Toni Negri hai compiuto novantâanni. Come vivi oggi il tuo tempo?
Mi ricordo Gilles Deleuze che soffriva di un malanno simile al mio. Allora non câerano lâassistenza e la tecnologia di cui possiamo godere noi oggi. Lâultima volta che lâho visto girava con un carrellino con le bombole di ossigeno. Era veramente dura. Lo Ăš anche per me oggi. Penso che ogni giorno che passa a questa etĂ sia un giorno di meno. Non hai la forza di farlo diventare un giorno magico. Ă come quando mangi un buon frutto e ti lascia in bocca un gusto meraviglioso. Questo frutto Ăš la vita, probabilmente. Ă una delle sue grandi virtĂč.
Novantâanni sono un secolo breve.
Di secoli brevi ce ne possono essere diversi. CâĂš il classico periodo definito da Hobsbawm che va dal 1917 al 1989. CâĂš stato il secolo americano che perĂČ Ăš stato molto piĂč breve. Ă durato dagli accordi monetari e dalla definizione di una governance mondiale a Bretton Woods, agli attentati alle Torri Gemelle nel settembre 2001. Per quanto mi riguarda il mio lungo secolo Ăš iniziato con la vittoria bolscevica, poco prima che nascessi, ed Ăš continuato con le lotte operaie, e con tutti i conflitti politici e sociali ai quali ho partecipato.
Questo secolo breve Ăš terminato con una sconfitta colossale.
Ă vero. Ma hanno pensato che fosse finita la storia e fosse iniziata lâepoca di una globalizzazione pacificata. Nulla di piĂč falso, come vediamo ogni giorno da piĂč di trentâanni. Siamo in unâetĂ di transizione, ma in realtĂ lo siamo sempre stati. Anche se sottotraccia, ci troviamo in un nuovo tempo segnato da una ripresa globale delle lotte contro le quali câĂš una risposta dura. Le lotte operaie hanno iniziato a intersecarsi sempre di piĂč con quelle femministe, antirazziste, a difesa dei migranti e per la libertĂ di movimento, o ecologiste.
Filosofo, arrivi giovanissimo in cattedra a Padova. Partecipi a Quaderni Rossi, la rivista dellâoperaismo italiano. Fai inchiesta, fai un lavoro di base nelle fabbriche, a cominciare dal Petrolchimico di Marghera. Fai parte di Potere Operaio prima, di Autonomia Operaia poi. Vivi il lungo Sessantotto italiano, a cominciare dallâimpetuoso Sessantanove operaio a Corso Traiano a Torino. Qual Ăš stato il momento politico culminante di questa storia?
Gli anni Settanta, quando il capitalismo ha anticipato con forza una strategia per il suo futuro. Attraverso la globalizzazione, ha precarizzato il lavoro industriale insieme allâintero processo di accumulazione del valore. In questa transizione, sono stati accesi nuovi poli produttivi: il lavoro intellettuale, quello affettivo, il lavoro sociale che costruisce la cooperazione. Alla base della nuova accumulazione del valore, ci sono ovviamente anche lâaria, lâacqua, il vivente e tutti i beni comuni che il capitale ha continuato a sfruttare per contrastare lâabbassamento del tasso di profitto che aveva conosciuto a partire dagli anni Sessanta.
Perché, dalla metà degli anni Settanta, la strategia capitalista ha vinto?
PerchĂ© Ăš mancata una risposta di sinistra. Anzi, per un tempo lungo, câĂš stata una totale ignoranza di questi processi. A partire dalla fine degli anni Settanta, câĂš stata la soppressione di ogni potenza intellettuale o politica, puntuale o di movimento, che tentasse di mostrare lâimportanza di questa trasformazione, e che puntasse alla riorganizzazione del movimento operaio attorno a nuove forme di socializzazione e di organizzazione politica e culturale. Ă stata una tragedia. Qui che appare la continuitĂ del secolo breve nel tempo che stiamo vivendo ora. CâĂš stata una volontĂ della sinistra di bloccare il quadro politico su quello che possedeva.
E che cosa possedeva quella sinistra?
Unâimmagine potente ma giĂ allora inadeguata. Ha mitizzato la figura dellâoperaio industriale senza comprendere che egli desiderava ben altro. Non voleva accomodarsi nella fabbrica di Agnelli, ma distruggere la sua organizzazione; voleva costruire automobili per offrirle agli altri senza schiavizzare nessuno. A Marghera non avrebbe voluto morire di cancro nĂ© distruggere il pianeta. In fondo Ăš quello che ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha: contro lâemancipazione attraverso il lavoro mercificato della socialdemocrazia e per la liberazione della forza lavoro dal lavoro mercificato. Sono convinto che la direzione presa dallâInternazionale comunista â in maniera evidente e tragica con lo stalinismo, e poi in maniera sempre piĂč contraddittoria e irruente -, abbia distrutto il desiderio che aveva mobilitato masse gigantesche. Per tutta la storia del movimento comunista Ăš stata quella la battaglia.
Cosa si scontrava su quel campo di battaglia?
Da un lato, câera lâidea della liberazione. In Italia Ăš stata illuminata dalla resistenza contro il nazi-fascismo. Lâidea di liberazione si Ăš proiettata nella stessa Costituzione cosĂŹ come noi ragazzi la interpretammo allora. E in questa vicenda non sottovaluterei lâevoluzione sociale della Chiesa Cattolica che culminĂČ con il Secondo Concilio Vaticano. Dallâaltra parte, câera il realismo ereditato dal partito comunista italiano dalla socialdemocrazia, quello degli Amendola e dei togliattiani di varia origine. Tutto Ăš iniziato a precipitare negli anni Settanta, mentre invece câera la possibilitĂ di inventare una nuova forma di vita, un nuovo modo di essere comunisti.
Continui a definirti un comunista. Cosa significa oggi?
Quello che per me ha significato da giovane: conoscere un futuro nel quale avremmo conquistato il potere di essere liberi, di lavorare meno, di volerci bene. Eravamo convinti che concetti della borghesia quali libertĂ , uguaglianza e fraternitĂ avrebbero potuto realizzarsi nelle parole dâordine della cooperazione, della solidarietĂ , della democrazia radicale e dellâamore. Lo pensavamo e lo abbiamo agito, ed era quello che pensava la maggioranza che votava la sinistra e la faceva esistere. Ma il mondo era ed Ăš insopportabile, ha un rapporto contraddittorio con le virtĂč essenziali del vivere insieme. Eppure queste virtĂč non si perdono, si acquisiscono con la pratica collettiva e sono accompagnate dalla trasformazione dellâidea di produttivitĂ che non significa produrre piĂč merci in meno tempo, nĂ© fare guerre sempre piĂč devastanti. Al contrario serve a dare da mangiare a tutti, modernizzare, rendere felici. Comunismo Ăš una passione collettiva gioiosa, etica e politica che combatte contro la trinitĂ della proprietĂ , dei confini e del capitale.
Lâarresto avvenuto il 7 aprile 1979, primo momento della repressione del movimento dellâautonomia operaia, Ăš stato uno spartiacque. Per ragioni diverse, a mio avviso, lo Ăš stato anche per la storia del «manifesto» grazie a una vibrante campagna garantista durata anni, un caso giornalistico unico condotto con i militanti dei movimenti, un gruppo di coraggiosi intellettuali, il partito radicale. Otto anni dopo, il 9 giugno 1987, quando fu demolito il castello di accuse cangianti, e infondate, Rossana Rossanda scrisse che fu una «tardiva, parziale riparazione di molto irreparabile». Cosa significa oggi per te tutto questo?
Ă stato innanzitutto il segno di unâamicizia mai smentita. Rossana per noi Ăš stata una persona di una generositĂ incredibile. Anche se, a un certo punto, si Ăš fermata anche lei: non riusciva a imputare al Pci quello che il Pci era diventato.
Che cosa era diventato?
Un oppressore. Ha massacrato quelli che denunciavano il pasticcio in cui si era andato a ficcare. In quegli anni siamo stati in molti a dirglielo. Esisteva unâaltra strada, che passava dallâascolto della classe operaia, del movimento studentesco, delle donne, di tutte le nuove forme nelle quali le passioni sociali, politiche e democratiche si stavano organizzando. Noi abbiamo proposto unâalternativa in maniera onesta, pulita e di massa. Facevamo parte di un enorme movimento che investiva le grandi fabbriche, le scuole, le generazioni. La chiusura da parte del Pci ha determinato la nascita di estremizzazioni terroristiche: questo Ăš fuori dubbio. Noi abbiamo pagato tutto e pesantemente. Solo io ho fatto complessivamente quattordici anni di esilio e undici e mezzo di prigione. Il Manifesto ha sempre difeso la nostra innocenza. Era completamente idiota che io o altri dellâAutonomia fossimo considerati i rapitori di Aldo Moro o gli uccisori di compagni. Tuttavia, nella campagna innocentista che Ăš stata coraggiosa e importante Ăš stato perĂČ lasciato sul fondo un aspetto sostanziale.
Quale?
Eravamo politicamente responsabili di un movimento molto piĂč ampio contro il compromesso storico tra il Pci e la Dc. Contro di noi câĂš stata una risposta poliziesca della destra, e questo si capisce. Quello che non si vuol capire Ăš stata invece la copertura che il Pci ha dato a questa risposta. In fondo, avevano paura che cambiasse lâorizzonte politico di classe. Se non si comprende questo nodo storico, come ci si puĂČ lamentare dellâinesistenza di una sinistra oggi in Italia?
Il sette aprile, e il cosiddetto «teorema Calogero», sono stati considerati un passo verso la conversione di una parte non piccola della sinistra al giustizialismo e alla delega politica alla magistratura. Come Ú stato possibile lasciarsi incastrare in una simile trappola?
Quando il Pci sostituĂŹ la centralitĂ della lotta morale a quella economica e politica, e lo fece attraverso giudici che gravitavano attorno alla sua area, ha finito il suo percorso. Questi davvero credevano di usare il giustizialismo per costruire il socialismo? Il giustizialismo Ăš una delle cose piĂč care alla borghesia. Ă unâillusione devastante e tragica che impedisce di vedere lâuso di classe del diritto, del carcere o della polizia contro i subalterni. In quegli anni cambiarono anche i giovani magistrati. Prima erano molto diversi. Li chiamavano «pretori di assalto». Ricordo i primi numeri della rivista Democrazia e Diritto ai quali ho lavorato anchâio. Mi riempivano di gioia perchĂ© parlavamo di giustizia di massa. Poi lâidea di giustizia Ăš stata declinata molto diversamente, riportata ai concetti di legalitĂ e di legittimitĂ . E nella magistratura non câĂš piĂč stata una presa di parola politica, ma solo schieramenti tra correnti. Oggi, poi abbiamo una Costituzione ridotta a un pacchetto di norme che non corrispondono neanche piĂč alla realtĂ del paese.
In carcere avete continuato la battaglia politica. Nel 1983 scriveste un documento in carcere, pubblicato da Il Manifesto, intitolato «Do You remember revolution». Si parlava dellâoriginalitĂ del 68 italiano, dei movimenti degli anni Settanta non riducibili agli «anni di piombo». Come hai vissuto quegli anni?
Quel documento diceva cose importanti con qualche timidezza. Credo dica piĂč o meno le cose che ho appena ricordato. Era un periodo duro. Noi eravamo dentro, dovevamo uscire in qualche maniera. Ti confesso che in quellâimmane sofferenza per me era meglio studiare Spinoza che pensare allâassurda cupezza in cui eravamo stati rinchiusi. Ho scritto su Spinoza un grosso libro ed Ăš stato una specie di atto eroico. Non potevo avere piĂč di cinque libri in cella. E cambiavo carcere speciale in continuazione: Rebibbia, Palmi, Trani, Fossombrone, Rovigo. Ogni volta in una cella nuova con gente nuova. Aspettare giorni e ricominciare. Lâunico libro che portavo con me era lâEtica di Spinoza. La fortuna Ăš stata finire il mio testo prima della rivolta a Trani nel 1981 quando i corpi speciali hanno distrutto tutto. Sono felice che abbia prodotto uno scossone nella storia della filosofia.
Nel 1983 sei stato eletto in parlamento e uscisti per qualche mese dal carcere. Cosa pensi del momento in cui votarono per farti tornare in carcere e tu decidesti di andare in esilio in Francia?
Ne soffro ancora molto. Se devo dare un giudizio storico e distaccato penso di avere fatto bene ad andarmene. In Francia sono stato utile per stabilire rapporti tra generazioni e ho studiato. Ho avuto la possibilitĂ di lavorare con FĂ©lix Guattari e sono riuscito a inserirmi nel dibattito del tempo. Mi ha aiutato moltissimo a comprendere la vita dei Sans Papiers. Lo sono stato anchâio, ho insegnato pur non avendo una carta di identitĂ . Mi hanno aiutato i compagni dellâuniversitĂ di Parigi 8. Ma per altri versi mi dico che ho sbagliato. Mi scuote profondamente il fatto di avere lasciato i compagni in carcere, quelli con cui ho vissuto i migliori anni della mia vita e le rivolte in quattro anni di carcerazione preventiva. Averli lasciati mi fa ancora male. Quella galera ha devastato la vita di compagni carissimi, e spesso delle loro famiglie. Ho novantâanni e mi sono salvato. Non mi rende piĂč sereno di fronte a quel dramma.
Anche Rossanda ti criticĂČâŠ
SĂŹ, mi ha chiesto di comportarmi come Socrate. Io le risposi che rischiavo proprio di finire come il filosofo. Per i rapporti che câerano in galera avrei potuto morire. Pannella mi ha materialmente portato fuori dalla galera e poi mi ha rovesciato tutte le colpe del mondo perchĂ© non volevo tornarci. Sono stati in molti a imbrogliarmi. Rossana mi aveva messo in guardia giĂ allora, e forse aveva ragione.
CâĂš stata unâaltra volta che lo ha fatto?
SĂŹ, quando mi disse di non rientrare da Parigi in Italia nel 1997 dopo 14 anni di esilio. La vidi lâultima volta prima di partire in un cafĂ© dalle parti del Museo di Cluny, il museo nazionale del Medioevo. Mi disse che avrebbe voluto legami con una catena per impedirmi di prendere quellâaereo.
Perché allora hai deciso di tornare in Italia?
Ero convinto di fare una battaglia sullâamnistia per tutti i compagni degli anni Settanta. Allora câera la Bicamerale, sembrava possibile. Mi sono fatto sei anni di galera fino al 2003. Forse Rossana aveva ragione.
Che ricordo oggi hai di lei?
Ricordo lâultima volta che lâho vista a Parigi. Una dolcissima amica, che si preoccupava dei miei viaggi in Cina, temeva che mi facessi male. Ă stata una persona meravigliosa, allora e sempre.
Anna Negri, tua figlia, ha scritto «Con un piede impigliato nella storia» (DeriveApprodi) che racconta questa storia dal punto di vista dei vostri affetti, e di unâaltra generazione.
Ho tre figli splendidi Anna, Francesco e Nina che hanno sofferto in maniera indicibile quello che Ăš successo. Ho guardato la serie di Bellocchio su Moro e continuo ad essere stupefatto di essere stato accusato di quella incredibile tragedia. Penso ai miei due primi figli, che andavano a scuola. Qualcuno li vedeva come i figli di un mostro. Questi ragazzi, in una maniera o nellâaltra, hanno sopportato eventi enormi. Sono andati via dallâItalia e ci sono tornati, hanno attraversato quel lungo inverno in primissima persona. Il minimo che possono avere Ăš una certa collera nei confronti dei genitori che li hanno messi in questa situazione. E io ho una certa responsabilitĂ in questa storia. Siamo tornati ad essere amici. Questo per me Ăš un regalo di una immensa bellezza.
Alla fine degli anni Novanta, in coincidenza con i nuovi movimenti globali, e poi contro la guerra, hai acquisito una forte posizione di riconoscibilità insieme a Michael Hardt a cominciare da «Impero». Come definiresti oggi, in un momento di ritorno allo specialismo e di idee reazionarie e elitarie, il rapporto tra filosofia e militanza?
Ă difficile per me rispondere a questa domanda. Quando mi dicono che ho fatto unâopera, io rispondo: Lirica? Ma ti rendi conto? Mi scappa da ridere. PerchĂ© sono piĂč un militante che un filosofo. FarĂ ridere qualcuno, ma io mi ci vedo, come PapagenoâŠ
Non câĂš dubbio perĂČ che tu abbia scritto molti libriâŠ
Ho avuto la fortuna di trovarmi a metĂ strada tra la filosofia e la militanza. Nei migliori periodi della mia vita sono passato in permanenza dallâuna allâaltra. CiĂČ mi ha permesso di coltivare un rapporto critico con la teoria capitalista del potere. Facendo perno su Marx, sono andato da Hobbes a Habermas, passando da Kant, Rousseau e Hegel. Gente abbastanza seria da dovere essere combattuta. Di contro la linea Machiavelli-Spinoza-Marx Ăš stata unâalternativa vera. Ribadisco: la storia della filosofia per me non Ăš una specie di testo sacro che ha impastato tutto il sapere occidentale, da Platone ad Heidegger, con la civiltĂ borghese e ha tramandato con ciĂČ concetti funzionali al potere. La filosofia fa parte della nostra cultura, ma va usata per quello che serve, cioĂš a trasformare il mondo e farlo diventare piĂč giusto. Deleuze parlava di Spinoza e riprendeva lâiconografia che lo rappresentava nei panni di Masaniello. Vorrei che fosse vero per me. Anche adesso che ho novantâanni continuo ad avere questo rapporto con la filosofia. Vivere la militanza Ăš meno facile, eppure riesco a scrivere e ad ascoltare, in una situazione di esule.
Esule, ancora, oggi?
Un poâ, sĂŹ. Ă un esilio diverso perĂČ. Dipende dal fatto che i due mondi in cui vivo, lâItalia e la Francia, hanno dinamiche di movimento molto diverse. In Francia, lâoperaismo non ha avuto un seguito largo, anche se oggi viene riscoperto. La sinistra di movimento in Francia Ăš sempre stata guidata dal trotzkismo o dallâanarchismo. Negli anni Novanta, con la rivista Futur antĂ©rieur, con lâamico e compagno Jean-Marie Vincent, avevamo trovato una mediazione tra gauchisme e operaismo: ha funzionato per una decina dâanni. Ma lo abbiamo fatto con molta prudenza. il giudizio sulla politica francese lo lasciavamo ai compagni francesi. Lâunico editoriale importante scritto dagli italiani sulla rivista Ăš stato quello sul grande sciopero dei ferrovieri del â95, che assomigliava tanto alle lotte italiane.
PerchĂ© lâoperaismo conosce oggi una risonanza a livello globale?
PerchĂ© risponde allâesigenza di una resistenza e di una ripresa delle lotte, come in altre culture critiche con le quali dialoga: il femminismo, lâecologia politica, la critica postcoloniale ad esempio. E poi perchĂ© non Ăš la costola di niente e di nessuno. Non lo Ăš stato mai, e neanche Ăš stato un capitolo della storia del Pci, come qualcuno sâillude. Ă invece unâidea precisa della lotta di classe e una critica della sovranitĂ che coagula il potere attorno al polo padronale, proprietario e capitalista. Ma il potere Ăš sempre scisso, ed Ăš sempre aperto, anche quando non sembra esserci alternativa. Tutta la teoria del potere come estensione del dominio e dellâautoritĂ fatta dalla Scuola di Francoforte e dalle sue recenti evoluzioni Ăš falsa, anche se purtroppo rimane egemone. Lâoperaismo fa saltare questa lettura brutale. Ă uno stile di lavoro e di pensiero. Riprende la storia dal basso fatta da grandi masse che si muovono, cerca la singolaritĂ in una dialettica aperta e produttiva.
I tuoi costanti riferimenti a Francesco dâAssisi mi hanno sempre colpito. Da dove nasce questo interesse per il santo e perchĂ© lo hai preso ad esempio della tua gioia di essere comunista?
Da quando ero giovane mi hanno deriso perchĂ© usavo la parola amore. Mi prendevano per un poeta o per un illuso. Di contro, ho sempre pensato che lâamore era una passione fondamentale che tiene in piedi il genere umano. PuĂČ diventare unâarma per vivere. Vengo da una famiglia che Ăš stata miserabile durante la guerra e mi ha insegnato un affetto che mi fa vivere ancora oggi. Francesco Ăš in fondo un borghese che vive in un periodo in cui coglie la possibilitĂ di trasformare la borghesia stessa, e di fare un mondo in cui la gente si ama e ama il vivente. Il richiamo a lui, per me, Ăš come il richiamo ai Ciompi di Machiavelli. Francesco Ăš lâamore contro la proprietĂ : esattamente quello che avremmo potuto fare negli anni Settanta, rovesciando quello sviluppo e creando un nuovo modo di produrre. Non Ăš mai stato ripreso a sufficienza Francesco, nĂ© Ăš stato presa in debito conto lâimportanza che ha avuto il francescanesimo nella storia italiana. Lo cito perchĂ© voglio che parole come amore e gioia entrino nel linguaggio politico.
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Dallâinfanzia negli anni della guerra allâapprendistato filosofico alla militanza comunista, dal â68 alla strage di piazza Fontana, da Potere Operaio allâautonomia e al â77, lâarresto, lâesilio. E di nuovo la galera per tornare libero. Toni Negri lo ha raccontato con Girolamo De Michele in tre volumi autobiografici Storia di un comunista, Galera e esilio, Da Genova a Domani (Ponte alle Grazie). Con Mi chael Hardt, professore di letteratura alla Duke University negli Stati Uniti, ha scritto, tra lâaltro, opere discusse e di larga diffusione: Impero, Moltitudine, Comune (Rizzoli) e Assemblea (Ponte alle Grazie). Per lâeditore anglo-americano Polity Books ha pubblicato, tra lâaltro, sei volumi di scritti tra i quali The Common, Marx in Movement, Marx and Foucault.
In Italia DeriveApprodi ha ripubblicato il classico «Spinoza». Per la stessa casa editrice: I libri del rogo, Pipe Line, Arte e multitudo (a cura di N. Martino), Settanta (con Raffaella Battaglini). Con Mimesis la nuova edizione di Lenta ginestra. Saggio sullâontologia di Giacomo Leopardi. Con Ombre Corte, tra lâaltro, Dallâoperaio massa allâoperaio sociale (a cura di P. Pozzi-R. Tomassini), Dentro/contro il diritto sovrano (con G. Allegri), Il lavoro nella costituzione (con A. Zanini).
A partire dal prossimo ottobre Manifestolibri ripubblicherĂ i titoli in catalogo con una nuova prefazione: Lâinchiesta metropolitana e altri scritti sociologici, a cura di Alberto De Nicola e Paolo Do; Marx oltre Marx (prefazione di Sandro Mezzadra); TrentatrĂ© Lezioni su Lenin (Giso Amendola); Potere Costituente (Tania Rispoli); Descartes politico (Marco Assennato); Kairos, Alma Venus, moltitudo (Judith Revel); Il lavoro di Dioniso, con Michael Hardt (Francesco Raparelli)