l’importanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. È stata una tragedia. Qui che appare la continuità del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. C’è stata una volontà della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.

      E che cosa possedeva quella sinistra?

      Un’immagine potente ma già allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dell’operaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro né distruggere il pianeta. In fondo è quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro l’emancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dall’Internazionale comunista – in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre più contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista è stata quella la battaglia.

      Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?

      Da un lato, c’era l’idea della liberazione. In Italia è stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. L’idea di liberazione si è proiettata nella stessa Costituzione così come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei l’evoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminò con il Secondo Concilio Vaticano. Dall’altra parte, c’era il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto è iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece c’era la possibilità di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.

      Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?

      Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertà, uguaglianza e fraternità avrebbero potuto realizzarsi nelle parole d’ordine della cooperazione, della solidarietà, della democrazia radicale e dell’amore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed è insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtù essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtù non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dell’idea di produttività che non significa produrre più merci in meno tempo, né fare guerre sempre più devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo è una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinità della proprietà, dei confini e del capitale.

      L’arresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dell’autonomia operaia, è stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo è stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?

      È stato innanzitutto il segno di un’amicizia mai smentita. Rossana per noi è stata una persona di una generosità incredibile. Anche se, a un certo punto, si è fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.

      Che cosa era diventato?

      Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva un’altra strada, che passava dall’ascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto un’alternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo è fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dell’Autonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che è stata coraggiosa e importante è stato però lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.

      Quale?
      Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto più ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi c’è stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire è stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse l’orizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si può lamentare dell’inesistenza di una sinistra oggi in Italia?

      Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come è stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?

      Quando il Pci sostituì la centralità della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo è una delle cose più care alla borghesia. È un’illusione devastante e tragica che impedisce di vedere l’uso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anch’io. Mi riempivano di gioia perché parlavamo di giustizia di massa. Poi l’idea di giustizia è stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalità e di legittimità. E nella magistratura non c’è più stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche più alla realtà del paese.

      In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dell’originalità del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?

      Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica più o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quell’immane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare all’assurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed è stato una specie di atto eroico. Non potevo avere più di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. L’unico libro che portavo con me era l’Etica di Spinoza. La fortuna è stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.

      Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?

      Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilità di lavorare con Félix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anch’io, ho insegnato pur non avendo una carta di identità. Mi hanno aiutato i compagni dell’università di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novant’anni e mi sono salvato. Non mi rende più sereno di fronte a quel dramma.

      Anche Rossanda ti criticò…

      Sì, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che c’erano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perché non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia già allora, e forse aveva ragione.

      C’è stata un’altra volta che lo ha fatto?

      Sì, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi l’ultima volta prima di partire in un café dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quell’aereo.

      Perché allora hai deciso di tornare in Italia?

      Ero convinto di fare una battaglia sull’amnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora c’era la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.

      Che ricordo oggi hai di lei?

      Ricordo l’ultima volta che l’ho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. È stata una persona meravigliosa, allora e sempre.

      Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di un’altra generazione.

      Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che è successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nell’altra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dall’Italia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere è una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilità in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me è un regalo di una immensa bellezza.

      Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?

      È difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto un’opera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. Perché sono più un militante che un filosofo. Farà ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come Papageno…

      Non c’è dubbio però che tu abbia scritto molti libri…

      Ho avuto la fortuna di trovarmi a metà strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dall’una all’altra. Ciò mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx è stata un’alternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non è una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltà borghese e ha tramandato con ciò concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioè a trasformare il mondo e farlo diventare più giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva l’iconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novant’anni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza è meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.

      Esule, ancora, oggi?

      Un po’, sì. È un esilio diverso però. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, l’Italia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, l’operaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia è sempre stata guidata dal trotzkismo o dall’anarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antérieur, con l’amico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina d’anni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. L’unico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista è stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del ’95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.

      Perché l’operaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?

      Perché risponde all’esigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, l’ecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perché non è la costola di niente e di nessuno. Non lo è stato mai, e neanche è stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno s’illude. È invece un’idea precisa della lotta di classe e una critica della sovranità che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere è sempre scisso, ed è sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dell’autorità fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni è falsa, anche se purtroppo rimane egemone. L’operaismo fa saltare questa lettura brutale. È uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolarità in una dialettica aperta e produttiva.

      I tuoi costanti riferimenti a Francesco d’Assisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perché lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?

      Da quando ero giovane mi hanno deriso perché usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che l’amore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. Può diventare un’arma per vivere. Vengo da una famiglia che è stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco è in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilità di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, è come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco è l’amore contro la proprietà: esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non è mai stato ripreso a sufficienza Francesco, né è stato presa in debito conto l’importanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perché voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.

      *

      Dall’infanzia negli anni della guerra all’apprendistato filosofico alla militanza comunista, dal ’68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio all’autonomia e al ’77, l’arresto, l’esilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra l’altro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per l’editore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra l’altro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.

      In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sull’ontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra l’altro, Dall’operaio massa all’operaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).

      A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherà i titoli in catalogo con una nuova prefazione: L’inchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); Trentatré Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)

      #autonomie #prison #exil

    • Le philosophe italien Toni Negri est mort

      Inspirant les luttes politiques en Italie dans les années 1960 et 1970, son travail a également influencé le mouvement altermondialiste du début du XXIe siècle.


      Toni Negri, à Rome (Italie), en septembre 2010. STEFANO MONTESI - CORBIS / VIA GETTY IMAGES

      Il était né dans l’Italie fasciste. Il disparaît alors que l’extrême droite gouverne à nouveau son pays. Le philosophe Toni Negri, acteur et penseur majeur de plus d’un demi-siècle de luttes d’extrême gauche, est mort dans la nuit du 15 au 16 décembre à Paris, à l’âge de 90 ans, a annoncé son épouse, la philosophe française Judith Revel.

      « C’était un mauvais maître », a tout de suite réagi, selon le quotidien La Repubblica, le ministre de la culture italien, Gennaro Sangiuliano. « Tu resteras à jamais dans mon cœur et dans mon esprit, cher Maître, Père, Prophète », a écrit quant à lui, sur Facebook, l’activiste Luca Casarini, l’un des leaders du mouvement altermondialiste italien. Peut-être aurait-il vu dans la violence de ce contraste un hommage à la puissance de ses engagements, dont la radicalité ne s’est jamais affadie.

      Né le 1er août 1933 à Padoue, Antonio Negri, que tout le monde appelle Toni, et qui signera ainsi ses livres, commence très tôt une brillante carrière universitaire – il enseigne à l’université de Padoue dès ses 25 ans –, tout en voyageant, en particulier au Maghreb et au Moyen-Orient. C’est en partageant la vie d’un kibboutz israélien que le jeune homme, d’abord engagé au parti socialiste, dira être devenu communiste. Encore fallait-il savoir ce que ce mot pouvait recouvrir.

      Cette recherche d’une nouvelle formulation d’un idéal ancien, qu’il s’agissait de replacer au centre des mutations du monde, parcourt son œuvre philosophique, de Marx au-delà de Marx (Bourgois, 1979) à l’un de ses derniers livres, Inventer le commun des hommes (Bayard, 2010). Elle devient aussi l’axe de son engagement militant, qui va bientôt se confondre avec sa vie.

      Marxismes hétérodoxes

      L’Italie est alors, justement, le laboratoire des marxismes dits hétérodoxes, en rupture de ban avec le parti communiste, en particulier l’« opéraïsme » (de l’italien « operaio », « ouvrier »). Toni Negri le rejoint à la fin des années 1960, et s’en fait l’un des penseurs et activistes les plus emblématiques, toujours présent sur le terrain, dans les manifestations et surtout dans les usines, auprès des ouvriers. « Il s’agissait d’impliquer les ouvriers dans la construction du discours théorique sur l’exploitation », expliquera-t-il dans un entretien, en 2018, résumant la doctrine opéraïste, particulièrement celle des mouvements auxquels il appartient, Potere Operaio, puis Autonomia Operaia.

      Des armes circulent. Le terrorisme d’extrême droite et d’extrême gauche ravage le pays. Bien qu’il s’oppose à la violence contre les personnes, le philosophe est arrêté en 1979, soupçonné d’avoir participé à l’assassinat de l’homme politique Aldo Moro, accusation dont il est rapidement blanchi. Mais d’autres pèsent sur lui – « association subversive », et complicité « morale » dans un cambriolage – et il est condamné à douze ans de prison.
      Elu député du Parti radical en 1983, alors qu’il est encore prisonnier, il est libéré au titre de son immunité parlementaire. Quand celle-ci est levée [par un vote que le parti Radical a permis de rendre majoritaire, ndc], il s’exile en France. Rentré en Italie en 1997, il est incarcéré pendant deux ans, avant de bénéficier d’une mesure de semi-liberté. Il est définitivement libéré en 2003.

      Occupy Wall Street et les Indignés

      Il enseigne, durant son exil français, à l’Ecole normale supérieure, à l’université Paris-VIII ou encore au Collège international de philosophie. Ce sont aussi des années d’intense production intellectuelle, et, s’il porte témoignage en publiant son journal de l’année 1983 (Italie rouge et noire, Hachette, 1985), il développe surtout une pensée philosophique exigeante, novatrice, au croisement de l’ontologie et de la pensée politique. On peut citer, entre beaucoup d’autres, Les Nouveaux Espaces de liberté, écrit avec Félix Guattari (Dominique Bedou, 1985), Spinoza subversif. Variations (in)actuelles (Kimé, 1994), Le Pouvoir constituant. Essai sur les alternatives de la modernité (PUF, 1997) ou Kairos, Alma Venus, multitude. Neuf leçons en forme d’exercices (Calmann-Lévy, 2000).
      Ce sont cependant les livres qu’il coécrit avec l’Américain Michael Hardt qui le font connaître dans le monde entier, et d’abord Empire (Exils, 2000), où les deux philosophes s’efforcent de poser les fondements d’une nouvelle pensée de l’émancipation dans le contexte créé par la mondialisation. Celle-ci, « transition capitale dans l’histoire contemporaine », fait émerger selon les auteurs un capitalisme « supranational, mondial, total », sans autres appartenances que celles issues des rapports de domination économique. Cette somme, comme la suivante, Multitude. Guerre et démocratie à l’époque de l’Empire (La Découverte, 2004), sera une des principales sources d’inspiration du mouvement altermondialiste, d’Occupy Wall Street au mouvement des Indignés, en Espagne.

      C’est ainsi que Toni Negri, de l’ébullition italienne qui a marqué sa jeunesse et décidé de sa vie aux embrasements et aux espoirs du début du XXIe siècle, a traversé son temps : en ne lâchant jamais le fil d’une action qui était, pour lui, une forme de pensée, et d’une pensée qui tentait d’agir au cœur même du monde.
      Florent Georgesco
      https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2023/12/16/le-philosophe-italien-toni-negri-est-mort_6206182_3382.html

      (article corrigé trois fois en 9 heures, un bel effort ! il faut continuer !)

    • Pouvoir ouvrier, l’équivalent italien de la Gauche prolétarienne

      Chapeau le Diplo, voilà qui est informé !
      En 1998, le journal avait titré sur un mode médiatico-policier (« Ce que furent les “années de plomb” en Italie »). La réédition dans un Manière de voir de 2021 (long purgatoire) permis un choix plus digne qui annonçait correctement cet article fort utile : Entre « compromis historique » et terrorisme. Retour sur l’Italie des années 1970.
      Diplo encore, l’iconographie choisit d’ouvrir l’oeil... sur le rétroviseur. J’identifie pas le leader PCI (ou CGIL) qui est à la tribune mais c’est évidement le Mouvement ouvrier institué et son rôle (historiquement compromis) d’encadrement de la classe ouvrière qui est mis en avant.

      #média #gauche #Italie #Histoire #Potere_operaio #PCI #lutte_armée #compromis_historique #terrorisme

      edit

      [Rome] Luciano Lama, gli scontri alla Sapienza e il movimento del ’77
      https://www.corriere.it/foto-gallery/cultura/17_febbraio_16/scontri-sapienza-lama-foto-6ad864d0-f428-11e6-a5e5-e33402030d6b.shtml

      «Il segretario della Cgil Luciano Lama si è salvato a stento dall’assalto degli autonomi, mentre tentava di parlare agli studenti che da parecchi giorni occupano la città universitaria. Il camion, trasformato in palco, dal quale il sindacalista ha preso la parola, è stato letteralmente sfasciato e l’autista è uscito dagli incidenti con la testa spaccata e varie ferite». E’ la cronaca degli scontri alla Sapienza riportata da Corriere il 18 febbraio del 1977, un giorno dopo la “cacciata” del leader della CGIL Luciano Lama dall’ateneo dove stava tenendo un comizio. Una giornata di violenza che diventerà il simbolo della rottura tra la sinistra istituzionale, rappresentata dal Pci e dal sindacato, e la sinistra dei movimenti studenteschi. Nella foto il camion utilizzato come palco da Luciano Lama preso d’assalto dai contestatori alla Sapienza (Ansa)

    • ENTRE ENGAGEMENT RÉVOLUTIONNAIRE ET PHILOSOPHIE
      Toni Negri (1933-2023), histoire d’un communiste
      https://www.revolutionpermanente.fr/Toni-Negri-1933-2023-histoire-d-un-communiste

      Sans doute est-il compliqué de s’imaginer, pour les plus jeunes, ce qu’a pu représenter Toni Negri pour différentes générations de militant.es. Ce qu’il a pu symboliser, des deux côtés des Alpes et au-delà, à différents moments de l’histoire turbulente du dernier tiers du XXème siècle, marqué par la dernière poussée révolutionnaire contemporaine – ce « long mois de mai » qui aura duré plus de dix ans, en Italie – suivie d’un reflux face auquel, loin de déposer les armes, Negri a choisi de résister en tentant de penser un arsenal conceptuel correspondant aux défis posés par le capitalisme contemporain. Tout en restant, jusqu’au bout, communiste. C’est ainsi qu’il se définissait.

    • À Toni Negri, camarade et militant infatigable
      https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/181223/toni-negri-camarade-et-militant-infatigable

      Toni Negri nous a quittés. Pour certains d’entre nous, c’était un ami cher mais pour nous tous, il était le camarade qui s’était engagé dans le grand cycle des luttes politiques des années soixante et dans les mouvements révolutionnaires des années soixante-dix en Italie. Il fut l’un des fondateurs de l’opéraïsme et le penseur qui a donné une cohérence théorique aux luttes ouvrières et prolétariennes dans l’Occident capitaliste et aux transformations du Capital qui en ont résulté. C’est Toni qui a décrit la multitude comme une forme de subjectivité politique qui reflète la complexité et la diversité des nouvelles formes de travail et de résistance apparues dans la société post-industrielle. Sans la contribution théorique de Toni et de quelques autres théoriciens marxistes, aucune pratique n’aurait été adéquate pour le conflit de classes.
      Un Maître, ni bon ni mauvais : c’était notre tâche et notre privilège d’interpréter ou de réfuter ses analyses. C’était avant tout notre tâche, et nous l’avons assumée, de mettre en pratique la lutte dans notre sphère sociale, notre action dans le contexte politique de ces années-là. Nous n’étions ni ses disciples ni ses partisans et Toni n’aurait jamais voulu que nous le soyons. Nous étions des sujets politiques libres, qui décidaient de leur engagement politique, qui choisissaient leur voie militante et qui utilisaient également les outils critiques et théoriques fournis par Toni dans leur parcours.

    • Toni Negri, l’au-delà de Marx à l’épreuve de la politique, Yann Moulier Boutang
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/tribunes/toni-negri-lau-dela-de-marx-a-lepreuve-de-la-politique-20231217_Z5QALRLO7

      Il n’est guère de concepts hérités du marxisme qu’il n’ait renouvelés de fond en comble. Contentons-nous ici de quelques notions clés. La clé de l’évolution du capitalisme, ne se lit correctement que dans celle de la composition du travail productif structuré dans la classe ouvrière et son mouvement, puis dans les diverses formes de salariat. Le Marx le plus intéressant pour nous est celui des Grundrisse (cette esquisse du Capital). C’est le refus du travail dans les usines, qui pousse sans cesse le capitalisme, par l’introduction du progrès technique, puis par la mondialisation, à contourner la « forteresse ouvrière ». Composition de classe, décomposition, recomposition permettent de déterminer le sens des luttes sociales. Negri ajoute à ce fond commun à tous les operaïstes deux innovations : la méthode de la réalisation de la tendance, qui suppose que l’évolution à peine perceptible est déjà pleinement déployée, pour mieux saisir à l’avance les moments et les points où la faire bifurquer. Deuxième innovation : après l’ouvrier qualifié communiste, et l’ouvrier-masse (l’OS du taylorisme), le capitalisme des années 1975-1990 (celui de la délocalisation à l’échelle mondiale de la chaîne de la valeur) produit et affronte l’ouvrier-social.

      C’est sur ce passage obligé que l’idée révolutionnaire se renouvelle. L’enquête ouvrière doit se déplacer sur ce terrain de la production sociale. La question de l’organisation, de la dispersion et de l’éclatement remplace la figure de la classe ouvrière et de ses allié.e.s. L’ouvrier social des années 1975 devient la multitude. Cela paraît un diagramme abstrait. Pourtant les formes de lutte comme les objectifs retenus, les collectifs des travailleuses du soin, de chômeurs ou d’intérimaires, les grèves des Ubereat témoignent de l’actualité de cette perspective. Mais aussi de ses limites, rencontrées au moment de s’incarner politiquement. (1)

      https://justpaste.it/3t9h9

      edit « optimisme de la raison, pessimisme de la volonté », T.N.
      Ration indique des notes qui ne sont pas publiées...

      Balibar offre une toute autre lecture des apports de T.N. que celle du très recentré YMB
      https://seenthis.net/messages/1032920

      #marxisme #mouvements_sociaux #théorie #compostion_de_classe #refus_du_travail #luttes_sociales #analyse_de_la tendance #ouvrier_masse #ouvrier_social #enquête_ouvrière #production_sociale #multitude #puissance #pouvoir

    • Décider en Essaim, Toni Negri , 2004
      https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=pqBZJD5oFJY

      Toni Negri : pour la multitude, Michael Löwy
      https://www.en-attendant-nadeau.fr/2023/12/18/toni-negri

      Avec la disparition d’Antonio Negri – Toni pour les amis – la cause communiste perd un grand penseur et un combattant infatigable. Persécuté pour ses idées révolutionnaires, incarcéré en Italie pendant de longues années, Toni est devenu célèbre grâce à ses ouvrages qui se proposent, par une approche philosophique inspirée de #Spinoza et de #Marx, de contribuer à l’émancipation de la multitude

      .

    • Un congedo silenzioso, Paolo Virno
      https://ilmanifesto.it/un-congedo-silenzioso


      Toni Negri - Tano D’Amico /Archivio Manifesto

      Due anni fa, credo, telefona Toni. Sarebbe passato per Roma, mi chiede di vederci. Un’ora insieme, con Judith, in una casa vuota nei pressi di Campo de’ Fiori (un covo abbandonato, avrebbe pensato una canaglia dell’antico Pci). Non parliamo di niente o quasi, soltanto frasi che offrono un pretesto per tacere di nuovo, senza disagio.

      Ebbe luogo, in quella casa romana, un congedo puro e semplice, non dissimulato da nenie cerimoniose. Dopo anni di insulti pantagruelici e di fervorose congratulazioni per ogni tentativo di trovare la porta stretta attraverso cui potesse irrompere la lotta contro il lavoro salariato nell’epoca di un capitalismo finalmente maturo, un po’ di silenzio sbigottito non guastava. Anzi, affratellava.

      Ricordo Toni, ospite della cella 7 del reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia, che piange senza ritegno perché le guardie stanno portando via in piena notte, con un «trasferimento a strappo», i suoi compagni di degnissima sventura. E lo ricordo ironico e spinoziano nel cortile del penitenziario di Palmi, durante la requisitoria cui lo sottopose un capo brigatista da operetta, che minacciava di farlo accoppare da futuri «collaboratori di giustizia» allora ancora bellicosi e intransigenti.

      Toni era un carcerato goffo, ingenuo, ignaro dei trucchi (e del cinismo) che il ruolo richiede. Fu calunniato e detestato come pochi altri nel Novecento italiano. Calunniato e detestato, in quanto marxista e comunista, dalla sinistra tutta, da riformatori e progressisti di ogni sottospecie.

      Eletto in parlamento nel 1983, chiese ai suoi colleghi deputati, in un discorso toccante, di autorizzare la prosecuzione del processo contro di lui: non voleva sottrarsi, ma confutare le accuse che gli erano state mosse dai giudici berlingueriani. Chiese anche, però, di continuare il processo a piede libero, giacché iniqua e scandalosa era diventata la carcerazione preventiva con le leggi speciali adottate negli anni precedenti.

      Inutile dire che il parlamento, aizzato dalla sinistra riformatrice, votò per il ritorno in carcere dell’imputato Negri. C’è ancora qualcuno che ha voglia di rifondare quella sinistra?

      Toni non ha mai avuto paura di strafare. Né quando intraprese un corpo a corpo con la filosofia materialista, includendo in essa più cose di quelle che sembrano stare tra cielo e terra, dal condizionale controfattuale («se tu volessi fare questo, allora le cose andrebbero altrimenti») alla segreta alleanza tra gioia e malinconia. Né quando (a metà degli anni Settanta) ritenne che l’area dell’autonomia dovesse sbrigarsi a organizzare il lavoro postfordista, imperniato sul sapere e il linguaggio, caparbiamente intermittente e flessibile.

      Il mio amico matto che voleva cambiare il mondo
      Toni non è mai stato oculato né morigerato. È stato spesso stonato, questo sì: come capita a chi accelera all’impazzata il ritmo della canzone che ha intonato, ibridandolo per giunta con il ritmo di molte altre canzoni appena orecchiate. Il suo luogo abituale sembrava a molti, anche ai più vicini, fuori luogo; per lui, il «momento giusto» (il kairòs degli antichi greci), se non aveva qualcosa di imprevedibile e di sorprendente, non era mai davvero giusto.

      Non si creda, però, che Negri fosse un bohèmien delle idee, un improvvisatore di azioni e pensieri. Rigore e metodo campeggiano nelle sue opere e nei suoi giorni. Ma in questione è il rigore con cui va soppesata l’eccezione; in questione è il metodo che si addice a tutto quel che è ma potrebbe non essere, e viceversa, a tutto quello che non è ma potrebbe essere.

      Insopportabile Toni, amico caro, non ho condiviso granché del tuo cammino. Ma non riesco a concepire l’epoca nostra, la sua ontologia o essenza direbbe Foucault, senza quel cammino, senza le deviazioni e le retromarce che l’hanno scandito. Ora un po’ di silenzio benefico, esente da qualsiasi imbarazzo, come in quella casa romana in cui andò in scena un sobrio congedo.

  • L’erosione di Schengen, sempre più area di libertà per pochi a danno di molti

    I Paesi che hanno aderito all’area di libera circolazione strumentalizzano il concetto di minaccia per la sicurezza interna per poter ripristinare i controlli alle frontiere e impedire così l’ingresso ai migranti indesiderati. Una forzatura, praticata anche dall’Italia, che scatena riammissioni informali e violazioni dei diritti. L’analisi dell’Asgi

    Lo spazio Schengen sta venendo progressivamente eroso e ridotto dagli Stati membri dell’Unione europea che, con il pretesto della sicurezza interna o di “minacce” esterne, ne sospendono l’applicazione. Ed è così che da spazio di libera circolazione, Schengen si starebbe trasformando sempre più in un labirinto creato per isolare e respingere le persone in transito e i cittadini stranieri.

    Per l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) la sospensione della libera circolazione, che dovrebbe essere una pratica emergenziale da attivarsi solo nel caso di minacce gravi per la sicurezza di un Paese, rischia infatti di diventare una prassi ricorrente nella gestione dei flussi migratori.

    A fine ottobre di quest’anno il governo italiano ha riattivato i controlli al confine con la Slovenia, giustificando l’iniziativa con l’aumento del rischio interno a seguito della guerra in atto a Gaza e da possibili infiltrazioni terroristiche. La decisione è stata anche proposta come reazione alla pressione migratoria a cui è soggetto il Paese. Lo stesso giorno in cui l’Italia ha annunciato la sospensione della libera circolazione -misura prorogata- la stessa scelta è stata presa anche da Slovenia, Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Germania. Una prassi che rischia di agevolare le violazioni dei diritti delle persone in transito. “Questa pratica, così come l’uso degli accordi bilaterali di riammissione, ha di fatto consentito alle autorità di frontiera dei vari Stati membri di impedire l’ingresso nel territorio e di applicare respingimenti ai danni di persone migranti e richiedenti asilo, in violazione di numerose norme nazionali e sovranazionali”, scrive l’Asgi.

    Il “Codice frontiere Schengen” prevede che i confini interni possano essere attraversati in un qualsiasi punto senza controlli sulle persone, in modo indipendente dalla loro nazionalità. Secondo i dati del Consiglio dell’Unione europea, circa 3,5 milioni di persone attraverserebbero questi confini ogni giorno mentre in 1,7 milioni lavorerebbero in un Paese diverso da quello di residenza, attraversando così una frontiera interna. In caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna in uno Stato membro, però, quest’ultimo è autorizzato a ripristinare i controlli “in tutte o in alcune parti delle sue frontiere interne per un periodo limitato non superiore a 30 giorni o per la durata prevedibile della minaccia grave”. Tuttavia, lo stesso Codice afferma che “la migrazione e l’attraversamento delle frontiere esterne di un gran numero di cittadini di Paesi terzi non dovrebbero in sé essere considerate una minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza”.

    Inoltre, anche nel caso in cui vengano introdotte restrizioni alla libera circolazione, queste vanno applicate in accordo con il diritto delle persone in transito. “La reintroduzione temporanea dei controlli non può giustificare alcuna deroga al rispetto dei diritti fondamentali delle persone straniere che fanno ingresso nel territorio degli Stati membri e, nel caso specifico dell’Italia, attraverso il confine italo-sloveno -ribadisce l’Asgi-. In particolare, il controllo non può esentare le autorità di frontiera dalla verifica delle situazioni individuali delle persone straniere che intendano accedere nel territorio dello Stato e che intendano presentare domanda di asilo”. In particolare, la sicurezza dei confini non può impedire l’accesso alle procedure di protezione internazionale per chi ne fa richieste e di riceve informazioni sulla possibilità di farlo. Infine, i controlli non possono portare a una violazione del diritto di non respingimento, che impedisce l’espulsione di una persona verso Paese dove potrebbe subire trattamenti inumani o degradanti o dove possa essere soggetta a respingimenti “a catena” verso Stati che si macchiano di queste pratiche.

    Le operazioni di pattugliamento lungo il confine tra Italia e Slovenia presentano criticità proprio in tal senso. Secondo le notizie riportate dai media e le recenti dichiarazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, l’Italia avrebbe applicato ulteriori misure che hanno l’evidente effetto di impedire alla persona straniera l’accesso al territorio nazionale e ai diritti che ne conseguono. Già a settembre del 2023 il ministro aveva dichiarato, in risposta a un’interrogazione parlamentare, la ripresa dell’attività congiunta tra le forze di polizia di Italia e Slovenia a partire dal 2022. Sottolineando come grazie all’accordo fosse stato possibile impedire, per tutto il 2023, l’ingresso sul territorio nazionale di circa 1.900 “migranti irregolari”. “Preoccupa, inoltre, l’opacità operativa che caratterizza questi interventi di polizia: le modalità, infatti, con le quali vengono condotti sono poco chiare e difficilmente osservabili ma celano evidenti profili di criticità e potenziali lesioni di diritti”.

    Le azioni di polizia, infatti, avrebbero avuto luogo già in territorio italiano oltre il confine: una simile procedura appare in linea con quanto previsto dalle procedure di riammissione bilaterale, ma in contrasto con il Codice frontiere Schengen, che presuppone che i controlli possano essere svolti solo presso i valichi di frontiera comunicati alle istituzioni competenti. Una prassi simile è stata riscontrata lungo il confine italo-francese, dove l’Asgi ha identificato la coesistenza di pratiche legate alla sospensione della libera circolazione con procedure di riammissione informale.

    “La libera circolazione nello spazio europeo è una delle conquiste più importanti dei nostri tempi -è la conclusione dell’Asgi-. Il suo progressivo smantellamento dovrebbe essere dettato da una effettiva emergenza e contingenza, entrambe condizioni che sembrano non rinvenibili nelle motivazioni addotte dall’Italia e dagli altri Stati membri alla Commissione europea. La libertà di circolazione, pilastro fondamentale dell’area Schengen, rivela forse a tutt’oggi la sua vera natura: un’area di libertà per pochi a danno di molti”.

    https://altreconomia.it/lerosione-di-schengen-sempre-piu-area-di-liberta-per-pochi-a-danno-di-m

    #Schengen #contrôles_frontaliers #contrôles_systématiques_aux_frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #Europe #frontières_intérieures #espace_Schengen #sécurité #libre_circulation #Italie #Slovénie #terrorisme #Gaza #Slovénie #Autriche #République_Tchèque #Slovaquie #Pologne #Allemagne #accords_bilatéraux #code_frontières #droits_humains #droits_fondamentaux #droit_d'asile #refoulements_en_chaîne #patrouilles_mixtes #réadmissions_informelles #France #frontière_sud-alpine

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    ajouté au fil de discussion sur la réintroduction des contrôles systématiques à la frontière entre Italie et Slovénie :
    https://seenthis.net/messages/1021994

  • En Suède, l’extrême droite a le vent en poupe, un an après l’arrivée de la droite au pouvoir
    https://www.lemonde.fr/international/article/2023/11/26/en-suede-l-extreme-droite-a-le-vent-en-poupe-un-an-apres-l-arrivee-de-la-dro

    En Suède, l’extrême droite a le vent en poupe, un an après l’arrivée de la droite au pouvoir
    Membre de la majorité depuis octobre 2022, les Démocrates de Suède, réunis en congrès ce week-end, veulent accélérer le rythme des réformes en prônant « la politique de l’asile la plus restrictive d’Europe ».
    Par Anne-Françoise Hivert(Västeras (Suède), envoyée spéciale)
    Cheveux longs gris et lunettes cerclées de noir, Asa Wittenfelt, 64 ans, a le sourire aux lèvres. Professeure de mathématiques et de sciences dans un lycée professionnel, elle est venue de Lund, dans le sud du pays, pour participer au congrès des Démocrates de Suède (SD), qui se déroulait du jeudi 23 au dimanche 26 novembre, à Västeras, au nord-ouest de Stockholm. « Pour la première fois depuis longtemps, je ressens de l’espoir. On reconnaît enfin qu’on a été naïfs et on ose parler de tout, sans tabou », dit-elle.Asa a adhéré au parti il y a douze ans, « catastrophée » par la situation dans son école, où « les élèves, appartenant à différents clans, se battaient dans les couloirs ». A l’époque, être membre des SD, une formation nationale conservatrice aux origines néonazies, n’était pas bien vu. Elle a essuyé les critiques de ses collègues. « Aujourd’hui, beaucoup me disent qu’ils sont d’accord avec moi et même des élèves me soutiennent », affirme l’enseignante.
    Dans les couloirs du palais des congrès de Västeras, les 300 délégués, venus de tout le pays, arborent le même air de satisfaction. Ils ont de quoi : depuis octobre 2022, les SD font partie de la majorité, avec les conservateurs, les chrétiens-démocrates et les libéraux. Et, même s’ils ne siègent pas formellement au gouvernement – ils n’ont pas de portefeuilles ministériels, mais disposent d’un bureau de coordination au sein de l’administration gouvernementale et participent à presque toutes les conférences de presse des ministres –, les Suédois estiment que ce sont eux qui ont le plus d’influence sur la politique actuellement menée.
    Samedi, sans surprise, les délégués ont réélu Jimmie Akesson, 44 ans, à la tête du parti qu’il dirige depuis 2005. Paraphrasant l’ancien président américain Donald Trump, le leader de l’extrême droite, très en verve, a assuré que « maintenant que [les SD] participaient à la gouvernance » du pays, ils allaient « rendre sa grandeur à la Suède ». Au terme de la mandature, le royaume aura « la politique de l’asile la plus restrictive d’Europe », a-t-il promis, sous les applaudissements, avant de consacrer une bonne partie de son discours à dénoncer l’emprise des « islamistes » sur la société suédoise, qu’il veut combattre en « confisquant et en détruisant les mosquées » accusées de propager un discours « antidémocratique ».
    Un an après l’arrivée de la droite au pouvoir, les SD ont le vent en poupe. Crédité de 22 % des intentions de vote dans les sondages – ils avaient obtenu 20,5 % aux législatives, le 11 septembre 2022 –, ils pèsent désormais plus lourd que les trois partis du gouvernement réunis. Le contexte n’y est pas étranger : en proie à la criminalité organisée, qui a fait cinquante morts depuis le début de l’année, la Suède est aussi menacée par le terrorisme islamiste – deux supporteurs suédois ont été tués à Bruxelles, le 16 octobre, dans un attentat, commis par un Tunisien.
    Sur tous ces sujets, « nous sommes perçus comme les plus crédibles », assure Mattias Bäckström Johansson, secrétaire du parti depuis décembre 2022. A 38 ans, cet ancien opérateur de l’industrie nucléaire ne boude pas son plaisir : « Bien sûr que nous sommes très contents de ce qui a été accompli en un an, mais nous aimerions que cela aille plus vite. » Car, avant de pouvoir être votée au Parlement, toute réforme doit faire l’objet au préalable d’un examen approfondi. Malgré de nombreuses annonces, très peu de lois ont donc été adoptées.
    (...°Même empressement du côté des Ungsvenskarna SDU, les Jeunes Démocrates de Suède, la section jeunesse du parti, qui compte 2 000 adhérents. Robe vichy et vernis orange, Rebecka Rapp, 23 ans, est souvent interpellée sur TikTok : « On me demande pourquoi ça ne va pas plus vite, j’explique que c’est la politique. » Lors des dernières élections, 22 % des Suédois âgés de 18 à 21 ans ont voté pour le parti (et 26 % pour les conservateurs) : « C’est devenu cool, pour les jeunes, d’être à droite », assure la jeune femme. Etudiante en ingénierie civile à l’Institut royal de technologie royal à Stockholm (...) Le parti est dans une position idéale, observe Ann-Cathrine Jungar, professeur de sciences politiques à l’université de Södertörn : « Il a un pied dans le gouvernement et un autre en dehors, ce qui lui permet d’exercer une influence politique, tout en continuant à critiquer le gouvernement. » Jimmie Akesson ne s’en prive pas, pas plus qu’il ne rate une occasion de faire dans la surenchère, allant jusqu’à plaider pour que la police détienne des personnes sans le moindre soupçon. A Västeras, il s’en est pris à l’ensemble de la classe politique, accusée d’avoir « activement » permis à la criminalité de se développer : « Nous n’oublierons pas et nous ne pardonnerons pas », a-t-il déclaré.
    Face à ses excès ou à ceux de responsables de son parti, propageant par exemple la théorie du « grand remplacement » ou défendant les autodafés du Coran, la droite laisse faire : « Les autres partis sont mal à l’aise, mais ils ont décidé de ne pas critiquer les SD, même quand ils tiennent des propos radicaux, ce qui démontre leur influence », note le politologue Tommy Möller. Avec pour conséquence aussi de normaliser un discours qui aurait été jugé inacceptable il y a quelques années, mais qui se répand désormais dans l’espace public, alors que « l’inhibition pour voter SD ne cesse de baisser », remarque M. Möller.L’un des vétérans de la formation, l’idéologue Mattias Karlsson, y voit l’aboutissement d’un long processus mené « de façon très déterminée » par le parti, qui, « malgré les obstacles », a enfin réussi à se débarrasser de « l’image stigmatisante » qui l’a longtemps pénalisé. « Aujourd’hui, nous sommes tellement normalisés au sein de la société que nous pouvons recruter des personnes compétentes et nous professionnaliser. Nous avons atteint la dernière étape, avant d’entrer au gouvernement », assure-t-il. Jimmie Akesson ne s’en cache pas : en 2026, si la droite l’emporte, il exigera des portefeuilles ministériels, ou bien il siégera dans l’opposition. En attendant, les SD ont les yeux tournés vers les élections européennes de juin 2024. Lors du précédent scrutin, en 2019, ils étaient arrivés en troisième position, avec 15,3 % des voix. Depuis, le parti a renoncé à exiger un « Swexit », même s’il continue de considérer Bruxelles et l’UE comme « une des plus grosses menaces contre la souve#raineté » du pays, avec l’immigration. A Västeras, il n’a pas été question de la victoire du leader d’extrême droite Geert Wilders aux élections néerlandaises, pas plus que du grand rassemblement des populistes du groupe Identité et démocratie (ID) qui s’est tenu au Portugal, vendredi. Les SD font partie du groupe Conservateurs et réformistes européens et continuent de juger « problématiques » les liens de certains partis d’ID avec la Russie, comme le Rassemblement national de Marine Le Pen.

    #Covid-19#migrant#migration#suede#extremedroite#immigration#souverainte#islamisme#terrorisme#asile#politiquemigratoire

  • Le large dos du #terrorisme
    https://www.kedistan.net/2023/11/19/le-large-dos-du-terrorisme

    https://www.kedistan.net/wp-content/uploads/2023/11/gaza.jpg

    Le terrorisme est « l’emploi de la terreur à des fins politiques, idéologiques ou religieuses ». On retrouve les termes de cette définition dans nombre de langues Cet article Le large dos du terrorisme a été publié par KEDISTAN.

    #Chroniques_de_Daniel_Fleury #Droits_humains #Nationalismes #Peuples #Gaza #Israël #Palestine

  • La proximité entre le Hamas et les djihadistes, une mystification occidentale - Yassine Slama
    https://orientxxi.info/magazine/la-proximite-entre-le-hamas-et-les-djihadistes-une-mystification-occiden

    Eu égard à la surprise de l’opération, à son ampleur, au nombre de victimes et d’otages, les attaques du 7 octobre 2023 ont rapidement donné lieu de la part des Israéliens, des Européens et des Américains à des comparaisons entre le Hamas, Al-Qaida et l’Organisation de l’État islamiste. Mais elles manquent de rigueur et ignorent tout des divergences entre ces mouvements.

    #terrorisme

  • Le ministre de la défense israélien fait ce que les Israéliens font avec une régularité d’horloge : annoncer qu’ils commettront des crimes de guerre du Liban.
    https://www.timesofisrael.com/liveblog-november-11-2023/#liveblog-entry-3150827

    “I am saying here to the citizens of Lebanon, I already see the citizens in Gaza walking with white flags along the coast and moving south,” says Gallant during a visit to an army base on the northern border.

    “Hezbollah is dragging Lebanon into a war that may happen, and it is making mistakes,” he says.

    “If it makes mistakes of this kind, the ones who will pay the price are first of all the citizens of Lebanon. What we are doing in Gaza we know how to do in Beirut,” Gallant warns.

    Selon la logique habituelle : nous ne commettons pas de crimes de guerre à Gaza parce que nous ne ciblons pas la population civile, mais nous avertissons les Libanais de bien regarder ce que nous faisons au gazaouites, parce que nous leur ferons la même chose (c’est-à-dire pas-des-crimes-de-guerre).

  • Operation Thunderbolt (Film)
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Operation_Thunderbolt_(Film)


    Pour les admirateurs de Klaus Kinski. L’acteur joue le rôle du méchant qui porte le nom Wilfried Böse (Wilfried le Méchant #ROFL).

    Cette oeuvre glorifie „Yoni“ Netanyahu, le frère de notre „Bibi“ préféré. Quelques politiciens israëliens de l’époque jouent leur propre rôle. Bref, le film est un must pour te mettre à l’aise avant de descendre dans la rue pour montrer ta solidarité avec les sionistes qui se défendent contre les Böse . A ne pas rater l’apparition de notre playboy berlinois Rolf Eden, connu pour ses boîtes de nuit au serveuses à poil. Ah, je savoure la nostalgie de la belle époque !

    Film von Menahem Golan (1977)

    Operation Thunderbolt (hebräisch מבצע יונתן, Mivtsa Yonatan) ist ein israelisches Filmdrama von Menahem Golan aus dem Jahr 1977. Es behandelt die Operation Entebbe.

    Kritik
    Für das Lexikon des internationalen Films war Operation Thunderbolt „zu sehr von einer einseitigen Ideologie geprägt, um ein annähernd authentisches Bild liefern zu können. Die bloße Heroisierung der Kommandoaktionen verstellt den Blick auf die eigentlichen Probleme des Nahost-Konflikts.“

    Auszeichnungen
    Operation Thunderbolt wurde 1978 für einen Oscar als Bester fremdsprachiger Film nominiert.
    DVD Bearbeiten

    Handlung

    Im Sommer 1976 wollen zahlreiche Passagiere, darunter neben Israelis auch US-Amerikaner, Franzosen und Deutsche, von Tel Aviv nach Paris fliegen. Flug 139 landet planmäßig in Athen zwischen, wobei unbemerkt Terroristen an Bord gelangen. Durch einen fingierten Stromausfall werden dabei keine Taschenkontrollen durchgeführt. Kurz nach dem Start gen Paris bringen deutsche und palästinensische Terroristen die Besatzung in ihre Gewalt. Anführer der Gruppe sind die Deutschen Wilfried Böse und Gabriele, die sich Halima nennt. Sie setzen Flugkapitän Michel Bacos davon in Kenntnis, das Böse von nun an das Kommando hat. Er gibt Anweisung, dass das Flugzeug einen neuen Kurs gen Südwest einschlägt. Ein Kopilot aktiviert das Signal, dass das Flugzeug entführt wurde.

    In Israel sorgt das Signal für Hektik, der Entführung wird höchste Priorität eingeräumt. Erste Pressekonferenzen geben als Gebot der Stunde jedoch Abwarten ab, da niemand weiß, wo das Flugzeug landen wird. An Bord müssen die Passagiere unterdessen ihre Pässe abgeben. Eine schwangere Passagierin ritzt sich, sodass sie stark zu bluten beginnt. Bei einer ersten Zwischenlandung der Maschine in Bengasi wird die Frau einem Krankenwagen übergeben. Das Flugzeug hebt zur Bestürzung des israelischen Militärs jedoch erneut ab und beendet seinen Flug schließlich in Entebbe. Dies sorgt in Israel für Probleme, da man mit Uganda keine diplomatischen Beziehungen pflegt.

    Wie in Libyen, wo den Entführern Grüße von Muammar al-Gaddafi ausgerichtet wurden, zeigt sich auch in Uganda, dass die Entführer einen guten Kontakt zu den Machthabern pflegen. Böse und Gabriele verstehen sich selbst als „Friedenskämpfer“. Unverständnis von Passagieren, dass Deutsche Israelis entführen, begegnen sie mit einer Ablehnung des deutschen Staates, der zerstört werden müsse. Ihr Ziel ist es, 43 Terroristen aus israelischen Gefängnissen freizupressen, wobei sie von Machthaber Idi Amin, der vor Ort erscheint, unterstützt werden. Sie setzen der israelischen Regierung eine Frist von 24 Stunden. In der Flughafenhalle von Entebbe trennen sie die israelischen Geiseln von den anderen, die freigelassen werden. Nur die französische Crew weigert sich, die Passagiere im Stich zu lassen, und verbleibt mit den Israelis im Flughafengebäude. Gen Israel machen die Entführer deutlich, dass sie nach Ende der Frist mit Erschießungen der Geiseln beginnen werden.

    In Israel wächst der Druck, den Forderungen der Geiselnehmer nachzugeben. Öffentlich geht die Regierung daher auf die Forderungen der Geiselnehmer ein, was mehr Zeit bringt. Eine kleine Einheit unter Colonel Yonatan Netanyahu, genannt Yoni, plant unterdessen die Befreiung der Geiseln, wobei das Überraschungsmoment eine entscheidende Rolle spielen soll. Mit nur vier Militärmaschinen, die Wagen, die als offizielle ugandische Regierungswagen getarnt sind, sowie mehrere schnelle Jeeps transportieren, sollen die Geiseln nachts gerettet werden. Die Einheit plant den Angriff und übt die Abläufe, die so schnell wie möglich erfolgen müssen. In Entebbe wird unterdessen die alte Dora Bloch in ein Krankenhaus gebracht, nachdem sie durch verschlucktes Essen zu ersticken drohte.

    Da die Frist für eine Freilassung der Terroristen nahe ist, fliegen die vier Militärmaschinen gen Entebbe, bevor die Mission durch die Regierung autorisiert wurde. Erst in der Luft erhalten sie die Einwilligung. In Entebbe gelingt es der Gruppe um Yoni, die Geiseln zu befreien. Neben den Geiselnehmern kommen dabei auch drei Geiseln ums Leben. Yoni wiederum wird von einem Wachturm aus von ugandischen Soldaten angeschossen und verstirbt auf dem Rückweg nach Tel Aviv. Dora Bloch bleibt im Krankenhaus in Uganda zurück. In Tel Aviv werden die Militärmaschinen von jubelnden Menschenmassen empfangen, wobei sich die Freude bei vielen mit der Trauer der wenigen, die Angehörige verloren haben, mischt. Yonis Freundin, der der Soldat vor seiner Abreise noch die Ehe versprochen hatte, wird von den Männern seiner Einheit tröstend in die Mitte genommen und vom Rollfeld geführt.

    Operation Thunderbolt war eine von mehreren Verfilmung, die kurz nach der Operation Entebbe erschienen. Der Fernsehfilm Unternehmen Entebbe war bereits im Jahr der Entführung 1976 erschienen, ...die keine Gnade kennen folgte im Januar 1977 ebenfalls im Fernsehen. Operation Thunderbolt war schließlich der erste Kinofilm über die Geiselbefreiung. Wie in den früheren Filmen wurde auch im Kinofilm die Rolle des Wilfried Böse von einem deutschsprachigen Schauspieler übernommen, so war nach Helmut Berger (1976)[1] und Horst Buchholz (1977, TV)[2] nun Klaus Kinski als Böse zu sehen. Eine Besonderheit des Films war, dass neben Familienmitgliedern der Geiseln auch zahlreiche Entscheidungsträger wie Shimon Peres, Jigal Allon, Moshe Dayan und Jitzchak Rabin selbst im Film auftreten.[3] Im Film bleibt das Schicksal von Dora Bloch offen, da zu der Zeit noch nicht bekannt war, dass sie durch Idi Amins Truppen aus Rache ermordet wurde.

    Der Film wurde in bzw. bei Eilat (Szenen in Entebbe), Tel Aviv (Flughafen Ben Gurion) und Jerusalem (Knesset-Szenen) gedreht. Er kam 1977 in die israelischen Kinos. In Deutschland war er erstmals am 21. Mai 1987 auf Sat.1 zu sehen.

    Der Film wurde 2019 unter dem Titel ’Operation Entebbe’ in Deutschland auf DVD veröffentlicht.

    Film
    Deutscher Titel
    Operation Thunderbolt
    Originaltitel
    מבצע יונתן / Mivtsa Yonatan
    Produktionsland
    Israel
    Originalsprache
    Hebräisch,
    Englisch,
    Deutsch,
    Arabisch,
    Spanisch
    Erscheinungsjahr
    1977
    Länge
    124 Minuten
    Stab
    Regie
    Menahem Golan
    Drehbuch
    Ken Globus,
    Menahem Golan,
    Clarke Reynolds
    Produktion
    Sybil Danning,
    Yoram Globus,
    Menahem Golan
    Musik
    Dov Seltzer
    Kamera
    Adam Greenberg
    Schnitt
    Dov Hoenig
    Besetzung

    Yehoram Gaon: Yonatan „Yoni“ Netanyahu
    Gila Almagor: Nurit Aviv
    Assi Dayan: Shuki
    Klaus Kinski: Wilfried Böse
    Sybil Danning: Halima
    Arik Lavie: Dan Schomron
    Shmuel Rodensky: Familienoberhaupt
    Shaike Ophir: Gadi Arnon
    Reuven Bar-Yotam: Avraham Ben-David
    Gabi Amrani: Gavriel
    Mark Heath: Idi Amin
    Henri Czarniak: Michel Bacos
    Rolf Eden: Air France Co-Pilot
    Shoshana Shani-Lavie: Alma Raviv
    Oded Teomi: Dan Zamir
    Shimon Bar: deutscher Arzt
    Ori Levy: Mordechai Gur
    Rachel Marcus: Dora Bloch
    Mona Silberstein: Naomi Tal
    Avraham Ben-Yosef: Prof. Avner Tal
    Hi Kelos: US-amerikanischer Reporter
    Natan Cogan: Grossman
    Gad Keiner: Rogman

    Rolf Eden
    https://de.m.wikipedia.org/wiki/Rolf_Eden

    Mit 14 verließ Rolf Eden die Schule und verdiente sein Geld als Musiker. Im ersten arabisch-israelischen Krieg von 1948 kämpfte er in der Einheit Palmach zusammen mit Yoram Kaniuk unter Jitzchak Rabin

    Voilà le film en v.o. sous-titrée en anglais. Merci Youtube !
    https://www.youtube.com/watch?v=D_GQdH1V7As

    #Entebbe #Israël #Ouganda #cinéma #terrorisme #sionisme #machisme #Berlin #histoire #trash #wtf

  • Israel’s Chance to Turn Carnage into Peace
    https://www.commondreams.org/opinion/israel-gaza-peace-diplomacy

    Il faut cririquer Israël si on veut sauver Israël. Malheureusement chaque critique d’Israël et de son gouvernement d’extrême droite est assimilé à l’antisemitisme par la propagande sioniste. Cet article propose une solution à ce dilemme.

    31.10.2023 by Jeffrey D. Sachs - Friends do not let friends commit crimes against humanity.

    Israel is running out of time to save itself—not from Hamas, which lacks the means to defeat Israel militarily, but from itself. Israel’s war crimes in Gaza, verging on the crime of genocide according to the Center for Constitutional Rights, threaten to destroy Israel’s civil, political, economic, and cultural relations with the rest of the world. There are growing calls in Israel for Prime Minister Benjamin Netanyahu to resign immediately. A new Israeli government should seize the opportunity to turn carnage into lasting peace through diplomacy.

    Netanyahu is leading Israel into the same trap that the U.S. fell into after 9/11. Hamas’ goal in its heinous terrorist attack on 10/7 was to goad Israel into a long and bloody war, and to induce Israel to commit war crimes to bring on the world’s opprobrium. This is a classic political use of terror: not merely to kill, but to frighten, provoke, debase, and ultimately undermine, the foe.

    Al-Qaeda, the perpetrator of 9/11, goaded America’s political class to launch disastrous wars in Afghanistan, Iraq, and beyond. The result was carnage, torture by U.S. agencies and military forces, $8 trillion in debt, and the collapse of U.S. prestige and power worldwide. Hamas is similarly goading Israel into war crimes and potentially into a region-wide war. Israel’s actions are turning Israel’s friends around the world against it.

    Israel’s instinct is to ignore global opinion, chalking it up to anti-Semitism and believing that the U.S. has Israel’s back. Yet the U.S., weakened as it is in world affairs, can’t possibly save Israel from itself. Just look at how the U.S. is “saving” Ukraine. Ukraine is being destroyed by its pursuit of NATO membership and rejection of diplomacy, both of which have been encouraged by America’s ineffective pledge to support Ukraine militarily “for as long as it takes.”

    Israel’s actions are turning Israel’s friends around the world against it.

    There is another deep similarity of al-Qaeda’s 9/11 and Hamas’s 10/7. Al-Qaeda was a U.S. creation that later boomeranged. By covertly funding Islamic jihadists in Afghanistan to fight the Soviet Union during the 1980s, the CIA effectively launched al-Qaeda. In the case of Hamas, Netanyahu—as is well-documented—secretly backed Hamas in order to divide and weaken the Palestinian Authority.

    Israelis are told by Netanyahu and his cabinet that there is no alternative to achieve security and peace other than to invade Gaza to defeat Hamas. The acquiescence of the U.S. and European governments as Israel invades Gaza conveys the message to the Israeli people that their leaders are telling the truth: that Hamas can be defeated militarily, that the civilian deaths in Gaza are being limited by careful targeting of military operations, and that Israel is doing the only thing it can do for its own security. Yet these misguided views are perpetrated by the same political class that let Israel’s guard down in the lead-up to 10/7. Israeli leaders are seeking to cover up their blunders through the war in Gaza.

    The facts are these. First, while Hamas demonstrated its capacity to commit a surprise terrorist attack, the truth is that Israel let its guard down on 10/7. By bolstering its borders and its intelligence, Israel can block Hamas from a repeat attack. Nor is Israel at risk of any kind of military defeat by Hamas inside Israel, since Israel has vast military dominance. The same was true with 9/11, which was a catastrophic failure of U.S. homeland security and intelligence operations, but did not even remotely represent a threat of U.S. military defeat.

    This is not to say that defeating Hamas inside Gaza would be straightforward. With a major Israeli ground invasion, Hamas would have the advantage of urban guerilla warfare on its own turf, and no doubt large numbers of Israeli soldiers are likely to die in such a campaign.

    There is a completely different approach to Israel’s security, the one that Israel’s political class has rejected for decades, yet the only one that can deliver real peace and security. It is a political solution for Palestine, coupled with comprehensive, enforceable security arrangements for Israel.

    Israel sits on top of a volcano of unrest because it has long denied basic human, economic, and political rights to the Palestinian people. Gaza has famously been described by Human Rights Watch as an open-air prison. Israel’s occupation of Palestine is tantamount to apartheid in the view of human rights groups such as Amnesty International. The UN Security Council and UN General Assembly have rightly and overwhelmingly voted resolution after resolution calling for a two-state solution, most recently on October 26, just days ago.

    Israel sits on top of a volcano of unrest because it has long denied basic human, economic, and political rights to the Palestinian people.

    I refer readers interested in the detailed history of this long saga to the wise and scholarly study by my esteemed colleague Professor Rashid Khalid, The Hundred Years’ War on Palestine. Historian Ian Black, in his book Enemies and Neighbors: Arabs and Jews in Palestine and Israel 1917-2017, recounts that Netanyahu, Israel’s longest-serving Prime Minister, “was not prepared to make the concessions needed to make [the two-state solution] possible.”

    The failure of Israel’s political class to achieve true security for Israel and justice for Palestine opens the door to a different approach. Here is how a diplomatic solution could work.

    The UN Security Council would commit to the disarming of militant groups, including Hamas and Islamic Jihad. Countries funding and arming these groups, notably Iran, would agree to join with the UN Security Council in defunding and demobilizing these groups as part of the peace deal. Both Saudi Arabia and Iran would establish diplomatic relations with Israel as part of the peace deal. Israel and the UN Security Council would recognize a sovereign, independent, and secure state of Palestine, with its capital in East Jerusalem, and with full membership in the United Nations. Palestine would be given sovereign control over the Muslim holy sites of East Jerusalem, including Haram al-Sharif.

    The five permanent powers (P5) of the UN Security Council—the U.S., Russia, China, UK, and France—all favor such a peace deal. Indeed, Biden has recently reiterated U.S. support for the two-state solution. Moreover, there is scope for favorable diplomacy among the P5. The U.S. and China will soon hold a summit of President Biden and President Xi, and there are even glimmers of behind-the-scenes diplomacy between Russia and the U.S. to sort out and end the tragic conflict in Ukraine.

    If Israel swallows Netanyahu’s poison that “this is a time for war,” Israel will isolate itself from the rest of the world and pay a devastating price.

    Iran can be brought on board to such a deal, as long as the deal includes the normalization of Iran’s diplomatic and economic relations with the E.U. and the United States. In 2015, Iran negotiated the Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA) with the U.S. and European nations to end Iran’s nuclear weapons program in return for an end to Western sanctions. It was the U.S. under former President Donald Trump, not Iran, that brazenly withdrew from the JCPOA in 2018. More recently, Iran has reconciled with Saudi Arabia and joined the BRICS nations, demonstrating Iran’s interest in dynamic and creative diplomacy.

    The rest of the UN member states also clearly support a two-state solution. As soon as Israel embraces a comprehensive peace deal, it will garner friends worldwide, and cause a worldwide sigh of relief.

    If Israel swallows Netanyahu’s poison that “this is a time for war,” Israel will isolate itself from the rest of the world and pay a devastating price. Israel’s attainable objective is lasting peace and security through diplomacy. Israel’s friends, starting with the U.S., must help it choose diplomacy over war. Friends do not let friends commit crimes against humanity, much less provide them with the finances and arms to do so.

    #Israel #USA #Afghanistan #guerre #terrorisme

  • איתמר בן גביר sur X : "

    כל הכבוד לכוחות צה"ל שעצרו הלילה את המחבלת ו"פעילת זכויות האדם" עהד תמימי מנבי סאלח שהורשעה בעבר בתקיפת חיילי צה"ל ומאז פרוץ המלחמה מביעה הזדהות ותמיכה בחיות האדם הנאצים ברשתות החברתיות. אפס סובלנות עם מחבלים ועם תומכי טרור! רק ככה!

    https://twitter.com/itamarbengvir/status/1721397948762792020

    Félicitations aux forces de Tsahal qui ont arrêté ce soir la terroriste et « militante des droits humains » Ehad Tamimi Manvi Saleh, qui avait déjà été reconnue coupable d’avoir attaqué [sic] des soldats de Tsahal et qui, depuis le début de la guerre, a exprimé sa sympathie et son soutien aux êtres humains nazis sur les réseaux sociaux. Tolérance zéro envers les terroristes et les partisans du #terrorisme ! Juste comme ça !

    • Israël : de 1973 à 2023, les limites de la puissance militaire, Miko Peled, 7 octobre 2023
      https://www.contretemps.eu/israel-palestine-1973-kippour-2023-limites-puissance-militaire

      Des renseignements fiables indiquaient que les Égyptiens allaient attaquer en 1973. Ces renseignements provenaient de différentes sources, dont le Mossad, les services de renseignements militaires et même le défunt roi de Jordanie Hussein, qui avait prévenu le gouvernement israélien de l’imminence de la guerre. On ne peut que se demander comment les services de renseignement israéliens vont justifier le manque de préparation à l’attaque du 7 octobre 2023.

      Alors que l’humiliation de la guerre de 1973 brûle encore dans le cœur et l’esprit des Israélien.ne.s, une nouvelle humiliation, peut-être plus grande encore, se présente aujourd’hui. Dans les guerres qui ont précédé 1973, Israël a toujours attaqué lorsque ses ennemis étaient faibles et mal préparés. En octobre 1973 et à nouveau en octobre 2023, les Israélien.ne.s ont goûté à leur propre médecine. Et ils se sont effondrés militairement et politiquement.

      ... Une chose est sûre : quel que soit le succès de l’opération qui a démarré le 7 octobre, les Palestiniens risquent d’en payer le prix fort. Mon ami, l’activiste Issa Amro d’Hébron, aurait été sévèrement battu et arrêté par des soldats israéliens. Selon un rapport en provenance d’Hébron, il a besoin de soins médicaux. Il n’est qu’un exemple parmi d’autres. Il faut espérer que ce succès militaire palestinien se traduira par un gain politique réel pour tous les Palestiniens.

      #Israel_Palestine

  • Les récits politiques de la radicalité
    https://laviedesidees.fr/Les-recits-politiques-de-la-radicalite

    La notion de radicalisation a fait couler beaucoup d’encre des dernières années, mais reste relativement confuse. Les États qui cherchent à y faire face ont mis en place des dispositifs variés dont l’efficacité réelle reste difficile à évaluer, et qui produisent bien souvent des effets inattendus. À propos de : Juliette Galonnier, Stéphane Lacroix, Nadia Marzouki, dir., Politiques de lutte contre la radicalisation, Presses de Sciences-po

    #Société #terrorisme #islamisme
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/202310_radicalite_-1.docx
    https://laviedesidees.fr/IMG/pdf/20231101_radicalite.pdf
    https://laviedesidees.fr/IMG/docx/20231101_radicalite.docx

  • Guerre Israël-Hamas : comment l’AFP utilise le mot terroriste
    https://twitter.com/afpfr/status/1718275547678003289

    Conformément à sa mission de rapporter les faits sans porter de jugement, l’AFP ne qualifie pas des mouvements, groupes ou individus de terroristes sans attribuer directement l’utilisation de ce mot ou sans utiliser des guillemets.

    Il s’agit d’une disposition de longue date à l’Agence, conforme aux politiques rédactionnelles des autres agences de presse internationales et de grands médias comme la BBC.

    Cette règle s’applique à toutes les couvertures journalistiques de l’Agence concernant les violences à motivation politique qui visent des civils. Les consignes rédactionnelles relatives à la couverture de la guerre entre Israël et le Hamas suivent cette politique rédactionnelle en vigueur depuis longtemps.

    Même si le débat sur l’utilisation du mot terroriste a ressurgi avec l’attaque du Hamas en Israël le 7 octobre, cette règle rédactionnelle a déjà été au cœur de vives discussions lors de la couverture de nombreux événements meurtriers par le passé.

    Parmi ceux-ci les attentats de l’Armée républicaine irlandaise (IRA), les attaques du 11 Septembre 2001 aux Etats-Unis, les meurtres d’Afro-Américains par un suprémaciste blanc en Caroline du Sud en 2015 ; les attentats de Paris en 2015 ; les attaques du dimanche de Pâques au Sri Lanka en 2019 ; et la fusillade dans les mosquées de Christchurch la même année.

    L’AFP ne décrit pas les auteurs de tels actes, passés ou présents, comme des “terroristes”. Cela inclut des groupes comme l’ETA, les Tigres de Libération de l’Eelam tamoul, les FARC, l’IRA, Al-Qaeda et les différents groupes qui ont mené des attaques en Europe au siècle dernier, dont les Brigades Rouges, la Bande à Baader et Action Directe.

    C’est une règle que nous avons fermement appliquée, même quand nos propres collègues ont été brutalement tués dans de telles circonstances.

    En 2014, des talibans armés ont tué le reporter de l’AFP Sardar Ahmad, sa femme et deux de leurs enfants alors qu’ils dînaient dans un hôtel de Kaboul. Le chef photographe de l’Agence en Afghanistan Shah Marai a été tué avec plusieurs autres journalistes dans un attentat-suicide de l’Etat islamique en 2018. Le reporter free-lance James Foley a été enlevé en 2012 alors qu’il travaillait pour l’AFP en Syrie et a été assassiné par l’Etat islamique deux ans plus tard, avec une vidéo publiée sur les réseaux sociaux.

    L’AFP a rapporté dans le détail ce qui était arrivé à ces journalistes, mais ces meurtres n’ont pas changé sa politique sur l’utilisation du mot terroriste.

    Conformément à ces consignes éditoriales, l’AFP écrit qu’un groupe est qualifié de terroriste par un gouvernement ou une institution. C’est le cas pour le Hamas, qualifié de “terroriste” notamment par les Etats-Unis, l’Union européenne, le Royaume-Uni et Israël. C’est un fait que nous mentionnons dans notre production. De la même manière, nous citons des personnalités publiques et d’autres personnes lorsqu’elles utilisent le mot “terroriste” pour décrire le Hamas ou d’autres organisations. Nous utilisons également le mot terrorisme pour parler de poursuites judiciaires engagées pour ce motif.

    L’emploi du mot terroriste est extrêmement politisé et sensible. De nombreux gouvernements qualifient d’organisations terroristes les mouvements de résistance ou d’opposition dans leurs pays. De nombreux mouvements ou personnalités issus d’une résistance un temps qualifiée de terroriste ont été reconnus par la communauté internationale et sont devenus des acteurs centraux de la vie politique de leur pays. L’exemple le plus emblématique est sans doute Nelson Mandela.

    L’AFP a très largement couvert les événements du 7 octobre et la guerre qui a suivi, en décrivant avec précision des scènes souvent violentes et traumatisantes. Elle continuera de le faire.

    Notre devoir est de rapporter les faits, sans crainte et sans esprit partisan, et nous poursuivons cette mission chaque jour en Israël, à Gaza et en Ukraine, et partout où nos journalistes sont déployés dans le monde.

    edit : un étonnant reste de (posture) « grandeur de la #France » et du #journalisme d’une Agence France Police dont on sait par ailleurs les nombreux travers

    #Gaza #Hamas #BBC #AFP #terrorisme #media

  • Internationalisme et anti-impérialisme aujourd’hui

    http://www.palim-psao.fr/2023/10/internationalisme-et-anti-imperialisme-aujourd-hui-par-moishe-postone-ine

    [...] je propose de comprendre la propagation de l’antisémitisme et des formes antisémites apparentées de l’islamisme, à l’image de celles présentes chez les Frères musulmans égyptiens et leur branche palestinienne, le Hamas, comme la diffusion d’une idéologie anticapitaliste fétichisée, qui prétend donner un sens à un monde perçu comme menaçant. Même si cette idéologie a été attisée et aggravée par Israël ou la politique israélienne, sa caisse de résonance réside dans le déclin relatif du monde arabe sur fond d’une transition structurelle profonde du fordisme au capitalisme mondial néolibéral. Le résultat est un mouvement populiste anti-hégémonique profondément réactionnaire et dangereux, notamment pour tout espoir de politique progressiste au Moyen-Orient. Cependant, au lieu d’analyser cette forme de résistance réactionnaire dans le but de soutenir des formes de résistance plus progressistes, la gauche occidentale l’a soit ignorée, soit rationalisée comme une réaction regrettable mais compréhensible à la politique israélienne et aux États-Unis. Cette manifestation d’un refus de voir s’apparente à la tendance à concevoir l’abstrait (la domination du capital) dans les termes du concret (l’hégémonie américaine). J’affirme que cette tendance constitue l’expression d’une impuissance profonde et fondamentale, tant conceptuelle que politique.

    • L’une des ironies de la situation actuelle est qu’en adoptant une position anti-impérialiste fétichisée, l’opposition aux États-Unis ne s’adossant plus à un soutien à un changement progressiste, les libéraux et les progressistes ont permis à la droite néoconservatrice américaine de s’approprier, voire de monopoliser, ce qui a traditionnellement été le langage de la gauche : le langage de la démocratie et de la libération.

      […]

      Alors que pour la génération précédente, s’opposer à la politique américaine impliquait encore de soutenir explicitement des luttes de libération considérées comme progressistes, aujourd’hui, s’opposer à la politique américaine est en soi considéré comme anti-hégémonique. Il s’agit là paradoxalement d’un héritage malheureux de la Guerre froide et de la vision dualiste du monde qui l’accompagne. La catégorie spatiale du « camp » a remplacé les catégories temporelles des possibilités historiques et de l’émancipation en tant que négation historique déterminée du capitalisme. Cela n’a pas seulement conduit à un rejet de l’idée du socialisme comme dépassement historique du capitalisme, mais aussi à un déséquilibrage de la compréhension des évolutions internationales.

      […]

      La Guerre froide semble avoir effacé de la mémoire le fait que l’opposition à une puissance impériale n’était pas nécessairement progressiste et qu’il existait aussi des anti-impérialismes fascistes. Cette distinction s’est estompée pendant la Guerre froide, notamment parce que l’Union soviétique a conclu des alliances avec des régimes autoritaires, en particulier au Moyen-Orient, comme les régimes du Baas en Syrie et en Irak, qui n’avaient pas grand-chose en commun avec les mouvements socialistes et communistes. Au contraire, l’un de leurs objectifs était de liquider la gauche dans leurs propres pays. Par la suite, l’anti-américanisme est devenu un code progressiste en soi, bien qu’il y ait toujours eu des formes profondément réactionnaires d’anti-américanisme à côté des formes progressistes.

      #campisme #anti-impérialisme

    • Il est significatif qu’une telle attaque n’ait pas été menée il y a deux ou trois décennies par des groupes qui avaient toutes les raisons d’être en colère contre les États-Unis, comme les communistes vietnamiens ou la gauche chilienne. Il est important de comprendre l’absence d’une telle attaque, non pas comme un hasard, mais comme l’expression d’un principe politique. Pour ces groupes, une attaque visant en premier lieu des civils demeurait hors de leur horizon politique.

      […]

      Il existe une différence fondamentale entre les mouvements qui ne choisissent pas comme cible une population civile au hasard (comme le Viêt-Minh, le Viêt-Cong et l’ANC) et ceux qui le font (comme l’IRA, Al-Qaïda ou le Hamas). Cette différence n’est pas simplement tactique, elle est hautement politique, car la forme de la violence et la forme de la politique sont en relation l’une avec l’autre. Cela signifie que la nature de la société et de la politique futures sera différente selon que les mouvements sociaux militants feront ou non une distinction entre les objectifs civils et militaires dans leur pratique politique. S’ils ne le font pas, ils ont tendance à mettre l’accent sur l’identité. Cela les rend radicalement nationalistes dans le sens le plus large du terme, car ils travaillent avec une distinction ami/ennemi qui essentialise une population civile en tant qu’ennemie et rend ainsi impossible la possibilité d’une coexistence future. C’est pourquoi les programmes de ces mouvements ne proposent guère d’analyses socio-économiques visant à transformer les structures sociales (à ne pas confondre avec les institutions sociales que ces mouvements mettent en partie à disposition). Dans ces cas, la dialectique de la guerre et de la révolution du xxe siècle se transforme en une subordination de la « révolution » à la guerre. Ce qui m’intéresse ici, cependant, a moins à voir avec de tels mouvements qu’avec les mouvements d’opposition actuels dans les métropoles et leurs difficultés évidentes à faire la distinction entre ces deux formes différentes de « résistance ».

      Joseph Andras disait cela aussi dans ces dernières interviews ou textes

      #morale #terrorisme #civils

  • Gaza : « Macron n’a même pas la décence élémentaire d’appeler à un cessez-le-feu » - Regards.fr
    https://regards.fr/gaza-macron-na-meme-pas-la-decence-elementaire-dappeler-a-un-cessez-le-feu

    Socialisme et morale révolutionnaire, solution à deux États, impasse Hamas-Netanyahu, terrorisme et crime de guerre, « déraison » française… On a causé avec l’écrivain Joseph Andras.

    #hamas #Palestine #Israël #terrorisme

  • Métiers en tension : le gouvernement amorce un recul sur la régularisation des travailleurs sans papiers
    https://www.lemonde.fr/politique/article/2023/10/18/metiers-en-tension-le-gouvernement-amorce-un-recul-sur-la-regularisation-des

    Métiers en tension : le gouvernement amorce un recul sur la régularisation des travailleurs sans papiers
    Après l’attentat d’Arras, l’exécutif évoque la possibilité de renoncer à créer un titre de séjour de plein droit, par le biais de son projet de loi sur l’immigration, pour privilégier la création d’une nouvelle circulaire de régularisation.
    Par Thibaud Métais et Julia Pascual
    Le climat actuel aura-t-il raison de la jambe gauche du projet de loi « immigration » ? Après l’attentat d’Arras, le texte, qui doit être examiné au Sénat à partir du 6 novembre, est au cœur des débats. Alors que le parti Les Républicains (LR) font de l’article 3, qui prévoit de simplifier la régularisation des travailleurs sans papiers dans les métiers en tension, une « ligne rouge » et menace de ne pas voter en faveur du projet de loi, la disposition pourrait être enterrée. En tout cas, sa portée largement amoindrie. L’exécutif réfléchit depuis des semaines à la façon de procéder et pourrait finalement privilégier la création d’une nouvelle circulaire de régularisation plutôt que de créer un titre de séjour de plein droit, par le biais de la loi. Le 24 septembre, le président de la République, Emmanuel Macron, avait lui-même entrouvert la porte à une modification du texte. « Là-dessus, je pense qu’il y a un compromis intelligent à trouver », avait-il souligné, sur TF1 et France 2.
    Place Beauvau, on avance désormais qu’une nouvelle circulaire pourrait voir le jour. Elle ne remplacerait pas celle de 2012 dite « circulaire Valls », qui liste des critères de régularisation pour motif familial ou professionnel et que les préfets appliquent de façon discrétionnaire et très différente selon les territoires. Grâce à ce texte réglementaire, environ 30 000 personnes sont admises au séjour chaque année. L’objectif de la circulaire supplémentaire à laquelle le ministère de l’intérieur réfléchit serait de permettre à des travailleurs sur des métiers en tension d’être régularisés « en contournant le pouvoir de l’employeur », précise l’entourage de M. Darmanin. « Il ne s’agit pas de créer un flux [d’immigration] mais de sincériser [régulariser] un stock », que les services évaluent à environ 8 000 personnes par an.
    Aujourd’hui, s’il veut demander une régularisation par le biais de la circulaire Valls, un travailleur sans papiers doit non seulement prouver qu’il vit en France depuis au moins trois ans, présenter un certain nombre de bulletins de paie, mais il doit, en outre, demander à son patron de remplir un formulaire officiel d’embauche. L’article 3 du projet de loi prévoyait de faire sauter ce « verrou » de l’employeur dans les métiers en tension et de créer un droit à la régularisation moyennant trois ans de présence en France et huit fiches de paie. Place Beauvau, on pourrait désormais se contenter d’une circulaire qui aurait l’avantage de « garder le pouvoir d’appréciation des préfets ». La régularisation ne serait donc pas de plein droit mais resterait à la libre appréciation des services de l’Etat dans les départements.
    Mardi 17 octobre, le ministre du travail, Olivier Dussopt, avait pourtant tenu à défendre la disposition. Depuis l’attentat d’Arras, « le climat a changé, mais il serait absolument terrible (…) que des hommes et des femmes qui travaillent quotidiennement (…) soient les victimes d’un climat terroriste qui ne les concerne pas », a-t-il jugé sur Franceinfo. Face aux critiques de la droite et de l’extrême droite, le ministre a répété qu’il « n’y a pas d’appel d’air » avec une telle mesure. « Nous parlons de personnes en situation irrégulière mais qui travaillent légalement dans des métiers où tout le monde a du mal à recruter », a-t-il expliqué.Son entourage précise toutefois qu’Olivier Dussopt est toujours « ouvert sur la forme », législative ou réglementaire, sans dire si l’une ou l’autre est privilégiée, et qu’il « renvoie au débat sans en préjuger l’issue ». Place Beauvau, on assume ne pas vouloir se battre sur la forme et être disposé à un « texte de compromis large » avec la droite et le centre. L’article 3 « n’est pas le cœur essentiel du texte après ce qu’il s’est passé à Arras », considère l’entourage de M. Darmanin, soulignant que ce dernier ne portait pas personnellement la mesure.
    Un tel recul est susceptible de créer des remous dans la coalition présidentielle, où l’aile gauche de Renaissance a plusieurs fois répété son attachement à « l’équilibre » du texte entre ses deux volets social et répressif. « Cette mesure est nécessaire », juge le député macroniste de la Vienne Sacha Houlié, affirmant qu’« elle sera soutenue par le gouvernement et l’Elysée ». Ni Matignon ni l’Elysée n’ont confirmé. Pour M. Houlié, président de la commission des lois à l’Assemblée nationale, ce n’est pas le moment de reculer, alors que le contexte permet de mettre la pression sur la droite. « Sur les mesures de fermeté, c’est LR qui nous en prive par son refus obstiné de voter le texte depuis des mois », estime-t-il.
    Alors que l’examen du projet de loi à l’Assemblée nationale était prévu pour 2024, le ministre des relations avec le Parlement, Franck Riester, a annoncé, mardi, sur LCP, que la loi sera discutée dès le mois de décembre. « On devrait avoir au moins un vote pour chaque chambre du Parlement d’ici à la fin de l’année [2023] », a-t-il ajouté.

    #Covid-19#migration#migrant#france#loi#immigration#metierentension#economie#regularisation#terrorisme#securite#repression#politique

  • Loi sur l’immigration : pourquoi les mesures annoncées sur le retrait des titres de séjour sont contestables du point de vue du droit
    https://www.lemonde.fr/societe/article/2023/10/20/loi-immigration-pourquoi-les-mesures-annoncees-sur-le-retrait-des-titres-de-

    Loi sur l’immigration : pourquoi les mesures annoncées sur le retrait des titres de séjour sont contestables du point de vue du droit
    Le gouvernement promet d’agir contre les étrangers en situation régulière mais opposés aux « valeurs de la République ». Des juristes dénoncent un risque d’arbitraire.
    Par Julia Pascual
    Depuis l’attentat d’Arras, perpétré vendredi 13 octobre par un jeune Russe islamiste arrivé à l’âge de 5 ans en France, qui a coûté la vie au professeur Dominique Bernard, l’exécutif multiplie les annonces pour parer aux critiques de la droite et satisfaire une opinion publique que les sondages disent inquiète et avide de fermeté.
    Jeudi 19 octobre, le ministre de l’intérieur, Gérald Darmanin, a estimé, sur BFM-TV, que « si quelqu’un n’est pas en conformité avec les valeurs de la République, on doit pouvoir l’expulser ». Il a invité à cette fin les parlementaires à voter la loi sur l’immigration, qui sera débattue au Sénat, à partir du 6 novembre, « la plus dure et la plus ferme présentée depuis trente ans ». La veille, c’est le porte-parole du gouvernement, Olivier Véran, qui a promis que le texte permettrait de retirer un titre de séjour à un étranger en cas de « comportements non conformes à nos valeurs ».
    Pour rappel, l’auteur de l’attaque d’Arras, Mohammed Mogouchkov, était en situation irrégulière en France. Puisqu’il était arrivé avant l’âge de 13 ans sur le territoire, le droit le protégeait cependant d’une expulsion, sauf, selon la loi en vigueur, en cas de « comportements de nature à porter atteinte aux intérêts fondamentaux de l’Etat, ou liés à des activités à caractère terroriste, ou constituant des actes de provocation explicite et délibérée à la discrimination, à la haine ou à la violence ». Selon le projet de loi sur l’immigration, cette protection ne s’opposerait pas à une obligation de quitter le territoire en cas de « menace grave à l’ordre public ».
    Ce que vise aussi le gouvernement par ses annonces, ce sont les personnes en situation régulière. M. Darmanin a lui-même demandé aux préfets de passer au tamis les 2 852 étrangers réguliers inscrits au fichier de traitement des signalements pour la prévention de la radicalisation à caractère terroriste (FSPRT), pour envisager le retrait de leur titre de séjour, préalable à leur éloignement.« Actuellement, il n’est pas possible de retirer un titre de séjour pour des comportements non constitutifs d’une infraction pénale », a regretté M. Véran. « La loi empêche le ministre de l’intérieur de faire son travail », a répété M. Darmanin sur BFM-TV. En méconnaissance de la loi. « Dans le droit actuel, le préfet a déjà toute latitude pour ne pas délivrer, ne pas renouveler ou retirer un titre de séjour à tout étranger dont la présence en France constitue une menace pour l’ordre public, fait remarquer Camille Escuillié, avocate membre de l’association Avocats pour la défense des droits des étrangers. La loi n’exige pas de condamnation ni même de poursuites pénales. »
    C’est d’ailleurs, selon le ministère de l’intérieur, sur ce motif de menace à l’ordre public que Mohammed Mogouchkov n’avait pas obtenu de titre de séjour en 2021, bien que n’ayant aucun casier judiciaire, parce qu’il était déjà dans le viseur des services de renseignement et fiché au FSPRT.
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    Cela correspond par ailleurs aux directives données par M. Darmanin aux préfets depuis une circulaire de septembre 2020. « On a des dossiers de retrait de titre ou de refus de renouvellement ou de délivrance de titre concernant des personnes qui n’ont jamais été condamnées, mais qui sont apparues lors des consultations de fichiers tels que le traitement d’antécédents judiciaires [TAJ], le fichier national automatisé des empreintes génétiques [FNAEG] ou le fichier automatisé des empreintes digitales [FAED], constate Nicolas De Sa-Pallix, avocat spécialisé dans le droit des étrangers et membre du Syndicat des avocats de France. Généralement, les empreintes sont prises dans le cadre de gardes à vue et, même s’il n’y a pas de suite judiciaire, l’autorité administrative peut considérer que vous représentez une menace pour l’ordre public. » « De même, la présence au TAJ indique juste que vous apparaissez dans une procédure pénale comme prévenu ou victime. Et si vous êtes prévenu, il se peut que vous soyez innocenté ou même pas poursuivi. Il y a donc des étrangers auxquels on reproche des faits pour lesquels ils ont déjà été définitivement innocentés, ou jamais formellement poursuivis », complète l’avocat.
    Tout à sa volonté de rassurer l’opinion, le gouvernement entend aller plus loin encore. Grâce à l’article 13 du projet de loi sur l’immigration, Olivier Véran promet de « sortir du tout-pénal pour pouvoir retirer un titre en allant sur les valeurs de la République ». Et de citer des motifs en exemple tels que le « port ostensible en milieu scolaire de signes et de tenues religieux » ou le « refus d’être reçu ou entendu aux guichets des services publics par un agent de sexe opposé pour des motifs religieux ».
    L’article 13 du texte énonce en effet qu’un document de séjour pourra être retiré ou non renouvelé lorsque les actes délibérés d’un étranger troublent l’ordre public en ne respectant pas les « principes de la République » ainsi listés : « la liberté personnelle, la liberté d’expression et de conscience, l’égalité entre les femmes et les hommes, la dignité de la personne humaine, la devise et les symboles de la République » ou encore si l’étranger se prévaut « de ses croyances ou convictions pour s’affranchir des règles communes régissant les relations entre les services publics et les particuliers ».Cet article est en réalité une réécriture de l’article 26 de la loi dite « séparatisme », qui avait été censurée par le Conseil constitutionnel. Dans une décision du 13 août 2021, il avait estimé que le seul prétexte que l’étranger a « manifesté un rejet » des principes de la République n’était pas suffisamment précis. En ayant sommairement répertorié ces principes dans le projet de loi sur l’immigration, le gouvernement croit-il se tirer d’affaire ?
    « Si la rédaction de l’article de loi a évolué, le problème demeure le même, estime l’avocate au Conseil d’Etat et à la Cour de cassation Isabelle Zribi. A mon sens, la notion d’atteintes graves aux principes de la République, qui est trop vague, méconnaît l’objectif de valeur constitutionnelle d’accessibilité et d’intelligibilité de la loi et le principe de sécurité juridique. On peine à se figurer, par exemple, ce que serait concrètement une atteinte grave à la devise de la République, qui veut tout et rien dire, ou même à l’égalité entre les femmes et les hommes, sachant que c’est une valeur rarement respectée au sein des couples de toutes nationalités. »
    Est-ce que l’administration pourra refuser un titre de séjour à une lycéenne de 18 ans qui a porté l’abaya, à une personne qui tient des propos machistes ou refuse de chanter La Marseillaise ? « Cette disposition est presque incontrôlable, met en garde à son tour Me De Sa-Pallix. Je ne vois pas comment on ne tomberait pas dans un arbitraire administratif particulièrement prononcé. »« Il y a un sérieux risque d’inconstitutionnalité », estime encore l’avocat au Conseil d’Etat et à la Cour de cassation Patrice Spinosi, qui voit dans la manœuvre une instrumentalisation politique du droit. « Si le Conseil constitutionnel censure la loi, le gouvernement pourra dire que les juges vont à l’encontre de la volonté souveraine du peuple, redoute-t-il. C’est jouer le populisme contre la Constitution et c’est précisément ce qui sape l’Etat de droit en Europe aujourd’hui. »

    #Covid-19#migrant#migration#france#terrorisme#nationalite#securité#droit#titredesejour#etranger#immigration

  • #Edwy_Plenel : Israël-Palestine : la question morale

    Si le conflit israélo-palestinien enflamme le monde, c’est parce qu’il porte une question morale universelle : celle de l’égalité des droits. Que la légitimité internationale d’Israël s’accompagne de la négation des droits des Palestiniens n’a cessé de précipiter ce sommeil de la raison qui engendre des monstres. Seule cette lucidité politique est à même de défier la catastrophe en cours.

    LeLe sommeil de la raison produit des monstres. Avant de donner à voir, dans toute leur abomination, les désastres de la guerre (Los Desastres de la Guerra, 1810-1815), le peintre et graveur espagnol Francisco de Goya (1746-1828) avait intitulé ainsi l’une des gravures de sa série Los caprichos à la fin du XVIIIe siècle : El sueño de la razon produce monstruos. On y voit le peintre endormi tandis qu’une volée d’oiseaux nocturnes tourbillonne au-dessus de lui, symbolisant la folie et l’ignorance qui mènent l’humanité à sa perte.

    Nous vivons un moment semblable, d’obscurcissement et d’égarement. Spectateurs effarés, nous découvrons l’horreur des tueries de civils israéliens dans l’attaque terroriste du Hamas tandis que nous suivons l’hécatombe de civils palestiniens à Gaza sous les bombes de l’armée israélienne. Toutes ces vies humaines se valent, elles ont le même prix et le même coût, et nous nous refusons à cette escalade de la terreur où les crimes d’un camp justifieraient les crimes de l’autre. Mais nous nous sentons impuissants devant une catastrophe qui semble irrémédiable, écrite par avance tant ont été perdues, depuis si longtemps, les occasions de l’enrayer (pour mémoire mes alarmes de 2009, de 2010 et de 2014).

    Nous savons bien qu’il n’y a qu’une façon d’en sortir dans l’urgence : un cessez-le-feu immédiat sous contrôle des Nations unies afin de sauver les otages des deux bords, qui ouvrirait la voie à une solution politique dont la clé est la reconnaissance d’un État palestinien ayant lui-même reconnu l’État d’Israël. Mais, s’il peut arriver que d’un péril imminent naisse un salut improbable, cette issue semble un vœu pieux, faute de communauté internationale forte et unie pour l’imposer. Faute, surtout, de détermination des soutiens d’Israël, États-Unis au premier chef, pour freiner une volonté de vengeance qui ne fera qu’accélérer la course à l’abîme.

    Dès lors, comment échapper à un sentiment de sidération qu’aggrave le spectacle de désolation du débat politique et médiatique français ? À mille lieues de sa grandeur prétendue, la France officielle donne à voir son abaissement raciste, jetant la suspicion sur nos compatriotes musulmans et arabes, et son alignement impérialiste, rompant avec l’ancienne position équilibrée de sa diplomatie moyen-orientale. Indifférence aux oppressions et intolérance aux dissidences règnent sur cette médiocrité dont font les frais manifestations et expressions pro-palestiniennes, dans un climat maccarthyste qui distingue tristement notre pays des autres démocraties.

    Que faire ? Il importe déjà d’y voir clair. Ici, la responsabilité du journalisme, associant son devoir professionnel à son utilité sociale, est de trouer cette obscurité, en chassant les passions tristes et en s’éloignant des colères aveugles. Trouver son chemin, arriver à se repérer, réussir à ne pas s’égarer : autant d’impératifs vitaux par temps de propagande, que nous devons servir par une pratique aussi rigoureuse que sensible du métier. Elle suppose de résister au présent monstre de l’information en continu qui fonctionne à l’amnésie, perdant le fil de l’histoire, oubliant le passé qui la détermine, effaçant le contexte qui la conditionne (voir notre entretien-vidéo avec Bertrand Badie sur les mots et l’histoire du conflit).

    Mais il ne suffit pas de rendre compte. Il nous faut aussi échapper à la résignation qui guette, « cette accoutumance à la catastrophe dont le sentiment vague engourdit aujourd’hui tout désir d’action ». La formule est de l’historien Patrick Boucheron dans un récent libelle où il persiste, dans le sillage de Victor Hugo, à vouloir « étonner la catastrophe par le peu de peur qu’elle nous fait ». Secouant ce manteau de poussière dont le poids risque de nous paralyser, Le temps qui reste est une invitation inquiète à ne pas le perdre, ce temps, en refusant de se laisser prendre au piège de la catastrophe, tels des animaux saisis dans des phares, tétanisés et immobilisés par la conscience du péril.

    Car l’habitude, tissée de conformisme et de suivisme, est la meilleure alliée du pire en devenir. Voici donc, à l’instar de lucioles clignotant dans une nuit qui gagne, quelques repères qui nous guident pour affronter les désordres du monde et les folies des hommes. Quatre boussoles morales qui énoncent aussi ce à quoi nous refusons de nous habituer.
    1. Tout soutien inconditionnel est un aveuglement. Quel que soit le camp concerné. Quelle que soit la justesse de la cause.

    Aucun État, aucune nation, aucun peuple, et, partant, aucune armée, aucun parti, aucun mouvement, qui s’en réclame, ne saurait être soutenu inconditionnellement. Car, au-dessus d’eux, il y a une condition humaine universelle, dont découle un droit international sans frontières. Si, en 1948, l’année où est né l’État d’Israël, fut proclamée, à Paris, une Déclaration universelle des droits de l’homme, c’est pour cette raison même : s’ils ne rencontrent aucun frein, les États, les nations ou les peuples, peuvent devenir indifférents à l’humanité et, par conséquent, dangereux et criminels.

    Adoptée à Paris en 1948 par les cinquante-huit États alors représentés à l’Assemblée générale des Nations unies, la Déclaration de 1948 résulte de cette lucidité provoquée par la catastrophe européenne dont nationalisme et racisme furent les ressorts, conduisant au génocide des juifs d’Europe. Français, son rédacteur, René Cassin, Prix Nobel de la paix en 1968, s’était battu pour imposer, dans son intitulé, cette qualification d’« universelle » au lieu d’internationale : façon de signifier qu’un droit supérieur, celui de la communauté humaine, devait s’imposer aux États et aux nations dont ils se prévalent. Autrement dit de rappeler qu’aucun État, qu’aucune nation, qu’aucun peuple ne devrait se dérober, au prétexte de ses intérêts propres, à cette exigence de respect de l’égalité des droits.

    « Tous les êtres humains naissent libres et égaux en dignité et en droits. Ils sont doués de raison et de conscience et doivent agir les uns envers les autres dans un esprit de fraternité », énonce l’article premier de la Déclaration universelle des droits de l’homme. Comme la française de 1789, la Déclaration de 1948 dessine l’horizon d’une promesse, toujours inaccomplie et inachevée, sans cesse en chantier et à l’œuvre face aux égoïsmes renaissants des États et au risque qu’ils cèdent aux idéologies de l’inégalité. De ce point de vue, l’ajout de la dignité, notion sensible, aux droits, critère juridique, n’est pas indifférent, tout comme sa position première dans l’énoncé : il s’agit non seulement de respecter d’autres humains, mais aussi de se respecter soi-même. En somme, de rester digne, de savoir se tenir, se retenir ou s’empêcher, afin de ne jamais céder à la haine de l’homme.

    Chèque en blanc accordé à ses dirigeants et à ses militaires, l’affirmation d’un « soutien inconditionnel » à l’État d’Israël dans sa riposte au Hamas tourne le dos à ces valeurs universelles. Elle prolonge ce mépris pour le droit international que l’on invoque volontiers face à l’agression russe en Ukraine mais que l’on dénie à la Palestine par l’absolu non-respect des résolutions onusiennes condamnant, depuis 1967, les annexions et colonisations israéliennes de territoires palestiniens.
    2. Jamais la fin ne saurait justifier les moyens. Seuls les moyens utilisés déterminent la fin recherchée.

    Depuis soixante-quinze ans, la Palestine pose au monde une question morale : celle de la fin et des moyens. La légitimité d’Israël ne saurait se fonder sur la négation des droits des Palestiniens jusqu’à la commission répétée de crimes de guerre. Mais la contestation de l’occupation et de la colonisation ne saurait tolérer la négation de l’humanité des Israéliens.

    En franchissant ce pas avec les massacres et prises d’otage de civils, le Hamas a fait plus que nuire à la cause qu’il dit servir : il l’a déshonorée. Dans la mémoire juive des persécutions européennes contre lesquelles s’est créé le mouvement sioniste à la fin du XIXe siècle, la terreur déchaînée par le Hamas sur des civils israéliens ne peut qu’évoquer les pogroms antisémites. Et le rappel de massacres commis en 1947-1948 par les composantes les plus extrémistes du sionisme, afin de faire fuir les Palestiniens, ne saurait en aucun cas lui servir d’excuses.

    La violence aveugle de l’oppresseur le discrédite, légitimant la résistance violente de l’opprimé. Jusqu’au processus de paix entamé en 1991, le mouvement national palestinien, alors sous la direction de Yasser Arafat et du Fath qui dominait l’Organisation de libération de la Palestine, a illustré cette règle éternelle des situations d’injustices où un peuple prétend en dominer un autre. Mais, par ses débats internes, son pluralisme assumé, son évolution revendiquée jusqu’à la reconnaissance de l’État d’Israël, il a fait sienne la conviction que la cause libératrice de l’opprimé exige une morale supérieure où sa riposte ne cède pas aux crimes reprochés à l’oppresseur.

    Il y a cinquante ans, en 1973, l’année de la guerre du Kippour dont le Hamas a choisi la date anniversaire pour son attaque sur Israël, un appel collectif d’intellectuels notables (parmi lesquels Edgar Morin, Laurent Schwartz, Jean-Pierre Vernant et Pierre Vidal-Naquet) rappelait ces « évidences morales et politiques fondamentales » : « Il n’y a pas de problème de la fin et des moyens. Les moyens font partie intégrante de la fin. Il en résulte que tout moyen qui ne s’orienterait pas en fonction de la fin recherchée doit être récusé au nom de la morale politique la plus élémentaire. Si nous voulons changer le monde, c’est aussi, et peut-être d’abord, par souci de moralité. […] Si nous condamnons certains procédés politiques, ce n’est pas seulement, ou pas toujours, parce qu’ils sont inefficaces (ils peuvent être efficaces à court terme), mais parce qu’ils sont immoraux et dégradants, et qu’ils compromettent la société de l’avenir. »

    Cette mise en garde vaut évidemment pour les deux camps. De 2023 à 2001, se risquer à comparer le 7-Octobre israélien au 11-Septembre états-unien, ce n’est pas seulement ignorer la question nationale palestinienne en souffrance, au prétexte d’une guerre de civilisation entre le bien occidental et le mal arabe, c’est surtout continuer de s’aveugler sur la suite. Le terrorisme faisant toujours la politique du pire, les désordres actuels du monde résultent de la riposte américaine, à la fois mensongère et criminelle, détruisant un pays, l’Irak, qui n’y était pour rien, tout en semant un discrédit universel par une violation généralisée des droits humains dont l’Occident paye encore le prix. Loin de détruire l’adversaire désigné, il en a fait surgir d’autres, d’Al-Qaïda à Daech, encore plus redoutables.
    3. Au cœur du conflit israélo-palestinien, la persistance de la question coloniale ensauvage le monde.

    Porté par le mouvement sioniste qui avait obtenu la création d’un foyer national juif en Palestine, la création de l’État d’Israël en 1948 a été unanimement approuvée par les puissances victorieuses du nazisme. L’incommensurabilité du crime contre l’humanité, jusqu’à l’extermination par le génocide, commis contre les juifs d’Europe, légitimait le nouvel État. Une faute abominable devait être réparée en offrant aux juifs du monde entier un refuge où ils puissent vivre dans la tranquillité et la sécurité, à l’abri des persécutions.

    Si, aujourd’hui, Israël est un des endroits du monde où les juifs vivent avec angoisse dans le sentiment inverse, c’est parce que la réparation du crime européen s’est accompagnée de l’injustice commise contre les Palestiniens. Ce faisant, l’Occident – cette réalité politique dont les États-Unis ont alors pris le leadership – a prolongé dans notre présent le ressort passé de la catastrophe européenne : le colonialisme. Se retournant contre l’Europe et ses peuples, après avoir accompagné sa projection sur le monde, le colonialisme fut l’argument impérial du nazisme, avec son cortège idéologique habituel de civilisations et d’identités supérieures à celles des peuples conquis, soumis ou exclus.

    La colonisation ne civilise pas, elle ensauvage. Le ressentiment nourri par l’humiliation des populations dépossédées s’accompagne de l’enfermement des colons dans une posture conquérante, d’indifférence et de repli. L’engrenage est aussi redoutable qu’infernal, offrant un terrain de jeu idéal aux identités closes où la communauté devient une tribu, la religion un absolu et l’origine un privilège. Dès lors, accepter le fait colonial, c’est attiser le foyer redoutable d’une guerre des civilisations qu’illustre la radicalisation parallèle des deux camps, le suprémacisme juif raciste de l’extrême droite israélienne faisant écho à l’idéologie islamique du Hamas et de ses alliés, dans la négation de la diversité de la société palestinienne.

    Dialoguant en 2011, dans Le Rescapé et l’Exilé, avec le regretté Stéphane Hessel, qui accompagna depuis l’ONU où il était diplomate la création de l’État juif en Palestine, Elias Sanbar rappelle cette origine d’un conflit qui ne cessera de s’aggraver tant qu’elle ne sera pas affrontée : « On ne peut certes pas refaire l’histoire, mais il est important de dire que ce conflit a commencé par une terrible injustice commise en Palestine pour en réparer une autre, née dans l’horreur des camps nazis. » Acteur des négociations de paix israélo-palestiniennes, il en tirait la conséquence que la seule solution est dans l’égalité des droits. Dans la réciprocité et la reconnaissance. L’envers de ce poison qu’est la concurrence des victimes. L’opposé de cette misère qu’est la condescendance du vainqueur.

    « Il faut affirmer, déclarait-il alors – et pense-t-il toujours –, que la concurrence dans le registre des malheurs est indécente, que les courses au record du nombre de morts sont littéralement obscènes. Chaque souffrance est unique, le fait que des juifs aient été exterminés n’enlève rien à la souffrance des Palestiniens, tout comme le fait que des Palestiniens aient souffert et continuent de souffrir n’enlève rien à l’horreur vécue par des juifs. Puis et surtout, la reconnaissance de la souffrance des autres ne délégitime jamais votre propre souffrance. Au contraire. »
    4. La solution du désastre ne peut être confiée à ses responsables israéliens dans l’indifférence au sort des Palestiniens.

    Le 8 octobre 2023, au lendemain de l’attaque du Hamas contre Israël, le quotidien Haaretz, qui sauve l’honneur de la démocratie israélienne, publiait un éditorial affirmant que cette énième guerre était « clairement imputable à une seule personne : Benyamin Nétanyahou », ce premier ministre qui a « établi un gouvernement d’annexion et de dépossession » et a « adopté une politique étrangère qui ignorait ouvertement l’existence et les droits des Palestiniens ».

    La droite et l’extrême droite israéliennes ont attisé l’incendie qu’elles prétendent aujourd’hui éteindre par l’extermination militaire du Hamas et l’expulsion des Palestiniens de Gaza. Ce n’est pas un Palestinien qui, en 1995, a assassiné Yitzhak Rabin, portant un coup d’arrêt fatal au processus de paix, mais un terroriste ultra-nationaliste israélien. C’est Israël qui, depuis, sous l’impulsion de Benyamin Nétanyahou, n’a cessé de jouer cyniquement avec les islamistes du Hamas pour diviser le camp palestinien et affaiblir sa composante laïque et pluraliste.

    À l’aune de ces vérités factuelles, largement documentées, notamment par le journaliste Charles Enderlin, la polémique française sur le prérequis que serait la qualification de terroriste du Hamas en tant qu’organisation – et pas seulement de ses actions dont on a souligné le caractère criminel – a quelque chose de surréel. En 2008-2009, faisant écho aux stratégies israéliennes, la présidence de Nicolas Sarkozy n’hésitait pas à défendre la nécessité de « parler » avec le Hamas dont le chef était même interviewé par Le Figaro pour inviter le chef de l’État français à « donner une impulsion vitale à la paix ».

    Comble de l’hypocrisie, le Qatar, financier avéré du Hamas avec la tolérance d’Israël, est un partenaire économique, financier, militaire, diplomatique, sportif, culturel, etc., qui est, ô combien, chez lui dans l’establishment français, tout comme d’ailleurs son rival émirati. Or c’est au Qatar que le Hamas tient sa représentation extérieure, avec un statut avoisinant celui d’une antenne diplomatique, digne d’un État en devenir.

    Si des actions du Hamas peuvent être qualifiées de terroristes, c’est s’aveugler volontairement que de ne pas prendre en considération son autre réalité, celle d’un mouvement politique avec une assise sociale. Que sa ligne idéologique et ses pratiques autoritaires en fassent l’adversaire d’une potentielle démocratie palestinienne, qui respecterait le pluralisme des communautés et la diversité des opinions, ne l’empêche pas d’être l’une des composantes, aujourd’hui devenue dominante, du nationalisme palestinien.

    La paix de demain ne se fera qu’entre ennemis d’hier. Et, surtout, qu’entre peuples qui ne sont pas assimilables à leurs dirigeants. Ce mensonge doublé d’hypocrisie sur la réalité du Hamas et son instrumentalisation par l’État d’Israël souligne l’illusion qui a volé en éclats depuis le 7 octobre. Israël et les États-Unis pensaient reléguer la question palestinienne en pariant sur les États arabes, leurs intérêts à courte vue et leur opportunisme à toute épreuve. Ce faisant, ils oubliaient les peuples qui ne sont pas dupes, s’informent et s’entraident. Grands absents de ces mécanos diplomatiques, où l’on prétend faire leur avenir à leur place, ils finissent toujours, un jour ou l’autre, par en déjouer les plans.

    Au spectacle des foules proclamant dans le monde leur solidarité avec la Palestine, y compris dans les pays arabes qui ont normalisé leurs relations avec Israël, comment ne pas penser à ces lignes de notre confrère Christophe Ayad qui accompagnent l’exposition de l’Institut du monde arabe « Ce que la Palestine apporte au monde » ? « C’est du monde tel qu’il va mal dont la Palestine nous parle, écrit-il. On l’observe, on la scrute, on l’encourage ou on lui fait la leçon, mais c’est elle qui nous regarde depuis l’avenir de notre humanité. La Palestine vit déjà à l’heure d’un monde aliéné, surveillé, encagé, ensauvagé, néolibéralisé. Les Palestiniens savent ce que c’est d’être un exilé sur sa propre terre. Apprenons d’eux ! »

    Face aux ombres qui, aujourd’hui, s’étendent, ces réflexions peuvent paraître optimistes. Pourtant, la leçon est déjà là, la seule qui vaille pour éviter le pire, soit cette guerre des monstres dont Benyamin Nétanyahou et le Hamas sont les protagonistes : il n’y aura jamais de paix par la puissance et la force. Devant les défis sans frontières qui nous assaillent, le crédo de la puissance est une impasse quand la conscience de la fragilité est, au contraire, une force.

    https://www.mediapart.fr/journal/international/221023/israel-palestine-la-question-morale
    #7_octobre_2023 #Israël #Palestine #égalité_des_droits #Palestine #Israël #lucidité #à_lire #raison #obscurcissement #égarement #tueries #terrorisme #civils #Gaza #Hamas #armée_israélienne #terreur #crimes #impuissance #catastrophe #cessez-le-feu #otages #solution_politique #communauté_internationale #Etats-Unis #USA #vengeance #sidération #désolation #débat_politique #débat_médiatique #médias #France #suspicion #médiocrité #responsabilité #propagande #journalisme #amnésie #résignation #habitude #conformisme #suivisme #aveuglement #soutien_conditionnel #question_coloniale

  • #Etienne_Balibar : #Palestine à la #mort

    L’instinct de mort ravage la terre de Palestine et #massacre ses habitants. Nous sommes dans un cercle d’#impuissance et de calcul dont on ne sortira pas. La #catastrophe ira donc à son terme, et nous en subirons les conséquences.

    Les commandos du #Hamas, enfermés avec deux millions de réfugiés dans ce qu’on a pu appeler une « prison à ciel ouvert », se sont enterrés et longuement préparés, recevant le soutien d’autres puissances régionales et bénéficiant d’une certaine complaisance de la part d’Israël, qui voyait en eux son « ennemi préféré ».

    Ils ont réussi une sortie offensive qui a surpris Tsahal occupée à prêter main forte aux colons juifs de Cisjordanie, ce qui, de façon compréhensible, a engendré l’enthousiasme de la jeunesse palestinienne et de l’opinion dans le monde arabe.

    À ceci près qu’elle s’est accompagnée de #crimes particulièrement odieux contre la population israélienne : assassinats d’adultes et d’enfants, tortures, viols, enlèvements. De tels crimes ne sont jamais excusables par la #légitimité de la cause dont ils se réclament.

    Malgré le flou de l’expression, ils justifient qu’on parle de #terrorisme, non seulement à propos des actions, mais à propos de l’organisation de #résistance_armée qui les planifie. Il y a plus : il est difficile de croire que l’objectif (en tout cas le risque assumé) n’était pas de provoquer une #riposte d’une violence telle que la #guerre entrerait dans une phase nouvelle, proprement « exterministe », oblitérant à jamais les possibilités de #cohabitation des deux peuples. Et c’est ce qui est en train de se passer.

    Mais cela se passe parce que l’État d’Israël, officiellement redéfini en 2018 comme « État-nation du peuple juif », n’a jamais eu d’autre projet politique que l’#anéantissement ou l’#asservissement du peuple palestinien par différents moyens : #déportation, #expropriation, #persécution, #assassinats, #incarcérations. #Terrorisme_d'Etat.

    Il n’y a qu’à regarder la carte des implantations successives depuis 1967 pour que le processus devienne absolument clair. Après l’assassinat de Rabin, les gouvernements qui avaient signé les #accords_d’Oslo n’en ont pas conclu qu’il fallait faire vivre la solution « à deux États », ils ont préféré domestiquer l’#Autorité_Palestinienne et quadriller la #Cisjordanie de #checkpoints. Et depuis qu’une #droite_raciste a pris les commandes, c’est purement et simplement de #nettoyage_ethnique qu’il s’agit.

    Avec la « #vengeance » contre le Hamas et les Gazaouis, qui commence maintenant par des massacres, un #blocus_alimentaire et sanitaire, et des #déplacements_de_population qu’on ne peut qualifier autrement que de génocidaires, c’est l’irréparable qui se commet. Les citoyens israéliens qui dénonçaient l’instrumentalisation de la Shoah et se battaient contre l’#apartheid ne sont presque plus audibles. La fureur colonialiste et nationaliste étouffe tout.

    Il n’y a en vérité qu’une issue possible : c’est l’intervention de ladite communauté internationale et des autorités dont elle est théoriquement dotée, exigeant un #cessez-le-feu immédiat, la libération des #otages, le jugement des #crimes_de_guerre commis de part et d’autre, et la mise en œuvre des innombrables résolutions de l’ONU qui sont restées lettre morte.

    Mais cela n’a aucune chance de se produire : ces institutions sont neutralisées par les grandes ou moyennes puissances impérialistes, et le conflit judéo-arabe est redevenu un enjeu des manœuvres auxquelles elles se livrent pour dessiner les sphères d’influence et les réseaux d’alliances, dans un contexte de guerres froides et chaudes. Les stratégies « géopolitiques » et leurs projections régionales oblitèrent toute légalité internationale effective.

    Nous sommes dans un cercle d’impuissance et de calcul dont on ne sortira pas. La catastrophe ira donc à son terme, et nous en subirons les conséquences.

    https://blogs.mediapart.fr/etienne-balibar/blog/211023/palestine-la-mort

    #7_octobre_2023 #génocide #colonialisme #nationalisme

  • Israël et la question des otages
    https://laviedesidees.fr/Israel-et-la-question-des-otages

    L’ampleur des enlèvements de civils israéliens le 7 octobre constitue un fait sans précédent. Comment a évolué la doctrine d’Israël sur la #négociation ? Comment déterminer le « prix » d’une vie sur un plan politique et moral ? #Israël est-il prêt à payer plus cher que d’autres pays le retour de ses citoyens ?

    #International #Entretiens_vidéo #violence #terrorisme

  • 18.10.2023 : Reintroduzione dei controlli delle frontiere interne terrestri con la Slovenia, nota di Palazzo Chigi

    Il Governo italiano ha comunicato la reintroduzione dei controlli delle frontiere interne terrestri con la Slovenia, in base all’articolo 28 del Codice delle frontiere Schengen (Regolamento Ue 2016/339).

    Il ripristino dei controlli alle frontiere interne, già adottato nell’area Schengen, è stato comunicato dal ministro Piantedosi al vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas, al commissario europeo agli Affari interni Ylva Johansson, alla presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, al segretario generale del Consiglio dell’Unione europea Thérèse Blanchet e ai ministri dell’Interno degli Stati membri Ue e dei Paesi associati Schengen.

    L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione. Un quadro ulteriormente aggravato dalla costante pressione migratoria cui l’Italia è soggetta, via mare e via terra (140 mila arrivi sulle coste italiane, +85% rispetto al 2022). Nella sola regione del Friuli Venezia Giulia, dall’inizio dell’anno, sono state individuate 16 mila persone entrate irregolarmente sul territorio nazionale.

    Questo scenario, oggetto di approfondimento anche da parte del Comitato di analisi strategica anti-terrorismo istituito presso il ministero dell’Interno, conferma la necessità di un ulteriore rafforzamento delle misure di prevenzione e controllo. Nelle valutazioni nazionali, infatti, le misure di polizia alla frontiera italo-slovena non risultano adeguate a garantire la sicurezza richiesta. La misura verrà attuata dal 21 ottobre prossimo per un periodo di 10 giorni, prorogabili ai sensi del Regolamento Ue 2016/339. Le modalità di controllo saranno attuate in modo da garantire la proporzionalità della misura, adattate alla minaccia e calibrate per causare il minor impatto possibile sulla circolazione transfrontaliera e sul traffico merci.
    Ulteriori sviluppi della situazione ed efficacia delle misure verranno analizzati costantemente, nell’auspicio di un rapido ritorno alla piena libera circolazione.

    https://www.governo.it/it/articolo/reintroduzione-dei-controlli-delle-frontiere-interne-terrestri-con-la-sloven

    #Slovénie #Italie #frontières #asile #migrations #réfugiés #frontières #contrôles_systématiques_aux_frontières #frontière_sud-alpine #Alpes
    –—

    ajouté à cette métaliste sur l’annonce du rétablissement des contrôles frontaliers de la part de plusieurs pays européens :
    https://seenthis.net/messages/1021987

    • Terrorismo, l’Italia sospende Schengen: Blindato il confine sloveno. Gli 007: “Falle nei controlli, i lupi solitari passano da lì”

      Meloni sui social: “La sospensione del Trattato di Schengen sulla libera circolazione in Europa si è resa necessaria per l’aggravarsi della situazione in Medio Oriente, me ne assumo la piena responsabilità”. Vertice tra la premier e i servizi di intelligence sul rischio attentati

      Non hanno nome. E nemmeno un volto. Sono fantasmi, impossibili da intercettare per l’intelligence e la Prevenzione. “Per un terrorista, come dimostra la cronaca, il corridoio balcanico rappresenta un percorso privilegiato verso l’Italia e l’Europa: niente fotosegnalazione, nessuna identificazione”, spiegano da settimane la Polizia e i Servizi al governo. Un’indicazione ribadita martedì, durante il comitato di analisi strategica antiterrorismo.

      (#paywall)

      https://www.repubblica.it/politica/2023/10/18/news/terrorismo_italia_allerta_slovenia-418144267

      #terrorismo

    • L’Italia vuole ristabilire i controlli alla frontiera con la Slovenia

      Il governo ha motivato la decisione – inedita – citando il conflitto israelo-palestinese e l’aumento degli arrivi di migranti

      Mercoledì pomeriggio il governo italiano ha annunciato di voler ristabilire dei controlli alla frontiera tra Friuli Venezia Giulia e Slovenia: la misura entrerà in vigore dal 21 ottobre prossimo, avrà una durata iniziale di 10 giorni e potrà eventualmente essere prorogata. La notizia è stata data dalla presidenza del Consiglio, dopo che era stata comunicata alle istituzioni europee da Matteo Piantedosi, ministro dell’Interno e titolare delle procedure di controllo alle frontiere. «L’intensificarsi dei focolai di crisi ai confini dell’Europa, in particolare dopo l’attacco condotto nei confronti di Israele, ha infatti aumentato il livello di minaccia di azioni violente anche all’interno dell’Unione» ha detto in un comunicato il governo, che dunque giustifica questa decisione con le tensioni generate dal conflitto israelo-palestinese.

      Di fatto quindi l’Italia vuole sospendere l’accordo di Schengen, ovvero un’intesa che garantisce la libera circolazione di persone e merci sul territorio europeo a cui aderiscono 23 dei 27 paesi membri dell’Unione Europea (e tra questi anche la Slovenia). È una scelta senza precedenti: l’Italia aveva sospeso Schengen solo in concomitanza con lo svolgimento sul territorio nazionale di eventi internazionali di grande rilevanza. Per il G20 di Roma (tra il 27 ottobre e il primo novembre del 2021), per il G7 di Taormina (tra il 10 e il 30 maggio del 2017) e per il G8 dell’Aquila (tra il 28 giugno e il 15 luglio del 2009). A seguito degli attentati terroristici a Parigi del 2015 si parlò dell’eventualità di un ripristino dei controlli alle frontiere, ma l’ipotesi fu poi accantonata dal governo di Matteo Renzi.

      Sono stati numerosi, invece, i paesi europei che hanno fatto ricorso a questa procedura negli ultimi due anni, cioè da quando dopo la lunga fase della pandemia la libera circolazione nell’area Schengen era stata reintrodotta stabilmente: Francia, Germania, Austria, Polonia, Danimarca, Slovacchia, Norvegia, Repubblica Ceca, quasi sempre per ragioni legate a un aumento dei flussi migratori ritenuto eccessivo e, più di rado, per minacce legate al terrorismo o a seguito di un attentato subito sul territorio nazionale.

      Insieme all’Italia vari altri paesi dell’Unione Europea hanno notificato alle istituzioni europee la decisione di sospendere Schengen temporaneamente in questi giorni e nelle prossime settimane: tra questi Austria, Germania, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia. L’Italia è però l’unica, finora, a citare tra le ragioni a giustificazione della sospensione il conflitto israelo-palestinese. La motivazione ufficiale del governo cita anche «la costante pressione migratoria via mare e via terra» collegandola a una presunta «possibile infiltrazione terroristica» che «conferma la necessità di un ulteriore rafforzamento delle misure di prevenzione e controllo».

      Pochi minuti dopo l’annuncio, la Lega di Matteo Salvini ha diffuso a sua volta un comunicato in cui dice che la decisione adottata «è un’ottima notizia che conferma la serietà e la concretezza del governo. Avanti così, a difesa dell’Italia e dei suoi confini».

      https://www.ilpost.it/2023/10/18/controlli-frontiera-slovenia-schengen

    • Ripristinati i controlli al confine tra Italia e Slovenia

      ICS - Ufficio Rifugiati di Trieste: usato uno stratagemma che può riproporre gravissime condotte illegali

      7.000 sono le persone migranti intercettate e respinte in Slovenia nel corso del 2023. A fornire questi numeri è direttamente il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, all’indomani del ripristino dei controlli sul confine orientale per prevenire, secondo il Viminale, “infiltrazione terroristiche“.

      E’ difatti con questa motivazione che il Governo italiano giustifica la decisione di ripristinare i controlli: il Codice frontiere Schengen (Regolamento UE n. 2016/399) prevede che il ripristino dei controlli di frontiera interni può avvenire “solo come misura di extrema ratio (…) in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro” (Codice, art. 25) per il tempo più breve possibile. Il rischio di “attentati o minacce terroristiche” (Codice, art. 26) può motivare il temporaneo ripristino dei controlli di frontiera, ma tale rischio deve essere concreto e specifico.

      Secondo ICS – Ufficio Rifugiati onlus di Trieste le motivazioni del governo «appaiono del tutto vaghe e inadeguate; in particolare l’inserimento, nelle motivazioni, dell’esistenza di presunto problema dell’arrivo in tutto il Friuli Venezia-Giulia di un modestissimo numero di rifugiati (circa 1.500 persone al mese nel corso del 2023), in assoluta prevalenza provenienti dall’Afghanistan, risulta risibile e del tutto privo di alcuna connessione logico-giuridica con i criteri richiesti dal Codice Schengen per legittimare una scelta così estrema quale il ripristino dei confini interni».

      «E non può – ricorda l’associazione – comportare alcuna compressione o limitazione del diritto d’asilo in quanto “gli Stati membri agiscono nel pieno rispetto (…) del pertinente diritto internazionale, compresa la convenzione relativa allo status dei rifugiati firmata a Ginevra il 28 luglio 1951 «convenzione di Ginevra»), degli obblighi inerenti all’accesso alla protezione internazionale, in particolare il principio di non-refoulement (non respingimento), e dei diritti fondamentali”. (Codice, art. 3)».
      Ciò significa «che anche durante il periodo di temporaneo ripristino dei controlli di frontiera rimane dunque inalterato, alla frontiera italo-slovena, l’obbligo da parte della polizia, di recepire le domande di asilo degli stranieri che intendono farlo e di ammettere gli stessi al territorio per l’espletamento delle procedure previste dalla legge».

      L’Italia non più tardi di cinque mesi fa è stata condannata per le riammissioni / respingimenti illegali attuate nel 2020 e perfino al risarcimento economico dei richiedenti asilo, mentre la Corte di giustizia UE ha ribadito, a fine settembre, che è vietato il respingimento sistematico alle frontiere interne.

      Tutto questo fa emergere che l’inadeguatezza delle motivazioni fornite da Roma rendono non infondato il sospetto che la decisione – secondo ICS – «ben poco abbia a che fare con la difficile situazione internazionale, bensì rappresenti una misura propagandistica e uno stratagemma, attraverso le quasi già annunciate proroghe della misura, per riproporre gravissime condotte illegali al confine italo-sloveno tramite respingimenti di richiedenti asilo che sono tassativamente vietati dal diritto internazionale ed europeo».

      «In un pericolosissimo effetto domino, la situazione potrebbe facilmente degenerare in uno scenario di respingimenti collettivi a catena, radicalmente vietati dal diritto internazionale, in ragione della decisione assunta dalla Slovenia a seguito della decisione italiana di ripristinare a sua volta i controlli di frontiera con la Croazia e l’Ungheria», conclude l’associazione.

      https://www.meltingpot.org/2023/10/ripristinati-i-controlli-al-confine-tra-italia-e-slovenia
      #terrorisme

    • 27 ottobre 2023: Controlli ai confini con la Slovenia: divieto di circolazione, libertà di respingimento

      Preoccupa la reintroduzione dei controlli ai confini interni con la Slovenia annunciata il 18 ottobre dal Governo Meloni dopo gli attacchi compiuti da Hamas in territorio israeliano. Si tratta infatti di un’iniziativa infondata e strumentale, per la distorsione della presunta “costante pressione migratoria” (appena 1.500 persone al mese in Friuli-Venezia Giulia dall’inizio dell’anno), grave, per l’equivalenza che suggerisce all’opinione pubblica tra migranti in transito e potenziali “lupi solitari”, e che rischia soprattutto di tradursi in un palese “via libera” a riammissioni e respingimenti a catena a danno dei migranti e richiedenti asilo, in violazione del diritto interno ed europeo.

      Il tutto in un punto di transito, quello tra Italia e Slovenia, che ha già vissuto nel 2020 l’esperienza delle riammissioni informali attive disposte dall’allora capo di gabinetto della ex ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e oggi titolare di quel dicastero, Matteo Piantedosi. Pratiche che hanno comportato il respingimento a catena delle persone, esponendole a violenze e trattamenti inumani e degradanti, e per questo dichiarate illegittime dai tribunali nel corso di questi anni. E che pure sembrano rappresentare ancora in principio l’unico strumento per l’esecutivo: uno strumento, è bene ribadirlo, illegale.

      Come hanno già fatto notare anche altri osservatori e organizzazioni sul campo, il ripristino dei controlli di frontiera interni e il sacrificio della libera circolazione può avvenire in base al Codice frontiere Schengen (Regolamento (UE) 2016/399) “solo come misura di extrema ratio […] in caso di minaccia grave per l’ordine pubblico o la sicurezza interna di uno Stato membro” (Codice, art. 25) per il tempo più breve possibile. Il rischio di “attentati o minacce terroristiche” (Codice, art. 26) può motivare il temporaneo ripristino dei controlli di frontiera, ma tale rischio deve essere concreto e specifico.

      Giocando all’equivoco intorno al concetto di minaccia per l’ordine pubblico o la sicurezza interna, e liquidando in poche battute il flop delle preesistenti “misure di polizia alla frontiera italo-slovena” annunciate in pompa magna solo pochi mesi fa, il governo ha però già esplicitato di voler prorogare il ripristino dei controlli per i prossimi mesi (la misura doveva durare per 10 giorni dal 21 ottobre 2023). A significare che il reale scopo della reintroduzione dei controlli ai confini interni non è contrastare la minaccia terroristica -verso la quale, come noto, è totalmente inefficace- quanto tentare di dar parvenza di (non) legittimità a prassi operative sovrapponibili a riammissioni e respingimenti. Puntando magari a vietare l’accesso al territorio per coloro che intendano chiedere asilo, scavalcando gli obblighi di informativa che stanno in capo alle autorità di frontiera, respingendo le persone senza lasciar loro in mano alcun provvedimento.

      “Le modalità di controllo saranno attuate in modo da garantire la proporzionalità della misura, adattate alla minaccia e calibrate per causare il minor impatto possibile sulla circolazione transfrontaliera e sul traffico merci”, ha provato a chiarire Palazzo Chigi. Ci si augura che dietro queste parole non si prefiguri il ricorso a forme di profilazione razziale, tema sul quale il nostro Paese è già stato bacchettato dal Comitato Onu per l’eliminazione delle discriminazioni razziali.

      Ecco perché è fondamentale monitorare l’attività delle autorità italiane al confine sloveno. La rete RiVolti ai Balcani, tramite le realtà che vi aderiscono, lo sta già facendo.

      Ed è molto importante al riguardo informare correttamente la cittadinanza.
      Ecco perché giovedì 9 novembre alle ore 18.30 sui canali social della rete è stata organizzata l’iniziativa pubblica online “Divieto di circolazione. Libertà di respingimento” per fare il punto della situazione sia per quanto riguarda la frontiera Italia-Slovenia e sia per quanto attiene alla condizione delle persone in transito lungo le rotte balcaniche, dove le violenze sono tornate ancora una volta a governare la “gestione” dei passaggi. Una gestione oscura, come insegna anche la “novità” italiana della reintroduzione dei controlli ai confini interni con la Slovenia.

      https://www.rivoltiaibalcani.org/news-5

    • Rotta balcanica, Piantedosi lancia le brigate antimigranti

      Lo stesso Piantedosi ha altresì annunciato che, non appena i controlli alle frontiere cesseranno (al momento sono prorogati fino al 20 novembre), è intenzione del Governo prevedere l’istituzione di “brigate miste” (di polizia) da “rendere stabili nel tempo”. Il termine utilizzato – brigate – è già piuttosto militaresco, ma, soprattutto, tali brigate miste come sarebbero composte, con quale mandato e con quali garanzie opererebbero al di fuori del territorio italiano? Anche sul confine sloveno-croato e su quello croato-bosniaco?

      https://seenthis.net/messages/1025275