• « La conjuration des ego » de Aude Vidal (nouvelle note)

    Dans cet essai, publié en 2019 aux éditions Syllepse, elle analyse l’individualisme libéral qui s’est largement diffusé dans les milieux militants et que nous avons tous, à des degrés plus ou moins importants, intégré. Cet individualisme égoïste mine les luttes anticapitalistes, antiracistes et féministes.

    Le mouvement #Metoo, lancé en 2017, a permis de rendre compte de l’ampleur des violences multiples que les hommes exercent sur les femmes et a contribué à donner un nouvel élan au féminisme. De nombreuses idées, revendications et concepts, mis en place par les féministes dès les années 1960 pour penser les différentes oppressions, sont aujourd’hui intégrés aux milieux militants : intersectionnalité, mouvement LGBT, grossophobie, mecsplication, revendications trans, non-binaires, harcèlement de rue, écriture inclusive, violences sexuelles…

    https://entreleslignesentrelesmots.wordpress.com/2022/04/25/la-conjuration-des-ego-de-aude-vidal-nouvelle-

    #féminisme

  • Decolonize your eyes, Padova.. Pratiche visuali di decolonizzazione della città

    Introduzione
    Il saggio a tre voci è composto da testi e due video.[1]
    Mackda Ghebremariam Tesfau’ (L’Europa è indifendibile) apre con un una riflessione sulle tracce coloniali che permangono all’interno degli spazi urbani. Lungi dall’essere neutre vestigia del passato, questi segni sono tracce di una storia contesa, che si situa contemporaneamente al cuore e ai margini invisibili della rappresentazione di sé dell’occidente. La dislocazione continua del fatto coloniale nella memoria storica informa il discorso che è oggi possibile sul tema delle migrazioni, del loro governo e dei rapporti tra Nord e Sud Globale. La stessa Europa di cui Césaire dichiarava “l’indifendibilità” è ora una “fortezza” che presidia i suoi confini dal movimento di ritorno postcoloniale.
    Annalisa Frisina (Pratiche visuali di decolonizzazione della città) prosegue con il racconto del percorso didattico e di ricerca Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova, realizzato nell’autunno del 2020. Questa esperienza mostra come sia possibile performare la decolonizzazzione negli spazi pubblici e attivare contro-politiche della memoria a livello urbano. Le pratiche visuali di decolonizzazione sono utili non solo per fare vacillare statue e nomi di vie, ma soprattutto per mettere in discussione le visioni del mondo e le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo. Le vie coloniali di Padova sono state riappropriate dai corpi, dalle voci e dagli sguardi di sei cittadine/i italiane/i afrodiscendenti, facendo uscire dall’insignificanza le tracce coloniali urbane e risignificandole in modo creativo.
    Infine, Salvatore Frisina (L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio) conclude il saggio soffermandosi sui due eventi urbani Decolonize your eyes (giugno e ottobre 2020), promossi dall’associazione Quadrato Meticcio, che ha saputo coinvolgere in un movimento decoloniale attori sociali molto eterogenei. Da quasi dieci anni questa associazione di sport popolare, radicata nel rione Palestro di Padova, favorisce la formazione di reti sociali auto-gestite e contribuisce alla lotta contro discriminazioni multiple (di classe, “razza” e genere). La sfida aperta dai movimenti antirazzisti decoloniali è infatti quella di mettere insieme processi simbolici e materiali.

    L’Europa è indifendibile
    L’Europa è indifendibile, scrive Césaire nel celebre passo iniziale del suo Discorso sul colonialismo (1950). Questa indifendibilità non è riferita tanto al fatto che l’Europa abbia commesso atti atroci quanto al fatto che questi siano stati scoperti. La “scopertura” è “svelamento”. Ciò che viene svelata è la natura stessa dell’impresa “Europa” e lo svelamento porta all’impossibilità di nascondere alla “coscienza” e alla “ragione” tali fatti: si tratta di un’indifendibilità “morale” e “spirituale”. A portare avanti questo svelamento, sottraendosi alla narrazione civilizzatrice che legittima – ovvero che difende – l’impresa coloniale sono, secondo Césaire, le masse popolari europee e i colonizzati che “dalle cave della schiavitù si ergono giudici”. Era il 1950.
    A più di sessant’anni di distanza, oggi l’Europa è tornata ad essere ben difesa, i suoi confini materiali e simbolici più che mai presidiati. Come in passato, tuttavia, uno svelamento della sua autentica natura potrebbe minarne le fondamenta. È quindi importante capire quale sia la narrazione che oggi sostiene la fortezza Europa.
    La scuola decoloniale ha mostrato come la colonialità sia un attributo del potere, la scuola postcoloniale come leggerne i segni all’interno della cultura materiale. Questa stessa cultura è stata interrogata, al fine di portarne alla luce gli impliciti. È successo ripetutamente alla statua di Montanelli, prima oggetto dell’azione di Non Una di Meno Milano, poi del movimento Black Lives Matter Italia. È successo alla fermata metro di Roma Amba Aradam. È successo anche alle vie coloniali di Padova. La reazione a queste azioni – reazione comune a diversi contesti internazionali – è particolarmente esplicativa della necessità, del Nord globale, di continuare a difendersi.
    Il fronte che si è aperto in contrapposizione alla cosiddetta cancel culture[2] si è battuto per la tutela del “passato” e della “Storia”, così facendo ribadendo un potere non affatto scontato, che è quello di decidere cosa sia “passato” e quale debba essere la Storia raccontata – oltre che il come debba essere raccontata. Le masse che si sono radunate sotto le statue abbattute, deturpate e sfidate, l’hanno fatto per liberare “passato” e “Storia” dal dominio bianco, maschile e coloniale che ha eretto questi monumenti a sua immagine e somiglianza. La posta in gioco è, ancora, uno svelamento, la presa di coscienza del fatto che queste non sono innocue reliquie di un passato disattivato, ma piuttosto la testimonianza silente di una Storia che lega indissolubilmente passato a presente, Nord globale e Sud globale, colonialismo e migrazioni. Riattivare questo collegamento serve a far crollare l’impalcatura ideologica sulla quale oggi si fonda la pretesa di sicurezza invocata e agita dall’Europa.
    Igiaba Scego e Rino Bianchi, in Roma Negata (2014), sono stati tra i primi a dedicare attenzione a queste rumorose reliquie in Italia. L’urgenza che li ha spinti a lavorare sui resti coloniali nella loro città è l’oblio nel quale il colonialismo italiano è stato relegato. Come numerosi autrici e autori postcoloniali hanno dimostrato, tuttavia, questo oblio è tutt’altro che improduttivo. La funzione che svolge è infatti letteralmente salvifica, ovvero ha lo scopo di salvare la narrazione nazionale dalle possibili incrinature prodotte dallo svelamento alla “barra della coscienza” (Césaire 1950) delle responsabilità coloniali e dei modi in cui si è stati partecipi e protagonisti della costruzione di un mondo profondamente diseguale. Al contempo, la presenza di questi monumenti permette, a livello inconscio, di continuare a godere del senso di superiorità imperiale di cui sono intrisi, di continuare cioè a pensarsi come parte dell’Europa e del Nord Globale, con ciò che questo comporta. Che cosa significa dunque puntarvi il dito? Che cosa succede quando la memoria viene riattivata in funzione del presente?
    La colonialità ha delle caratteristiche intrinseche, ovvero dei meccanismi che ne presiedono il funzionamento. Una di queste caratteristiche è la produzione costante di confini. Questa necessità è evidente sin dai suoi albori ed è rintracciabile anche in pagine storiche che non sono abitualmente lette attraverso una lente coloniale. Un esempio è la riflessione marxiana dei Dibattiti sulla legge contro i furti di legna[3], in cui il pensatore indaga il fenomeno delle enclosure, le recinzioni che tra ‘700 e ‘800 comparvero in tutta Europa al fine di rendere privati i fondi demaniali, usati consuetudinariamente dalla classe contadina come supporto alla sussistenza del proprio nucleo attraverso la caccia e la raccolta. Distinzione, definizione e confinamento sono processi materiali e simbolici centrali della colonialità. Per contro, connettere, comporre e sconfinare sono atti di resistenza al potere coloniale.
    Da tempo Gurminder K. Bhambra (2017) ha posto l’accento sull’importanza di questo lavoro di ricucitura storica e sociologica. Secondo l’autrice la stessa distinzione tra cittadino e migrante è frutto di una concettualizzazione statuale che fonda le sue categorie nel momento storico degli imperi. In questo senso per Bhambra tale distinzione poggia su di una lettura inadeguata della storia condivisa. Tale lettura ha l’effetto di materializzare l’uno – il cittadino – come un soggetto avente diritti, come un soggetto “al giusto posto”, e l’altro – il migrante – come un soggetto “fuori posto”, qualcuno che non appartiene allo stato nazione.
    Questo cortocircuito storico è reso evidente nella mappa coloniale che abbiamo deciso di “sfidare” nel video partecipativo. La raffigurazione dell’Impero Italiano presente in piazza delle Erbe a Padova raffigura Eritrea, Etiopia, Somalia, Libia, Albania e Italia in bianco, affinché risaltino sullo sfondo scuro della cartina. Su questo spazio bianco è possibile tracciare la rotta che oggi le persone migranti intraprendono per raggiungere la Libia da numerosi paesi subsahariani, tra cui la Somalia, l’Eritrea e l’Etiopia, la stessa Libia che è stata definita un grande carcere a cielo aperto. Dal 2008 infatti Italia e Libia sono legate da accordi bilaterali. Secondo questi accordi l’Italia si è impegnata a risarcire la Libia per l’occupazione coloniale, e in cambio la Libia ha assunto il ruolo di “guardiano” dei confini italiani, ruolo che agisce attraverso il contenimento delle persone migranti che raggiungono il paese per tentare la traversata mediterranea verso l’Europa. Risulta evidente come all’interno di questi accordi vi è una riattivazione del passato – il risarcimento coloniale – che risulta paradossalmente neocoloniale piuttosto che de o anti-coloniale.
    L’Italia è indifendibile, eppure si difende. Si difende anche grazie all’ombra in cui mantiene parti della sua storia, e si difende moltiplicando i confini coloniali tra cittadini e stranieri, tra passato e presente. Questo passato non è però tale, al contrario plasma il presente traducendo vecchie disuguaglianze sotto nuove vesti. Oggi la dimensione coloniale si è spostata sui corpi migranti, che si trovano ad essere marchiati da una differenza che produce esclusione nel quotidiano.
    I confini coloniali – quelli materiali come quelli simbolici – si ergono dunque a difesa dell’Italia e dell’Europa. Come nel 1950 però, questa difendibilità è possibile solo a patto che le masse popolari e subalterne accettino e condividano la narrazione coloniale, che è stata ieri quella della “missione civilizzatrice” ed è oggi quella della “sicurezza”. Al fine di decolonizzare il presente è dunque necessario uscire da queste narrazioni e riconnettere il passato alla contemporaneità al fine di svelare la natura coloniale del potere oggi. Così facendo la difesa dell’Europa potrà essere nuovamente scalfibile.
    Il video partecipativo realizzato a Padova va esattamente in questa direzione: cerca di ricucire storie e relazioni interrotte e nel farlo pone al centro il fatto coloniale nella sua continuità e contemporaneità.

    Pratiche visuali di decolonizzazione della città
    Il video con Mackda Ghebremariam Tesfau è nato all’interno del laboratorio di Visual Research Methods dell’Università di Padova. Da diversi anni, questo laboratorio è diventato un’occasione preziosa per fare didattica e ricerca in modo riflessivo e collaborativo, affrontando il tema del razzismo nella società italiana attraverso l’analisi critica della visualità legata alla modernità europea e attraverso la sperimentazione di pratiche contro-visuali (Mirzoeff 2011). Come docente, ho provato a fare i conti con “l’innocenza bianca” (Wekker 2016) e spingere le mie studentesse e i miei studenti oltre la memoria auto-assolutoria del colonialismo italiano coi suoi miti (“italiani brava gente”, “eravamo lì come migranti straccioni” ecc.). Per non restare intrappolate/i nella colonialità del potere, le/li/ci ho invitate/i a prendere consapevolezza di quale sia il nostro sguardo su noi stessi nel racconto che facciamo degli “altri” e delle “altre”, mettendo in evidenza il peso delle divisioni e delle gerarchie sociali. Come mi hanno detto alcune mie studentesse, si tratta di un lavoro faticoso e dal punto di vista emotivo a volte difficilmente sostenibile. Eppure, penso sia importante (far) riconoscere il proprio “disagio” in quanto europei/e “bianchi/e” e farci qualcosa collettivamente, perché il sentimento di colpa individuale è sterile, mentre la responsabilità è capacità di agire, rispondere insieme e prendere posizione di fronte ai conflitti sociali e alle disuguaglianze del presente.
    Nel 2020 la scommessa è stata quella di fare insieme a italiani/e afrodiscendenti un percorso di video partecipativo (Decolonizzare la città. Dialoghi visuali a Padova[4]) e di utilizzare il “walk about” (Frisina 2013) per fare passeggiate urbane con studentesse e studenti lasciandosi interpellare dalle tracce coloniali disseminate nella città di Padova, in particolare nel rione Palestro dove abito. La congiuntura temporale è stata cruciale.
    Da una parte, ci siamo ritrovate nell’onda del movimento Black Lives Matter dopo l’omicidio di George Floyd a Minneapolis. Come discusso altrove (Frisina & Ghebremariam Tesfau’ 2020, pp. 399-401), l’antirazzismo è (anche) una contro-politica della memoria e, specialmente nell’ultimo anno, a livello globale, diversi movimenti hanno messo in discussione il passato a partire da monumenti e da vie che simbolizzano l’eredità dello schiavismo e del colonialismo. Inevitabilmente, in un’Europa post-coloniale in cui i cittadini hanno le origini più diverse da generazioni e in cui l’attivismo degli afrodiscendenti diventa sempre più rilevante, si sono diffuse pratiche di risignificazione culturale attraverso le quali è impossibile continuare a vedere statue, monumenti, musei, vie intrise di storia coloniale in modo acritico; e dunque è sempre più difficile continuare a vedersi in modo innocente.
    D’altra parte, il protrarsi della crisi sanitaria legata al covid-19, con le difficoltà crescenti a fare didattica in presenza all’interno delle aule universitarie, ha costituito sia una notevole spinta per uscire in strada e sperimentare forme di apprendimento più incarnate e multisensoriali, sia un forte limite alla socialità che solitamente accompagna la ricerca qualitativa, portandoci ad accelerare i tempi del laboratorio visuale in modo da non restare bloccati da nuovi e incalzanti dpcm. Nel giro di soli due mesi (ottobre-novembre 2020), dunque, abbiamo realizzato il video con l’obiettivo di far uscire dall’insignificanza alcune tracce coloniali urbane, risignificandole in modo creativo.
    Il video è stato costruito attraverso pratiche visuali di decolonizzazione che hanno avuto come denominatore comune l’attivazione di contro-politiche della memoria, a partire da sguardi personali e familiari, intimamente politici. Le sei voci narranti mettono in discussione le gerarchie sociali che hanno reso possibile celebrare/dimenticare la violenza razzista e sessista del colonialismo e offrono visioni alternative della società, perché capaci di aspirare e rivendicare maggiore giustizia sociale, la libertà culturale di scegliersi le proprie appartenenze e anche il potere trasformativo della bellezza artistica.
    Nel video, oltre a Mackda Ghebremariam Tesfau’, ci sono Wissal Houbabi, Cadigia Hassan, Ilaria Zorzan, Emmanuel M’bayo Mertens e Viviana Zorzato, che si riappropriano delle tracce coloniali con la presenza dei loro corpi in città e la profondità dei loro sguardi.
    Wissal, artista “figlia della diaspora e del mare di mezzo”, “reincarnazione del passato rimosso”, si muove accompagnata dalla canzone di Amir Issa Non respiro (2020). Lascia la sua poesia disseminata tra Via Catania, via Cirenaica, via Enna e Via Libia.

    «Cerchiamo uno spiraglio per poter respirare, soffocati ben prima che ci tappassero la bocca e ci igienizzassero le mani, cerchiamo una soluzione per poter sopravvivere […]
    Non siamo sulla stessa barca e ci vuole classe a non farvelo pesare. E la mia classe sociale non ha più forza di provare rabbia o rancore.
    Il passato è qui, insidioso tra le nostre menti e il futuro è forse passato.
    Il passato è qui anche se lo dimentichi, anche se lo ignori, anche se fai di tutto per negare lo squallore di quel che è stato, lo Stato e che preserva lo status di frontiere e ius sanguinis.
    Se il mio popolo un giorno volesse la libertà, anche il destino dovrebbe piegarsi».

    Cadigia, invece, condivide le fotografie della sua famiglia italo-somala e con una sua amica si reca in Via Somalia. Incontra una ragazza che abita lì e non ha mai capito la ragione del nome di quella via. Cadigia le offre un suo ricordo d’infanzia: passando da via Somalia con suo padre, da bambina, gli aveva chiesto perché si chiamasse così, senza ricevere risposta. E si era convinta che la Somalia dovesse essere importante. Crescendo, però, si era resa conto che la Somalia occupava solo un piccolo posto nella storia italiana. Per questo Cadigia è tornata in via Somalia: vuole lasciare traccia di sé, della sua storia familiare, degli intrecci storici e rendere visibili le importanti connessioni che esistono tra i due paesi. Via Somalia va fatta conoscere.
    Anche Ilaria si interroga sul passato coloniale attraverso l’archivio fotografico della sua famiglia italo-eritrea. Gli italiani in Eritrea si facevano spazio, costruendo strade, teleferiche, ferrovie, palazzi… E suo nonno lavorava come macchinista e trasportatore, mentre la nonna eritrea, prima di sposare il nonno, era stata la sua domestica. Ispirata dal lavoro dell’artista eritreo-canadese Dawit L. Petros, Ilaria fa scomparire il suo volto dietro fotografie in bianco e nero. In Via Asmara, però, lo scopre e si mostra, per vedersi finalmente allo specchio.
    Emmanuel è un attivista dell’associazione Arising Africans. Nel video lo vediamo condurre un tour nel centro storico di Padova, in Piazza Antenore, ex piazza 9 Maggio. Emmanuel cita la delibera con la quale il comune di Padova dedicò la piazza al giorno della “proclamazione dell’impero” da parte di Mussolini (1936). Secondo Emmanuel, il fascismo non è mai scomparso del tutto: ad esempio, l’idea dell’italianità “per sangue” è un retaggio razzista ancora presente nella legge sulla cittadinanza italiana. Ricorda che l’Italia è sempre stata multiculturale e che il mitico fondatore di Padova, Antenore, era un profugo, scappato da Troia in fiamme. Padova, così come l’Italia, è inestricabilmente legata alla storia delle migrazioni. Per questo Emmanuel decide di lasciare sull’edicola medioevale, che si dice contenga le spoglie di Antenore, una targa dedicata alle migrazioni, che ha i colori della bandiera italiana.
    Chiude il video Viviana, pittrice di origine eritrea. La sua casa, ricca di quadri ispirati all’iconografia etiope, si affaccia su Via Amba Aradam. Viviana racconta del “Ritratto di ne*ra”, che ha ridipinto numerose volte, per anni. Farlo ha significato prendersi cura di se stessa, donna italiana afrodiscendente. Riflettendo sulle vie coloniali che attraversa quotidianamente, sostiene che è importante conoscere la storia ma anche ricordare la bellezza. Amba Alagi o Amba Aradam non possono essere ridotte alla violenza coloniale, sono anche nomi di montagne e Viviana vuole uno sguardo libero, capace di bellezza. Come Giorgio Marincola, Viviana continuerà a “sentire la patria come una cultura” e non avrà bandiere dove piegare la testa. Secondo Viviana, viviamo in un periodo storico in cui è ormai necessario “decolonizzarsi”.

    Anche nel nostro percorso didattico e di ricerca la parola “decolonizzare” è stata interpretata in modi differenti. Secondo Bhambra, Gebrial e Nişancıoğlu (2018) per “decolonizzare” ci deve essere innanzitutto il riconoscimento che il colonialismo, l’imperialismo e il razzismo sono processi storici fondamentali per comprendere il mondo contemporaneo. Tuttavia, non c’è solo la volontà di costruire la conoscenza in modi alternativi e provincializzare l’Europa, ma anche l’impegno a intrecciare in modo nuovo movimenti anti-coloniali e anti-razzisti a livello globale, aprendo spazi inediti di dialogo e dando vita ad alleanze intersezionali.

    L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio
    Il video-partecipativo è solo uno degli strumenti messi in atto a Padova per intervenire sulla memoria coloniale. Con l’evento pubblico urbano chiamato Decolonize your Eyes (20 giugno 2020), seguito da un secondo evento omonimo (18 Ottobre 2020), attivisti/e afferenti a diversi gruppi e associazioni che lavorano nel sociale si incontrano a favore di uno scopo che, come poche volte precedentemente, consente loro di agire all’unisono. Il primo evento mette in scena il gesto simbolico di cambiare, senza danneggiare, i nomi di matrice coloniale di alcune vie del rione Palestro, popolare e meticcio. Il secondo agisce soprattutto all’interno di piazza Caduti della Resistenza (ex Toselli) per mezzo di eventi performativi, artistici e laboratoriali con l’intento di coinvolgere un pubblico ampio e riportare alla memoria le violenze coloniali italiane. Ai due eventi contribuiscono realtà come l’asd Quadrato Meticcio, la palestra popolare Chinatown, Non una di meno-Padova, il movimento ambientalista Fridays for future, il c.s.o. Pedro e l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (anpi).
    Si è trattato di un rapporto di collaborazione mutualistico. L’anpi «indispensabile sin dalle prime battute nell’organizzazione» – come racconta Camilla[5] del Quadrato Meticcio – ha contribuito anche ai dibattiti in piazza offrendo densi spunti storici sulla Resistenza. Fridays for future, impegnata nella lotta per l’ambiente, è intervenuta su via Lago Ascianghi, luogo in cui, durante la guerra d’Etiopia, l’utilizzo massiccio di armi chimiche da parte dell’esercito italiano ha causato danni irreversibili anche dal punto di vista della devastazione del territorio. Ha sottolineato poi come l’odierna attività imprenditoriale dell’eni riproduca lo stesso approccio prevaricatore colonialista. Non una di meno-Padova, concentrandosi sulle tematiche del trans-femminismo e della lotta di genere, ha proposto un dibattito intitolando l’attuale via Amba Aradam a Fatima, la bambina comprata da Montanelli secondo la pratica coloniale del madamato. Durante il secondo evento ha realizzato invece un laboratorio di cartografia con gli abitanti del quartiere di ogni età, proponendogli di tracciare su una mappa le rotte dal luogo d’origine a Padova: un gesto di sensibilizzazione sul rapporto tra memoria e territorio. Il c.s.o. Pedro ha invece offerto la strumentazione mobile e di amplificazione sonora che ha permesso a ogni intervento di diffondersi in tutto il quartiere.
    Rispetto alla presenza attiva nel quartiere, Il Quadrato Meticcio, il quale ha messo a disposizione gli spazi della propria sede come centrale operativa di entrambi gli eventi, merita un approfondimento specifico.
    Mattia, il fondatore dell’associazione, mi racconta che nel 2008 il “campetto” – così chiamato dagli abitanti del quartiere – situato proprio dietro la “piazzetta” (Piazza Caduti della Resistenza), sarebbe dovuto diventare un parcheggio, ma “l’intervento congiunto della comunità del quartiere lo ha preservato”. Quando gli chiedo come si inserisca l’esperienza dell’associazione in questo ricordo, risponde: “Ho navigato a vista dopo quell’occasione. Mi sono accorto che c’era l’esigenza di valorizzare il campo e che il gioco del calcio era un contesto di incontro importante per i ragazzi. La forma attuale si è consolidata nel tempo”. Adesso, la presenza costante di una vivace comunità “meticcia” – di età che varia dagli otto ai sedici anni – è una testimonianza visiva e frammentaria della cultura familiare che i ragazzi si portano dietro. Come si evince dalla testimonianza di Mattia: «Loro non smettono mai di giocare. Sono in strada tutto il giorno e passano la maggior parte del tempo con il pallone ai piedi. Il conflitto tra di loro riflette i conflitti che vivono in casa. Ognuno di loro appartiene a famiglie economicamente in difficoltà, che condividono scarsi accessi a opportunità finanziarie e sociali in generale. Una situazione che inevitabilmente si ripercuote sull’emotività dei ragazzi, giorno dopo giorno».

    L’esperienza dell’associazione si inserisce all’interno di una rete culturale profondamente complessa ed eterogenea. L’intento dell’associazione, come racconta Camilla, è quello di offrire una visione inclusiva e una maggiore consapevolezza dei processi coloniali e post-coloniali a cui tutti, direttamente o indirettamente, sono legati; un approccio simile a quello della palestra popolare Chinatown, che offre corsi di lotta frequentati spesso dagli stessi ragazzi che giocano nel Quadrato Meticcio. L’obiettivo della palestra è quello di educare al rispetto reciproco attraverso la simulazione controllata di situazioni conflittuali legate all’uso di stereotipi etno-razziali e di classe, gestendo creativamente le ambivalenze dell’intimità culturale (Herzfeld, 2003). Uber[6], fra i più attivi promotori di Decolonize your eyes e affiliato alla palestra, racconta che: «Fin tanto che sono ragazzini, può essere solo un gioco, e tra di loro possono darsi man forte ogni volta che si scontrano con il razzismo brutale che questa città offre senza sconti. Ma ho paura che presto per loro sarà uno shock scoprire quanto può far male il razzismo a livello politico, lavorativo, legale… su tutti i fronti. E ho paura soprattutto che non troveranno altro modo di gestire l’impatto se non abbandonandosi agli stereotipi che gli orbitano già attorno».

    La mobilitazione concertata del 2008 a favore della preservazione del “campetto”, ha molto in comune con il contesto dal quale è emerso Decolonize your eyes. È “quasi un miracolo” di partecipazione estesa, mi racconta Uber, considerando che storicamente le “realtà militanti” di Padova hanno sempre faticato ad allearsi e collaborare. Similmente, con una vena solenne ma scherzosa, Camilla definisce entrambi gli eventi “necessari”. Lei si è occupata di gestire anche la “chiamata” generale: “abbiamo fatto un appello aperto a tutti sui nostri social network e le risposte sono state immediate e numerose”. Uber mi fa presente che “già da alcune assemblee precedenti si poteva notare l’intenzione di mettere da parte le conflittualità”. Quando gli chiedo perché, risponde “perché non ne potevamo più [di andare l’uno contro l’altro]”. Camilla sottolinea come l’impegno da parte dell’anpi di colmare le distanze generazionali, nei concetti e nelle pratiche, sia stato particolarmente forte e significativo.

    Avere uno scopo comune sembra dunque essere una prima risorsa per incontrarsi. Ma è nel modo in cui le conflittualità vengono gestite quotidianamente che può emergere una spinta rivoluzionaria unitaria. In effetti, «[…] l’equilibrio di un gruppo non nasce per forza da uno stato di inerzia, ma spesso da una serie di conflitti interni controllati» (Mauss, 2002, p. 194).
    Nel frattempo il Quadrato Meticcio ha rinnovato il suo impegno nei confronti del quartiere dando vita a una nuova iniziativa, chiamata All you can care, basata sullo scambio mutualistico di beni di prima necessità. Contemporaneamente, i progetti per un nuovo Decolonize your eyes vanno avanti e, da ciò che racconta Camilla, qualcosa sembra muoversi:
    «Pochi giorni fa una signora ci ha fermati per chiederci di cambiare anche il nome della sua via – anch’essa di rimando coloniale. Stiamo avendo anche altre risposte positive, altre realtà vogliono partecipare ai prossimi eventi».
    L’esperienza di Decolonize your eyes è insomma una tappa di un lungo progetto di decolonizzazione dell’immaginario e dell’utilizzo dello spazio pubblico che coinvolge molte realtà locali le quali, finalmente, sembrano riconoscersi in una lotta comune.

    Note
    [1] Annalisa Frisina ha ideato la struttura del saggio e ha scritto il paragrafo “Pratiche visuali di decolonizzazione della città”; Mackda Ghebremariam Tesfau’ ha scritto il paragrafo “L’Europa è indifendibile” e Salvatore Frisina il paragrafo “L’esperienza del A.S.D. Quadrato Meticcio”.
    [2] Cancel culture è un termine, spesso utilizzato con un’accezione negativa, che è stato usato per indicare movimenti emersi negli ultimi anni che hanno fatto uso del digitale, come quello il #metoo femminista, e che è stato usato anche per indicare le azioni contro le vestigia coloniali e razziste che si sono date dal Sud Africa agli Stati Uniti all’Europa.
    [3] Archivio Marx-Engels
    [4] Ho ideato con Elisabetta Campagni il percorso di video partecipativo nella primavera del 2020, rispondendo alla call “Cinema Vivo” di ZaLab; il nostro progetto è rientrato tra i primi cinque votati e supportati dal crowfunding.
    [5] Da un’intervista realizzata dall’autore in data 10/12/2020 a Camilla Previati e Mattia Boscaro, il fondatore dell’associazione.
    [6] Da un’intervista realizzata con Uber Mancin dall’autore in data 9/12/2020.
    [7] Le parti introduttive e finali del video sono state realizzate con la gentile concessione dei materiali audiovisivi da parte di Uber Mancin (archivio privato).

    Bibliografia
    Bhambra, G., Nişancıoğlu, K. & Gebrial, D., Decolonising the University, Pluto Press, London, 2018.
    Bhambra, G. K., The current crisis of Europe: Refugees, colonialism, and the limits of cosmopolitanism, in: «European Law Journal», 23(5): 395-405. 2017.
    Césaire, A. (1950), Discorso sul colonialismo, Mellino, M. (a cura di), Ombre corte, Verona, 2010.
    Frisina, A., Ricerca visuale e trasformazioni socio-culturali, utet Università, Torino, 2013.
    Frisina, A. e Ghebremariam Tesfau’, M., Decolonizzare la città. L’antirazzismo come contro-politica della memoria. E poi?, «Studi Culturali», Anno XVII, n. 3, Dicembre, pp. 399-412. 2020.
    Herzfeld, M., & Nicolcencov, E., Intimità culturale: antropologia e nazionalismo, L’ancora del Mediterraneo, 2003.
    Mauss, M., Saggio sul dono: forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche, G. Einaudi, Torino, 2002.
    Mirzoeff, N., The Right to Look: A Counterhistory of Visuality, Duke University Press, Durham e London, 2011.
    Scego, I., & Bianchi, R., Roma negata. Percorsi postcoloniali nella città, Ediesse, Roma, 2014.
    Wekker, G., White Innocence: Paradoxes of Colonialism and Race, Duke University Press, Durham and London, 2016.

    https://www.roots-routes.org/decolonize-your-eyes-padova-pratiche-visuali-di-decolonizzazione-della
    #décolonisation #décolonial #colonialisme #traces_coloniales #Italie #Italie_coloniale #colonialisme_italien #statues #Padova #Padoue

    ping @cede (même si c’est en italien...)

  • À Lille-Vauban, des services sociaux fermés pour cause d’agents en souffrance Nadia Daki
    https://www.mediacites.fr/enquete/lille/2022/03/21/a-lille-vauban-des-services-sociaux-fermes-pour-cause-dagents-en-souffran

    Les travailleurs sociaux de l’Unité territoriale de prévention et d’action sociale (UTPAS) de Lille-Vauban, service du Département du Nord, reprennent aujourd’hui leur poste après trois semaines d’arrêt. Le public sera accueilli uniquement sur rendez-vous durant cette semaine de reprise. Le libre accès devrait être peu à peu rétabli dans le courant de semaine prochaine. Certains salariés disent revenir dans leurs bureaux avec une boule au ventre, trois semaines après avoir exercé leur droit de retrait total. Tous ont en tête l’événement tragique qui est survenu au 4e étage de l’unité. Le 25 février dernier, une réunion se tient là entre une partie du personnel, des cadres et une responsable hiérarchique dépêchée expressément. Ordre du jour : tenter de trouver une solution aux problèmes d’encadrement pointés dans l’antenne.


    L’UTPAS de Lille-Vauban, rue Desmazières, tout près du jardin Vauban. Son personnel est en charge de l’aide sociale à l’enfance et de la protection maternelle et infantile notamment. Photo : Pierre Leibovici. _

    Les salariés dénoncent des pratiques managériales brutales, un manque de considération voire du mépris, une surcharge de travail, un dysfonctionnement général du service. Le malaise est sensible et l’échange est vif. Brusquement, une des travailleuses sociales se lève. « Je l’ai vue ouvrir la fenêtre après qu’on lui a demandé sèchement de se taire, se souvient Nadège (Prénom modifié) , assistante sociale, présente ce jour-là. Je pensais qu’elle avait besoin de prendre un peu l’air. D’un coup, son regard s’est voilé et elle ne répondait plus aux sollicitations. Il s’en est fallu de peu qu’elle ne se défenestre. » La travailleuse sociale est rattrapée de justesse par un collègue.

    « Nous étions tous bouleversés et choqués, poursuit Nadège. Mais ce qui est très grave, c’est que la hiérarchie nous a demandé de la calmer, de ne pas appeler les secours et de reprendre la réunion. » Les salariés alerteront quand même les pompiers ainsi que le Samu... Quelques jours plus tard, une cellule d’écoute est mise en place par le Département et la médecine du travail est sollicitée ; 38 travailleurs sociaux sur un effectif total de 54 personnes font valoir leur droit de retrait total. Pendant trois semaines, les habitants des quartiers de Bois-Blancs, de Wazemmes et de Vauban-Esquermes désirant solliciter les services de l’UTPAS (l’aide sociale à l’enfance, la protection maternelle et infantile et le service social départemental) ont donc trouvé portes closes. Seul un accueil téléphonique était assuré.

    De multiples alertes
    « On se sent tous coupables vis-à-vis de notre collègue, poursuit Nathalie(Prénom modifié) , également assistante sociale. Elle avait eu une altercation assez violente il y a quelques mois avec la hiérarchie. On aurait déjà dû réagir. Nous sommes tous dans le même état qu’elle, on aurait pu tous vriller à un moment ou un autre, d’une manière ou d’une autre. » Ce que regrettent les équipes, c’est que les alertes adressées à leur employeur n’aient pas été prises en compte. « Cela fait plus d’un an que nous faisons remonter les problèmes à la direction », souligne Olivier Treneul, porte-parole du syndicat Sud. Contacté, le Département nous a indiqué qu’il « ne communiquera pas sur ce dossier ».

    Dans un rapport d’enquête du #CHSCT (Comité d’hygiène de sécurité et des conditions de travail) rédigé par les représentants de Sud, que Mediacités a pu consulter, on apprend que plusieurs personnes sont en arrêt maladie ; certaines sont suivies par une psychologue du travail. Beaucoup témoignent du mépris et de l’isolement auxquels elles ont dû faire face. Stéphanie(Prénom modifié), assistante sociale, et ses collègues datent le début des difficultés à 2020 avec l’arrivée d’un nouveau chef de service, et leur amplification un an plus tard avec celle d’une nouvelle responsable. « Dès lors, l’organisation des services a été modifiée sans que nous soyons consultés au préalable, ni même informés des changements, explique-t-elle. Et des injonctions paradoxales ont compliqué notre travail quotidien. »

    Le service au public directement affecté
    Lorsque les familles sollicitent une aide financière par exemple, le travailleur social de l’UTPAS leur demande un certain nombre de pièces et accompagne le dossier d’une note à l’intention de sa hiérarchie. « Pour une même aide, les pièces exigées n’étaient pas les mêmes selon le bon vouloir des supérieurs, se désole Stéphanie. Parfois, on nous disait que telle pièce était nécessaire et parfois on nous reprochait d’avoir versé cette même pièce au dossier. Il arrivait aussi qu’on nous demande d’être très intrusifs dans la vie des gens sur des aspects qui n’étaient pas en lien direct avec la situation. Personne ne vient solliciter une aide avec fierté ou par gaité de cœur. Nous qui les recevons sommes convaincus du bien-fondé de leur demande. »

    « Toutes nos préconisations étaient systématiquement remises en question »
    Les travailleurs sociaux rapportent une autre pratique entravant leur travail : les multiples corrections de leurs notes par la direction. « Toutes nos préconisations étaient systématiquement remises en question, regrette Nadège. La responsable corrigeait nos écrits comme si nous étions à l’école, en pointant les fautes d’orthographe et de syntaxe. Elle avait toujours quelque chose à redire. Et ces allers-retours sur la forme retardaient de deux, voire trois semaines, la décision d’accorder une aide alors qu’avant, cela pouvait être réglé en quelques jours. »

    Cécile (Prénom modifié), assistante sociale, a trouvé une parade. « Mes écrits étaient systématiquement retoqués. Je me sentais infantilisée. La responsable voulait qu’on écrive tous dans son style. Cela fait plus de dix ans que j’exerce ce métier, mes notes n’avaient jamais posé de problème auparavant. Même les juges qui les lisaient ne me faisaient jamais de remarques. Pour éviter de rallonger le délai de traitement, je sous-traitais, c’est-à-dire que dès que j’avais une famille qui sollicitait une aide, je l’envoyais à ma collègue dont les écrits passaient mieux. »

    Un risque pour les populations les plus fragiles
    Plus inquiétantes encore : les répercussions directes sur les enfants placés ou à placer, publics les plus fragiles. Car ces navettes syntaxiques étaient aussi la règle lors d’une demande de protection d’un mineur. « Les rapports de signalement sont susceptibles d’être lus par les familles ou les enfants. Lorsque je les rédigeais, je veillais à ce qu’ils soient accessibles et je choisissais des mots facilement compréhensibles. Ça ne convenait pas à la responsable », rage Nathalie. Les témoignages sont accablants quant à l’issue de ces rapports. « La hiérarchie allait jusqu’à nous demander de changer nos préconisations de mise à l’abri d’enfants arguant qu’elle n’était pas d’accord avec nos conclusions alors qu’elle n’avait jamais rencontré les familles. Cela faisait plusieurs mois qu’on se disait tous qu’il y allait avoir un drame, soit chez nous avec une collègue en souffrance, soit du côté des publics concernés par la #protection de l’enfance. »

    Dans le rapport d’enquête que Sud a rédigé pour le CHSCT et qu’il a remis au Département, une travailleuse sociale raconte : « La hiérarchie nous demande de taire en audience des graves éléments de danger transmis par un partenaire et refuse d’assumer cette décision en audience. » Ou encore : « un rapport peut être retoqué jusqu’à 11 fois, certaines corrections de la responsable interviennent sur ses propres modifications. »

    Face à ces situations, les salariés décrivent une perte du sens de leur travail. Sabine(Prénom modifié), également assistante sociale, a préféré se mettre en arrêt maladie. « Comment aider des gens qui ne vont pas bien quand soi-même on va mal, se demande-t-elle. On est obligé de se battre en permanence pour exercer notre métier. Et on doit rappeler sans cesse à l’institution les besoins des populations alors que c’est la raison d’être d’un service #médico-social. » Le personnel de l’antenne demandait une mesure d’éloignement des cadres qu’ils estiment responsables des dysfonctionnements. « Dans un premier temps, le Département a refusé arguant qu’il ne prendrait pas de décision en urgence. Mais finalement, jeudi 17 mars, il nous a indiqué que ces deux personnes ne remettraient plus les pieds dans la structure », précise Olivier Treneul, de Sud.

    « Il y a une violence systémique et un vrai problème de management au sein du Département. »
    Après trois semaines de fermeture, les travailleurs sociaux redoutent une surcharge de travail considérable. « Nous étions déjà en épuisement professionnel. Depuis le 25 février, nous sommes nombreuses à avoir des difficultés à dormir. Tout ce qu’on souhaite, c’est de reprendre le travail dans de meilleures conditions », espèrent Sabine et ses collègues. L’éloignement des deux cadres incriminés calme les tensions mais ne règle pas le problème, assure Olivier Treneul. « Le sentiment de soulagement des collègues ne fait pas disparaître leur colère car l’employeur ne reconnaît pas l’alerte #DGI [danger grave imminent, NDLR]  ; il prend une mesure de mise à distance de ce danger. Il y a une violence systémique et un vrai problème de management au sein du Département. Depuis plusieurs années, ces violences se renouvellent et se multiplient. Et l’employeur minimise et nous inonde de discours bienveillants et idylliques. » On attend à présent une prise de position officielle du #département_du_Nord.

    #59 #violence #hiérarchie #encadrement #harcèlement #travail  #violence #surveillance #infantilisation #mépris

    • Dans les Hauts-de-France, les mères isolées s’enfoncent dans une « trappe de pauvreté » Pierre Leibovici
      https://www.mediacites.fr/lu-pour-vous/lille/2022/03/22/dans-les-hauts-de-france-les-meres-isolees-senfoncent-dans-une-trappe-de-

      Couples séparés, mères appauvries. Tel est le bilan que l’on peut tirer de l’étude de l’Insee sur les conditions de vie des mères isolées dans les Hauts-de-France, publiée mardi 8 mars https://www.insee.fr/fr/statistiques/6051322 . Premier enseignement : en dix ans, le nombre de familles monoparentales avec enfants a bondi de 10 %, pour atteindre 172 000. Elles représentent désormais près d’un quart (23 %) des familles avec enfant mineur dans la région.


      Photo : Marko Milivojevic / Pixnio.

      Si les séparations conjugales sont de plus en plus fréquentes dans les Hauts-de-France — comme dans les autres régions du pays —, que se passe-t-il pour les enfants ? Dans 85 % des cas, révèle l’Insee, ils sont élevés par leur mère. « En France, les familles monoparentales sont une réalité essentiellement féminine », confirme Céline Bessière, sociologue et autrice avec Sibylle Gollac du Genre du capital — Comment la famille reproduit les inégalités (éd. La Découverte) . Un constat d’autant plus vrai que la famille est nombreuse : « les hommes sont responsables de 17 % des familles monoparentales de 1 enfant et de 8 % de celles de 4 enfants et plus », précise l’Insee dans son étude régionale.

      Une mère isolée sur deux est en situation de pauvreté
      Or, dans les Hauts-de-France, les mères isolées sont bien plus frappées par la pauvreté que les pères dans la même situation : 49 % d’entre elles vivent sous le seuil de pauvreté en 2018, contre 33 % des hommes. « En plus d’être la région de France métropolitaine où le taux de pauvreté des familles monoparentales est le plus élevé, les Hauts-de-France affichent l’écart de pauvreté entre mères et pères isolés le plus prononcé », ajoutent Catherine Barkovic et Noémie Cavan, à l’origine de l’étude publiée par l’Insee.

      « Esclave entre tous est l’ex-femme du prolétaire », résume la sociologue Céline Bessière, reprenant le titre d’un chapitre de son livre. Elle détaille : « il n’est pas surprenant de trouver une telle proportion de femmes pauvres parmi les parents isolés dans les classes populaires, car elles sont prises dans une trappe de pauvreté. »

      « L’appauvrissement à l’issue de la séparation est une réalité partagée par les femmes des Hauts-de-France, comme par l’ex-épouse de Jeff Bezos »

      Bien avant la rupture, les mères isolées ont souffert de profondes inégalités de richesse au sein du couple — largement invisibilisées par un débat essentiellement focalisé sur l’égalité salariale. « L’écart moyen de revenus est de 42 % entre les hommes et les femmes qui sont en couple. Cet écart tombe à 9 % pour les célibataires », tranche Céline Bessière. L’explication est connue : les femmes assurent l’essentiel du travail domestique, non rémunéré, quand leurs compagnons continuent le plus souvent à travailler à temps plein et à percevoir un salaire.

      Lueur d’espoir
      « L’appauvrissement commence dans la conjugalité et s’aggrave au moment de la séparation », décrit la co-autrice du Genre du capital. « Ce processus traverse toutes les classes sociales, il est le même pour les mères isolées des Hauts-de-France que pour Mackenzie Bezos, l’ex-femme de Jeff, le fondateur d’Amazon. Bien sûr, les femmes issues de classes populaires se retrouvent dans des situations matérielles beaucoup plus dramatiques. »

      C’est ce que confirme l’Insee dans la région. Au-delà du faible niveau de revenus, de nombreuses mères isolées sont contraintes de quitter leur logement à l’issue d’une séparation. Un quart d’entre elles sont ainsi propriétaires de leur logement, contre 70 % des couples avec enfants. « C’est un cliché de penser que les femmes restent dans leur logement d’origine après une rupture, poursuit Céline Bessière. Si elles étaient copropriétaires avec leur conjoint, la plupart d’entre elles ne peuvent assurer seules le remboursement d’un emprunt immobilier. » Parties du domicile conjugal, 45 % des mères isolées rejoignent un logement social dans les Hauts-de-France, toujours selon l’Insee.

      Pour cette étude, l’institut statistique ne s’est pas penché sur un dernier phénomène qui frappe les mères isolées, dans les Hauts-de-France comme ailleurs : le non-versement des pensions alimentaires. Un rapport https://www.igas.gouv.fr/IMG/pdf/2016-071R.pdf , publié en 2016 par l’Inspection générale des affaires sociales, concluait que « le taux d’impayés des pensions alimentaires se situe [en] moyenne autour de 35 % ». Pour rétablir ce droit essentiel pour les époux séparés, Céline Bessière pointe l’importance de « l’intermédiation de la Caisse des allocations familiales (CAF) entre les époux ». Elle apporte une lueur d’espoir. Depuis le 1er mars 2022, la CAF verse automatiquement la pension alimentaire fixée par un juge sur le compte du père ou, bien plus souvent, de la mère bénéficiaire.

      #Femmes #pauvreté #divorce #pauvreté #classes_sociales #couples #Hauts-de-France

    • #Bruxelles : 48 travailleurs de Filigranes portent plainte pour harcèlement Vanessa Lhuillier
      https://bx1.be/categories/news/48-travailleurs-de-filigranes-portent-plainte-pour-harcelement

      Départs soudains, burn-out, turnover de 30%. La librairie Filigranes, avenue des Arts à Bruxelles, est peut-être le paradis pour les amateurs de livres, mais visiblement pas pour son personnel. Une plainte anonyme collective signée par 48 employés a été déposée auprès de la caisse d’assurance sociale Securex. Les travailleurs remettent en cause l’organisation du travail, mais également la méthode de management du créateur de la librairie, Marc Filispon. Ils l’accusent de harcèlement moral et sexuel. Le fondateur de la librairie se défend.


      – Photo : Belga/Laurie Dieffembacq

      “Au début, tout se passait bien entre lui et moi. Et puis, son comportement a changé lorsqu’avec d’autres salariés, nous avons porté plainte, car nous n’étions pas dans la bonne commission paritaire. J’ai été insultée, humiliée devant des clients. Un jour, je lui ai dit qu’en tant qu’employés, nous devions respecter le règlement de travail, mais que lui, en tant qu’employeur, il devait respecter la loi. Deux jours plus tard, je suis arrivée au travail à 8h et à 8h20 j’étais dehors avec mes affaires car on m’avait licenciée. C’était hyperviolent. Après 5 ans, du jour au lendemain, je n’étais plus compétente pour mon poste de cheffe de rayon.” 

      Cela fait presque 5 ans que Sophie a été licenciée brutalement pour s’être opposée à certaines méthodes de management chez Filigranes. Pourtant, elle rêve encore de Marc Filipson et est toujours inquiète des répercussions de son témoignage. “Marc Filipson a écrit à mes employeurs suivants pour leur dire de ne pas travailler avec moi. Il a empêché d’autres employés de sa librairie de me parler. Aujourd’hui, je suis représentante dans le domaine de la BD et je ne peux pas entrer à Filigranes.”

      48 travailleurs ont porté plainte
      Des témoignages comme celui de Sophie, nous en avons recueillis plusieurs. La plupart préfèrent rester anonyme. Ces employés sont soit en burn-out, soit démissionnaires, soit partis depuis quelques années déjà. A chaque fois, les discours sont les mêmes. Ils se plaignent de certaines conditions de travail comme le fait de ne pas pouvoir être payé pour ses heures supplémentaires, de devoir participer obligatoirement à des soirées caritatives, des changements d’horaires en dernière minute ou encore de l’absence de consignes claires par écrit. Certains mails que nous avons pu consulter restent évasifs sur la participation aux soirées caritatives ou annoncent des changements d’horaires moins de 15 jours à l’avance comme prévu par la loi.

      Et puis, ils se plaignent aussi du comportement du fondateur de Filigranes, Marc Filipson. De nombreuses personnes qui ont travaillé un jour chez Filigranes, rapportent des comportements inacceptables de sa part. “C’est un manipulateur qui sait très bien où appuyer pour faire craquer les gens. Cela lui plait aussi quand on a du répondant et qu’on ne se laisse pas faire.”

      La librairie employait 95 équivalents temps plein en 2021. 48 d’entre eux ont déposé une plainte collective anonyme auprès du secrétariat social Securex, et plus spécifiquement à la cellule psychosociale en charge de la protection du bien-être au travail. Dans cette plainte, les salariés se plaignent des heures supplémentaires qui parfois ne peuvent ni être récupérées ni payées, des changements d’horaires en dernière minute, de contacts répétés en dehors des horaires de travail, d’une surveillance par l’utilisation de carte pour accéder au logiciel de gestion, d’un manque de personnel… Ils précisent aussi que 5 personnes sont parties en burn-out sur les 6 derniers mois à cause notamment des coups de colère du patron, des insultes, des intimidations, d’incohérence dans les consignes, de remarques concernant la tenue vestimentaire ou le physique des employés, de contacts physiques non souhaités.

      Suite à la plainte déposée chez Securex, Filigranes disposait de 3 mois pour répondre. La veille de la date fatidique, cela a été fait. Le conseil d’administration de Filigranes dit vouloir creuser la question des heures supplémentaires et regrette que les employés se soient sentis obligés de participer aux soirées caritatives. Il précisera de manière claire que cela n’est pas le cas.

      Concernant les contacts en dehors des heures de travail, la lettre ne parle que d’une employée. Or, plusieurs personnes nous ont relaté les mêmes faits. Par rapport aux congés, la tâche revient aux chefs de rayon et vu l’activité de Filigranes, il est logique de ne pouvoir prendre des congés en novembre et décembre, mois qui représentent la majeure partie du chiffre d’affaires. Le conseil d’administration comprend “mal les doléances des travailleurs sur ce point, qui ne semblent pas mesurer l’importance de leur présence au sein du rayon”. Tous les chefs de rayon devront appliquer les mêmes règles pour éviter les sentiments d’inégalité.

      “Il nous oblige à l’appeler par son prénom et à le vouvoyer alors que nous, il nous tutoie et ne connaît pas nos prénoms. Dès que nous voulons prendre une initiative, il nous dit de foncer et, ensuite, il nous hurle dessus, car nous avons mal fait. Plus je travaillais et plus les choses étaient mal faites selon lui. Il tente toujours de diviser les équipes en nous demandant de dénoncer nos collègues. Sur la même journée, il peut vous demander de lui faire un câlin et ensuite vous hurler dessus sans raison.”

      “La famille Filigranes”
      Plusieurs anciens employés expliquent que vers 2010, Filigranes était comme une famille. “J’étais mère célibataire sans enfant une semaine sur deux et ces semaines-là, on faisait la fête à la fermeture, se souvient Sophie. Je ne connaissais personne à Bruxelles et Filigranes était ma deuxième famille. Marc faisait la fête avec nous et il ouvrait lui-même les bouteilles le soir. Cette ambiance, cela faisait qu’on acceptait plus de choses qui n’étaient pas toujours réglos. Les heures supplémentaires en dernière minute, les enveloppes pour avoir animé une soirée ou travaillé plus, tout cela était compensé par cette ambiance. Mais lorsque nous avons demandé à changer de commission paritaire, tout s’est arrêté.”

      En 2016, les employés de Filigranes étaient sur la commission paritaire 201 qui correspond au petit commerce indépendant. L’entreprise ayant grandi, les salariés ont voulu passer sur la commission paritaire 311 qui correspond à celle pour les grands commerces. Ce changement engendre des modifications dans les salaires ainsi que l’octroi d’avantages extra-légaux. “Cela lui a coûté de l’argent et c’est devenu plus difficile pour lui, reconnait Sophie. Comme Filigranes était en tort, certains employés ont porté plainte pour toucher leur différence de salaire de manière rétroactive. Et puis, il aurait dû y avoir une représentation syndicale, mais cela n’a pas été fait.”

      Pas de représentant syndical
      Plusieurs tentatives de mettre en place une représentation syndicale dans l’entreprise ont échoué. Pour qu’elle existe, il faut que 25% du personnel soit syndiqués. Entre le turn-over et la peur de certains, le taux n’était pas atteint. En janvier 2020, une nouvelle tentative a été lancée et des élections auraient dû avoir lieu. Seulement, avec le confinement, il n’y a pas eu de candidat qui s’est déclaré dans les temps. Des discussions sont toujours en cours avec les syndicats et la direction de Filigranes pour tenter de trouver une solution.

      Certains employés nous disent aussi n’avoir jamais eu aucun problème avec Marc Filipson. Ils reconnaissent son côté volubile, mais n’ont jamais été victime d’abus. “Souvent, il y a une période de séduction avec Marc, nous explique un employé qui a donné sa démission récemment. Il veut se mettre les gens dans sa poche et à un moment, vous ne savez pas toujours pourquoi, vous rentrez dans le collimateur. Moi, il m’a dit qu’il n’aimait pas les barbus. Quand j’ai demandé si on serait payé pour les chroniques qu’on nous demandait d’écrire dans le magazine de la librairie alors qu’on était en chômage temporaire durant le confinement, il a voulu me virer. Quand je suis revenu travailler à la librairie, j’ai dû m’excuser d’avoir posé la question.”

      Les travailleurs se plaignent aussi d’être filmés ou surveiller depuis la mise en place d’un nouveau logiciel de gestion. Pour le conseil d’administration, cela a été mis en place pour responsabiliser les travailleurs et les caméras n’ont pas vocation de surveiller les travailleurs et ne sont en principe pas utilisés à cet effet.

      “Pendant le confinement, Marc avait créé un groupe Whatsapp pour toute l’entreprise. C’était des messages tous les jours à toute heure. C’était insupportable, explique une responsable de rayon. Lors de votre jour de congé, il peut vous appeler 8 fois. Idem pendant votre pause. Comme il est là tous les jours, il considère que vous devez faire pareil,” ajoute un autre témoin.

      Des colères vives
      Plusieurs personnes ont également rapporté certaines discussions vives dans le bureau de la direction en présence de la directrice des ressources humaines. “Il m’a bloqué dans un coin pour me crier dessus durant 20 minutes. Je suis ressortie tremblante et en pleurs.” “Il a fait pression sur moi en utilisant la dépression de ma compagne devant tout le personnel de mon département. On dirait qu’il a des bouffées délirantes.” “Je lui ai demandé des excuses car personne ne pouvait parler comme ça à un autre être humain. Il a reconnu qu’il n’aurait pas dû avant de continuer à m’engueuler. Il est devenu tout rouge. J’ai cru qu’il allait me frapper. S’il l’avait fait, j’aurais été porter plainte directement.”

      Des arrêts maladie de longue durée
      Plusieurs personnes ont peur de Marc Filipson et finissent par se mettre en arrêt maladie. “Quand je suis allée voir ma psy, elle m’a envoyée chez un généraliste et une psychiatre pour obtenir un arrêt. La psychiatre m’a dit qu’elle avait déjà eu beaucoup de travailleurs de chez Filigranes qui rapportaient les mêmes faits.” “Mon médecin m’a fait un certificat juste pour Filigranes où je travaillais deux jours par semaine en disant que cet emploi était dangereux pour ma santé mentale, que je ne devais plus y retourner.”

      Une autre employée : “Pendant des mois, je ne parlais plus que de Marc. J’en rêvais. Ma consommation d’alcool augmentait. J’étais dans le déni jusqu’au jour où j’ai été arrêté pour burn-out. Je l’ai dit à Filigranes et on m’a répondu que je lâchais mon équipe. Je suis allée à la médecine du travail. Trop souvent, les personnes qui partent n’ont plus la force de faire les démarches légales. Elles veulent juste ne plus jamais entendre parler de cette entreprise. Moi, j’ai voulu qu’il y ait une trace pour que cela s’arrête. Ce management doit changer.”

      Par rapport au bien-être, deux personnes seraient actuellement en burn-out. Cependant, beaucoup de personnes en arrêt pour épuisement ont démissionné ces dernières semaines.

      Les chefs de département parlent aussi d’une pression qui vient de la direction pour la répercuter sur les libraires. Certains font tampon et disent encaisser les remarques ce qui nuit à leur santé mentale et physique. “Pendant un moment, il y a eu un coach pour nous expliquer comment diriger une équipe, explique Sophie. Son travail consistait surtout à nous expliquer comment parler avec Marc. Les personnes en contact direct avec lui que cela soit à la communication ou les directeurs opérationnels changent très souvent parce que la pression est trop importante.”

      Filigranes reconnait le manque de personnel dans certains rayons. L’entreprise dit avoir des difficultés pour recruter du personnel qualifié. Il lui a fallu plus d’un an pour trouver un directeur opérationnel comme demandé par le personnel afin d’éviter les contacts directs avec la direction. Son rôle sera d’assurer la gestion journalière entre la direction et les membres du personnel.

      Des cas de harcèlement sexuel
      Certains membres du personnel anciens ou actuels font également état de remarques sur le physique. “Il a dit à un collègue lors de mon embauche que tant que je souriais, tout irait bien”, se souvient Sophie. “On m’a demandé d’engager plutôt des étudiants mignons et homosexuels”, ajoute un responsable de rayon. “Marc Filipson passe souvent à la caisse et met la main aux fesses des caissiers. Il a un problème. On doit dire à nos jeunes de faire attention et de ne pas se trouver seul avec lui.“

      Ces graves accusations, David affirme en avoir été la victime. Il a commencé à travailler chez Filigranes en 2009 en tant que libraire. “Tout se passait bien à cette époque. Je suis devenu chef de rayon assez rapidement. J’avais déjà de l’expérience comme libraire spécialisé dans les beaux-arts en France et Marc Filipson ne connaissait pas trop cette matière. Rapidement, je me suis rendu compte qu’il y avait des approximations dans la gestion, mais les gens restaient car ils avaient des compensations. C’était l’esprit famille de Filigranes. Il faut se rendre compte que pour Marc, verser un salaire est une faveur. Tout le monde doit se sentir investi et personnellement, j’aimais bien faire les interviews des auteurs, le soir lors des rencontres avec les clients. D’un point de vue professionnel, tout allait bien. Dans le privé, c’était plus complexe.“

      David a alors près de 40 ans. Il ne cache pas son homosexualité et dit de lui-même qu’il avait une réputation de grande gueule. “Marc trouvait cela très drôle de me mettre la main à l’entrejambe. Après quelques fois, je lui ai demandé d’arrêter. Je lui ai dit que je porterais plainte s’il continuait. J’ai été très ferme et il a arrêté jusqu’à une fête du personnel où il était ivre.” Lors de cette soirée, le patron de Filigranes a proposé à David de le retrouver dans les toilettes pour une relation intime. “J’ai refusé. Le lendemain, il est venu vers moi avec des billets de 100 euros, soi-disant pour mes vacances. Je pense surtout qu’il a voulu acheter mon silence.” 

      C’était en 2015. David n’a pas porté plainte. “Nous étions avant #metoo. La parole n’était pas aussi libre que maintenant. A l’époque, je me suis demandé si je ne l’avais pas provoqué, si tout n’était pas de ma faute. Je n’ai donc rien dit. Aujourd’hui, je parle pour qu’il ne le fasse plus. J’ai été ferme et il a arrêté mais tout le monde n’a pas cette force de caractère. Il se sent totalement intouchable et ne se rend pas compte de ce qu’il fait. C’est la même chose au niveau du travail où il pense qu’il ne doit pas respecter les lois.”

      Après 3 ans chez Filigranes, comme beaucoup d’autres, David souhaitait déjà partir mais il aimait son travail et avait une position privilégiée. En octobre 2019, finalement, il quitte l’entreprise. “On me donnait des consignes que je ne pouvais pas appliquer. Je ne voulais pas de cette hiérarchie verticale et devenir un tyran par rapport aux libraires dans mon rayon. Je ne faisais plus que de la gestion. Je suis donc parti. Je n’étais pas en burn-out. Cependant, j’ai fait un long travail psy pour me dire que je n’étais pas coupable, que je n’avais pas mal géré mon équipe, que ce n’était pas un échec. Je n’ai pas mal travaillé.”

      “Un patron exigeant mais des remarques souvent parfaitement justifiées”
      Enfin, le conseil d’administration défend Marc Filipson. “C’est grâce à sa personnalité hors du commun et sa vision extraordinaire que Filigranes est ce qu’elle est aujourd’hui, à savoir une des plus grandes libraires d’Europe, peut-on lire dans la réponse envoyée à Securex. Vis-à-vis des travailleurs, il est clairement un patron exigeant mais ses remarques sont souvent parfaitement justifiées. Son franc-parler et sa personnalité exubérante l’amènent cependant parfois à ne pas utiliser toutes les formes requises, ce sur quoi il a conscience qu’il doit travailler. […] Il a dès lors été particulièrement heurté de lire que des travailleurs auraient rapporté l’existence d’insultes, de menaces ou humiliations, de remarques sexistes, racistes ou grossophobes… M. Filipson est quelqu’un de très ouvert, tolérant et ne se reconnaît pas du tout dans ces reproches.”

      Nous avons joint Marc Filipson qui n’a pas souhaité échanger avec nous par rapport à ces critiques. “Le conseil d’administration et mes avocats ont répondu à cette plainte. Il n’y a jamais eu ni harcèlement moral ni sexuel chez Filigranes.”

      Une analyse de risque
      Le conseil d’administration réfléchira à la nécessité de mettre en place un coaching collectif pour harmoniser les relations de travail et ouvrir à la communication bienveillante. Il demande aussi à Securex de réaliser avec lui, une analyse de risque pour évaluer l’impact des mesures sur le bien-être des travailleurs.

      #librairie #violence #hiérarchie #encadrement #harcèlement #harcèlement_sexuel #travail #discrimination #violence #salaire #surveillance #racisme #grossophobie #infantilisation #mépris #Belgique

      #NDLR  : La librairie a du mal à recruter du personnel, normal sa réputation est faite.
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      Le cas "Filigranes" : Kairos prévenait il y a deux ans... les médias n’en avaient cure - Kairos
      https://www.kairospresse.be/le-cas-filigranes-kairos-prevenait-il-y-a-deux-ans-les-medias-nen-avaie

      Il y a presque deux ans, nous publiions un article sur « la plus grande librairie d’Europe » et son patron, sise au cœur de Bruxelles, dénonçant à l’appui de témoignages les comportements pour le moins douteux(1) de ce dernier, mais aussi les passe-droits politiques dont il bénéficiait. Cela nous aura valu des remerciements discrets de certains libraires (aussi d’un éditeur parisien), mais également des demandes d’explications de la part de la Communauté française (qui n’a toutefois rien fait suite aux atteintes dénoncées dans l’article…), après une plainte reçue portant sur un passage de l’article qui ne leur aura pas plus. Aujourd’hui, alors que la moitié du personnel porte plainte contre Marc Filipson (48 des 95 employés), certains médias se réveillent. Là encore, cette situation démontre comment la presse ne joue pas son véritable rôle et ne l’ouvre que quand elle ne peut plus la fermer… A l’époque, une des employées avait tenté d’alerter les médias : en guise de réponse, elle n’avait eu que le silence. 

      Ci-dessous, l’article de Juin 2018. 

      Tout paraît en général calme, bon-enfant, serein. Mais la violence du management moderne se révèle rarement dans la présentation et la façade commerciale, au contraire, puisque le spectacle de l’harmonie en est son garant. Elle sévit donc dans un entre-deux, dans les injonctions, les menaces, infligeant souffrances et « burn-out », révélés au détour d’un témoignage anonyme ou de celui qui, parti, exprime tout ce qu’il a vécu et ne pouvait plus garder pour lui seul. Aujourd’hui, des libraires de « la plus grande librairie de plain-pied d’Europe », sise à Bruxelles, là où les politiciens belges et autres personnages médiatiques vont faire leurs emplettes le dimanche, nous révèlent ce qui se cache derrière la couverture. 

      Bienvenue à la librairie Filigranes, fournisseur breveté de la Cour de Belgique, ouverte 7 jours sur 7, 2600 m² de surface, bar, champagne et caviar, petite restauration, piano, produits bios, jeux, vins… et livres, « où l’on peut flâner dans les rayons, lire en buvant un café ou écouter les auteurs lors des présentations et séances de dédicaces ». Son patron, Marc Filipson, instituteur de formation, « insatisfait par son salaire, quitte l’enseignement lorsqu’une opportunité se présente », et reprend une petite Librairie en 1983, « La Providence ». Mais c’est en 1988 que l’aventure de Filigranes commence vraiment, alors qu’il déménage avenue des Arts, dans une surface de 180 m². Année 2000, Filigranes passe à 1000 m² ; 2007, 1700 m² ; 2013, pour ses 30 ans, elle passera à 2600 m². C’est l’emballement.

      Pour celui qui dit « J’aime vendre, je me fous de ce qu’on peut dire » (Le Soir, 21/02/2016), le livre est un produit comme un autre. « Tout chez moi part du plaisir de vendre, j’ai toujours été un commerçant, j’ai toujours aimé vendre », ajoute MF, mais malheureusement, « il y a les mauvais choix en interne, ces collaborateurs bourrés de qualités sans doute, mais qui ne conviennent pas pour le job » (L’Echo, 23/12/2017). Filipson engage donc des libraires talentueux, « mais ce qu’il veut, c’est autre chose : des vendeurs, des gendarmes, des robots… ». L’homme, dans ses diverses interviews, ne parlera pas de sa gestion du personnel, lui qui pense juste « être trop bon ». Ce qui est curieux, c’est que depuis 1987, Filipson n’ait pas pensé à déposer une copie du règlement de travail au bureau régional du Contrôle des lois sociales, en vertu de la loi du 12 avril 1965. Clairement en infraction, lorsqu’on demande à l’administration centrale du SPF Emploi, Travail et Concertation sociale, pourquoi depuis plus de trente ans cette obligation n’a jamais été respectée et qu’ils ne trouvent aucune trace de règlement du travail chez eux, ils nous disent « c’est qu’il n’y a eu aucune plainte ». En trente ans ? Étrange. En tous cas, selon nos témoignages, une plainte a bien été déposée à l’inspection du travail en 2017. Le risque pour Filigranes : une amende, ou bien plus. 

      Enfin, cette absence de règlement officiel rend tout à fait plausible ce que nous disaient les libraires actuels ou ayant travaillé chez Filigranes, que nous avons rencontrés, à savoir qu’il n’y avait pas d’horaires fixes, pas de barèmes imposés par une commission paritaire plus adaptée, des démissions forcées, des arrêts maladie nombreux, un turn-over énorme (une centaine de personnes en 6 ans), avec beaucoup de licenciements injustifiés. Et si auparavant le renvoi pouvait se faire aisément et sans justificatif en Belgique, maintenant il est obligatoire de motiver la décision, au risque d’un contrôle si on ne le respecte pas, « mais il n’y en a jamais, nous dit une employée », le C4 indiquant « incompatibilité d’humeur, restructuration, divergences… ». Les institutions en seraient d’ailleurs informées : « l’Onem indemnise souvent quand un collègue démissionne, car l’organisme et le syndicat sont au courant ». Et quand l’employé au bout du rouleau se voit refuser un C4 « à l’amiable » accordé de manière aléatoire, il démissionne, la plupart du temps avec aucun plan de secours et au risque de se voir refuser les indemnités de chômage… 

      Par ailleurs, la commission paritaire ne semblait pas la bonne jusqu’il y a à peine quelques mois, définissant dès lors de mauvaises conditions imposées par l’employeur sans cadre légal en termes de salaires, congés, heures supplémentaires(2)…

      SOUFFRIR POUR RÉUSSIR 
      Mais « comme le disent des coachs, aujourd’hui, pour réussir il faut avoir souffert », n’est-ce pas (Le Soir, 20/02/2016) ? Et pour ce faire, un coach, « Marcus, roi de Filigranie »(3), en engagera un, organisant à l’époque « des séances obligatoires de coaching de 8 heures pour faire accepter les visions du management de Marc Filipson ».

      C’est vrai, faut savoir se vendre. Point de morale dans ce cas. Ainsi, quand Zemmour passera par la Belgique, on l’invitera en grande pompe pour venir débattre à la librairie. Ce sera annulé ? Pas grave, le buzz aura été fait et on aura parlé de qui ? De Filigranes, et donc de Filipson. « Depuis cette demande d’interdiction [de la venue de Zemmour à Filigranes] par l’élue Écolo, le livre se vend à nouveau par brouettes, alors que, début décembre, quasiment plus personne ne l’achetait »(4). Le jour même « Zemmour fut introduit avec humour par Marc Filipson », au déjeuner conférence du Cercle de Lorraine, réunissant patrons, noblesse, médias et politiques. Ce n’est pas un problème si l’invité déclarait que les « musulmans dans le peuple français nous conduira au chaos et à la guerre civile ». « Après cela, il fut tout de même invité à venir manger la galette des rois chez Filigranes en conviant la presse, alors même que la librairie avait reçu des menaces et que les employés lui avaient demandé d’en tenir compte ». Mais la cupidité, ou l’âme commerçante, a tout de même ses limites, et on se demanderait s’il n’y a pas là quelques prédilections pour la Kippa plutôt que la Burka. Zeymour donc, mais pas Dieudonné. 

      L’homme sait ce qui rameute, mais quand on ose questionner le choix d’inviter Nabila en grande pompe dans sa librairie, ce serait là « snober » l’auteure : « Face à un phénomène comme Nabila qui a vendu plus de 65.000 exemplaires de son livre, on ne peut pas juste répondre que c’est une littérature en dessous de tout. Nos enfants, adolescents, lisent “Harry Potter”, mais aussi Nabila. Il faut accepter cela et se poser la question de savoir pourquoi, à 24 ans, on décide d’écrire déjà son autobiographie ». (RTBF, 8 juin 2016). Un peu de philosophie… ou de marketing : le jour où il invita la Youtubeuse Enjoy Phoenix, plus de 4.500 personnes attendaient devant la libraire. Et quand on aime vendre, c’est plus intéressant d’avoir 4.500 potentiels acheteurs de torchons que 10 personnes qui savent ce qu’est un livre et viennent pour ça. Pour Nabila, la devanture du magasin et une partie de l’intérieur avaient été redécorés pour l’occasion. C’est peut-être aussi pour ça que « nos enfants, adolescents, lisent Nabila »… C’est là une logique récurrente empruntée aux médias de masse : participer à créer le phénomène en feignant qu’on ne fait juste que le relayer. 

      Et pour se faire voir, vendre, affecter la générosité, rien de tel que la charité, ce pantomime dont raffolent ceux qui ne veulent surtout rien changer à la société qui génère la misère qu’ils pallient à coups de piécettes, ou d’achat de livres et de coupes de champagne. Les soirées caritatives, celles que la bonne bourgeoisie et les notables affectionnent, car elles ne remettent jamais en question l’inégalité dont ils profitent, laissent aux associations 10 % des gains de la soirée et 100 % des bénéfices du bar. Les libraires, c’est leur soirée « Mère Thérésa ». Certes, « ils peuvent récupérer ces heures une fois (alors que c’est du travail en soirée qui devrait valoir au moins le double), mais surtout pas quand ça les arrange… Mais le mieux est de le faire officiellement bénévolement en annonçant qu’on offre son travail pour ces soirées-là. Mais surtout, ce n’est absolument pas une question de choix : la plupart des employés croient que c’est “obligatoire” et quand ils s’y refusent ça ne se passe pas très bien (…) Il y a une forme de chantage affectif/jugements de valeur de notre professionnalisme et notre « solidarité » »… Rien n’est « imposé » donc, mais tout est suggéré. Les clients achètent donc leurs livres, assurés de faire une bonne action en ne faisant rien. 

      L’homme a aussi ses relations politiques. Alors que Filigranes ouvre 7 jours sur 7, 365 jours de l’année, il le faisait bien avant que la portion de rue qu’il occupe soit déclarée zone touristique. Le Soir se demandait il y a peu « Mais pourquoi faire passer en zone touristique une portion de rue occupée à la très grande majorité par des immeubles de bureaux ? L’échevine du Commerce de la Ville de Bruxelles répondant sans hésiter “C’est une demande de Filigranes” » (Le Soir, 13/05/18). Selon nos informations auprès des syndicats, « quatre jours après la demande de Filigranes de passer en zone touristique, celle ci à été acceptée ». Cette demande ne semble en outre pas là pour entériner une pratique (ouvrir 7/7 jours, 365 jours/ an) déjà à l’œuvre, mais « parce qu’avec la nouvelle commission paritaire, il doit désormais payer les gens double les week-ends et jours fériés, ce qui n’est pas le cas si le commerce est situé en zone touristique ». Ce qui devient embêtant avec la nouvelle commission paritaire (CCP311), c’est que le travail du dimanche et en soirée, qui demeure assez flou, est soumis à négociation avec le syndicat et sur base uniquement volontaire, là où l’ancienne commission paritiaire (201) permettait à Filigranes d’obtenir une dérogation pour « commerce de journaux ». Le passage en zone touristique autorise par ailleurs l’ouverture, après négociation, à une quarantaine de dimanches par an… pas commode pour le 365/365.

      LE CAS FILIGRANES : PARADIGME DES TECHNIQUES MANAGÉRIALES « FAMILIALES » 
      Filigranes n’est pas une exception, et c’est bien là l’intérêt. Il y a des fonctionnements qui attirent, repoussent, créent, suscitent des types de personnalité et des formes relationnelles particulières dans un certain contexte social. Ainsi, la forme que prend l’organisation du travail dans une société capitaliste, la crainte de perdre son emploi dans un monde compétitif où il faut se vendre et où le chômage est structurel, la valorisation attachée au fait de ne pas être « sans », les crédits, le loyer… tout cela brise à la racine les possibles élans de solidarité, le rapprochement, le souci pour la souffrance au travail de l’autre, générant des « petits chefs », des dégoûtés, des dégoûtants, des soumis, des souffrants. Dans un système du « Marche ou crève », la plupart, malheureusement, tentent de tirer leur épingle du jeu, une minorité se révolte et se voit vite signifier son renvoi, mais la majorité encaisse, souffre, déprime, somatise. Restent ceux qui tirent parti du traitement inique collectivement organisé, tirant profit du peu de pouvoir qu’ils prennent par procuration à celui qui a le monopole de la brimade. Ceux-là, la perversité patronale sait les instrumentaliser, en tirer profit ; elle sait qui est faible, qui a besoin d’un « père », mais elle sait aussi qu’il faudra, quand les velléités du prétendant iront trop loin, voulant être chef à la place du chef, le virer. D’autres y croient, n’ont « pas vu », voulaient bien faire. Ophélie(5), responsable d’un des rayons rentables du magasin depuis 6 ans, a été licenciée en arrivant un matin à 8 h : « on a décidé de mettre fin à ton contrat parce que tu n’es plus un bon chef de rayon. Tes collègues ne portent pas leur badge, X prend des pauses trop longues… On te paiera 6 mois de salaire ». Les virés constituent alors des exemples : « les gens ont peur de perdre leur boulot, ils ne connaissent pas leurs droits ». Le licenciement abusif est exceptionnel en Belgique. Et puis, comme « la Filigranie a tant grandi qu’elle est maintenant une des provinces les plus lucratives de l’Empire des Lettres »(6), on laisse faire…
       
      COMME SI TOUT ÉTAIT NORMAL…  
      Si Marc Filipson tient dans la main le livre « Divertir pour dominer », sur la photo publiée dans l’interview faite par l’inénarrable Béatrice Delvaux ce 20 février 2016, c’est surtout la division et le contrôle que semble affectionner le patron : « caméras pointées sur le poste de travail des employés », « sa fille placée comme relais autoritaire », faisant l’aller-retour deux fois par mois de Londres, « salaires variables pour des mêmes fonctions », « contrôle des “Like” sur Facebook et convocation dans le bureau du patron si certains lui déplaisent ». Mais le plus pernicieux peut-être est la forme « soft » que prend ce type de management où l’on use et abuse des positions hiérarchiques, mais où on fait aussi croire qu’on est « une grande famille ». C’est la technique du Teambuilding, bouleversement pervers des relations hiérarchisées qui, sorties de leur contexte, font « oublier » au subalterne sa position quand il revient dans le contexte de travail. Une fois dans la réalité professionnelle, les « liens » créés à l’extérieur rendent plus difficile la contestation. 

      En somme, on retrouve dans cette étude de cas qu’est Filigranes, la forme spectaculaire que prend notre société dans son ensemble : on tente de tout lisser, faisant le nécessaire pour qu’on ne puisse percevoir que ce qu’on voit est le résultat diamétralement opposé de ce qui se passe en coulisse. Ce serait comme en vacances dans un hôtel dans un de ces pays dont on affectionne le climat, mais dont on tente d’oublier la politique, ce contraste entre le buffet all-inclusive et l’esclavage dans la cuisine dont il procède. C’est donc Filigranes, mais c’est presque partout : c’est le jeu du « comme si ». On fait comme si tout allait bien. Mais le problème, c’est que ça en rend beaucoup malades… 

      « Je me fous de tout ce qu’on peut dire de moi. Je suis un provocateur, c’est plus fort que moi » (Le Soir, 21/02/2016), disait Marc Filipson. Très bien ! Nous sommes ainsi sûrs qu’il accueillera avec sagesse et ouverture notre article de ce Kairos estival, que vous trouverez d’ailleurs dans les rayons de la librairie… Filigranes. Enfin, dépêchez-vous, ils risquent de partir vite ! 

      Alexandre Penasse *

      TÉMOIGNAGE DE SAMANTHA 
      J’ai travaillé durant près de 9 ans au sein de la Librairie Filigranes, pour terminer en 2014 au poste de directrice. À la suite de nombreux désaccords concernant la politique extrême de Mr Filipson en matière de gestion du personnel, nous avons décidé de mettre fin à mon contrat. Si je vous écris, ce n’est nullement dans un esprit de vengeance, mais simplement parce que derrière la façade lisse présentée aux médias se cache une tout autre vérité. La réalité est bien loin de la situation idéale décrite dans la presse. Au-delà des chiffres disponibles sur le site www.bnb.be et qui prouvent que Filigranes ne va pas bien, il est également temps de dénoncer les pratiques managériales extrêmes mises en place par Mr Filipson, s’appuyant sur un climat de tyrannie et de peur. Personne ne fait état des centaines de licenciements et de départs volontaires dus à la seule personnalité de Mr Filipson, ni du climat malsain qui règne dans cette entreprise. Entre allusions sexuelles, gestes déplacés, insultes et crises de colère, personne n’est à l’abri. Et il n’est jamais fait état de la pression et du harcèlement subis par les employés, menacés de licenciement au moindre désaccord exprimé ! À grands coups de communiqués de presse racoleurs et infondés ( la soi-disant association avec le Pain quotidien, la soi-disant installation à New York et Miami, le soi-disant lancement d’un site e‑commerce), Mr Filipson tente simplement de noyer le poisson en présentant une entreprise soi-disant débordante de projets. Les chiffres vont mal, les employés vont mal, et Mr Filipson, au travers de la presse, tente d’en faire assumer la responsabilité par ses anciens employés. 

      À l’époque, Samantha a envoyé ce courrier à plusieurs médias, sans réponse. 
      Notes et références
      1.  Nous n’avions pas révélé avec toute la précision les propos relatifs aux témoignages de harcèlements sexuels, par crainte d’être attaqué par un personnage puissant, mais ce qui avait été dit se révélait extrêmement grave.
      2. Suite à l’intervention de certains employés, une nouvelle commission paritaire a donc été imposée à la direction, la CP311, ce qui permit de travailler 35 heures par semaine (au lieu de 38 pour le même salaire), des augmentations salariales, des congés supplémentaires, des week-ends off, et de toucher des primes (ancienneté, petite enfance, formation, etc.) au cours de l’année.
      3. Filiber, le journal de Filigranes, fin d’année 2017.
      4. Alexis Chaperon, CEO de Filigranes, La Libre, 02/01/2015.
      5. Prénom fictif.
      6. Filiber, Ibid.

    • #Mdr ! Sanctions antiRusse : La Russie vole plus de 400 Airbus et Boeing : un casse à 10 milliards de dollars ! Léo Barnier

      L’espoir des loueurs occidentaux de voir revenir leurs avions basés en Russie fond comme neige au soleil. A trois jours de la date posée par les autorités européennes pour reprendre possession de ces appareils, moins de 100 d’entre eux ont été récupérés sur plus de 500 en service dans les compagnies russes. Vladimir Poutine est donc en passe de réussir le casse du siècle dans l’aviation en confisquant plus de 400 avions, soit près de 10 milliards d’actifs. Mais sans soutien opérationnel des industriels occidentaux et sans possibilité d’acheter des pièces détachées, ce casse pourrait se transformer très vite en cauchemar pour la Russie.


      Aeroflot devrait être plus protégée que ses consœurs. (Crédits : Maxim Shemetov)

      L’horloge tourne, mais les avions ne reviennent pas. A la demande des autorités européennes, les loueurs occidentaux ont jusqu’au 28 mars pour reprendre possession de leurs avions loués en Russie. Et le compte n’y est pas pour l’instant. Sur plus de 500 appareils placés par des sociétés de leasing étrangères auprès des compagnies russes, environ 80 ont, selon nos informations, réussi à être récupérés. S’il reste encore trois jours, il est peu probable que le total dépasse la centaine d’avions. Un coup dur à court terme pour les loueurs, mais aussi à moyen terme pour les compagnies russes.

      Dix milliards de dollars dans la balance
      Lors d’un échange organisé par Eurocontrol le 25 mars, Henrik Hololei, directeur général de la direction Mobilité et transports de la Commission européenne, n’a pas hésité à déclarer que ces appareils « ont désormais été volés à leurs propriétaires légitimes ». Le fonctionnaire bruxellois réagit ainsi à la loi validée il y a deux semaines par Vladimir Poutine autorisant les compagnies russes à faire réimmatriculer en Russie les avions loués auprès de sociétés étrangères, et à obtenir des certificats de navigabilité russes pour continuer à les exploiter sur les lignes intérieures.

      Cette décision a pour objectif de contourner la suspension des certificats de navigabilité par différentes autorités de l’aviation civile à travers le monde, mais aussi « de permettre aux compagnies aériennes russes de conserver la flotte d’avions étrangers et de les exploiter sur des liaisons intérieures », comme indiqué sur le site de la Douma d’État (l’Assemblée législative russe).

      Le décompte exact est difficile à tenir, mais les proportions sont là. Au total, cette flotte louée en Russie par des compagnies étrangères est évaluée autour de 550 appareils et représente environ 12 milliards dollars d’actifs selon un expert du secteur. En s’accaparant au moins les quatre cinquièmes de cette flotte, le Kremlin met donc la main sur l’équivalent de près de dix milliards de dollars.

      Une récupération difficile
      Henrik Hololei a précisé que les autorités européennes avaient suivi avec attention tous les déplacements de ces appareils dans des pays tiers, afin de les immobiliser sur place en collaboration avec les autorités locales et de les récupérer avec succès.

      La situation s’est avérée bien plus complexe pour les avions qui n’ont pas quitté le territoire russe. A priori, certains loueurs ont tenté de récupérer leurs avions sur place. Outre les difficultés pour se rendre en Russie, leurs équipes ont aussi été bloquées par l’obligation de faire valider les plans de vol par les autorités russes pour sortir du territoire.

      La capacité des loueurs à reprendre possession de leurs appareils a aussi été suspendue à la coopération des compagnies russes. Mis à part Aeroflot, compagnie d’État soutenue par le pouvoir, les petits opérateurs privés sont dans une situation bien plus délicate. Ils peuvent difficilement s’opposer au Kremlin, qui n’avait pas hésité à sacrifier la première compagnie privée du pays Transaero au profit d’Aeroflot en 2015. Mais de l’autre ils savent que de confisquer les appareils des loueurs étrangers risque de les priver de toute possibilité de reconstituer leur flotte si le conflit s’apaise. D’autant que des connaisseurs du secteur voient mal comment les appareils confisqués pourraient voler plus de six mois sans aucun soutien occidental.

      Il est enfin possible qu’il y ait une différence de traitement selon l’actionnariat du loueur. Si les sociétés occidentales n’ont bénéficié d’aucune largesse de la part des autorités russes, le traitement réservé à leurs consœurs chinoises reste une interrogation. Celles-ci sont en effet concernées par l’obligation de récupérer leurs avions édictée par les autorités européennes, car leurs activités internationales passent très largement par des structures irlandaises.

      La suite : https://www.latribune.fr/entreprises-finance/industrie/aeronautique-defense/la-russie-vole-plus-de-400-airbus-et-boeing-un-casse-a-10-milliards-de-dol

      #ukraine #sanctions anti #Russes #blocage des #frontières #Irlande #paradis_fiscal #leasing #avions #aviation #transport balle dans le pied

  • Hashtag – Publictionnaire
    http://publictionnaire.huma-num.fr/notice/hashtag

    Excellent synthèse sur les hashtags par Bérengère Stassin (dans le non moins excellent « Publictionnaire » de l’Université de Nancy).

    Le hashtag (en français : mot-dièse) est apparu sur Twitter en 2007, à l’initiative de Chris Messina, consultant en marketing digital. Son usage s’est ensuite étendu à d’autres plateformes comme Facebook, Instagram ou LinkedIn. Tout comme le tag (en français : mot clé ou mot-clic), il permet d’indexer des contenus et de regrouper ceux qui ont été indexés de la même manière. Relevant de la folksonomie, il constitue un outil d’indexation dite « sociale » et peut être appréhendé selon ses fonctions info-documentaires. Ce « technolangage » (Paveau, 2013) propre au web 2.0 se compose d’un mot ─ ou d’un groupe de mots rédigé sans espace ─ cliquable et précédé d’un croisillon : #harcèlement, #petitdejeunerhealthy. Il est donc également possible de l’appréhender selon ses différentes formes morphosyntaxiques, ses fonctions sémantiques et ses visées pragmatiques (Jackiewicz, Vidak, 2014). Parmi ces visées se trouve la possibilité d’offrir aux publics du web un nouveau moyen de s’exprimer sur un sujet qui les affecte ou qui les interpelle, d’exprimer leur solidarité autour d’un événement (#jesuischarlie), de témoigner d’une discrimination ou d’une violence subie (#blacklivesmatter, #metoo).

    #Hashtags #Folksonomies #Bérengère_Stassin

    • Je ne le vois jamais rappelé, mais l’utilisation du hashtag sur le Web existait déjà pour créer les ancres à l’intérieur des pages Web : en plus de faire le lien vers l’URL d’une page, il est possible de faire un lien vers un endroit spécifique d’une page.

      C’est encore systématique sur Wikipédia, d’ailleurs, de façon très old school, puisqu’il s’agit bien d’avoir une sorte de « table des matières » en début d’article, qui pointe vers les endroits précis de cette page longue :
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Hashtag#Émergence_du_hashtag_sur_les_réseaux_sociaux

      Le lien ici est #Émergence_du_hashtag_sur_les_réseaux_sociaux

      Or l’utilisation très fréquente dans le « vieux » Web des ancres internes aux pages, à la manière d’une entrée de dictionnaire, je pense que c’est un précurseur à l’utilisation « thématique » des hashtags. Certes ça semble un usage très « technique », mais encore aujourd’hui, un lien vers une telle ancre apparaît visuellement à l’écran sous forme de lien clairement identifié par son intitulé (je veux dire par là que, autant une note de bas de page se fait vers #nb3 sans trop de difficulté, autant une ancre « thématique », ici, n’est pas une très anonyme « #ancre12 », mais bien « #Emergence_du_hastag… ») :

      Et on a les mêmes limitations liées à leur aspect technique (notamment : pas d’espace dans le hashtag, alors on met des tirets et des underscores).

  • Pour que le Metoo syndical s’amplifie !

    Une militante syndicale vient de déposer plainte contre un syndicaliste de la CGT pour « viol, agression sexuelle, torture et actes de barbarie ». Nous sommes bouleversées. Nous pensons à elle, sa force, son courage et à ses soutiens. Nous lui adressons notre solidarité sans faille face à ces faits gravissimes et aux pressions exercées contre celles qui voudraient s’exprimer. Nous sommes disponibles pour toutes actions en soutien de la camarade victime, à partir de son rythme et de sa volonté.

    Les mandats confédéraux de cet homme ont été suspendus par la commission exécutive confédérale (CEC) de la CGT le 22 février 2022. Nous saluons la réactivité de cette mesure mais cela ne suffit pas. La suspension de ses mandats confédéraux n’a pas fait l’unanimité avec 1 vote contre et 3 abstentions. Les syndicalistes qui ne votent pas de mesures conservatoires pour protéger de toute forme de représailles, la victime, et les syndiqué.es qui vont devoir continuer de les côtoyer, sont les complices des agresseurs et de l’impunité dont ils bénéficient.

    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2022/03/07/pour-que-le-metoo-syndical-samplifie

    #féminisme #violence #metoo

  • Feminist Asylum : pour la reconnaissance effective des motifs d’asile spécifiques aux femmes, aux filles et aux personnes lgbtiqa+

    A l’occasion du 8 mars 2022, journée internationale de lutte pour les droits des femmes, une centaine de personnalités du monde politique, associatif, artistique et sportif lancent un appel de soutien à la pétition féministe européenne pour une reconnaissance effective des motifs d’asile propres aux femmes, filles et personnes LGBTIQA+ ayant subi des violences liées à leur genre. Parmi les signataires, on retrouve entre autres Silvia Federici (Italie), Sofia Bekatorou, double médaillée olympique (or et bronze) et initiatrice du mouvement #Metoo en Grèce, Eric Toussaint (Belgique), Ariane Ascaride et Robert Guédiguian (France), Madeleine Mawamba et Adam Broomberg (Allemagne), Pinar Selek (Turquie), José Maria Gonzales/Kichi (Espagne), Ada Sousa (Portugal), Stefan Zgliczynski (Pologne), Joan Collins (Irlande), Rina Nissim et Jean Ziegler (Suisse).

    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2022/03/06/feminist-asylum-pour-la-reconnaissance-effective-des-mo

    #féminisme

    • https://www.lemonde.fr/societe/article/2022/02/25/laurent-bigorgne-directeur-de-l-institut-montaigne-en-garde-a-vue-soupconne-

      Le directeur de l’Institut Montaigne, un think-tank libéral, Laurent Bigorgne, a été placé en garde à vue vendredi 25 février, soupçonné d’avoir drogué à son insu une collaboratrice lors d’une soirée, a appris Le Monde auprès du parquet de Paris, confirmant une information du Parisien.

      Dans le cadre d’une enquête ouverte pour administration de substance nuisible, il a été placé en garde à vue vendredi matin dans les locaux du 3e district de la police judiciaire. Une source proche de l’enquête a également confirmé son interpellation à l’Agence France-Presse.

      Invitée au domicile de Laurent Bigorgne, l’une de ses collaboratrices, âgée d’une quarantaine d’années, a déposé plainte dans la nuit de mardi à mercredi, après un début de soirée passé en sa compagnie.
      Une drogue qui entraîne la baisse de la vigilance

      Selon Le Parisien, elle aurait raconté à la police s’être sentie subitement mal après avoir bu une coupe de champagne et se serait rendue immédiatement dans un hôpital où on lui aurait dit qu’elle présentait des symptômes d’intoxication à de la drogue.

      Selon une expertise toxicologique de la plaignante, toujours selon le quotidien régional, son test s’est révélé positif à la MDMA, une drogue de synthèse de la famille des amphétamines, aussi appelée « ecstasy ».

      La #MDMA, qui peut notamment être diluée dans une boisson, est consommée pour la sensation d’énergie et d’euphorie qu’elle procure et pour son effet désinhibiteur. Elle provoque notamment l’augmentation du rythme cardiaque, des palpitations et des bouffées de chaleur, et abaisse la vigilance.

      Selon Le Parisien, dans sa plainte, la plaignante explique que Laurent Bigorgne lui envoyait des messages réguliers à caractère sexuel et se prêtait à une « drague insistante »
      Laurent Bigorgne, 47 ans, dirige l’Institut Montaigne depuis 2011. Créé en 2000, ce centre de réflexion d’inspiration libéral, qui réunit des chefs d’entreprise, des hauts fonctionnaires, des universitaires, rend régulièrement des études et rapports, notamment adressés aux pouvoirs publics.

    • Ce n’est pas seulement sexiste, c’est un empoisonnement en vue d’un viol. Je ne suis pas juriste mais je ne trouve pas ce crime dans legifrance, l’empoisonnement est seulement relié à un meurtre. (https://www.legifrance.gouv.fr/codes/article_lc/LEGIARTI000006417573) Pourtant, c’est utilisé depuis longtemps pour abuser des personnes (pousser à l’usage de l’alcool ou de drogues ou lui en administrer à son insu en vue de violer la personne).
      Du coup, je repense à cette saloperie de GHB, la « drogue du viol ».

      Les mélanges MDMA et autres substances psychoactives | MAAD DIGITAL
      https://www.maad-digital.fr/articles/les-melanges-mdma-et-autres-substances-psychoactives

      Un peu de chimie

      La MDMA, appelée aussi Ecstasy ou MD est une petite molécule purement synthétique, le 3,4-méthylène-dioxy-méthylamphétamine, qui pénètre dans le cerveau en franchissant facilement la barrière hémato-méningée, notamment du fait de sa nature hydrophobique (=repoussée par l’eau). Sa structure chimique comporte un noyau central de phényléthylamine, qui est également présent dans de nombreux autres psychostimulants comme la méthamphétamine ou le méthylphénidate (RitalineⓇ). La mescaline et le LSD ont une structure proche de celle de la MDMA, ce qui explique que celle-ci puisse produire des effets stimulants mais aussi hallucinogènes. Ces propriétés sont dues en particulier à l’augmentation massive de sérotonine, et à un moindre degré de dopamine, dans le cerveau.
      La particularité de la structure chimique de la MDMA est qu’un des atomes de carbone du noyau est asymétrique, d’où l’existence de 2 formes en miroir, R et S (pour les chimistes, ce sont des énantiomères comme le THC et le CBD, voir article Cannabis et Bad Trip). Présentant une disposition différente des atomes, les 2 formes peuvent avoir des propriétés différentes. De fait, des travaux menés sur des modèles animaux ont montré que la forme R engendrerait les effets hallucinogènes, alors que la S serait responsable des effets stimulants.
      En général, la MDMA contenue dans les comprimés comporte les 2 formes R et S en proportion similaire. Cela peut toutefois varier, ce qui pourrait expliquer les différences d’effets ressenties par les consommateurs.

      MDMA + GHB

      Le GHB a pour rôle de moduler l’activité des neurones inhibiteurs, c’est un dépresseur du système nerveux central qui ralentit les fonctions cérébrales. A faible dose, ses effets sont semblables à ceux de la MDMA. La prise de GHB majore les effets de la MDMA et permet d’atténuer le mal-être ressenti après sa disparition.
      Chez le rat sous MDMA, le GHB peut provoquer une augmentation de l’hyperthermie. De même, l’activité locomotrice est exacerbée après une prise aiguë. En cas de prise répétée de GHB, l’hypermotricité se réduit, probablement en rapport avec le développement d’une accoutumance neurobiologique.
      Des analyses de l’hippocampe, structure fondamentale de la mémoire, ont été réalisées chez le rat 8 semaines après administration conjointe de MDMA et de GHB pendant 10 jours. Des modifications nettes de l’expression des protéines impliquées dans la neuroplasticité, la neuroprotection et la signalisation cellulaire ont été observées.

    • le Monsieur inspire #Blanquer
      Laurent Bigorgne : Les enseignants ne sont pas mal payés : il y en a trop...
      http://www.cafepedagogique.net/lexpresso/Pages/2021/09/21092021Article637678051019939434.aspx

      Qui est vraiment Laurent Bigorgne, le dirigeant de l’Institut Montaigne qui veut réduire le temps des vacances ?
      https://www.lemonde.fr/m-le-mag/article/2020/05/18/qui-est-vraiment-laurent-bigorgne-l-homme-qui-veut-alleger-le-temps-des-vaca

      Jean-Michel Blanquer, ministre longue durée à l’Education
      https://enseignants.se-unsa.org/IMG/UserFiles/Files/presse/2021/2021S37/blanquer_ministre_longue_duree_portrait.pdf

      En avril 2016, au lendemain du lancement d’En marche !, Mediapart publie cette information : l’adresse légale du mouvement macroniste est celle de son domicile privé, car sa compagne est directrice de la publication du site enmarche.fr. Bigorgne et Macron sont amis de longue date.

      #empoisonnement #viol

    • Henri de Castries, président de l’institut Montaigne, époux de Anne Millin de Grandmaison, fille d’un cousin issu de germain et petite-fille de René de La Croix de Castries, dit le duc de Castries. Mr le Comte Henri de La Croix de Castries ou « Riton » pour les intimes est aussi descendant du marquis de Sade.
      https://fr.wikipedia.org/wiki/Henri_de_Castries
      Riton est aussi :

      Administrateur de l’Association pour l’aide aux jeunes infirmes
      Président d’Axa Atout Cœur
      Administrateur de Nestlé (Suisse)
      Administrateur de HSBC (Royaume-Uni)
      Membre de l’International Advisory Board de l’université de Tsinghua (Pékin)
      Administrateur indépendant de Stellantis

      Sur le site de l’institut tut-tut https://www.institutmontaigne.org/presidentielle-2022


      Henri de Castries, au siège d’Axa à Paris, en 2013. LEA CRESPI/PASCO

  • « Je n’attends plus rien de cette élection », entretien avec Jacques Rancière, 16 Janvier 2022 (titre bidon, mal extrait)

    Les thèses d’extrême droite ont contaminé l’ensemble de la classe politique, estime le philosophe. Et la logique du barrage ne parviendrait qu’à les renforcer. Dans « les Trente Inglorieuses », il analyse les causes de cette dérive.

    Après la chute du mur de Berlin et l’effondrement de l’Union soviétique, beaucoup crurent au triomphe solide des démocraties. Philosophe influent en France et aux Etats-Unis, Jacques Rancière, lui, a très tôt perçu les failles et les dangers de ce nouvel ordre du monde. Esprit original, ancien élève d’Althusser et militant de la Gauche prolétarienne, il travaille sur l’articulation de l’art, de la politique et la pensée de l’émancipation. Défenseur de « ceux qui ne sont rien », il publie cette semaine « les Trente Inglorieuses », recueil des interventions qu’il a consacrées à la vie politique de 1991 à 2021. De la guerre du Golfe à l’actuelle pandémie, en passant par les « gilets jaunes », il y dissèque nos pulsions inégalitaires et s’élève contre le discrédit jeté sur les luttes sociales et les mouvements d’émancipation.

    L’OBS. Vous semble-t-il encore permis d’espérer que ce scrutin connaisse une issue positive, d’une manière ou d’une autre ?

    Jacques Rancière. Je ne vois pas comment il le pourrait. Tout d’abord, l’élection d’un président de la République n’est pas une institution démocratique ; elle a été inventée par les monarchistes en 1848 pour contrecarrer la puissance populaire. De Gaulle l’a rétablie en 1962, pour républicaniser le concept royaliste : un seul individu concentrant la puissance publique censé servir de guide à toute la communauté. Ce simulacre de démocratie a fini par devenir une arme contre tout mouvement réellement émancipateur. Regardez comment, en 2017, l’énergie de Nuit Debout a été balayée par le bulldozer de la machine électorale. Deux mille vingt-deux s’annonce comme un nouvel épisode de la comédie déjà jouée en 2002 et 2017, où la gauche vertueuse appelait à voter pour le candidat de la droite « raisonnable », pour faire barrage à l’extrême droite raciste. Je me suis d’emblée opposé à cette prétendue logique du moins pire et j’ai montré qu’elle conduit, en réalité, à renforcer l’extrême droite. Cette dernière pèse aujourd’hui beaucoup plus qu’il y a vingt ans, et l’emprise de ses idées ne cesse de s’étendre sur cette droite dite républicaine, qui ne s’en distingue plus guère, et sur une gauche socialiste qui ne se différencie non plus guère de la droite.

    Pourquoi se rassembler autour d’un candidat, au nom du « front républicain », ne fait-il, selon vous, qu’encourager les idées contraires à l’idéal de la République ?

    J’ai publié, il y a vingt-cinq ans, « Sept règles pour aider à la diffusion des idées racistes en France » https://blogs.mediapart.fr/guillemin-rodary/blog/190421/sept-regles-pour-aider-la-diffusion-des-idees-racistes-en-france. J’y montrais déjà comment les dénonciations indignées contre l’extrême droite ne font que renforcer celle-ci en popularisant ses idées et en leur conférant l’irrésistible parfum du scandale et la palme du martyre. Je constate que rien n’a changé. De fait, les thèses racistes et xénophobes sont à peu près les seules à être débattues au cours de cette campagne. Et le prétendu idéal républicain que brandissent les tenants du front du même nom est devenu, en lui-même, identitaire et intolérant, comme on le voit avec l’instrumentalisation forcenée de la laïcité détournée de son sens historique pour devenir un moyen de stigmatisation d’une partie de la population. Il s’agit d’une véritable spirale de radicalisation. J’avais déclaré dans vos pages, lors de la présidentielle de 2017, qu’en 2022, on nous appellerait à voter pour la bonne républicaine Marine Le Pen contre sa nièce extrémiste Marion Maréchal. N’y sommes-nous pas aujourd’hui à peu près, mais avec Eric Zemmour ? Je n’attends rien de l’élection qui vient, si ce n’est la confirmation de cette mécanique délétère qui confère le rôle de rempart contre l’extrême droite à une classe politicienne de plus en plus gagnée par ses concepts.

    Pourquoi voyez-vous en Emmanuel Macron la figure par excellence du pompier pyromane ?

    N’ayant lui-même aucun arrière-fond idéologique, n’appartenant à aucune des familles politiques traditionnelles, Emmanuel Macron n’est qu’un arriviste arrivé. Par conséquent, il est quelqu’un qui peut manipuler les idées à sa guise, un personnage en quelque sorte absolument blanc. Il peut se présenter solennellement comme un rempart de la République, tout en déléguant à son ministre de l’Education le soin de faire de la lutte contre l’islamo-gauchisme la plus grande urgence de notre université ou à celui de l’Intérieur de tonitruer contre les flux de l’immigration. Il représente une sorte de condensé de la circulation et du traitement des idées dans une classe politicienne où la distance entre droite et extrême droite s’amenuise à la même vitesse que celle entre la gauche et la droite.

    Pas encore candidat officiellement, Emmanuel Macron n’a pour l’instant annoncé qu’une « indispensable » réforme des retraites dans son futur programme. Pourquoi selon vous ?

    Briser ce système par répartition, fondé sur la solidarité, pour le remplacer par des assurances privées individuelles est l’un des objectifs majeurs du capitalisme absolutisé. Il combine une visée pratique : réduire la dépense publique – même s’il est bien difficile de dire quelles sommes seraient réellement économisées – et un objectif hautement symbolique. Notre système de retraite témoigne d’une époque où existait une organisation solidaire de la vie, qui donnait aux gens ordinaires la capacité de gérer le rapport entre-temps de travail et temps personnel. La destruction de toutes les formes de solidarité sociale et, en même temps, celle des structures, des lieux de délibération auxquelles participaient les représentants des travailleurs répond à un enjeu fondamental dans une logique capitaliste qui, sous couvert de lutter contre « l’Etat-providence », instaure un face-à-face direct entre l’Etat et des individus entièrement isolés.

    Quel parti, quel projet vous semblent-ils aujourd’hui à même de formuler une alternative à ce projet capitaliste, qui selon vous unit l’essentiel du spectre politique actuel ?

    L’idée d’une telle alternative a longtemps été liée à la tradition marxiste. Même si les Etats dits socialistes ou communistes trahissaient toutes leurs promesses d’émancipation, la vision marxiste de l’histoire restait vivante. Elle était soutenue par l’existence d’une puissante classe ouvrière, qui était à la fois un groupe social, une force combattante et une forme de préfiguration d’un monde à venir. La gauche partageait encore largement cette vision de l’histoire où le capitalisme produisait la classe destinée à le détruire. Or, c’est le contraire qui s’est produit : le capitalisme a détruit la classe ouvrière. La disparition du parc industriel dans les pays riches, avec les fermetures d’usines et les délocalisations, n’a pas seulement représenté une manière de rendre le travail moins coûteux et la marchandise moins chère. Il a également permis de balayer la classe ouvrière comme telle, avec son potentiel de lutte et ses formes de solidarité, et de la remplacer par un vivier de travailleurs dispersés et précarisés, seuls et dépourvus face au capital financier. Les importants mouvements populaires d’auto-affirmation démocratique, qui ont eu lieu, comme les mouvements des places, les « indignés » de Madrid, Occupy Wall Street, Nuit Debout ou les « gilets jaunes », ne peuvent plus prendre appui sur cette force sociale déterminée ni sur une vision historique porteuse d’espoir.

    L’écologie ne peut-elle représenter ce nouvel horizon, le rassemblement autour de biens et d’objectifs communs ?

    Plutôt que d’ouvrir un nouvel horizon d’espérance, l’écologie nous place devant la catastrophe imminente. Au There is no alternative de la nécessité capitaliste que nous martèlent nos gouvernements, elle oppose une autre logique de la nécessité et de l’urgence : la course de vitesse pour sauver la planète. On nous dit qu’il n’y a qu’une seule chose à faire. Mais toute la question est : qui va la faire ? La plupart des discours écologistes veulent se situer au-delà des vieux clivages politiques en énonçant les conditions de survie de la planète, mais ils court-circuitent ainsi la question du sujet politique : quelles forces combattantes, quelles formes de lutte peuvent faire de l’écologie la cause de tous et non celles d’experts s’en remettant au bon vouloir des maîtres du monde ?

    Pourtant, ceux qui luttent pour le climat dénoncent aussi les inégalités, les plus riches provoquant l’essentiel des émissions de gaz à effet de serre. Les causes écologistes et sociales ne se rejoignent-elles pas ?

    On peut dire que le capitalisme est responsable de la catastrophe écologique comme il l’est de l’exploitation économique et de l’inégalité sociale. Mais donner une cause commune à tous les maux ne produit par soi-même aucun bien. Et le fait de dénoncer jusqu’à plus soif les inégalités ne fait pas avancer d’un pouce cette cause. Seul le développement de mouvements réellement égalitaires peut changer les choses. On peut toujours sommer les dirigeants du G20 de sauver l’Amazonie, seuls les peuples qui l’habitent combattent réellement pour la défendre. Ils luttent pour la sauvegarder, mais aussi pour montrer au monde qu’ils sont parfaitement capables de comprendre ce qu’est le réchauffement climatique ou la biodiversité. L’égalité ne progresse que lorsque ceux qu’on juge incapables de s’occuper des affaires du monde s’emparent d’elles. En revanche, la démonstration continuelle des injustices finit par faire partie intégrante de l’ordre inégalitaire.

    Comment sortir de cette logique paralysante ?

    Je ne vois pas d’autre voie que l’extension de ces mouvements démocratiques autonomes. L’internationale capitaliste est d’une efficacité extraordinaire, serons-nous capables de constituer une « internationale des mouvements égalitaires » pour lui répondre ? Sur le fond, rien ne sépare plus réellement les grandes puissances d’aujourd’hui, Etats-Unis, Chine, Russie ou Europe, dans leur conception du monde, hormis la défense de leurs propres intérêts, la lutte pour leur puissance. Mais partout, il reste des gens qui s’opposent et se rebellent, que ce soient les manifestants de Santiago, de Hongkong, les paysans sans terre du Brésil ou les agriculteurs opposés au projet d’aéroport de Notre-Dame-des-Landes. Et de nouvelles formes de résistance s’inventent. Pensons, par exemple, à la manière dont #MeToo a créé un mode de lutte efficace contre des formes de violence qui restaient enfouies dans le domaine de la vie privée.

    Mais pourquoi un mouvement comme celui des « gilets jaunes », par exemple, n’a-t-il pas fait tache d’huile ?

    Les « gilets jaunes » nous ont montré comment des gens, censés avoir peur de bouger et n’être préoccupés que par leurs petites affaires, peuvent se mettre à faire exactement le contraire. Ils se sont rassemblés et ont inventé des formes de mobilisation inattendues, témoignant que la capacité de penser et d’agir en égaux subsiste bel et bien en chacun de nous, quand bien même le système semble nous condamner à l’isolement. Lorsque l’on est porté par la perspective d’un monde plus vivable, on peut renoncer à ce qu’on possède et même se mettre en danger. Le potentiel d’extension était très fort au début de ce mouvement : à Paris, dans la rue à côté de chez moi, les collégiens ont commencé à dresser de petites barricades, certes symboliques. Le gouvernement l’a brutalement réprimé et, plus généralement, a fait en sorte qu’il soit maintenant dangereux de manifester dans la rue. Mais, à mes yeux, ce qui explique le ralentissement du mouvement, c’est moins cette répression et la peur qu’elle peut inspirer, que l’impossibilité de croire en un monde où l’on vive autrement.

    Mais n’est-ce pas aussi que nous jouissons à la fois d’un confort nouveau et de plus grandes libertés de mœurs, dans la société actuelle ?

    Ces libertés, là où elles existent, ne sont pas le résultat de ce développement synchrone qu’on appelait jadis progrès, où la production des techniques, des biens de consommation et des libertés personnelles semblaient avancer d’un même pas. Elles ont été conquises par des combats contre des forces répressives. En 1968, la société n’était pas moins hiérarchisée qu’aujourd’hui, mais, à l’époque, les gens se sentaient égaux et agissaient en conséquence. La hausse du niveau de vie ou les avancées technologiques n’ont pas empêché que se perpétuent la culture du viol et toutes les formes de domination subies par les femmes, mais c’est bien le développement de luttes collectives où celles-ci ont manifesté une puissance d’égalité en acte qui ont fait bouger les lignes.

    Sommes-nous en panne d’horizon ?

    Je ne crois pas à la puissance inspiratrice d’un modèle. Nous en avons eu en pagaille et cela a fini en désastre. L’avenir ne s’écrit pas en appliquant des programmes, il est le résultat de dynamiques présentes. Au Chili, la mobilisation populaire est partie d’une augmentation du prix des transports pour aboutir à la liquidation de la constitution héritée de Pinochet, en passant par l’émergence d’un fort mouvement féministe et par la lutte pour les droits du peuple mapuche. A travers le monde, des mouvements existent et peuvent nous faire réfléchir, nous inspirer, plutôt que de nous perdre dans la quête des bonnes recettes.

    https://www.nouvelobs.com/idees/20220116.OBS53286/jacques-ranciere-je-n-attends-plus-rien-de-cette-election.html

    #présidentielle #élections #extrême_droite #démocratie #retraites #solidarité_sociale #État #vies_séparées #classe_ouvrière #précarisation #écologie #sujet_politique #espérance #formes_de_lutte
    #experts #mouvements_égalitaires #gilets_jaunes #Jacques_Rancière

  • Le #metoo de juifs ultra-orthodoxes en Israël
    https://fr.timesofisrael.com/le-metoo-de-juifs-ultra-orthodoxes-en-israel

    "Tu ne te tairas point !" Ce commandement commence à souffler au sein de la communauté en Israël, secouée par une série de révélations d’abus sexuels sans précédent

    Fin décembre, Chaim Walder, un auteur à succès ultra-orthodoxe, s’est suicidé un mois après que le quotidien Haaretz a publié des accusations, qu’il a rejetées, de crimes sexuels à son encontre sur une vingtaine de personnes dont des enfants.

    Les allégations contre cette « icône culturelle incontournable » ont eu l’effet d’un cataclysme dans la communauté ultra-orthodoxe, explique à l’AFP Avigayil Heilbronn, une militante de 33 ans se qualifiant de juive « orthodoxe moderne ».


    Des jeunes femmes ultra-orthodoxes à Borough Park, pendant, Soukkot, le 4 octobre 2020. (Crédit : AP/Kathy Willens)

    Cette mère de deux enfants divorcée a fondé en 2015 l’association « Lo Tishtok » (« Tu ne te tairas point » en hébreu) pour porter la voix des victimes d’agressions sexuelles dans le monde ultra-orthodoxe réputé fermé.

    Les Haredim, littéralement les « craignant Dieu », représentent environ 12 % des quelque neuf millions d’Israéliens. Chaque aspect de leur vie est gouverné par des principes religieux et ils vivent souvent en vase clos.


    Chaim Walder en 2009 (Crédit : CC BY-SA 3.0)

    Quand Chaim Walder, qui a vendu des centaines de milliers d’exemplaires de livres pour enfants, a été accusé dans la presse, « les gens ont pris une claque incroyable car si lui peut agresser, alors comment avoir confiance en qui que ce soit ? », poursuit Avigayil Heilbronn.

    « Par un proche »
    En mars, un premier scandale avait déjà ébranlé cette communauté après que Haaretz a publié des accusations d’agressions sexuelles et de viols sur adultes et mineurs à l’encontre de Yehuda Meshi-Zahav, autre éminente figure du monde orthodoxe.

    Quelques heures avant la diffusion de nouvelles accusations, cette fois par la chaîne N12, ce fondateur de l’organisation caritative ZAKA, qui dénonce une campagne de « mensonges », a tenté de se pendre dans son appartement.


    Yehuda Meshi-Zahav, co-fondateur de la ZAKA, s’exprime lors d’une conférence à Jérusalem, le 7 mars 2021. (Crédit : Yonatan Sindel/Flash90)

    Un porte-parole de la police a indiqué à l’AFP qu’une enquête avait été ouverte sur les allégations contre M. Meshi-Zahav, mais n’a pas dit si des investigations étaient en cours dans l’affaire Walder au moment de sa mort.

    Par ailleurs, début janvier, le quotidien Yediot Aharonot a publié les accusations de trois femmes – dont une mineure au moment des faits allégués – à l’encontre d’un animateur de radio ultra-orthodoxe.

    Ces accusations ont rappelé de bien mauvais souvenirs à Adiel Bar Shaul, 43 ans, un orthodoxe de Bnei Brak, ville ou vivent majoritairement des Haredim, près de Tel-Aviv.

    Alors qu’il n’avait que 10 ans, Adiel a été violé chez lui, un soir de Shabbat, puis à plusieurs reprises pendant une année par un proche de la famille, également ultra-orthodoxe, qui l’hébergeait, confie-t-il à l’AFP.


    Photo d’illustration : Un enfant anxieux. (Crédit : iStock via Getty Images)

    « Il a commencé à me donner des autocollants, puis après plusieurs fois, il m’a demandé (en échange) de poser ma main sur son pantalon, j’étais enfant, je ne comprenais pas », se souvient l’homme qui s’est ensuite muré des années dans le silence avant de le briser il y a quelques années.

    « J’étais seul, j’avais extrêmement honte et je me sentais coupable car j’avais accepté » ces gestes pour des autocollants, dit celui qui vient aujourd’hui en aide à des victimes de violences sexuelles.

    Souvent, les victimes se taisent car « elles ont peur de ce que diront les gens, les voisins, à la synagogue ou à l’école », explique à l’AFP Josiane Paris, bénévole au centre de crise Tahel, basé à Jérusalem et qui vient en aide aux femmes vivant dans des milieux religieux.

    500 appels par mois
    A son ouverture il y a 30 ans, le centre a mis en place une ligne d’écoute téléphonique dédiée aux victimes de violences conjugales, d’agressions sexuelles et de viols.

    Au début, cette ligne recevait peu d’appels, mais ces dernières années, le nombre n’a fait qu’augmenter, signe selon elle que le mouvement #metoo gagne les milieux religieux.

    « Nous recevons aujourd’hui environ 500 appels par mois », chiffre-t-elle.

    « Certaines femmes restent silencieuses au bout du fil (…) on ressent la détresse, il y en a qui sont en colère, qui pleurent », confie Myriam Merzbach, une autre bénévole. « Notre rôle est de les soutenir, les encourager et de chercher des solutions », poursuit-elle.

    Le grand rabbin ashkénaze d’Israël, David Lau, critiqué pour s’être rendu au domicile de la famille Walder pour présenter ses condoléances, a publié peu après une lettre dans laquelle il assurait « être toujours du côté des victimes ». « Le cri des victimes (…) doit être entendu », avait-il écrit.

    « Déni »
    Mais pour Yair Ettinger, chercheur à l’Institut israélien pour la démocratie (IDI), un centre d’analyse de Jérusalem, si certains rabbins dénoncent les abus sexuels, l’institution religieuse dans son ensemble « reste dans le déni ».

    « C’est une société idéaliste qui se regarde difficilement dans le miroir », dit ce spécialiste de la minorité ultra-orthodoxe et journaliste pour la chaîne publique Kan.

    Au sein de cet univers, il y a toutefois « une véritable prise de conscience du problème », se félicite Yair Ettinger.

    Au lendemain du suicide de Walder, des militants de Lo Tishtok ont distribué des tracts dans les quartiers religieux du pays sur lesquels on pouvait voir la photo d’une fillette la bouche fermée par une main d’adulte, accompagné d’un texte : « Nous croyons les victimes » pour les inciter à dénoncer leurs agresseurs.

    Aujourd’hui les jeunes ultra-orthodoxes ont toutefois davantage accès aux réseaux sociaux ce qui leur permet d’être plus informés sur les réalités du monde extérieur, estime Mme Heilbronn, qui dit voir un « printemps haredi ».

    #religion #meetoo #metoo #mee_too #balancetonporc #harcèlement_sexuel #viol #culture_du_viol #patriarcat #femmes #enfants #victime #violophilie #Israel #ultra-orthodoxes #réseaux_sociaux

  • Entretien sur « Mon corps, ce désir, cette loi | « Le site de Geoffroy de Lagasnerie
    https://geoffroydelagasnerie.com/2022/01/06/entretien-sur-mon-corps-ce-desir-cette-loi

    L’abolitionnisme pénal est un courant militant et universitaire qui offre une rupture avec la manière dont on pense le traumatisme : est-ce qu’on doit réagir à un traumatisme par la mise en prison d’un individu particulier ? Est-ce qu’on lutte contre un phénomène social par une réponse individualisée ? Cette tradition estime qu’il faut mettre au centre de notre pensée non pas le coupable (comment le punir) mais la victime : comment la protéger ? Comment faire en sorte qu’elle aille mieux ? Comment l’exfiltrer des mains d’un mari violent ?Mais aussi, bien sûr : comment faire qu’il y ait moins de victimes ? C’est très différent de réfléchir à la transformation des structures sociales qui produisent le viol et à la prise en charge des victimes, plutôt qu’à l’augmentation de l’activité répressive, qu’elle soit pénale ou culturelle (c’est la différence entre la gauche et la droite).

    • Lorsqu’un « MeToo » émerge dans certains secteurs, je suis frappé que certaines formes d’interactions sexuelles (parfois anodines) dont sont absentes toutes formes de pouvoir vont être dénoncées alors que certaines interactions (parfois même brutales) où s’exerce l‘autorité mais dont sont absentes toute dimension sexuelle vont être complètement oubliées. Comme si une forme de focalisation sur la sexualité conduisait, finalement, à rendre problématique beaucoup plus ce qui relève de la sexualité que ce qui relève de la hiérarchie, de la discrimination de genre voire du harcèlement dans ses multiples formes. La focalisation sur la sexualité produit une dissolution de la pensée en termes de pouvoir. Et je crois que cela donne raison à la juriste américaine Janet Halley lorsqu’elle affirme que la problématisation du harcèlement sexuel en termes de problème “sexuel” plutôt qu’en termes de “harcèlement” conduit souvent à mettre en place des régulations qui vont plus s’en prendre à la sexualité qu’au harcèlement : on passe de la lutte contre le harcèlement sexuel à un harcèlement de la sexualité. La tendance à définir le harcèlement sexuel sans qu’il y ait de harcèlement réel, par exemple lorsque des comportements, mêmes entre égaux, sont vus comme « offensants », conduit, dans une société où les normes sexuelles sont articulées autour de l’homophobie et de la transphobie, les personnes LGBT+ à se soumettre à une surveillance plus forte par rapport à leurs paroles, leurs gestes… Cela renforce l’homophobie et la transphobie structurales dans l’espace de travail.

    • (il se goure complétement à mon avis, sur #springora, au départ, qui n’a pas participé, que je sache, à ce moment de la loi sur le consentement des moins de 15 ans. Et c’est pas non plus son livre le point de départ de ce mouvement, mais un fait divers sordide mettant en cause une gamine de douze ans et une caserne de pompier. Il y a eut non lieu ou quelque chose du genre, parce que la gamine était reconnue comme consentante (ce qu’elle a bien pu être, diable, mais ça ne devrait pas être elle et son consentement qui soit jugé (c’est mon point de vue)).

    • Autre moment très compliqué, l’articulation entre la découverte de la sexualité pour des gays très jeunes et des personnes adultes. Je pense qu’il marque un point, c’est-à-dire que ça peut effectivement faire du mal, d’interdire ces relations, et je veux bien croire qu’il y a des gens qui vivent ça bien, qui sont prêt pour ça, quelques années avant d’autres, néanmoins :

      En tout cas, ils ne se considèrent pas comme des victimes, on ne peut pas leur dire « vous avez été victimes quand même ».

      ça c’est totalement méconnaître les problèmatiques propres aux histoires d’#inceste et de #pédophilie / #pédocriminalité. ça peut prendre des années pour se rendre qu’il y a eut un problème, s’il faut encore le rappeler.

    • Si vous rompez avec une conception minimale du consentement comme non contrainte physique, vous courrez le risque de soumettre la liberté sexuelle de chacun (et votre propre liberté) au consentement de la société, car même si le rapport est consentant il peut être jugé comme « n’ayant pas dû avoir lieu » pour telle ou telle raison.

      là, je crois, mais ce n’est pas très clair, qu’il ne parle que des rapports entre adultes. Et ça me semble assez justifié, parce que je pense effectivement que le mouvement #metoo a jeté beaucoup de confusion sur ce qu’est un #viol.

    • Yo je vais citer des extraits de son bouquin, maintenant, puisque je l’ai lu. C’est pas une lecture facile, à plein de moment c’est très dérangeant, surtout si on a vécu certaines choses. Je précise juste que je ne cherche pas à provoquer ou clasher, simplement, que je cherche des réponses à des questions que je me pose.

      La sexualité est aujourd’hui l’un des seuls domaines qui engendre des logiques de #bannissement. Pour des révélations d’attitudes ou de comportements qui sont parfois seulement décrits comme inappropriés ou offensants, certains perdent leur travail et toute possibilité de retrouver un travail dans le secteur culturel - alors que la gauche n’a cessé de se battre pour l’idée de réhabilitation. Comment expliquer par exemple que , à la suite du témoignage d’Adèle Haenel dans mediapart, en 2019, il semble inconcevable que Christophe Ruggia, qu’elle accusait de caresses et de désirs déplacés, refasse un film alors que dans le même temps, et heureusement d’ailleurs, des rappeurs, des cinéastes, d’anciens braqueurs ou brigades rouges peuvent continuer à tourner, chanter, ou publier y compris lorsqu’ils ont été condamnés pour enlèvement, séquestration, appartenance à une bande armée... ?

    • La police puis la justice ne sont pas « au service » des victimes et ne fonctionnent pas en leur noms mais au contraire les dépossèdent de leur récit, de leur rapport à ce qui leur est arrivé. Elles les instrumentalisent pour exercer leur propre violence. Elles les exposent publiquement, sont indifférentes à ce qui représente parfois leur désir d’oublier, de passer à autre chose.

    • Nombreuses sont les victimes qui expliquent à quel point ce qui les soulagerait serait la vérité , la reconnaissance par l’auteur de la douleur infligée. Mais cet accès à la vérité est rendu impossible par l’existence même d’un appareil répressif puisque celui-ci, en exposant l’agresseur au risque de la punition, le prédispose à adopter plutôt des stratégies de mensonges et de dissimulation.

    • la « loi Spingora »

      tu ne délires pas, en revanche, l’auteur, G. de Lagasnerie, ou l’interviewer, G. Perilhou, ne brillent pas par la précision de la référence… Il s’agit de la loi du 21/04/2021, publiée le 22/04/2021, dans la foulée de la publication du livre de Vanessa Springora …

    • (...) c’est la prise de conscience qui produit le traumatisme, c’est la reconstruction ex post de son expérience passé qui fait apparaître à la conscience présente l’impression d’avoir subi un dommage à cause d’une situation de domination ou d’emprise. Le passé est dans ce cas soumis à un processus de réinterprétation et de resignification. Et ce sont ces processus qui produisent le trauma.

      Je le trouve bien affirmatif là, et même si, pour moi, c’est une vraie question, il ne résoud rien à faire pencher la balance comme ça. L’impression qu’il lit tout avec les lunettes de son histoire d’amour avec Eribon, qui n’a absolument aucun rapport avec des histoires d’inceste ou pédophiliques, notamment, où la relecture est absolument cruciale et nécessaire, ne serait-ce que pour remettre les choses dans l’ordre (non c’est pas normal que tes parents, ton mono de colo, ton prêtre etc. te fasse des choses comme ça etc.).

    • (...) il serait plus intéressant de dédramatiser cette activité. #Foucault considérait qu’un offensive contre le dispositif assujettisant de la sexualité devrait passer par une désexualisation de la sexualité, une construction de celle-ci comme une activité banale du corps, une parmi d’autres, ni plus centrale ni secondaire, agréable mais quotidienne, et que de se libérer du dispositif dramaturgique de la sexualité pourrait permettre de multiplier les possibilités de plaisir.

      #dissociation

    • (...) le caractère problématique [je ne peux plus supporter ce mot (depuis presque 20 ans maintenant) NdG] de certaines formes de prise de paroles contemporaines sur la sexualité qui tendent de plus en plus à être soumises à des opérations subjectives et retrospectives d’interprétation et de reconstruction a posteriori de ressenti. (...) Un problème politique apparaît lorsque cette reconstruction a posteriori a tendance à être promue comme étant non pas une interprétation a posteriori du passé, mais comme une expression de la vérité du moment passé, dont c’est l’expérience alors ressentie qui aurait été mensongère. Cette confusion soutient une sorte de psychologisation de l’agression sexuelle, définie comme relation à une scène, comme une interprétation de soi plutôt que comme négation patente d’une volonté incarnée.

      alors je dois être bête, mais je ne comprend rien à la dernière phrase. Et je pense que lui n’a rien compris au bouquin de Springora, ni même à son titre, sinon il ne dirait pas des choses comme ça, après l’avoir très doctement mis en cause.
      Néanmoins, il évoque une redéfinition du viol, à partir de la notion de #consentement_explicite, où :

      toute forme d’ambivalence morale, psychologique, éprouvée au moment des relations sexuelles (ou après) peut être l’occasion d’une redéfinition d’un acte passé comme viol.

      qui effectivement risque de poser des problèmes (mais qui n’ont absolument rien à voir avec ce que raconte Springora).

    • on dirait qu’il oublie complétement, en cours de route, la question pédocriminelle, pédophile, de l’inceste, et que toute sa petite discussion intérieure se passe entre adultes plus ou moins consentants. C’est ce qui me rend son livre à la limite du supportable.

      Son désir de fonder :

      au maximum notre pensée de la violence sexuelle sur une base physicaliste et objective

      ne tiens pas deux seconde face un pédophile « non-violent » comme #Matzneff, qui n’a, c’est bien connu, jamais forcé personne. Il conclu en déplorant

      la quantité de violence imaginaire que l’être humain s’autoinflige parfois inutilement,

      quelque pages à peine après avoir, je le répète, sérieusement mis en cause le récit de Springora. C’est un niveau de déni... olympique je dirais.

      Et c’est bien dommage parce que je pense qu’il y a de vraies questions dans son truc, simplement qu’il mélange des choses qui ont absolument besoin d’être distinguées.

  • si tu touches à nos soeurs on t’arrache le coeur. @Paroleerrante
    https://twitter.com/Paroleerrante/status/1479955356205862916

    ce soir la parole accueillait gradins pleins une première lecture publique d’un texte issu du travail collectif d’un groupe de femmes dont des comédiennes et techniciennes du spectacle #MeTooTheatre


    #théâtre #comédiennes #techniciennes #femmes #agressions_sexuelles #parole_errante

  • #MeToo aux candidat·e·s à la présidentielle : « Qu’allez-vous faire pour que les hommes cessent de violer ? »

    Longtemps, nous n’avons pas voulu faire de vague, nous sommes resté·e·s isolé·e·s, nous avions honte, nous avons gardé le silence. Nous avons laissé le doute nous envahir, avant de nous rendre compte que nous étions des dizaines, des centaines, des milliers, à enfin oser dire « moi aussi ». Moi aussi j’ai été harcelé·e, moi aussi j’ai été agressé·e, moi aussi j’ai été violé·e.

    Celles et ceux qui ont courageusement pris la parole peinent encore à être entendu·e·s et cru·e·s. Certaines et certains ont vu leur voix systématiquement remise en question, leur existence mise sous pression, leurs perspectives professionnelles se réduire et des portes définitivement se fermer. Face à ce constat commun à tous les milieux, nous souhaitons aujourd’hui unir nos voix afin qu’elles portent davantage. Pour permettre à d’autres d’oser parler, pour faire en sorte d’être enfin entendu·e·s.

    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2021/12/21/metoo-aux-candidat·e·s-a-la-presidentielle-quallez-vous

    #féminisme #viol

  • Contre les comportements discriminatoires, notamment le sexisme du monde médical
    https://blogs.mediapart.fr/les-invites-de-mediapart/blog/141221/contre-les-comportements-discriminatoires-notamment-le-sexisme-du-mo
    Bizutage, pratiques humiliantes, violences obstétricales... un large ensemble d’organisations alerte sur le sexisme en milieu hospitalo-universitaire. Face à une tendance à mettre les problèmes « sous le tapis », elles demandent que soit combattu le « système oppressif, discriminatoire, et patriarcal » par des mesures concrètes dans la formation et dans la prise en charge des plaintes liées à des violences médicales.

    L’actualité récente a mis en lumière plusieurs scandales liés au milieu hospitalo-universitaire qui sont révélateurs des discriminations sexistes omniprésentes dans le milieu médical.

    Courant septembre, les agressions sexuelles d’un gynécologue de l’hôpital Tenon (Paris), ponte de l’endométriose, ont été médiatisées après la mobilisation de longue haleine de Marie-Rose Galès, patiente-experte, et du collectif "Stop VOG" (Violences Gynécologiques et Obstétricales @StopVOGfr). Malgré une avalanche de témoignages et l’ouverture d’une enquête interne (après plusieurs semaines de mobilisation), ce médecin exerce encore, notamment grâce à sa haute position hiérarchique. Durant cette affaire, il a également été révélé que les témoins de ces agressions (principalement des étudiant·e·s en médecine), ont été fortement invité·e·s à se taire.

    Quelques semaines plus tard, la presse s’est emparée du "cas" de la fresque du CHU de Toulouse de Purpan, représentant « une femme [...] à moitié nue et à quatre pattes, une autre gisant morte les jambes écartées au milieu des ordures ».

    Sexisme et « culture carabine »

    Ces dernières années, les fresques des salles de gardes des CHU ont fait scandale à plusieurs reprises dans les médias nationaux. Ces fresques sont souvent justifiées par la "culture carabine" : un ensemble de rites et pratiques propres aux étudiant-es en médecine. Son but premier serait d’aider les futurs médecins à prendre de la distance face aux situations, parfois terribles, auxquelles iels sont confronté·e·s durant leur cursus.

    Si l’initiative peut sembler justifiée aux premiers abords (on notera néanmoins que nombre de professions sont soumises à des situations difficiles sans sentir le besoin d’être oppressif), force est de constater que de nombreuses pratiques discriminatoires gravitent autour du milieu carabin. Celui-ci s’inscrit en effet dans les logiques les plus abjectes du patriarcat : domination masculine, harcèlements et agressions sexistes et sexuelles sont banalisées, sous prétexte d’un nécessaire recours à l’"humour". Malgré la loi de 1998 contre le bizutage, les soirées Médecine sont des lieux où règnent sexisme, racisme et oppressions diverses, et pendant lesquelles agressions sexuelles et viols sont fréquents. Il existe également des propos LGBTQIphobes banalisés durant les études ou dans le milieu hospitalier ; au point que les étudiant-es LGBTQ+ vivent souvent caché·e·s pour ne pas subir les moqueries ambiantes.

    Sans surprise, les patient·e·s sont évidemment victimes de ce climat de violences. Les maltraitances médicales sont courantes, et affectent tout particulièrement les femmes, premières usagères du système de soin. Parmi elles, les personnes et femmes notamment handicapées, racisées, trans, migrantes, usagères de drogues, sont d’autant plus surexposées aux violences sexistes du corps médical qu’elles sont vulnérabilisées et essentialisées par des discriminations et des systèmes d’oppressions hétéro-patriarcaux croisés renforcés en milieu médical comme le validisme, le racisme, les LGBTQI+phobie, la sérophobie, la psychophobie, la grossophobie… Il n’y a qu’à parcourir les comptes sur les réseaux sociaux de « @StopVOGfr », qui recensent les témoignages de victimes de violences gynécologiques et obstétricales, pour prendre conscience de l’ampleur et de la banalisation de ces phénomènes. Psychiatrisation des symptômes, non-respect du consentement, actes violents...

    Corporatisme et confraternité

    Les possibilités de contestations sont limitées, d’autant plus que le rapport de domination patient·e/médecin agit comme un bâillon supplémentaire à la libération de la parole des victimes. Et c’est sans compter la place du corporatisme, omniprésent dans ce milieu qui constitue un levier de silenciation des éventuel·le·s témoins. Sous couvert du principe de « confraternité », les responsables sont soutenus et couverts par leurs collègues, ce qui leur permet de continuer d’exercer en toute impunité.

    Ajoutons à cela que 25% des étudiant·e·s en médecine sont victimes de harcèlement, 4% des étudiant-e-s en médecine sont victimes d’agressions sexuelles, 60% des agresseurs étant des médecins thésés, et l’on comprend bien que l’ensemble de la formation hospitalière médicale est complice de ces pratiques. A quand un mouvement #metoo en médecine et dans les autres professions de santé ?

    Revendications

    Nous nous opposons à ce système oppressif, discriminatoire, et patriarcal qui nuit à la fois à la formation des futur·e·s médecins, aux étudiant·e·s en santé, aux soignant·e·s et aux patient·e·s.

    Ainsi, nous demandons le retrait de toutes les fresques sexistes présentes dans les hôpitaux de France.

    Nous demandons que des réformes concrètes soient instaurées dans la formation des médecins afin que celle ci ne soit plus sexiste et discriminatoire envers les étudiant·e·s et les patient·e·s.

    Nous demandons que l’interdiction du bizutage soit appliquée et la fin des pratiques "traditionnelles" humiliantes et violentes.

    Nous demandons que le processus de plaintes liées à des violences médicales soit facilité et des engagements pris. Nous demandons que de véritables sanctions soient prises contre les agresseurs, et les médecins responsables, sans mise de ces événements sous le tapis.

    Signataires :

    Organisations :

    Le CoMPAS (Collectif de Militant-es, Professionnel-les, et Acteur-rices en Santé)
    Le SNJMG (Syndicat national des jeunes médecins généralistes)
    Les Dévalideuses
    Héroï-nes 95
    Compagnie Les Attentives
    Collectif d’usager.es pour une gynécologie féministe.
    ANCRés (A nos corps résistants)
    CGT salarié.es - étudiant.es du Doubs
    CLE Autistes (Collectif pour la liberté d’expression des personnes autistes)
    Objectif autonomie
    Toutes Des Femmes
    Groupe d’Action Féministe Rouen
    Stop VOG France (stop violences obstétricales et gynécologiques)*
    Act up Paris
    Collectif AAERS - Autour de l’Adénomyose et l’Endométriose pour la Recherche Scientifique

    Personnalités

    Martin Winckler, Médecin et écrivain
    Marie-Hélène Lahaye, autrice du blog Marie accouche là

  • #MeToo aux candidat·e·s à la présidentielle : « Qu’allez-vous faire pour que les hommes cessent de violer ? » – Libération
    https://www.liberation.fr/idees-et-debats/les-mouvements-metoo-reunis-interpellent-les-candidates-a-la-presidentiel

    Pour les plus de 15 ans, la loi conçoit le viol en cas de menace, violence, contrainte ou surprise. Hors de ces cas, point de discussion. La loi, comme l’imaginaire collectif, nous accable d’une présomption de consentement archaïque et vivace.

    je ne comprends pas cette phrase et surtout ce qui serait proposé pour changer la définition de ce qu’est un viol.

    • Si on a pas une définition claire de ce qu’est un viol, avec des limites toutes aussi claires, je ne vois comment avancer. Je ne vois pas non plus l’intérêt de mettre toutes les violences sur le même plan. Je trouve également toxique de dire aux anciennes victimes qu’elles ne font qu’uns (unes) dans la grande tourmente de la douleur. S’il n’y a pas d’échelles à la souffrance, je trouve important que les actes soient dissociés les uns des autres, qu’on distingue les attouchements des viols par exemple.

  • République de mecs
    #MeToo et Macron : grande cause du quinquennat ou cinq ans de « cause toujours » ?
    https://www.liberation.fr/politique/metoo-et-macron-grande-cause-du-quinquennat-ou-cinq-ans-de-cause-toujours
    Article réservé aux abonnés
    Présentée comme une priorité en 2017 et objets de plusieurs mesures lors du quinquennat Macron, les droits des femmes n’ont pourtant pas été au cœur des préoccupations politiques. La défense de ministres accusés d’agressions sexuelles par l’exécutif en témoigne.

    • La « Maison commune » de LREM est paritaire et en même temps pas du tout

      La majorité se gargarise de la parité affichée sur la photo de famille d’Ensemble citoyens lundi soir. Mais le mouvement reste piloté par des hommes, malgré les appels à une gouvernance plus égalitaire.
      https://www.liberation.fr/politique/la-maison-commune-de-lrem-est-paritaire-et-en-meme-temps-pas-du-tout-2021
      La majorité présidentielle a réalisé un véritable exploit, lundi soir, pour le lancement d’Ensemble citoyens, la fameuse « Maison commune » tant attendue : il y avait autant de femmes que d’hommes sur l’estrade pour la photo de famille et presque autant à la tribune. Ce n’était pas gagné, dans une famille politique ultra-dominée par les hommes aux postes à responsabilité, malgré une parité affichée tant à l’Assemblée nationale qu’au gouvernement. On les applaudit bien fort.

      Parmi les oratrices du soir, il y avait donc la numéro 2 de La République en marche, Marie Guévenoux, la secrétaire d’Etat Sarah El Haïry, la députée Christine Hennion, la sénatrice et vice-présidente d’Agir, Fabienne Keller, ainsi que la ministre et coprésidente d’En commun, Barbara Pompili. Cette dernière a fait une intervention remarquée sur des marqueurs de gauche (notamment la fin de vie digne) et fort applaudie pour son appel à « la parité dans la gouvernance de ce mouvement », aujourd’hui piloté à 100% par des hommes : Richard Ferrand (président…

    • #MeToo aux candidat·e·s à la présidentielle : « Qu’allez-vous faire pour que les hommes cessent de violer ? »
      https://www.liberation.fr/idees-et-debats/les-mouvements-metoo-reunis-interpellent-les-candidates-a-la-presidentiel
      Un collectif agrégeant les mouvements nés au sein de différentes professions demande aux candidat·e·s à l’élection présidentielle d’entendre les victimes de harcèlement et de violences sexuelles et d’agir.

      Les signataires de cette tribune soutiennent ou sont investi·e·s dans les mouvements suivants : #MeTooMedias #MusicToo #MeTooPolitique #MeTooInceste #BalanceTonCirque #MeTooEP #MeTooVin #PayeTonTournage #PayeTonPinard #MeTooTheatre #MeTooGay #MeTooESR #PayeTaFac

      Longtemps, nous n’avons pas voulu faire de vague, nous sommes resté·e·s isolé·e·s, nous avions honte, nous avons gardé le silence. Nous avons laissé le doute nous envahir, avant de nous rendre compte que nous étions des dizaines, des centaines, des milliers, à enfin oser dire « moi aussi ». Moi aussi j’ai été harcelé·e, moi aussi j’ai été agressé·e, moi aussi j’ai été violé·e.

      Celles et ceux qui ont courageusement pris la parole peinent encore à être entendu·e·s et cru·e·s. Certaines et certains ont vu leur voix systématiquement remise en question, leur existence mise sous pression, leurs perspectives professionnelles se réduire et des portes définitivement se fermer. Face à ce constat commun à tous les milieux, nous souhaitons aujourd’hui unir nos voix afin qu’elles portent davantage. Pour permettre à d’autres d’oser parler, pour faire en sorte d’être enfin entendu·e·s.
      Interview

      Depuis cinq ans que la parole se propage au prix de risques parfois immenses pour les victimes, peu d’agresseurs ont été inquiétés, quelques-uns ont été promus, presque aucun n’a été condamné. Ils sont les membres respectés de nos familles, de nos entourages, de nos institutions. Et alors que nos souffrances peinent encore à être entendues, certains de nos agresseurs continuent de disposer de leur place de pouvoir, certains trinquent ensemble, s’applaudissent au théâtre, s’invitent dans les médias, se soutiennent et trouvent un soutien plus large encore dans le dénigrement constant de nos paroles, le mépris de nos vécus.

      D’aucuns dénoncent un tribunal populaire, un lynchage médiatique, une inquisition 2.0. D’autres veulent nous faire passer pour des groupuscules radicaux, des hystériques lancé·e·s dans des velléités pusillanimes et revanchardes sur les réseaux sociaux. Tous nous indiquent le chemin de la justice, quand #MeToo est né de la débâcle des institutions judiciaires et policières. Parcours culpabilisants et dissuasifs, exigences démesurées de preuves accablantes, magistrats débordés, enquêtes bâclées et classées, préjugés toxiques, résultats minables. Les condamnations sont l’exception. L’incapacité, la norme. Prenons le consentement. Pour les plus de 15 ans, la loi conçoit le viol en cas de menace, violence, contrainte ou surprise. Hors de ces cas, point de discussion. La loi, comme l’imaginaire collectif, nous accable d’une présomption de consentement archaïque et vivace.

      Si les revendications et témoignages des différents mouvements #MeToo étaient entendus, les mentalités, les lois, les pratiques auraient évolué.

      2 à 3 enfants par classe ne seraient pas victimes d’inceste, et tous les adultes travaillant auprès d’enfants seraient formés à repérer les signaux permettant de détecter ces violences.

      Plus de 100 féminicides n’auraient pas été commis depuis le début de l’année 2021.

      100 % des professionnels en lien avec l’enfance seraient formés sur le sujet.

      100 % des établissements scolaires, des entreprises, des institutions prévoiraient des actions de prévention et disposeraient de lieux d’écoute pour accueillir les victimes.

      90 % des victimes de violences sexuelles n’hésiteraient pas à porter plainte.

      70 % des plaintes pour viol ne seraient pas classées sans suite.

      80 % des victimes ne regretteraient pas d’avoir saisi la justice, le parcours judiciaire ne serait pas vécu comme une violence supplémentaire (1).

      Les victimes de violences sexuelles seraient prises en charge et accompagnées.

      On cesserait de nous accuser de briser des vies ou des carrières pour se focaliser sur l’impunité de nos agresseurs…

      On cesserait de nous accuser de mentir.

      On cesserait de remettre en doute notre parole alors que dans les faits les fausses accusations représentent 2 % à 10 % des cas.

      Au moins 1 milliard d’euros seraient consacrés à la lutte contre les violences sexistes et sexuelles, les moyens de la justice seraient renforcés ainsi que le dispositif de prise en charge des victimes.

      Nos agresseurs cesseraient d’être invités sur les plateaux télé pour se plaindre d’être des victimes, d’être promus, réélus, subventionnés, la culture du viol cesserait d’être véhiculée dans les représentations médiatiques et artistiques, nous sortirions enfin du mythe de la séduction à la française pour admettre que la société française n’a toujours pas compris #MeToo.

      Ce quinquennat est celui d’une grande promesse non tenue concernant la lutte contre les violences sexuelles. Qu’en sera-t-il du suivant ? A quand des engagements fermes, concrets pour apporter des réponses ? N’entendez-vous pas nos voix ? Il est plus que temps que les pratiques changent, que les coupables, les complicités et les complaisances soient sanctionnés, juridiquement, professionnellement et socialement.

      #MeToo est la photographie crue d’inégalités sordides.

      La campagne pour l’élection présidentielle commence. Les mouvements #MeToo réunis interpellent les candidat·e·s et leur posent une simple question : qu’allez-vous faire pour que les hommes cessent de harceler, d’agresser et de violer ?

      (1) Une enquête menée par l’association Mémoire traumatique et victimologie auprès de 1214 victimes donne des résultats accablants : 82 % des victimes ont mal vécu leur dépôt de plaintes, 77 % la procédure judiciaire, 89 % le procès. Citée ici.

      Signataires

      Léane Alestra, créatrice de Mécréantes ; Nora Arbelbide Lete, journaliste ; Manon Aubry, femme politique ; Clémentine Autain, députée de Seine-Saint-Denis ; Lauren Bastide, journaliste ; Karin Bernfeld, autrice ; Andrea Bescond, réalisatrice ; Anne Boistard, créatrice du compte Instagram Balancetonagency ; Claire Bourdille, militante féministe et droits des enfants #NousToutes ; Marylie Breuil, militante féministe #NousToutes ; Louise Brzezowska-Dudek ; Liam Carré ; Margot Cauquil-Gleizes, professeure ; Agathe Charnet ; Marie Coquille-Chambel ; Emmanuelle Dancourt, journaliste ; Aude Darlet, psycho-énergéticienne ; Madeline Da Silva, femme politique ; Clémence de Blasi, journaliste ; Caroline De Haas, militante féministe ; Cécile Delarue, journaliste. Hélène Devynck, journaliste ; Rokhaya Diallo, journaliste et réalisatrice ; Cécile Duflot, directrice générale d’Oxfam France ; Elsa Faucillon, députée des Hauts-de-Seine ; Camille Froidevaux-Metterie, philosophe et professeure de science politique ; Ninon Guinel, ancienne collaboratrice d’élu.es ; Fleur Godart, Alice Godart, Séphora Haymann, Jean-Michel Journet, manager d’artistes, cofondateur de @musicTooFrance ; Stéphanie Khayat, journaliste ; Annie Lahmer conseillère régionale ; Rose Lamy, créatrice du compte Instagram « Préparez-vous pour la bagarre » ; Céline Langlois, Julie Ménard, Camille Pascaud, commerciale chez Intersport ; Isabelle Perraud, Sophie Rauszer du Parlement européen ; Florence Rochefort, historienne, chargée de recherche au CNRS ; Laurence Rossignol, sénatrice de l’Oise ; Sandrine Rousseau, femme politique, écologiste ; Eva San Martín, docteure géographie du genre, cadre pédagogique CFTS Là Rouatiere ; Réjane Sénac, politologue, directrice de recherche CNRS au Cevipof ; Fiona Texeire, collaboratrice d’élu·e·s, Marion Tillous, géographe ; Aurélie Trouvé, militante altermondialiste ; Mathilde Viot, Alice Zeniter, écrivaine.

  • Pédocriminalité
    L’affaire Claude Lévêque remue la biennale d’« Art Press »

    Plusieurs écoles d’arts refusent de participer à la deuxième édition de la manifestation organisée par le magazine, prévue en 2022 à Montpellier. En cause, son soutien au plasticien accusé de pédocriminalité.

    La révélation des accusations de pédocriminalité à l’encontre du plasticien Claude Lévêque, en janvier, a provoqué un séisme qui secoue encore le milieu de l’art contemporain. Et les répliques se font sentir jusque dans les écoles d’enseignement supérieur artistique. Les crispations se cristallisent aujourd’hui autour d’« Après l’école » ; la toute jeune biennale organisée par le journal Art Press. La première édition, écourtée à cause du deuxième confinement, a eu lieu à Saint-Etienne (Loire) en octobre-novembre 2020, au musée d’Art moderne et contemporain et à la Cité du design. Une deuxième édition, prévue à Montpellier en 2022, associe cette fois le Mo.Co (réunion de l’Ecole supérieure des beaux-arts et les espaces d’exposition de la Panacée et de l’Hôtel des collections) avec le Musée Fabre, musée des beaux-arts de Montpellier.
    Boycott de l’école où enseigne un des plaignants

    Cette nouvelle biennale entend défendre la création émergente et vise à promouvoir le travail de 30 à 40 anciens élèves, diplômés depuis deux à cinq ans. Les dossiers des postulants seront sélectionnés par un jury. Sollicitées pour présenter des jeunes talents à cette biennale, les 45 directions des écoles d’art sont divisées sur la réponse à apporter à cette proposition.

    Pourquoi ? Car le 23 février dernier, la revue Art Press a publié une tribune en soutien à Claude Lévêque intitulée « Présomption d’innocence », pour défendre le plasticien, accusé de viols et d’agressions sexuelles sur mineurs de moins de 15 ans, comme l’a révélé par le Monde et Mediapart.

    Stéphane Sauzedde, directeur de l’Ecole supérieur d’art d’Annecy (Esaaa), a fait savoir par courrier qu’il ne présenterait pas de dossier. Parmi l’équipe d’enseignants haut-savoyards se trouve Laurent Faulon, l’artiste qui a porté plainte contre Claude Lévêque auprès du tribunal de Bobigny (Seine-Saint-Denis). Le professeur a le soutien des élèves et de Stéphane Sauzedde, en total désaccord avec la tribune d’Art Press. « On sait que les agissements dénoncés par Laurent Faulon sont prescrits et donc ne peuvent être considérés par la justice… Aucun·e diplomé·e de l’Esaaa ne souhaiterait participer à une biennale organisée par le journal et les personnes qui témoignent un tel mépris pour sa parole », a écrit Stéphane Sauzedde dans ce courrier adressé à la direction de l’événement.

    Selon la volonté du directeur, la lettre a circulé auprès d’autres directeurs d’écoles d’art, dont les établissements sont nombreux à être traversés par des conflits liés aux violences sexistes et sexuelles. « A Annecy, nous avons parlé avec beaucoup de sérieux des questions de pédocriminalité, et plus largement des violences sexistes et sexuelles, précise Stéphane Sauzedde. Le sujet était d’évidence grâce à la présence de Laurent Faulon, mais aussi parce que l’équipe comme les étudiants sont engagés et souhaitent accuser réception, ici et maintenant, sans délai, du mouvement #MeToo qui traverse la société. Et pour toutes et tous, il est évident qu’en matière de pédocriminalité, dire qu’il faut s’en remettre à la justice et seulement à elle alors que les faits sont prescrits, c’est affirmer que la parole est interdite. S’ils veulent travailler avec la jeune création, il faut qu’ils entendent que ceci est important. »

    Une trentaine d’écoles favorables à la biennale

    Ce point de vue n’est pas partagé par les organisateurs de la biennale, qui dénoncent une polémique déplacée. Celle-ci ferait de l’ombre aux jeunes artistes et produirait un amalgame : d’une part, entre les positions de Catherine Millet (directrice de la rédaction), les éditos de Jacques Henric (collaborateur d’Art Press), la tribune en faveur de la présomption d’innocence concernant Claude Lévêque et, d’autre part, l’organisation d’une biennale pour la création émergente, avec deux commissaires qui n’ont pas signé la tribune du 23 février. « Ceux qui critiquent n’ont pas demandé aux jeunes artistes comment s’était passée la première édition, avance Romain Mathieu, critique d’art, enseignant à l’Ecole supérieure d’art de Saint-Etienne (Esadse) et co-commissaire de la biennale avec Etienne Hatt, rédacteur en chef adjoint d’Art Press. « Cette biennale est l’occasion de donner une visibilité aux jeunes diplômés. Les écoles ont pour mission de veiller à une professionnalisation, alors qu’il est si difficile aujourd’hui de devenir un artiste. »

    Numa Hambursin, directeur du Mo.Co, qui prévoit d’accueillir l’exposition, abonde : « Comment faire pour les aider ? Ma priorité va aux étudiants afin de leur mettre le pied à l’étrier. » Pour lui, il s’agissait surtout d’augmenter le forfait de 300 à 1 000 euros par participant pour la nouvelle édition. « Art Press est un monument de la critique, nous y sommes tous passés, c’est la seule revue française qui soit internationale », défend-il. Selon Numa Hambursin, plusieurs écoles ont déjà répondu à l’appel en envoyant des dossiers, comme les Beaux-Arts de Paris ou les Arts-déco (Ensad) ; une trentaine d’écoles seraient favorables. Le Fresnoy, à Tourcoing, dirigé par Alain Fleischer (signataire de la tribune), entend aussi y participer. Raphaël Cuir, directeur de l’Ecole supérieure d’art et de design de Reims, a déjà présélectionné des diplômés : « On n’est pas nécessairement d’accord avec 100% de ce qui est écrit dans un journal, mais je trouve il n’y a aucune raison de censurer Art Press qui a légitimement défendu la présomption d’innocence. Les diplômés deviennent des otages si on boycotte ce projet. »

    « Un poids surprenant du patriarcat »

    Sollicitée pour être partenaire d’Après l’école, l’Association nationale des écoles supérieures d’art et design publiques (ANDEA) s’en est tenue à une position de neutralité, laissant chaque direction libre de présenter ou non des anciens étudiants. « Plusieurs membres de l’ANDEA souhaitent affirmer une position éthique forte et cohérente entre le travail fait pendant les études et l’accompagnement des diplômé·es après l’école, sans pour autant pointer du doigt ceux et celles qui auraient un avis divergeant, explique Amel Nafti, co-présidente. Nous avons décidé de faire examiner la participation aux conseils pédagogiques. » Amel Nafti est également directrice de l’Esad Grenoble-Valence, et si le site de Grenoble a déjà choisi de ne pas envoyer de dossiers, la décision de ne pas participer, pour le site de Valence, sera entérinée lors d’un conseil étudiant le 14 décembre. Amel Nafti reconnaît que les écoles d’art traversent en ce moment des moments de vives tensions à propos de questions de violences sexuelles. L’Esad Grenoble-Valence a récemment été secouée par quatre affaires, et la directrice a dû signaler deux plaintes pour viols à Grenoble depuis sa prise de fonction.

    Ce climat de crise est confirmé par Jérôme Delormas. Le directeur de l’Isdat, à Toulouse, a choisi de décliner la proposition de la biennale, en laissant toutefois les anciens diplômés libres de choisir : « On ne fera pas de zèle, ni de publicité », explique-t-il à Libération. A Toulouse, les prises de position d’Art Press ont été au cœur de débats houleux entre l’équipe pédagogique et les étudiants. « Certains enseignants sont heureux que la parole se libère, détaille Jérôme Delormas. Mais il y a aussi un poids surprenant du patriarcat dans nos réseaux. »

    Dans une lettre adressée à la direction de la biennale, Estelle Pagès, directrice de l’Ensba Lyon, a elle aussi décliné l’invitation, après consultation du conseil pédagogique : « Certaines des positions portées par la revue Art Press depuis ces dernières années sont en contradiction avec ce que les écoles supérieures d’art cherchent à déconstruire », écrit-elle pour expliquer le choix collégial de l’école.

    Si la plupart des personnes interrogées louent l’initiative d’une biennale autour de la création émergente, l’étiquette Art Press fait ressortir des divisions qui pourraient aussi être rapprochées du départ, ces dernières années, d’une jeune génération de pigistes qui ne se reconnaissaient plus dans la revue.

    On parle de ton musée @arno

    #art #pedocriminalité #claude_leveque #art_press #catherine_millet

    • La tribune d’Art Press en soutiens à Claude Levèque
      https://www.artpress.com/2021/02/23/presomption-dinnocence-claude-leveque

      Paul Ardenne, écrivain et historien de l’art ; Claude Arnaud, écrivain ; Gilles Barbier, artiste ; François Barré, ancien président du Centre Pompidou ; Michel Baverey, éditeur ; Pierre Beloüin, artiste enseignant ; Fabien Boitard, artiste ; Patrick Bouchain, architecte ; Charles-Arthur Boyer, critique d’art, collaborateur à artpress ; Damien Cabanes, artiste plasticien ; François Carbonnier, architecte ; Blandine Chavanne, conservatrice du patrimoine ; Evelyne Chartier, institutrice ; Frédéric Chartier, consultant ; Fabienne Clérin, chargée d’expositions ; Brigitte Cornand, réalisatrice ; Vincent Corpet, peintre ; Alain Coulange, écrivain, critique d’art ; Franck David, artiste ; Benoît Decron, conservateur du patrimoine, historien d’art ; Bernard Delosme, enseignant ; Stéphanie Ditche, artiste ; Jérôme Duwa, écrivain ; Anne-Marie Faucon, artiste ; Jean-Noël Flammarion, éditeur ; Alain Fleischer, écrivain, cinéaste et artiste ; Paul-Armand Gette, artiste ; Josiane Guilloud-Cavat, historienne de l’art ; François Guinochet, amateur et curieux ; Didier Hochart, consultant ; Yves Jammet, médiateur culturel ; Baudouin Jannink, éditeur ; Olivier Kaeppelin, écrivain, critique d’art ; Jason Karaindros, artiste ; Laurent Quénéhen, critique et commissaire d’exposition ; Carlos Kusnir, artiste-peintre ; Vincent Labaume, artiste ; Francis Lacloche, médiateur ; Yvon Lambert, libraire ; Loïc Le Groumellec, artiste ; Ange Leccia, artiste ; Julien Ludwig-Legardez, sérigraphe, Atelier Tchikebe ; Olivier Ludwig-Legardez, directeur, Atelier Tchikebe ; Roberto Martinez, artiste ; Catherine Millet, directrice de la rédaction d’artpress ; Ghislain Mollet-Viéville, expert honoraire auprès des tribunaux, agent d’art, critique d’art ; Bernard Moninot, artiste ; Didier Morin, directeur de la revue Mettray ; Jean-Luc Moulène, artiste ; Michel Nuridsany, écrivain, critique d’art ; Dominique Païni, critique et commissaire d’exposition indépendant ; Raphaëlle Paupert-Borne, artiste ; Jacqueline Philippart, amateur d’art ; Michel Philippart, amateur d’art ; Philippe Piguet, historien et critique d’art, commissaire d’exposition indépendant ; Rudy Ricciotti, architecte ; Jacques Ristorcelli, graphiste ; Paul Ristorcelli, directeur d’école ; Éric Rondepierre, artiste ; Jean-Jacques Rullier, artiste plasticien ; Cécile Savelli, artiste peintre ; Karine Savigny, Association A.I.R (Artiste Invité en Résidence) ; Danielle Schirman, artiste, cinéaste ; Alberto Sorbelli, poète ; Ludwig Trovato, vidéaste ; Frederic Valabrègue, écrivain et critique d’art.

    • Faut-il rallumer une installation de Claude Lévêque, accusé de viols sur mineurs ? A Montreuil, le débat fait rage

      Le conseil de quartier de Bel Air demande l’illumination de « Modern Dance », que la mairie avait éteinte en janvier, après que « Le Monde » a révélé les accusations visant le célèbre plasticien.

      Peut-on séparer l’artiste de son œuvre ? Cette question inflammable émerge régulièrement dans le débat public, questionnant notamment les tribunes données au cinéaste Roman Polanski, au musicien Bertrand Cantat ou encore à l’écrivain Louis-Ferdinand Céline. Cette fois, le sujet s’est invité dans un quartier populaire de Montreuil (Seine-Saint-Denis), divisé à propos d’une installation lumineuse monumentale du plasticien Claude Lévêque, aujourd’hui accusé de viols sur mineurs.

      Sur la place centrale du quartier Bel Air, sur les hauteurs de Montreuil, trois larges cercles d’inox décorés d’ampoules se déploient autour des piliers d’un château d’eau décrépi. Presque invisible en journée, l’œuvre s’illumine à la tombée de la nuit. Les cercles prennent l’apparence de cerceaux bleus, qui semblent virevolter autour de la structure.

      VEND. 25/09, 19h, espace 40 (Bel Air) : rencontre avec l’artiste CLAUDE LÉVÊQUE autour de son oeuvre "Modern Dance". http://t.co/cfhcSWZaJW
      — CentreTignousAC (@cactignous@montreuil.fr)

      Depuis janvier, en même temps que les révélations du Monde concernant le plasticien, ce hula-hoop nocturne a cessé. La ville de Montreuil a éteint l’installation Modern Dance quelques jours après avoir appris que son concepteur, de renommée internationale, faisait l’objet depuis 2019 d’une enquête pour viols et agressions sexuelles sur mineurs de moins de 15 ans, qui remonteraient au milieu des années 1980. Un sculpteur d’une cinquantaine d’années accuse Claude Lévêque, 68 ans, d’avoir abusé de lui et de ses deux frères.

      L’installation, composée de 1 300 LED, se trouve sur une place devant prochainement être baptisée du nom de l’avocate Gisèle Halimi, comme le révélait le magazine Causette qui a dévoilé l’histoire.

      L’extinction de cette œuvre qui a coûté 171 269 euros avait été décidée « pour répondre au choc des habitants qui s’était exprimé à l’époque », explique à l’Agence France-Presse (AFP) la mairie de cette commune limitrophe de Paris. Installée dans l’espace public, « l’œuvre sautait aux yeux des passants », s’imposant également à ceux qui ne souhaitaient plus la voir, commente la municipalité, chargée contractuellement de l’entretenir durant vingt-cinq ans.

      Pendant une année de statu quo, les trois immenses hula-hoops, commandés sous le mandat de Dominique Voynet, sont restés en place sur le château d’eau. Mais, à la fin de novembre, le conseil de quartier de Bel Air a envoyé une lettre à la mairie pour lui demander de rallumer l’installation. Dans ce texte, consulté par l’AFP, cette instance de démocratie participative défend une œuvre intégrée au « patrimoine local », que les habitants se sont appropriée. Et de préciser que l’apprécier ne signifie pas une quelconque forme de soutien à son créateur.

      Fierté locale

      Sans cette illumination, le quartier est devenu « triste » et « lugubre », déplore la lettre. De nombreux riverains ignorent tout des accusations qui pèsent sur Claude Lévêque et pensent simplement que l’œuvre est en panne, ou cassée. « Je ne comprends pas le sens d’éteindre les lumières pour lutter contre la pédophilie », s’agace Delphes Desvoivres, sculptrice vivant à Bel Air, l’une des initiatrices de cette pétition. D’après cette Montreuilloise, qui a témoigné devant la commission sur la pédocriminalité dans l’Église des abus sexuels infligés à son père par un prêtre, « éteindre les lumières n’a jamais aidé personne à aller mieux… ».

      Pour les habitants de Bel Air, l’œuvre de Claude Lévêque constituait une fierté locale. Quelque chose d’unique, de valorisant. « C’est féerique et beau. Sincèrement, à part les barres d’immeubles, il n’y a pas grand-chose de beau dans le quartier », témoigne Mimoun, habitant de logement social à Bel Air depuis seize ans.

      Commandée par la municipalité au plasticien, résident de Montreuil, Modern Dance symbolisait aussi la renaissance du quartier. Son installation en 2015 marquait l’aboutissement d’une décennie de gigantesques travaux de rénovation urbaine pour réhabiliter cette zone qui était affligée par l’insécurité et la pauvreté. « En été, des gens venaient voir l’œuvre. Ils attendaient ici dans le café qu’il fasse nuit » et qu’elle s’égaie, se souvient Niakaté, propriétaire du seul café-restaurant du quartier, face au château d’eau.

      Echanges électriques

      Le rallumage de l’œuvre ne fait toutefois pas l’unanimité localement, et donne parfois lieu à des échanges électriques. Enseignante en maternelle, Cécile Miquel montrait régulièrement à ses élèves le travail de Claude Lévêque, artiste qu’elle admirait. Son Modern Dance avait même pesé dans sa décision de venir s’installer à Bel Air, assure-t-elle.

      Depuis la révélation de l’affaire, l’installation du plasticien provoque, chez elle, un rejet épidermique. « J’en ai assez de cette injonction à faire la part des choses de tout, commente-t-elle auprès de l’AFP, on est ce qu’on fait. On ne peut pas ranger les actes pédocriminels dans un tiroir. »

      Avec son association de parents d’élèves, cette amatrice d’art contemporain défend fermement l’extinction des lumières « pour montrer qu’en 2021 on veut que les choses changent. Que les enfants comprennent qu’ils ont le droit de parler et que les adultes seront là pour les écouter, prendre note et agir en fonction ». D’autant que, rappelle-t-elle, l’œuvre de Claude Lévêque, avec son jeu de cerceaux, se veut « une ode à l’enfance, à l’insouciance de l’enfance ».

      Des œuvres embarrassantes pour plusieurs collectivités

      Le débat dépasse largement le contexte local, posant une question morale aux nombreuses collectivités qui ont passé commande au plasticien, comme Issy-les-Moulineaux, Paris ou encore l’agglomération du Val de Fensch. A Montrouge (Hauts-de-Seine), le néon de Claude Lévêque Illumination n’éclaire plus le beffroi de la ville depuis le 25 janvier, afin d’éviter tout soupçon de complaisance envers l’artiste. Le mot Illumination, qui renvoie aux poèmes de Rimbaud, a en effet été écrit, comme l’explique le site Internet de Claude Lévêque, par l’un de ses « filleuls », ces très jeunes garçons dont il s’entourait, dont le nom apparaît au générique de ses œuvres dès 2012.

      L’œuvre, un néon long de dix mètres et haut de deux, n’avait pas été achetée, mais seulement commandée en prélude au festival Le Jour d’après, qui devait se tenir au printemps, avant d’être annulé en raison de la crise sanitaire. L’œuvre a donc été retirée en mars, au même titre que toutes celles concernées par cet événement.

      A l’inverse, beaucoup de collectionneurs et d’institutions ont continué d’exposer les œuvres de Claude Lévèque, invoquant la présomption d’innocence de l’artiste : celle intitulée J’ai rêvé d’un autre monde (2001) figure toujours dans les combles de la Collection Lambert, à Avignon ; Soleil noir, un immense tapis représentant des diamants, propriété du Mobilier national, décore toujours l’Elysée ; à l’abbaye de Fontevraud (Maine-et-Loire), où se déploie une immense installation baptisée Mort en été (2012), son directeur, Martin Morillon, n’a aucune intention de la démonter, rappelait Le Monde en janvier.

      Face à l’extinction de ses œuvres, Claude Lévèque avait adressé au Monde un courrier en janvier, dans lequel il déplorait ces décisions « en dépit du principe fondamental de la présomption d’innocence et de mon droit moral d’auteur, absolu, inaliénable et imprescriptible ». Selon la loi, il est impossible de modifier, dénaturer ou démanteler une œuvre sans le consentement de son auteur.

      « En vertu du droit au respect de l’artiste, il ne peut être porté atteinte à l’intégrité de son œuvre, celle-ci devant être communiquée au public telle qu’il l’a souhaité », précisait, au Monde, le juriste Pierre Noual, spécialisé en droit du patrimoine artistique. Un arrêt du Conseil d’Etat datant de 1999 permet toutefois de modifier une œuvre « à la seule condition que ce changement soit rendu strictement indispensable par des impératifs esthétiques, techniques ou de sécurité publique », détaillait M. Noual.

      A l’aune de l’importance de plusieurs autres affaires impliquant des célébrités pour des faits de violences sexuelles, plusieurs collectifs féministes estiment que les artistes ne peuvent se soustraire au jugement moral au nom de la sacralité de l’art. Plusieurs associations appellent par ailleurs à un travail de contextualisation autour des œuvres, permettant d’expliquer les accusations dont font l’objet leurs auteurs.

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      "« en dépit du principe fondamental de la présomption d’innocence et de mon droit moral d’auteur, absolu, inaliénable et imprescriptible ». Selon la loi, il est impossible de modifier, dénaturer ou démanteler une œuvre sans le consentement de son auteur."
      Pour le démantèlement des œuvres je suis pas sur. Ca voudrais dire qu’on ne peu pas décroché une œuvre une fois qu’on l’a accroché. Les auteurs ont un droit de retrait, ils peuvent faire décroché une œuvre mais pas obligé à l’afficher.
      Sinon pour le fait que la place va s’appeler Gisèle Halimi c’est pas très respectueux, faudrait appeler cette place Matznef peut être ou Place Marc Dutouc ca serait plus respectueux et conforme à l’œuvre de Claude Lévêque.

    • https://www.mediapart.fr/journal/france/231122/les-oeuvres-de-claude-leveque-accuse-de-viol-sont-devenues-embarrassantes

      Montreuil (Seine-Saint-Denis).– Dimanche 20 novembre. Un vent humide soulève les affiches collées sur les piliers du château d’eau qui domine le quartier de Bel-Air, entre terrain de foot et immeubles HLM. Aux côtés de reproductions d’œuvres d’art de Picabia ou Goya montrant des enfants maltraités, on lit notamment que « lutter contre les violences faites aux femmes, c’est aussi lutter contre les violences faites aux enfants. #ME2 ».

      Le 20 novembre est la journée internationale des droits de l’enfant. Depuis un an, la place du château d’eau porte le nom de l’avocate Gisèle Halimi.

      L’élégant bâtiment, daté de 1930 et désormais hors service, est devenu le symbole de cette portion sud de Montreuil. Tout autour de la structure haute sur pattes court un rail hérissé de centaines de LED : la nuit, leur lueur bleutée s’élève en spirale et donne à la place l’allure d’une base aérospatiale. Depuis quelques semaines, les lumières ne s’allument plus.

      L’œuvre, commandée par la ville et installée en 2015, a pour titre Modern Dance et pour auteur l’artiste français Claude Lévêque, 69 ans, qui réside en partie à Montreuil. Celui-ci fait l’objet de deux plaintes déposées par Laurent Faulon, l’une en mars 2019 au tribunal de Bobigny (Seine-Saint-Denis), l’autre en juin 2019 à Nevers (Nièvre), pour des faits de « viols sur mineurs de moins de 15 ans et agressions sexuelles sur mineurs de moins de 15 ans ».
      La place du château d’eau, à Montreuil (Seine-Saint-Denis). © DR

      L’enquête publiée par Mediapart le 13 janvier 2021 faisait état de plusieurs autres témoignages évoquant des faits similaires. À ce jour, Claude Lévêque, qui a depuis été entendu par la police ainsi que d’autres témoins, reste présumé innocent. Contacté, le parquet de Bobigny indique que l’enquête préliminaire qui le vise est toujours ouverte.

      Quelques jours après la révélation de l’affaire, la mairie de Montreuil – qui contractuellement doit entretenir Modern Dance pendant 25 ans, soit jusqu’en 2040 – décidait d’éteindre l’œuvre, sans pour autant la démonter. Alexie Lorca, adjointe au maire déléguée à la culture et à l’éducation populaire, indiquait alors à l’AFP : « Il ne s’agit pas de censure, ni de remettre en question la présomption d’innocence. Nous dissocions l’œuvre de l’artiste, mais l’œuvre est une installation monumentale qui est dans l’espace public et donc imposée à tous les habitants. »

      En novembre 2021, le conseil de quartier, qui compte une trentaine de personnes, demandait à la mairie de rallumer l’œuvre. Ce qui fut accepté quelques mois plus tard. Ce rallumage devait s’accompagner d’un « temps d’échange et de sensibilisation sur les violences faites aux enfants » qui n’a jamais eu lieu.
      Éteinte, puis rallumée, puis éteinte

      Le 21 mars 2022, la spirale bleutée de Claude Lévêque éclairait à nouveau la place Gisèle-Halimi. Pourquoi, 14 mois après la publication de l’enquête, réclamer qu’elle soit rallumée ? Dans un compte-rendu du conseil de quartier de janvier 2022, la sécurité des lieux est mentionnée : « La place du château d’eau connaît plusieurs sources de tensions depuis un an. [...] Des problématiques sont apparues : santé mentale, précarité économique, isolement social, addiction, incendie volontaire. » Le « sentiment de danger sur la place à la tombée de la nuit » justifierait le rallumage de l’œuvre, selon le document.

      Mais depuis cet été, Modern Dance est de nouveau éteinte, sans qu’aucune explication n’ait été donnée aux riverain·es. La mairie de Montreuil a ignoré nos nombreuses relances à ce sujet.
      Affiche réalisée par Delphes Desvoivres, membre du conseil de quartier local. © DR

      Delphes Desvoivres, membre du conseil de quartier, est l’autrice des affiches collées sur le château d’eau. En ce dimanche de novembre, elle est seule sous l’œuvre de Claude Lévêque. Elle-même artiste, elle est en faveur du rallumage de l’œuvre. « L’indignation, l’extinction des lumières, ne sont pas des réponses suffisantes », estime cette militante contre les violences éducatives sur les enfants au sein de l’association La Société protectrice des nuages. « Il n’y a pas de raison de priver les habitants de l’œuvre, qui est devenue un symbole du quartier et qui l’embellit. »

      Pour Delphes Desvoivres cependant, « rallumer l’œuvre ne suffit pas ». Il faut, selon elle, accompagner ce choix d’une « sensibilisation aux violences sur les enfants ». Or aucune action n’aurait été engagée par la mairie en ce sens.

      « Cinq lignes ont été publiées dans Le Montreuillois [le journal local – ndlr] quand l’œuvre a été éteinte, dénonce l’artiste. Quand elle a été rallumée, je voulais distribuer des flyers dans les boîtes aux lettres pour en donner une explication, mais Alexie Lorca m’a dit que ça n’était pas la peine, car les gens allaient tout casser. C’est de l’hypocrisie, de l’infantilisation, on laisse les gens dans l’ignorance. »
      Les collectivités locales regardent ailleurs

      Ailleurs, les réactions politiques aux œuvres de Claude Lévêque présentes dans l’espace public sont diverses. Les réponses à nos questions sont vagues, tardives, et la plupart du temps, c’est le silence total.

      À Issy-les-Moulineaux (Hauts-de-Seine), le grand néon rouge Les Dessous chics, qui court sur le pont face à l’île Saint-Germain, a continué de briller après la révélation de la plainte contre Claude Lévêque. Commande du département, l’œuvre a été installée en septembre 2018 non loin du siège de TF1.
      Image extraite de l’émission « Complément d’enquête ». Au fond, le grand néon rouge réalisé par Claude Lévêque. © Capture d’écran France 2

      C’est elle qu’on voit à l’arrière-plan du plateau de l’émission de France 2 « Complément d’enquête » (« PPDA, la chute d’un intouchable ») du 28 avril 2021 : se détachant sur ce fond flamboyant, la journaliste Muriel Reus, fondatrice et présidente de l’association « Femmes avec… », y témoigne au nom des nombreuses femmes qui accusent l’ancien présentateur télé de violences sexuelles. Depuis le 27 octobre, l’œuvre est éteinte. Pour quelle raison ? Le département n’a pas répondu à nos multiples demandes d’entretien.

      Chaque nuit depuis 2007 à Uckange (Moselle), le haut-fourneau U4 s’empourpre des lumières de Tous les soleils de Claude Lévêque, commande publique de la communauté d’agglomération du Val de Fensch, soutenue par le ministère de la culture. L’illumination fait du site un véritable phare dans le paysage environnant, entretenant la mémoire ouvrière d’une région marquée par l’industrie métallurgique.

      Depuis fin octobre, l’ancien site industriel transformé en parc à vocation patrimoniale et culturelle est plongé dans l’obscurité. L’extinction a été envisagée, sans être actée, dès qu’a été révélée la plainte contre Claude Lévêque, nous informe Muriel Pelosato, directrice des sports, de la culture et du patrimoine de la communauté d’agglomération.
      Le haut fourneau U4 d’Uckange, illuminé par une œuvre de Claude Lévêque © Bertrand Rieger / Hemis via AFP

      Mais la récente décision aurait été prise pour durer jusqu’au 31 mars 2023 pour des raisons économiques, « suite aux contraintes budgétaires qui pèsent actuellement sur les établissements publics de coopération intercommunale, liées à l’augmentation conséquente du coût de l’énergie ». L’élue ne sait pas ce qu’il en sera ensuite.

      Moins spectaculaires, les panneaux en inox froissés de Tchaïkovsky (2006), surmontant l’aqueduc de la Vanne dans le XIVe arrondissement de Paris, sont toujours en place : commande du Centre national des arts plastiques (CNAP), l’œuvre est propriété de la Ville de Paris, qui n’a pas répondu non plus à nos sollicitations.

      S’il devait contester le retrait de ses œuvres de l’espace public, Claude Lévêque, en invoquant son droit moral, obtiendrait probablement gain de cause auprès d’un juge : dans la loi française, l’œuvre reste considérée comme autonome de son auteur, tandis que le statut de celui-ci le place encore, dans l’imaginaire collectif, au-dessus du réel et de la société.
      Dans les collections

      En attendant, c’est dans les lieux où ses œuvres sont les moins offertes au regard que la décision a été prise le plus rapidement. Fin janvier 2021, le conseil régional des Pays de la Loire annonçait le retrait de l’installation Mort en été de l’exposition permanente de l’abbaye royale de Fontevraud (Maine-et-Loire) « jusqu’à ce que la justice fasse la lumière sur les accusations » contre l’artiste.

      À la Collection Lambert à Avignon, la salle qui accueille J’ai rêvé d’un autre monde, un long néon rouge conçu spécifiquement pour les lieux, est restée fermée au public après le premier confinement, par décision du conseil d’administration. « L’œuvre cristallisait trop de choses », explique Stéphane Ibars, directeur artistique délégué.

      Dans le XIIIe arrondissement de Paris, La Fab., qui accueille la fondation agnès b. – la styliste est une importante collectionneuse qui a beaucoup acheté et soutenu le travail de Claude Lévêque dès les années 1980 –, était inaugurée en février 2020 avec l’exposition « La Hardiesse », qui présentait des photographies de l’artiste, notamment le portrait d’un adolescent de 14 ans, crâne rasé, tête et buste recouverts de confiture de fruits rouges. Les œuvres de Claude Lévêque ne sont plus visibles dans l’accrochage actuel.

      En 2009, Claude Lévêque représentait la France à la Biennale de Venise.

      Les œuvres des collections publiques françaises (56 au total) dorment quant à elles dans les réserves, que ce soit au centre Pompidou, au Mac Val (musée d’art contemporain du Val-de-Marne), au musée d’art moderne de Paris, au CAPC de Bordeaux, dans les divers fonds régionaux d’art contemporain ou au CNAP. Celui-ci conserve une série de dix photographies particulièrement équivoques : Vacances au Cambodge (2004), achetée à la galerie Yvon Lambert en 2006, montre un jeune garçon torse nu, vu du dessous d’une table en verre.

      Une pièce cependant est sortie des réserves après le dévoilement de l’affaire : la sérigraphie Not afraid (2016) a été prêtée par les Abattoirs de Toulouse pour deux expositions en Haute-Garonne, l’une en juin 2021 au musée de Saint-Frajou et l’autre, de manière plus surprenante, au collège Georges-Chaumeton, à L’Union, de janvier à avril 2021.

      Jusqu’en janvier 2021, Claude Lévêque était un véritable artiste officiel de la République française. En 2009, il représentait la France à la Biennale de Venise, son tapis en velours Soleil noir (2007), réalisé par la manufacture de la Savonnerie, orna le sol du bureau d’Emmanuel Macron à l’Élysée, dès 2017 et jusqu’en février 2021 (avant d’être remisé au Mobilier national), ses œuvres ornèrent la pyramide du Louvre en 2014-2015, et l’Opéra de Paris en 2018-2019.
      Sur le marché de l’art

      Aujourd’hui, le cas de Claude Lévêque provoque l’embarras. Celui de son ancien galeriste Kamel Mennour d’abord, qui a effacé (presque) toute trace de l’artiste de son site internet et qui, immédiatement après la parution de l’enquête, a annoncé la fin de sa collaboration avec l’artiste.

      Il est quasiment absent des salles des ventes. Une œuvre a été cédée en mai 2022, la première depuis avril 2020 : une sérigraphie, La nuit pendant que vous dormez, je détruis le monde (2009), adjugée 380 euros, sous son estimation basse, à la maison de ventes Cornette de Saint-Cyr (la même se vendait pour 900 euros en 2013).

      Seule la galerie Gilles Drouault, à Paris, propose sur son site deux photographies (2 950 et 1 400 euros pièce). Quant aux t-shirts dessinés par Claude Lévêque en 2019 pour les 30 ans d’Act Up, produits sur commande en partenariat avec le Mac Val, ils ne sont plus disponibles.

      Magali Lesauvage

      En resumé c’est a cause du cout élevé de l’électricité que Montreuil a éteint cette sculpture.

  • « La prescription et la présomption d’innocence ne doivent pas être des assignations au silence » - Elle
    https://www.elle.fr/Societe/News/La-prescription-et-la-presomption-d-innocence-ne-doivent-pas-etre-des-assignati

    Journaliste spécialisée dans les affaires de violences sexuelles, Marine Turchi a enquêté sur les dysfonctionnements de la justice face aux révélations #MeToo. Manque de formation, manque de moyens, mais aussi manque de transparence sur les conditions du dépôt de plainte… La journaliste brosse le portrait d’un système judiciaire en crise.

  • #metoothéâtre : « Prendre la parole représente le risque d’être blacklistée »
    https://www.lemonde.fr/culture/article/2021/12/01/metootheatre-prendre-la-parole-represente-le-risque-d-etre-blacklistee_61042
    Des directrices de scènes publiques expriment leur vision du mouvement, dans un secteur particulièrement fermé et fragile économiquement.

    Jeudi 7 octobre naissait le mouvement #metoothéâtre, à l’initiative de la blogueuse Marie Coquille-Chambel, animatrice d’une chaîne YouTube sur le théâtre. En juin 2020, la jeune femme avait porté plainte contre Nâzim Boudjenah, un acteur de la Comédie-Française, pour violences et menaces de mort. En juin, le comédien a été condamné pour les menaces de mort, mais relaxé pour les faits de violence. Début octobre, en lançant #metoothéâtre, Marie Coquille-Chambel l’a également accusé de viol. Nâzim Boudjenah reste, à ce jour, membre de la troupe de la Comédie-Française, mais n’est distribué dans aucun spectacle cette saison.

    Il aura fallu quatre ans, après le lancement de #metoocinéma, pour qu’apparaisse le même type de mouvement de libération de la parole sur les violences sexistes et sexuelles dans le domaine du spectacle vivant, où, selon les signataires d’une tribune parue dans Libération, le 13 octobre, la peur et le secret seraient la règle. Plus encore, peut-être, que dans d’autres secteurs, dans ce milieu plus fragile, moins sous les feux des projecteurs que le cinéma.
    Lire aussi Article réservé à nos abonnés #metoothéâtre : 200 personnes rassemblées à Paris pour alerter sur les violences sexistes et sexuelles

    Presque deux mois après le lancement du mouvement, la parole des victimes, notamment celles d’actes graves, semble encore largement tue. Une polémique s’est nouée autour de la décision de Wajdi Mouawad, le directeur du Théâtre national de la Colline, à Paris, de confier la musique de sa dernière création, Mère, à Bertrand Cantat, et de maintenir dans sa programmation un spectacle signé par Jean-Pierre Baro, visé par une plainte pour viol classée sans suite en 2019.
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    Toutes solidaires

    Contesté sur ces choix, Wajdi Mouawad a répondu par un texte au rasoir, publié par Sceneweb, le 19 octobre, et titré « Je refuse de me substituer à la justice », qui n’a pas contribué à apaiser le climat. Un mois plus tard, le 19 novembre, un groupe d’activistes tentait de bloquer la première de son spectacle. Le collectif #metoothéâtre a eu beau préciser qu’il n’avait « jamais appelé à se rassembler devant La Colline » et n’était donc pas « organisateur de l’action du 19 novembre menée par des militant(e)s engagé(e)s dans la lutte contre les féminicides et la libération de la parole autour des violences sexistes et sexuelles », l’amalgame était fait.
    Lire aussi Article réservé à nos abonnés Une première sous tension pour « Mère » de Wajdi Mouawad au théâtre de la Colline

    Dans ce climat sous tension, nous avons voulu savoir quel regard les directrices de théâtre – centres dramatiques nationaux, scènes nationales, théâtres municipaux – portaient sur le mouvement et sur un paysage artistique difficile à appréhender. Les violences sexistes et sexuelles sont-elles systémiques dans ce milieu ? Existe-t-il vraiment une omerta ? Le mouvement est-il trop radical ? Les conditions sont-elles réunies pour que la parole des victimes soit écoutée ?

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  • Ensemble, contre les violences sexistes et sexuelles dans nos organisations ! (plus #MeToo au parlement européen)

    Avec le mouvement #MeToo, la question des luttes contre les violences sexistes et sexuelles dont sont victimes les femmes partout dans la sphère publique comme dans la sphère privée a fait irruption dans le débat public. Ce mouvement a obligé la société à entendre davantage la parole des femmes et à moins tolérer ces violences, même si les mesures gouvernementales restent largement insuffisantes.

    Nous, organisations syndicales et politiques, sans avoir attendu ce moment, menons dans nos structures ce même combat afin que nos relations militantes soient des relations sans oppression ni domination, car vouloir changer la société passe aussi par une transformation profonde et par la mise en place d’un environnement militant sans violence sexiste ni sexuelle.

    https://entreleslignesentrelesmots.blog/2021/11/29/ensemble-contre-les-violences-sexistes-et-sexuelles-dan

    #féminisme #violence

  • L’écrivaine Florence Porcel porte plainte avec constitution de partie civile pour viol contre PPDA
    https://actu.orange.fr/france/l-ecrivaine-florence-porcel-porte-plainte-avec-constitution-de-partie-civile-pour-viol-contre-ppda-CNT000001GTIm6/photos/le-journaliste-patrick-poivre-d-arvor-lors-des-funerailles-d-etienne-mou

    L’écrivaine et journaliste Florence Porcel a déposé une plainte avec constitution de partie civile pour viol contre Patrick Poivre d’Arvor pour obtenir la désignation d’un juge d’instruction, a appris l’AFP auprès du parquet de Nanterre, confirmant une information de France info.

    Mme Porcel accuse l’ex-présentateur star du journal télévisé de TF1 de lui avoir imposé un rapport sexuel en 2004 et une fellation en 2009. Sa première plainte contre PPDA, qui a nié ces accusations, avait été classée sans suite fin juin par le parquet de Nanterre pour « insuffisance de preuves ».

    Sa nouvelle plainte permet la désignation quasi-automatique d’un juge d’instruction, sous réserve que soit versée une consignation, une somme destinée à couvrir l’amende en cas de dénonciation abusive.

    L’affaire PPDA avait éclaté en février, avec le dépôt de plainte de Florence Porcel. Une enquête préliminaire de quatre mois avait ensuite été menée par le parquet de Nanterre.

    Au total, vingt-trois femmes avaient témoigné et neuf avaient choisi de porter plainte pour viol, agressions sexuelles ou harcèlement sexuel. La majorité des faits reprochés étaient prescrits, ce qui avait entraîné le classement sans suite de l’enquête.

    Les faits avancés par Florence Porcel ne sont, eux, pas prescrits mais avaient été classés pour « insuffisance de preuves ».

    L’affaire PPDA a profondément ébranlé le monde médiatique. Des femmes qui se présentent comme des victimes du journaliste ont notamment lancé une association, #MeTooMedias, pour briser l’omerta dans les médias français.

  • Conférence > Sexisme et violence sexuelle en contexte numérique : quel état des lieux ? | L’aire d’u
    https://www.lairedu.fr/media/video/conference/sexisme-et-violence-sexuelle-en-contexte-numerique-quel-etat-des-lieux

    Bérengère Stassin, maîtresse de conférences en Sciences de l’information et de la communication, Centre de recherche sur les médiations, Université de Lorraine.

    Cette conférence a pour objectif de présenter les caractéristiques du sexisme et de la violence sexuelle exercés à l’encontre des femmes en contexte numérique, et plus globalement, du cyberharcèlement. Ce dernier prend différentes formes : moqueries, insultes, dénigrement, menaces de viol ou de meurtre, ou encore pornodivulgation (publication d’images intimes sans le consentement de la personne qu’elles représentent, de photos volées ou truquées, de vidéos à caractère sexuel réalisées parfois sous la contrainte, etc.).

    Ces violences frappent partout, à tout âge et dans tous les milieux : à l’école, à l’université, dans le monde du travail, dans celui des médias et du cinéma – comme en témoigne le mouvement #metoo – en politique, dans le sport de haut niveau, mais aussi dans la sphère privée et conjugale. Les victimes sont donc aussi bien des collégiennes (cf. l’affaire Mila) que des enseignantes (cf. Stéphanie de Vanssay), des militantes féministes (cf. Marion Seclin), des journalistes (cf. Nadia Daam) ou des célébrités (cf. Adele). Les moyens de prévenir ces violences se multiplient, les langues se délient, des plaintes sont déposées, des procès ont lieu. Mais cette violence « en ligne » fait autant de dommages que la violence « hors ligne ». Elle laisse des traces qui ne sont pas seulement numériques et qui impactent durablement la vie des victimes.

    #Bérengère_Stassin #Féminisme #Cyberharcèlement

  • Cette fois, le feu !
    https://lundi.am/Cette-fois-le-feu

    Le projet d’un ouvrage collectif sur l’histoire présente des féminismes est marqué par le renouveau d’un mouvement dont #MeToo constitue l’un des événements les plus notables. L’impression d’un « renouveau » peut être trompeuse : les mobilisations contre les violences faites aux femmes sont une lame de fond depuis des décennies (des siècles !) au sein des féminismes. Derrière la déferlante que nous avons connue depuis la fin des années 2000, à l’échelle internationale, la mobilisation a intimement touché nombre de femmes qui, en écho, l’ont portée et relayée largement. Les cadres du débat se sont considérablement déplacés ; le langage lui-même, employé pour qualifier l’hétérosexisme, pour le constituer en fait social, pour sortir les féminicides, les viols, les harcèlements sexuels, les incestes, de la rubrique de simples « faits divers », a été refondé grâce au courage des victimes, grâce aux militantes, aux penseuses et aux mobilisations. Sur ces quelques décennies de l’histoire présente, cet ouvrage porte peut-être sur la partie la plus immergée du mouvement ; celle qui fabrique une révolution féministe au jour le jour, celle qui ne laisse plus rien passer ; celle qui fait aussi de ce mouvement historique, social et intellectuel, une éthique de vie, une pratique d’autodéfense quotidienne, un foyer embrasé de contestation de toutes les strates de la société.

    #féminismes #Elsa_Dorlin

  • Dans le monde du cinéma, quatre ans après #metoo, le lent et sinueux chemin vers plus de parité
    https://www.lemonde.fr/culture/article/2021/11/15/dans-le-monde-du-cinema-quatre-ans-apres-metoo-le-lent-et-sinueux-chemin-ver

    Seuls 25 % des films réalisés en 2020 en France l’ont été par des femmes, selon le Centre national du cinéma et de l’image animée, qui publie le 16 novembre son bilan des mesures instaurées pour plus d’égalité sur les plateaux.

    Les premiers frémissements d’un changement se sont fait sentir au printemps. Le 4 mai, aux Etats-Unis, la réalisatrice Chloé Zhao remporte l’Oscar de la meilleure réalisatrice, pour Nomadland. Deux mois plus tard, Julia Ducournau devient la deuxième femme à décrocher la Palme d’or à Cannes, avec Titane – en 1993, Jane Campion l’avait obtenue ex aequo avec Chen Kaige. Début septembre, la Française Audrey Diwan reçoit le Lion d’or à la Mostra de Venise, pour son film L’Evénement, adaptation du roman d’Annie Ernaux sur l’avortement.

    Quatre ans après #metoo, le cinéma aurait-il amorcé sa mue vers davantage de reconnaissance des femmes ? Alors que le Centre national du cinéma et de l’image animée (CNC) devait publier un bilan, le 16 novembre, des mesures prises en faveur de la parité depuis 2019, et dont Le Monde a eu connaissance, les acteurs du secteur évoquent un changement certain de mentalité, autant que des résistances farouches.

    Les chiffres en attestent. Selon le bilan 2020 du CNC publié en juin, seuls 25 % des 190 films réalisés ou coréalisés en 2020, l’étaient par des femmes. En 2017, avant #metoo, ce chiffre s’élevait à 23 %. « En sociologie, tout groupe en dessous des 30 % est considéré comme invisibilisé », rappelle Sandrine Brauer, productrice de cinéma indépendante et cofondatrice du Collectif 50/50, dont l’un des leitmotivs est de « compter les femmes pour qu’elles comptent ». Seule Delphine Ernotte, la présidente de France Télévisions, a suivi les recommandations du collectif, en instaurant un quota minimal de 30 % d’œuvres audiovisuelles réalisées par des femmes au sein du service public.

    « Nous n’avons jamais autant parlé d’invisibilisation des femmes, mais les chiffres montrent que la situation stagne quand aucune mesure n’est prise », poursuit la productrice, dont le collectif a notamment lancé « un annuaire en faveur de la diversité et de la parité », qui regroupe plus de 700 professionnels.

    #paywall #metoo #discrimination #invisibilisation #femmes #violences_sexuelles #domination_masculine

  • Accusations de viol contre Luc Besson : l’actrice Sand Van Roy a été effacée du film « Anna » après avoir porté plainte
    https://www.francetvinfo.fr/culture/cinema/luc-besson/accusations-de-viol-contre-luc-besson-l-actrice-sand-van-roy-a-ete-effa

    En plus d’avoir disparu de ce long-métrage, l’actrice dit avoir été totalement effacée du grand écran. Elle dit n’avoir passé qu’un seul casting en trois ans, alors qu’elle en passait « pas mal » avant. Sand Van Roy est « blacklistée », selon un producteur, qui a dû abandonner un projet de film dans lequel elle devait tourner, à cause du retrait d’investisseurs. Il affirme que « les gens ne voulaient plus l’engager », « comme si elle était coupable de quelque chose ». Une plainte qui a brisé sa carrière au cinéma ? « Une plainte qui a complètement brisé ma vie », confie l’actrice.

    #cancel_culture_la_vraie

  • Inceste : pour cette spécialiste, « les familles font souvent corps au profit de l’agresseur »
    https://www.franceinter.fr/inceste-pour-cette-specialiste-les-familles-font-souvent-corps-au-profit

    Corinne Grandemange a été violée par son oncle, dans une famille où la grand-mère a orchestré le silence autour de cet inceste, afin de protéger son fils coupable. Lorsqu’elle a confié les agissements de son oncle, Corinne Grandemange s’est entendu dire par cette grand-mère : « Tu l’as bien cherché ». Son père, ébahi quand il a appris les faits, a promis « de casser la gueule » à son beau-frère. Mais n’a rien fait, ni dénoncé.

    Aujourd’hui Corinne Grandemange porte aussi un regard plus professionnel (elle est psychopédagogue et conseillère d’éducation en établissement scolaire) sur ce scénario du silence, qui lui semble se répéter presque systématiquement.

    FRANCE INTER : Comment expliquer qu’autant de cas soient révélés aujourd’hui, notamment à travers le mot-clé #MetooInceste ?

    CORINNE GRANDEMANGE : "Si l’on parle aujourd’hui d’inceste plus facilement dans les médias, c’est parce qu’il y a eu des campagnes de sensibilisation sur les violences faites aux femmes. Petit à petit, cela a ouvert la porte. Aujourd’hui, le hashtag #metooinceste sur Twitter a permis de révéler l’importance du phénomène. Finalement, j’ai écrit ce livre, « La Retenue », après de multiples tentatives, parce que j’ai pensé à la solitude dans laquelle se trouvent tous ceux et toutes celles qui dénoncent ces faits."

    Pourquoi un parent, quand il apprend que son enfant est victime d’une situation incestueuse, ne commence-t-il pas par s’éloigner de l’agresseur, avec son enfant ?

    CORINNE GRANDEMANGE : « Les choses sont sues, mais sont tues. Les mères, ou les pères, quand ils apprennent que leur enfant est victime de situations incestueuses, continuent de maintenir le silence. Parmi les cas de victimes que j’ai eu à connaître, le parent au courant n’a jamais tenté de s’éloigner, n’a jamais pensé à fuir, avec son enfant victime, cette cellule familiale toxique. Souvent les familles font corps, au profit de l’agresseur, jusque devant le tribunal. »
    En moyenne deux enfants par classe sont victimes d’inceste
    À lire - Société
    Inceste : comment décadenasser la parole ?

    Est-ce que le statut quo qui s’installe dans les familles relève de la même logique que celui qui empêche certaines femmes victimes de violences de s’extraire de leur couple ?

    CORINNE GRANDEMANGE : « C’est un mécanisme de même nature, ce sont les mêmes ressorts, car partir et dénoncer entraîne trop de conséquences négatives. Les familles, si elles ne sont pas assurées de l’accompagnement que l’extérieur peut leur apporter, font le choix de mettre leurs fragilités de côté, pour sauver l’entité familiale. Bien sûr, il existe des cas où la mère met un terme à la situation, en se séparant d’un beau-père incestueux par exemple, mais ce ne sont pas les cas les plus fréquents. Mais les familles, en majorité, font corps et sacrifient la victime. »

    « Les familles, si elles ne sont pas assurées de l’accompagnement que l’extérieur peut leur apporter, font le choix de mettre leurs fragilités de côté, pour sauver l’entité familiale ».

    Il existe déjà des règles, des tribunaux et des sanctions. Malgré tout, ces faits semblent échapper au regard de la société ?

    CORINNE GRANDEMANGE : « Nous sommes dans un système patriarcal, où la vie politique est focalisée sur des figures masculines. Par nature un système comme le nôtre n’est pas prompt à dénoncer et faire tomber ces élites. Mais ça, ça met les familles en danger. C’est une première chose. Deuxième chose, qui concerne toutes les classes sociales, car le phénomène d’inceste ne connait pas les classes sociales : la société, à mon sens, n’apporte pas assez d’accompagnement, de garanties contre ce tabou. Donc je crois qu’il faut sortir de la personnalisation et de la médiatisation de cas particuliers, pour regarder le phénomène avec une vision anthropologique, et passer très vite à la mise en œuvre de solutions pragmatiques. »
    Michèle André
    À lire - Société
    « L’inceste, il faudra bien deux générations pour en sortir » selon Michèle André, ancienne ministre

    À quelle type de solutions pensez-vous ?

    CORINNE GRANDEMANGE : « Les membres des familles concernées _s_avent qu’ils ne seront pas accompagnés par l’extérieur. Elles ne sont certaines que de la dévastation et de l’explosion qui suivra la dénonciation du crime. Or il faudrait pouvoir porter plainte, avoir des procès en cour d’assises, disposer d’une politique d’accompagnement des victimes, des complices et des violeurs. L’imprescriptibilité, ça changerait la donne pour les violeurs, car ils sauraient que leurs faits restent gravés au regard de la loi. Dans mon cas particulier, je n’ai pas porté plainte contre mon oncle, car j’ai été mise en garde sur le caractère prescrits des faits, ce qui pourrait faire échouer un procès, et aujourd’hui, le seul recours qui me reste, c’est de me dire que sa conscience le rattrapera, peut-être. »

    « On pourrait mettre en place la présence beaucoup plus fréquente d’infirmières et de médecins dans les établissements scolaires, former les enseignants, créer des lieux d’accompagnement de la parentalité et proposer des groupes de paroles pour les victimes ».

    On n’est tout de même pas dans l’impunité ni le vide social complet...

    CORINNE GRANDEMANGE : « Pour l’heure, quand une solution est apportée par le corps social, c’est la prise en charge de l’Aide sociale à l’enfance, et la séparation des enfants d’avec leurs parents. Ce n’est pas complètement satisfaisant, cela peut même être dans certains cas d’une grande violence pour les victimes.

    On pourrait mettre en place la présence beaucoup plus fréquente d’infirmières et de médecins dans les établissements scolaires, former les enseignants, créer de lieu d’accompagnement de la parentalité et proposer des groupes de paroles pour les victimes.

    Il y a urgence à ce que le corps social crée ce terreau bénéfique pour les victimes et les familles. Il n’y a pas de honte à se retrouver impliqué dans un inceste, la responsabilité et la honte doivent revenir aux violeurs. Il faut le courage de parler et celui de faire confiance à la loi, car ça ne peut jamais se régler en interne ».

    #inceste et #complicité de la #famille