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  • Le Finestre di Beslan Igor D’India
    http://www.igordindia.it/2017/04/le-finestre-beslan

    Regia di Igor D’India e Martino Lo Cascio

    Questo è il primo documentario indipendente che racconta l’inchiesta di #Peacereporter e della #NovajaGazeta sulla strage di Beslan, ma anche le testimonianze dei sopravvissuti che chiedono giustizia.
    Sebbene dopo l’uscita del documentario ci siano stati numerosi sviluppi nelle indagini, Le Finestre di Beslan ritrae il caos dei primi mesi e le drammatiche ombre dell’attentato che è stato spesso considerato l’11 Settembre russo, costato la vita a più di 300 bambini della Scuola N.1

    https://www.youtube.com/watch?time_continue=53&v=hjtELBOlYmo

    Le Finestre di Beslan

    #beslan #documentaire #Tchétchénie #russie #igordindia

  • Il decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione è legge - Annalisa Camilli - Internazionale

    Il 12 aprile la camera ha approvato il decreto Minniti-Orlando sull’immigrazione con 240 voti a favore, 176 voti contrari e 12 astenuti. Il governo di Paolo Gentiloni ha blindato il decreto ponendo la mozione di fiducia, che è stata approvata con larga maggioranza l’11 aprile. Il decreto, presentato dall’esecutivo lo scorso febbraio, era già stato approvato dal senato, sempre con un voto di fiducia, il 29 marzo. Il termine per trasformare il decreto in legge sarebbe scaduto la prossima settimana, ma con la fiducia le opposizioni non sono potute intervenire sul testo della legge né proporre emendamenti e questo ha accelerato l’approvazione della misura.

    Cosa prevede la legge
    Il decreto porta il nome del ministro dell’interno Marco Minniti e del ministro della giustizia Andrea Orlando e contiene “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale”. Secondo le dichiarazioni degli stessi ministri, il decreto nasce dall’esigenza del governo di accelerare le procedure per l’esame dei ricorsi sulle domande d’asilo, che nell’ultimo anno sono aumentati e hanno intasato i tribunali. Dall’altra parte il governo vuole aumentare il tasso delle espulsioni di migranti irregolari.

    I punti principali del decreto sono quattro: l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che hanno fatto ricorso contro un diniego, l’abolizione dell’udienza, l’estensione della rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari e l’introduzione del lavoro volontario per i migranti. Nel primo grado di giudizio l’attuale “rito sommario di cognizione” sarà sostituito con un rito camerale senza udienza, nel quale il giudice prenderà visione della videoregistrazione del colloquio del richiedente asilo davanti alla commissione territoriale. Senza contraddittorio e senza che il giudice possa rivolgere domande al richiedente asilo che ha presentato il ricorso.

    Il piano prevede inoltre un allargamento della rete dei centri per il rimpatrio, gli attuali #Cie si chiameranno #Cpr (Centri permanenti per il rimpatrio). Si passerà da quattro a venti centri, uno in ogni regione, per un totale di 1.600 posti. Di fronte alle preoccupazioni espresse da numerose organizzazioni impegnate per la difesa dei diritti umani, il ministro dell’interno Minniti ha assicurato che i nuovi centri saranno piccoli, con una capienza di cento persone al massimo, sorgeranno lontano dalle città e vicino agli aeroporti e soprattutto saranno “tutt’altra cosa rispetto ai Cie”.

    Le critiche delle associazioni
    L’11 aprile mentre l’aula di Montecitorio dava la fiducia al governo, numerose associazioni e partiti hanno formato un presidio davanti al parlamento per contestare la nuova legge. Arci, Acli, Fondazione Migrantes, Baobab, Asgi, Medici senza frontiere, Cgil, A buon diritto, Radicali italiani, Sinistra italiana tra i promotori del sit-in contro la nuova legge. “Noi abbiamo già un’esperienza dei Cie e abbiamo visto che ogni volta che ne è stata estesa la capienza si sono moltiplicate le violazioni dei diritti umani”, afferma Patrizio Gonnella presidente dell’Associazione Antigone, tra gli organizzatori della protesta. “Possibile che non riusciamo a immaginare nessun altro metodo per le persone che sono in attesa di un’espulsione?”, chiede Gonnella. “Se il problema è aumentare i rimpatri, non potremmo pensare di estendere i programmi di rimpatrio volontario? Se invece questi centri servono a recludere i presunti terroristi in attesa di espulsione allora stiamo sbagliando perché per i presunti terroristi ci sono le carceri”.

    Dello stesso parere Valentina Brinis dell’associazione A buon diritto che definisce il decreto Minniti “un balzo indietro di dieci anni”. Le associazioni per la tutela dei diritti umani denunciano da anni l’inefficacia e la disumanità dei centri di detenzione per i migranti irregolari che sono “i peggiori centri che abbiamo in Italia”, afferma Brinis. “Questi posti li visitiamo settimanalmente e vediamo quali sono le condizioni delle persone lì dentro: non possono portare nemmeno un libro, una penna, prendono psicofarmaci perché non riescono a dormire”.

    “Si ripropongono vecchie soluzioni securitarie, che già sappiamo non funzioneranno invece di mettere mano a una pessima legge sull’immigrazione: la legge Bossi-Fini”, afferma Riccardo Magi dei Radicali italiani, che insieme ad altre associazioni e gruppi impegnati nell’assistenza di migranti come il Centro Astalli, l’Arci, l’Asgi il 12 aprile ha lanciato una raccolta firme per una legge di iniziativa popolare che porti a una riforma del Testo unico sull’immigrazione. “Per rispondere alla richiesta di sicurezza che viene dai cittadini bisogna creare dei canali legali per l’immigrazione nel nostro paese, la possibilità di ottenere un visto per lavoro, o la regolarizzazione delle persone che già lavorano in Italia”, conclude Magi. Per Grazia Naletto di Lunaria “il problema è l’idea alla base del decreto: la correlazione tra immigrazione e sicurezza”. È un approccio che presta il fianco a “una strumentalizzazione razzista e xenofoba dell’immigrazione”, dice Naletto.

    A criticare il decreto anche un gruppo di operatori sociali che si è riunito a Roma l’8 aprile per fondare la Rete degli operatori sociali contro i decreti Minniti-Orlando. Secondo gli operatori la nuova legge costringe chi lavora nelle strutture di assistenza a comportarsi come un pubblico ufficiale, minando il rapporto di fiducia con le persone assistite. “Dove si identifica l’operatore sociale con la figura del pubblico ufficiale che deve sovraintendere alla richiesta d’asilo si fa un passo molto grave e rischioso”, spiega Naletto che conferma la volontà degli operatori di fare rete e organizzare delle azioni di protesta coordinate contro le nuove disposizioni.

    Le accuse di incostituzionalità
    Molti giuristi hanno sostenuto che il decreto Minniti-Orando non è in linea con la costituzione italiana e con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. In particolare violerebbe l’articolo 111 della costituzione (il diritto a un giusto processo), l’articolo 24 (il diritto di difesa), e l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto al contraddittorio). I punti più contestati sono l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo e la cancellazione dell’udienza. L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione ha criticato, inoltre, il ricorso stesso allo strumento del decreto legge: “Una misura che si applica solo in condizioni di urgenza” e che però in questo caso verrà applicata “sui processi in vigore tra 180 giorni”.

    #Gianfranco_Schiavone, vicepresidente dell’Asgi e presidente del Consorzio italiano di solidarietà-Ufficio rifugiati onlus, di Trieste, spiega che la proposta più grave è quella di annullare l’udienza, cioè la possibilità del giudice di primo grado di ascoltare di persona il richiedente asilo. “Questa proposta è in contrasto con quello che è previsto dal nostro ordinamento per quando riguarda il ruolo del giudice nell’accertare la violazione di un diritto soggettivo”. Secondo Schiavone, la proposta collide anche con la direttiva europea sulle procedure (art. 46, 32/2013). “Assicurare un ricorso effettivo ex nunc comporta che il giudice debba ascoltare il richiedente asilo, fargli delle domande e andarsi ad ascoltare le fonti: cioè esaminare tutti gli elementi di fatto e di diritto, non solo una videoregistrazione”, spiega Schiavone.

    Anche l’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha espresso “un fermo e allarmato dissenso” rispetto alla nuova legge perché produce “l’effetto di una tendenziale esclusione del contatto diretto tra il ricorrente e il giudice nell’intero arco del giudizio di impugnazione delle decisioni adottate dalle Commissioni territoriali in materia di riconoscimento della protezione internazionale”. Preoccupazione condivisa anche dal presidente della cassazione Giovanni Canzio che ha detto: “Pretendere la semplificazione e razionalizzazione delle procedure non può significare soppressione delle garanzie. In alcuni casi non c’è neppure il contraddittorio come si può pensare allora al ruolo di terzietà del giudice?”.

    Su questi punti è intervenuto lo stesso ministro della giustizia Andrea Orlando dicendo: “Voglio rassicurare sul fatto che il giudice di primo grado sarà tenuto a fissare l’udienza quando valuterà la necessità di sentire personalmente il richiedente asilo, quando riterrà indispensabile che le parti diano chiarimenti. Il richiedente asilo potrà inoltre chiedere al giudice di essere sentito, e spetterà a quest’ultimo valutare se l’ascolto diretto sarà o meno necessario”. Tuttavia questo aspetto, secondo gli analisti, accentua la discrezionalità con cui si potrà godere di un diritto.

    http://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2017/04/12/decreto-minniti-orlando-legge

    #migration #italie #decreto_Minniti @cdb_77

  • Danimarca, l’integrazione fallita per il popolo degli inuit

    http://www.lastampa.it/2017/04/06/esteri/danimarca-lintegrazione-fallita-per-il-popolo-degli-inuit-xOvnq1w7f4xV1yzvxkzitO/pagina.html

    Un turista in visita a Copenaghen forse non nota gli uomini stesi su qualche panchina con la bottiglia di birra in mano. L’occhio non abituato può scambiarli per immigrati venuti dal sud. Ma sono invece inuit, e il danese lo parlano senza accento, una cosa quasi impossibile per chi viene da fuori. Vivono fra di loro, marginalizzati rispetto ai danesi che passano velocemente sulla pista ciclabile, portando con sè i loro numerosi figli, che mangiano bio, che tengono alla parità tra i sessi e al welfare. Questi uomini dal volto inuit non potevano essere più lontani dal mondo che li circonda. In danese si usa dire «essere ubriaco alla groenlandese», cioè privo di sensi per il consumo d’alcool. La gente inuit per strada è quanto lasciato da una politica coloniale che, anche se ha evitato scontri violenti, è tutt’altro che riuscita.

    Molti suicidi

    Con un elevato tasso di suicidi, diffusa disoccupazione e un’aspettativa di vita di 10 anni inferiore rispetto a Copenaghen, non si vive tanto bene in Groenlandia. Ogni anno la Danimarca versa all’isola circa mezzo miliardo di euro, e in più, gestisce sicurezza, giustizia e affari esteri. Questo fa si che, senza parlare il danese, diventa difficile accedere a un’occupazione in Groenlandia, e gran parte del lavoro qualificato viene svolto da danesi. La Danimarca voleva «portare la civilizzazione agli inuit in modo che permettesse loro di sopravvivere come popolo» spiegava nel 1952 il dipartimento per l’amministrazione della Groenlandia. In realtà le misure furono radicali.

    Eleonora è una signora inuit sui cinquanta, abita a Nuuk, la capitale della Groenlandia. Da giovane si è laureata in Danimarca, ma poi è tornata nell’artico. A 13 anni fu portata via dalla famiglia, a 4000 chilometri di distanza, in Danimarca per imparare il danese. «Volevamo andare, i nostri genitori volevano che andassimo. Devi capire che per noi, in quell’epoca, i danesi erano tutto quello che aspiravamo a essere: alti, belli ed efficienti. In Danimarca non si stava così male, ma era difficile stare lontano dai miei fratelli, e quando ho rivisto mamma dopo un anno, ero timida. Non sono più tornata a vivere a casa. Al ritorno in Groenlandia, ci hanno messi a vivere presso dei convitti vicino alla scuola e, alla fine, tra noi ragazzi parlavamo poco groenlandese. Quando andavo dai miei in estate, spesso non capivo quello che dicevano. Ci siamo allontanati».

    Una lingua comune

    La politica linguistica era parte dell’idea di aprire la Groenlandia al mondo ed era cominciata anni prima. A metà del secolo scorso ci si imbarcò in un esperimento: creare cittadini indigeni d’élite che sarebbero potuti diventare gli interlocutori groenlandesi della pubblica amministrazione danese. Nel ’51 furono prelevati dalle loro famiglie, senza un chiaro consenso dai genitori, 22 bambini groenlandesi tra gli 8 e i 5 anni. Arrivarono in Danimarca per imparare la lingua e la cultura della madre patria, ma nessuno di loro riuscì mai a fare parte d’una élite indigena. Persero anzi la lingua madre e l’appartenenza culturale e affettiva. Metà di loro morì in giovane età, le loro vite distrutte tra orfanotrofi e famiglie danesi a cui erano affidate, spesso non capaci di comprenderne la difficoltà. Nel 2015 la Croce Rossa, che aveva materialmente prelevato i bambini, ha chiesto scusa. Ma il governo danese, responsabile del progetto, ha solo ammesso che si era trattato di un «errore».

    Convivenza forzata

    Dagli anni ’60 in poi, divenne invece obbligatorio per la gran parte dei piccoli inuit, dagli 8 anni in su, trascorrere uno o due anni in Danimarca per studiare la lingua. È il caso della signora Eleonora. Una prassi proseguita in modi diversi fino agli anni ’90. «Ho imparato il groenlandese di nuovo studiando eschimologia all’Università di Copenaghen, pensa. Il problema quando non torni dai tuoi cari, e c’erano anche bambini molto più piccoli di me, è che perdi il senso della famiglia. Noi, la mia generazione, ci siamo un po’ persi. Se cresci da solo con altri ragazzi in un convitto, perdi le tue radici. Non ti insegnano ad andare a caccia, non ti raccontano le nostre storie».

    Si tratta di politiche che hanno provocato una rottura nel tessuto culturale inuit e una crisi sociale tuttora in corso. Oggi nessuno viene più spedito in Danimarca, ma questo non sembra aver risolto i problemi sull’isola. E anche Eleonora non scarta del tutto il vecchio sistema. «I giovani parlano un bel groenlandese, ma la vita tradizionale inuit quasi non esiste più. E senza parlare bene il danese, quale lavoro vuoi trovare in Groenlandia?».

    #Inuit #peuples_autochtones #Groenland #Danemark

  • I libri che smontano il mito del colonialismo buono degli italiani - Igiaba Scego - Internazionale

    La sera del 21 marzo 2017 la sala del cinema Farnese a Roma è piena. I giovani sono molti.

    L’occasione d’altronde è di quelle da non perdere: la proiezione del documentario di Raoul Peck I’m not your negro, basato su uno scritto inedito di James Baldwin. Il documentario ripercorre con intelligenza e sentimento la stagione afroamericana dei diritti civili e le vicende di tre personaggi – Malcolm X, Martin Luther King, Medgar Evers – uccisi per il loro impegno contro il razzismo. Peck è un regista che non dà tregua. Ogni fotogramma è un invito a non abbassare la guardia, a non nascondersi dietro il velo del conformismo.

    Sa come ferirci con immagini di linciaggi reali o ricostruiti per lo schermo. Sa come scuotere le coscienze assopite o troppo impaurite per agire. E vediamo in ogni inquadratura quel corpo nero, quel popolo nero, maltrattato, umiliato, annientato, polverizzato. Un corpo che a seconda delle esigenze del potere diventa portatore delle ansie e della cattiva coscienza di un’intera nazione.

    Mi ha colpito una scena, in particolare, di questo film. A un certo punto, James Baldwin, finito un discorso davanti a degli studenti universitari, perlopiù bianchi (wasp, white anglo-saxon protestant), sembra impaurito dal loro entusiasmo. Lui è l’unico nero e sta al centro della sala. Loro sono in piedi ad applaudire. Per un attimo Baldwin li guarda a uno a uno, scosso. Non è solo l’emozione che può provare uno scrittore quando viene apprezzato, c’è qualcosa di più nei suoi occhi che scrutano gli studenti. C’è una ferita mai sanata della storia, c’è un nero al centro di una folla bianca che sta per essere linciato. Baldwin sa di essere in un’aula universitaria, sa che gli studenti lo adorano. Ma per un attimo i suoi occhi pieni e rotondi vedono un’altra scena, e come in un cortocircuito della memoria lo attraversa la paura di non essere più protetto, di perdere il corpo.

    La voce di una storia nascosta
    Nel documentario dell’Italia si parla una sola volta. Il nome del paese è per Baldwin legato all’aggressione fascista contro l’Etiopia degli anni trenta e in generale il riferimento è al feroce colonialismo in Africa orientale a cui gli afroamericani hanno risposto con manifestazioni antifasciste in favore del popolo etiope aggredito. Quell’Italy pronunciato da James Baldwin, e nel film filtrato dalla voce bassa e profonda di Samuel L.Jackson, mi fa tremare il cuore.

    In quel momento si crea una connessione tra l’America (del nord e del sud) e l’Europa. Due continenti che hanno una storia di violenza alle spalle, mai del tutto pacificata. Una storia nascosta o mistificata in vari modi. E che solo ora, e pure faticosamente, trova voce.

    Chissà quanti in sala conoscono la storia del colonialismo italiano, dei suoi crimini e dei suoi paradossi. Ancora troppo pochi, mi dico.

    In un attimo, dal comizio di James Baldwin mi trovo catapultata davanti a un palcoscenico romano.

    Ci sono un uomo e una donna. Lui indossa una giacca stropicciata, lei ha una gonna colorata e molto sportiva. Sono Daniele Timpano ed Elvira Frosini, autori-attori dello spettacolo Acqua di colonia, che già dal titolo suggerisce il tema del colonialismo italiano. Al centro, accanto a loro (ignorata da loro) una donna nera seduta su una sedia scomoda, di quelle che si usano all’asilo.

    Ed ecco uno scambio di battute tra Timpano e Frosini:

    Timpano: “Queste cose in Italia non le sa nessuno. Nemmeno noi”.

    Frosini, (indicando il pubblico): “Nemmeno loro”.

    Timpano: “Ecco. Una cosa è certa. Non sappiamo nulla. Tu per esempio che sai?”.

    Frosini: “Boh, Faccetta Nera? Viale Libia…via dell’Amba Aradam a Roma, dove c’è l’ufficio dell’Insp… poi?”.

    Una piccola parola, “poi”, e mi rendo conto di essere racchiusa lì dentro, in quell’interrogativo che Elvira Frosini lascia in sospeso. In quella parola ci sono io, afroitaliana, ma c’è anche la ragazza afrodiscendente seduta sulla sedia scomoda dell’asilo.

    Il colonizzato è diventato solo il suo corpo. Un corpo bello da possedere o un corpo brutto da annientare

    Il sistema Italia ha cercato di costringere al silenzio quella memoria che ci riguarda ed Elvira Frosini e Daniele Timpano mettono in scena, con un gioco teatrale, questa violenza che ci è stata fatta. Per molto tempo i nostri antenati non hanno avuto il diritto di parola, di pensiero, di vita, chiusi nel freddo stereotipo di un fraintendimento. Il colonizzato è diventato solo il suo corpo. Un corpo bello da possedere o un corpo brutto da annientare. Siamo le nostre labbra, i nostri seni, le nostre vagine, i nostri testicoli. Quei testicoli che durante il linciaggio negli Stati Uniti o in Africa orientale venivano soppesati dal branco e poi tagliati con un’accetta. Evirazioni, stupri, omicidi hanno caratterizzato le politiche segregazioniste. Corpi neri, capri espiatori di una società in continua mutazione, negli Stati Uniti come in Italia.
    Truppe etiopi marciano verso il nord del paese durante l’occupazione italiana, 1935 circa. - Hulton-Deutsch Collection/Corbis/Getty Images
    Truppe etiopi marciano verso il nord del paese durante l’occupazione italiana, 1935 circa. (Hulton-Deutsch Collection/Corbis/Getty Images)

    Per fortuna non siamo stati muti. Gli afroamericani hanno manifestato, resistito, scritto. E del colonialismo italiano si è molto dibattuto anche nella narrativa. Opere come Regina di fiori e di perle di Gabriella Ghermandi, L’abbandono di Erminia Dell’Oro, o Timira, il romanzo meticcio scritto dall’italiano Wu Ming 2 e dall’afroitaliano Antar Marincola (figlio di Isabella Marincola, protagonista della storia) hanno fatto scuola. Io stessa, con i miei Adua e Roma negata (quest’ultimo in collaborazione con il fotografo Rino Bianchi) ho contribuito al dibattito.

    Ma l’essere di quell’Africa orientale (o esservi legati per altre vie come in Timira) ci ha portato ad affrontare direttamente questa storia, perché ne eravamo segnati nel profondo. Quel colonialismo aveva a che fare con la nostra nascita, con la nostra lingua, con i nostri gesti, con i nostri genitori, con le nostre paure e soprattutto con la nostra rabbia, un autentico furore per i crimini commessi in Africa e mai pagati.

    Furore per una storia avvenuta e mai ricordata. Per questo nei libri elenchiamo i numeri dei morti uccisi dai gas asfissianti lanciati dall’esercito di Benito Mussolini o le stragi compiute dal generale Rodolfo Graziani dopo l’attentato del 1937. Senza dimenticare “la bomba dell’ignoranza” come la chiama Ribkha Sibhatu (autrice di Aulò, Sinnos, e mediatrice e attivista eritrea), quell’accesso all’istruzione negato ai popoli di Somalia, Eritrea, Libia, Etiopia. Questi numeri, questi fatti, per noi originari di quell’Africa orientale sono diventati tracce (quasi un promemoria) di qualcosa che dobbiamo ricordare per non subirlo di nuovo.

    I conti con il passato
    Chi ha le sue origini in quella storia (penso al bellissimo documentario Asmarina sugli eritrei a Milano di Medhin Paolos e Alan Maglio) è portato naturalmente a fare i conti con le ferite di quel passato. Si può dire la stessa cosa – mi domando – per gli artisti italiani (o meglio italiani di nuova generazione) di oggi?

    La risposta è sì. Anzi, oggi più che mai.

    All’inizio, c’era solo Tempo di uccidere di Ennio Flaiano, primo premio Strega e unico romanzo dell’autore. Basato anche (ma non solo) su echi biografici, Tempo di uccidere è un romanzo complesso. Un uomo vaga per l’Africa orientale, ha un mal di denti furioso e poca voglia all’inizio di mettersi in gioco. L’Africa di Flaiano non è esotica, ma quasi malvagia. In questa Africa fatta dei suoi incubi, lui si muove senza uno scopo. Incontra una donna del posto, la costringe a un rapporto sessuale, si fa coccolare da lei e poi la uccide (dice per sbaglio) come una bestia.

    In Tempo di uccidere il protagonista entra in questa Africa, definita “sgabuzzino delle porcherie”, non in punta di piedi, ma con i suoi primitivi scarponi da militare. Le immagini che ci mostra Flaiano sono ancora quelle di un continente ingenuo, nel più perfetto cliché colonialista. Ma lui per primo sembra chiedersi che ci facesse lì. E anche il suo rapporto con l’indigeno Joannes, un ex ascaro, non è quello con un deferente servitore, ma con un pari che scruta, osserva e duella a distanza con il protagonista.
    Un’esercitazione amatoriale di civili con maschere antigas a Baggio, vicino a Milano, 1935. - Hulton-Deutsch Collection/Corbis/Getty Images
    Un’esercitazione amatoriale di civili con maschere antigas a Baggio, vicino a Milano, 1935. (Hulton-Deutsch Collection/Corbis/Getty Images)

    Mette molta carne al fuoco Ennio Flaiano, ma il suo romanzo per molto tempo, decenni interi, è rimasto un unicum nel panorama letterario della penisola. Dopo di lui c’è stato solo un lungo, colpevole silenzio.

    Per fortuna il tempo passa e allo scoccare del ventunesimo secolo tocca a Carlo Lucarelli riprendere in mano l’incandescente materia coloniale con il suo L’ottava vibrazione, un libro che di fatto è uno spartiacque. Lucarelli ripercorre le vicende che portano alla battaglia di Adua, una delle pagine di storia - l’esercito italiano sconfitto da quello etiope – che l’Italia ha cercato a ogni costo prima di vendicare (con il fascismo che cantava Adua è liberata, è ritornata a noi) e poi dimenticare.

    I personaggi di L’ottava vibrazione si muovono in una tela in perenne movimento. Una tela dove oppressori e oppressi si contendono una scena fatta di omicidi, possessi coatti e strane convergenze. Lucarelli non vuole dare un giudizio, vuole solo osservare quello che per decenni nessuno ha più osservato: i soldati italiani parlano tutti in dialetto, non si capiscono tra di loro, provano a “fare gli italiani” attraverso una guerra, ma perdono sia la sfida identitaria sia la battaglia. In scena Lucarelli mette uno stato, ancora risorgimentale, che baratta i suoi ideali per entrare nel giro dei grandi dell’Europa.

    La ragazza giovanissima, 12 anni, era di fatto un bottino coloniale e Indro Montanelli per giustificarsi diceva ‘a dodici anni quelle lì sono già donne’

    In un attimo l’Africa orientale diventa un far west dove c’è chi si crede John Wayne e considera le donne del luogo cagne da monta. Lucarelli osserva, appunta e ci trasferisce tutte queste microstorie usando una lingua onesta, a tratti poeticamente antropologica. Così il romanzo apre la strada di una visione tutta italiana su quel passato coloniale poco raccontato.

    Anche perché quel passato è la storia d’Italia. Di tanti che lì sono andati a combattere per l’Italia liberale e poi ci hanno mandato, anni dopo, i nipoti a conquistare un impero per Benito Mussolini. È la storia di donne africane prese con la forza o con l’inganno per avere una sposa di compagnia, come Indro Montanelli e la sua sposa bambina (che lui chiamava il mio animalino) acquistata per 500 lire insieme a un cavallo ed un fucile. La ragazza giovanissima, 12 anni, era di fatto un bottino coloniale e Montanelli per giustificarsi diceva “a dodici anni quelle lì sono già donne” e poi “Scusate, ma in Africa è un’altra cosa”. Però il continente oltre a essere teatro di crimini di guerra è anche stato, per molti italiani, vita quotidiana di chi aveva un emporio o un negozio di barbiere, di chi costruiva o faceva il cappuccino, chi si inventava monumenti e chi invece li distruggeva. Un coacervo di storia patria e storia intima insomma. Storia soprattutto al maschile, ma non del tutto svuotata di presenze femminili.

    Inciampare nel colonialismo
    Per questo Daniele Timpano si chiede in Acqua di Colonia: “Ma che siamo come la Francia con l’Algeria? Come l’Inghilterra con l’India? Come i cattivi di Sandokan? Ma che siamo colonialisti noi?”.

    Su questa domanda una generazione, anzi due, di trentenni e quarantenni (con qualche punta verso i cinquanta) si è caricata un peso necessario da sostenere soprattutto oggi in questa Europa che riprende quello stesso razzismo coloniale e lo veste con nuove parole come sovranismo o con giustifiacazioni come “non siamo razzisti, ma… prima gli italiani/gli europei”.

    D’altronde molti tra gli autori nel colonialismo ci sono inciampati, per un viaggio, per una militanza politica o perché più semplicemente era una storia di famiglia, di un nonno, di un padre, di uno zio.

    È lì tutta l’ambiguità della storia coloniale, nel sorriso di un carnefice efficiente di 28 anni

    Durante il fascismo si era di fatto colonizzati dalla propaganda coloniale (come ci ricorda il duo Timpano-Frosini) e questo ha lasciato tracce negli album di fotografie tenuti sopra il camino o nelle vecchie cantine umide piene cimeli di quell’Africa solo apparentemente lontana. Recentemente è anche stata scoperta la foto di un massacro, quella dei diaconi di Debre Libanos (a cui di recente è stato dedicato il docufilm Debre Libanos di Antonello Carvigiani con la regia e fotografia di Andrea Tramontano, a cura di Dolores Gangi). A Debre Libanos furono uccisi (come vendetta dopo l’attentato a Graziani) più di duemila diaconi e pellegrini indifesi. La foto li mostra seduti in circolo prima dell’esecuzione. Il fotografo, Virgilio Cozzani, tenente di un battaglione coloniale, ebbe il compito di eseguire le fucilazioni a Shunkurtì. Il tenente, nelle note di suo pugno (che sono state mostrate in anteprima mondiale su Tv2000) mostra una personalità che da una parte è quella di un carnefice, ma dall’altra quella di un ragazzo mandato lì a eseguire gli ordini e che quando non massacra, sorride.
    Soldati italiani in partenza per l’Etiopia, 1935. - Archivio Gbb/Contrasto
    Soldati italiani in partenza per l’Etiopia, 1935. (Archivio Gbb/Contrasto)

    Ed è lì tutta l’ambiguità della storia coloniale, nel sorriso di un carnefice efficiente di 28 anni.

    Molti scrittori e scrittrici di oggi hanno fatto tesoro dell’opera degli storici, primo fra tutti Angelo del Boca, ma ricordiamo anche Nicola Labanca, Alessandro Triulzi e il grande Gian Paolo Calchi Novati recentemente scomparso. Dai loro lavori fondamentali autori e autrici sono partiti per togliere la polvere accumulata sulla memoria del colonialismo italiano.

    Stereotipi duri a morire
    Adesso i risultati si vedono in libreria. Non a caso un mio amico qualche settimana fa mi ha chiesto se il colonialismo stia diventando un settore editoriale.

    In effetti basta farsi un giro in libreria per leggere i tanti titoli che sono usciti ultimamente su questo argomento, da La malinconia dei Crusich di Gianfranco Calligarich a La grande A di Giulia Caminito passando per I fantasmi dell’impero di Marco Cosentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella, senza contare poi i diari di ex soldati (recentemente è uscito Ti saluto, vado in Abissinia di Stefano Prosperi, per Marlin) pubblicati da piccole case editrici, o i tanti approfondimenti saggistici.

    Tuttavia non sta nel mercato la spinta alla proliferazione di titoli a cui stiamo assistendo, ma nella voglia di colmare un vuoto in una storiografia nazionale che sta ancora combattendo con gli stereotipi creati allora.

    E dalla lista mancano le nuove uscite: Sangue giusto di Francesca Melandri, che unisce la storia del colonialismo al presente dei flussi migratori e l’attesissimo romanzo della scrittrice etiope-americana Maaza Mengiste.

    Lo spazio coloniale diventa così da una parte spazio per il noir come in I fantasmi dell’impero – una discesa conradiana negli inferi dei crimini di guerra – e dall’altra dolce ricordo di infanzia, come nel sorprendente La grande A di Giulia Caminito, dove il colonialismo scolora nel dopoguerra e dove il romanzo si fa anche storia di emigrazione.

    Sono tanti i giovani ricercatori (come Valeria Delpiano, Giulietta Stefani, Gabriele Proglio tra i tanti) che si stanno occupando di questo periodo storico, anche con approcci nuovi per l’Italia che vanno dagli studi postcoloniali a quelli studi sul genere.

    C’è fermento in libreria insomma e, finalmente, presa di coscienza. Ancora forse è assente il grande romanzo sui rapporti tra la Libia e l’Italia (anche se non mancano studi storiografici come Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia di Federico Cresti), ma di fatto nella letteratura italiana c’è stata una rivoluzione silenziosa che ha messo insieme scrittori e scrittrici italiani (di origine migrante, proprio di quelle ex colonie, e italiani da una o più generazioni) che stanno lavorando contro un oblio durato troppo a lungo. Forse, anche grazie a questi libri, diversi tra loro per densità, obiettivi, tessitura, si potrà superare il mito autoassolutorio degli italiani brava gente e finalmente insegnare a scuola quello che per troppo tempo è stato taciuto.

    http://www.internazionale.it/opinione/igiaba-scego/2017/04/01/italia-colonialismo-libri

    #colonialisme #Italie #Afrique #livre

  • Bioammo Technologies | Munición Ecológica
    http://bioammo.es

    Welcome to Bioammo Technologies

    Since 2008 Bio Ammo Ltd has been dedicated to development, manufacturing and distribution of biodegradable ammunition.

    For many years the lands and waters have been contaminated with used plastic ammunition and its parts. The problem of plastic wastes becomes bigger from one year to another, causing a huge impact on environment.

    Our company found ecological solution to this problem. We achieved the goal by combining biotechnology, environmental care and ammunition, brining you the unique product of high quality, product which is non-toxic, pollution-free and biodegradable.

    The range of our patented products includes biodegradable pellet for airsoft and military training, cartridge for hunting and shooting sports and biodegradable bullet for firearms.

    #munition #balle #bio #projectile #guerre_durable @reka

  • Serbie : ces obscurs magnats des médias - Le Courrier des Balkans
    https://www.courrierdesbalkans.fr/Serbie-ces-obscurs-magnats-des-medias

    En #Serbie, médias et politique demeurent toujours dangereusement liés. Autrefois, le pouvoir plaçait ses hommes à la tête des médias ; aujourd’hui, le contrôle de la presse se fait par des moyens (parfois) plus subtils. Et TV Pink et Informer sont toujours les mamelles de la post-démocratie version Vučić !

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    Par Simon Lenormand

    Qui possède les #médias serbes ? Dans un rapport sur la « propriété et le contrôle des médias en Serbie » publié en février 2015, le Conseil pour la lutte anticorruption révélait que sur les 50 médias les plus importants du pays, 27 ne faisaient pas ou seulement partiellement preuve de transparence concernant leur propriétaire. Le Conseil concluait son rapport en insistant sur le fait que « beaucoup des contenus médiatiques ne sont pas le résultat d’un travail d’investigation libre et objectif » et que « la plupart des médias n’œuvrent pas en faveur d’une meilleure information des citoyens, du fait de leur dépendance financière et de leurs connexions avec les élites politiques et économiques ».

    La Serbie s’était pourtant dotée l’année précédente d’une série de mesures regroupées au sein de la « Loi sur l’information publique et les médias », censée mettre un terme à ce problème. Mais, comme souvent dans le pays, « le problème ne vient pas des lois mais du fait qu’elles ne sont pas respectées », déplore Milan Dinić, journaliste et spécialiste des médias. Pour lui, la question est primordiale pour établir une vraie démocratie en Serbie. Alors que « le pays est en transition, la politique et les médias sont encore trop interconnectés », estime-t-il.

    Parmi les cas les plus notoires, celui du journal Politika, créé en 1904, le titre de référence de la presse serbe. Le groupe de presse allemand WAZ était propriétaire de 50% des parts, qu’il a revendues en 2014 à East Media Group pour la somme de 4,7 millions d’euros. Il s’agit d’une obscure société basée à Moscou dont le propriétaire, l’homme d’affaire Miroslav Bogićević, proche du Parti démocrate (DS) n’était pas clairement identifié jusqu’à récemment. Le reste des parts étant possédé par la société Politika AD, elle-même contrôlée par l’État.

    Parmi les exemples les plus fréquemment cités, on retient également le cas de la chaîne N1, déclinaison balkanique du réseau américain CNN et propriété de la société de télécommunication #SerbiaBroadband (SBB), cette dernière étant elle-même détenue par le fonds d’investissement américain KKR Global Institute, présidé par le général américain à la retraite David Petreus, également ancien directeur de la CIA. « Beaucoup de médias se présentent comme indépendants en Serbie, mais dans la plupart des cas ils sont surtout indépendants de leur public. Ils fonctionnent principalement grâce à des investissements étrangers », analyse le chercheur. Autre exemple qui a fait réagir en Serbie, les cas de B92 et de Prva Srpska Televizija, rachetées par la société grecque Antenna Group via un montage complexe incluant des sociétés offshore. Toutefois, le propriétaire, l’armateur Minos Kyriakou, est connu.
    « On sait qui dirige TV Pink »

    C’est, entre autres, ce qui fait dire à Stevan Dojčinović, le rédacteur en chef du site d’investigation indépendant Krik, spécialisé dans la révélation d’affaires de corruption, que la question de la transparence n’est plus aujourd’hui un enjeu aussi important que par le passé. « On sait qui dirige Informer, on sait qui dirige TV Pink... Ces médias, qui posent le plus problème et sont très proches du pouvoir actuel, ont un propriétaire identifié », explique-t-il.

    Selon le journaliste, le système de contrôle des médias par le pouvoir a évolué en Serbie vers des formes plus subtiles. Il s’appuie notamment sur le fait qu’Informer soit le seul média pro-gouvernemental créé depuis l’arrivée au pouvoir d’Aleksandar Vučić, en 2012. Son propriétaire, Dragan Vučićević, est connu. De même que pour TV Pink, propriété de Željko Mitrović, aussi fréquemment critiquée pour son parti-pris en faveur du gouvernement Vučić. « Les autres médias étaient proches du gouvernement précédent, donc la nouvelle majorité a adopté une approche plus intelligente et plus efficace pour les contrôler », commente le journaliste. Une stratégie au cas par cas.

    Principal levier d’influence : les ressources publicitaires issues des ministères et des entreprises publiques. Dans son rapport de 2015, le Conseil anticorruption mettait ainsi en évidence des changements drastiques sur le marché publicitaire serbe survenus après les élections de 2012. Autre moyen de contrôle privilégié pour l’État : le « chantage à la dette ». *TVPink devrait ainsi plusieurs millions d’euros de taxes à l’État, ce qui en faisait, à l’époque de l’étude, le média le plus endetté auprès des services des impôts. « Si l’État réclamait son argent, TV Pink ferait banqueroute. Quand vous voulez gagner de l’argent dans les médias en Serbie, il faut être ami avec le gouvernement », résume Stevan Dojčinović. Un avis partagé par le chercheur Milan Dinić : « Dans les années 1990, on vous envoyait une bande de voyous qui vous mettaient une arme sur la tempe pour vous dire "tu ne parles pas de ça". Aujourd’hui on vous envoie toujours des voyous, mails ils portent des costumes-cravates et vous parlent des revenus que vous pourriez perdre... »

  • Daughters of the King - Photographs and text by Federica Valabrega | LensCulture
    https://www.lensculture.com/articles/federica-valabrega-daughters-of-the-king

    Daughters of the King
    Portraits of Ashkenazi and #Sephardic_women from #Jerusalem, #NewYork, #Paris, and beyond that seek to illuminate the femininity that accompanies “every gesture and every moment of their daily lives as religious women.”

    Photographs and text by Federica Valabrega

    #photographie #

  • La Guerre Civile espagnole dans une double exposition - Mowwgli
    http://mowwgli.com/10781/2017/03/16/guerre-civile-espagnole-double-exposition


    Il y a 81 ans débutait la guerre civile espagnole, à cette occasion, le Centre International du Photojournalisme de Perpignan et le Mémorial du camp de Rivesaltes organisent une double exposition intitulée « L’Espagne déchirée, 1936-1939 » rassemblant une centaines de photographies historiques dont de nombreuses inédites.

    L’exposition du CIP vise à présenter un panorama de cette guerre civile, depuis le déclenchement du soulèvement militaire les 17 et 18 juillet 1936, jusqu’à la victoire finale le 1er avril 1939 des troupes nationalistes, menées par le général Francisco Franco, contre les forces républicaines.

    Ce conflit fratricide a fait quelque 500 000 morts et a divisé le pays en deux qui demeura ensuite sous le régime dictatorial du général Franco jusqu’en 1975.
    Souvent considérée comme un « prélude » à la Seconde Guerre mondiale, la guerre d’Espagne, opposition farouche et cruelle entre les « Deux Espagne », a également été marquée par des interventions étrangères dans les combats. L’Allemagne d’Hitler et l’Italie de Mussolini ont soutenu les militaires insurgés, tandis que l’URSS de Staline et les Brigades internationales appuyaient le #FrontePopular au pouvoir à Madrid.

    Montrant la guerre des deux côtés, l’exposition présente le conflit de manière didactique et pédagogique, avec un rappel chronologique de tous ces grands événements et protagonistes : putsch militaire, défense de Madrid, escadrille de Malraux, Alcazar de Tolède, Guernica, grandes batailles de Belchite, Teruel ou de l’Ebre, Brigades internationales, Légion Condor allemande, meurtres de religieux, révolution en Catalogne, Retirada, …

    Parallèlement à l’exposition de Perpignan, le Mémorial du Camp de #Rivesaltes présente une série de photographies sur la #Retirada et le sort des exilés républicains espagnols après la guerre, en France et à l’étranger.
    #perpignan #exposition #guerre_civile_espagnole #Espagne #franchisme